Reportage da un paese dal futuro incerto
Mentre a livello nazionale e internazionale si discute sullo status del Kosovo, la gente è alle prese con i problemi di sempre: tensione tra le varie etnie, disoccupazione, corruzione, mancanza di strutture adeguate. Penalizzati sono soprattutto i giovani, che costituiscono metà della popolazione. Ma non mancano segni di speranza.
All’ufficio postale di Prizren c’è la fila. Almeno 20 persone in coda; e sono tutti giovanissimi. «Si usa così tanto da voi?» domando all’amico Blerim. «No, i ragazzi sono in coda per ricaricare il cellulare. Da qualche mese, quando è iniziato questo servizio, le poste sono prese d’assalto». E io che già gridavo al miracolo delle nuove generazioni, che mantengono la voglia di comunicare via mezzo cartaceo. «Comunicano a modo loro, ma con gli sms, si scambiano foto e musiche. Proprio come in Italia».
Blerim Bobaj, ha 31 anni, ben 7 sopra l’età media dei due milioni di kosovari, il 50% dei quali ha meno di 20 anni. Il suo mestiere è il cornoperante. Dalla fine del conflitto etnico del 1999, «risolto» nei 78 giorni di bombardamenti Nato sulla Serbia, Bobaj ha lavorato con tre organizzazioni non governative, una degli Stati Uniti, una francese e l’ultima italiana: Ipsia, la ong delle Acli, grazie alla quale ha potuto conoscere l’Italia.
«È chiaro che il futuro del Kosovo dipende dai giovani, il problema è che oggi essi non sembrano interessati a quello che li aspetta alla fine degli studi» spiega il mio amico. A gruppi di 5-10 li vedi scorrazzare nel prestigioso centro storico di Prizren, cuore dell’incrocio di civiltà con le sue moschee (tra cui quella di Sinan Pasha, costruita nel 1463, la più antica dei Balcani, con il minareto più alto d’Europa), la cattedrale cattolica, le chiese ortodosse, il bagno e il ponte turco. Tutti giovanissimi, con jeans, occhiali da sole, cellulare alla mano. Ha ragione Bobaj: proprio come da noi.
«Oramai è l’Occidente il modello dei ragazzi di qui – riprende -, non è solo per colpa loro; ma il risultato è che le tradizioni se ne stanno andando». Nelle città kosovare, a Prizren come nella capitale Pristina, le novità degli ultimi anni si chiamano centri commerciali e università private.
«Il consumismo è arrivato anche qui: è come se il Kosovo fosse un’isola europea nel cuore dei Balcani». L’impressione è proprio questa: l’euro è la moneta ufficiale; al momento di entrare nella regione (fino a oggi serba, in base alla risoluzione 1.244 dell’Onu, ma di fatto governata dalle forze inteazionali), sul telefonino compare la scritta: «Benvenuti a Monaco». «Già, perché non abbiamo neanche un prefisso telefonico nostro, e quindi usiamo quello del piccolo principato» aggiunge Bobaj.
Il problema vero, però, è un altro. Questo cambio di valori rischia di far aumentare ulteriormente la disoccupazione, che è oggi al 60% e non si è mai abbassata dalla guerra in poi. «Anche la cooperazione internazionale, a parte alcune eccezioni, oggi non offre più lavoro. Molti progetti han chiuso per mancanza di fondi» dice Bobaj, che da 6 mesi, dopo la fine dell’ultimo progetto con Ipsia, è tornato a fare l’idraulico con suo padre, mestiere che ha sempre fatto per pagarsi gli studi. «Vorrei anche andare all’estero, ma per noi kosovari è impossibile, i visti, quando si ottengono, sono temporanei, per qualche settimana».
In una situazione simile, qualcosa potrebbe cambiare con la decisione sul nuovo status del Kosovo, tornata alla ribalta in questi mesi. «Conosco molta gente qua a Prizren (che ha 171 mila abitanti e si trova a 18 chilometri dal confine con l’Albania, ndr), e ti assicuro che la maggior parte di noi non passa molto tempo a parlare di indipendenza, autonomia o altro». Come dire, «sono gli altri che decidono per noi».
«Il Kosovo è diventato una merce di scambio nei rapporti inteazionali» aggiunge Bobaj. Da una parte Russia e Cina con la Serbia, dall’altra Stati Uniti con l’Albania. In mezzo, come spesso accade, l’Europa (vedi riquadro).
«Non si può più tornare alla pacifica convivenza di un decennio fa, ovvero prima dell’avvento di Milosevic al potere a Belgrado – dice Raitan Dashi, 63enne che ha passato gran parte del post-conflitto in Italia -. L’odio sanguinario che qualche anno fa ha fatto scoppiare il conflitto ha creato una diffidenza enorme».
Dalla fine degli eventi del 1999 ad oggi, sono scomparse 2.047 persone. Dashi e sua moglie tre anni fa sono tornati al loro villaggio a nordest di Prizren, mentre le sue due figlie hanno messo su famiglia nella provincia a nord di Milano.
«So che quello che dico non è positivo, ma non sarei realistico dicendo che un serbo sarebbe ben accolto, perlomeno in campagna». In realtà, nelle città qualche cambiamento c’è stato negli ultimi anni. A parte l’enclave della zona nord di Mitrovica, dove i 20 mila serbi presenti vivono praticamente isolati dagli 80 mila albanesi e la tensione non è mai scesa, nel resto delle città (Peja, Klina, Prizren, Giacova, Pristina) i serbi sono tornati a farsi vedere nei supermercati, negli uffici amministrativi, senza grossi problemi, «come succedeva prima».
Allo stesso modo, le altre minoranze (una decina, tra cui rom, turchi, bosniaci) non sono più oggetto di discriminazione o soprusi, anche se oggi sono più che dimezzate: erano il 12% prima del conflitto e sono scese al 5% della popolazione.
Dalla primavera 2004, quando c’è stata un’ondata di violenze che ha provocato almeno 40 morti e molte case bruciate (come reazione alla morte proprio a Mitrovica di tre bambini albanesi affogati nel fiume Ibar mentre erano inseguiti da ragazzini serbi), sono stati fatti alcuni passi verso la normalizzazione. «È un lavoro lungo e difficile quello a favore delle minoranze, ancor più arduo di quando c’era l’emergenza umanitaria e bisognava risolvere il problema di centinaia di migliaia di profughi che dovevano tornare a casa» dice Orhan Miftari, 32 anni, responsabile di Caritas Kosovo, ente nato nel 1992 come sezione di Caritas Germania e diventato autonomo dopo i bombardamenti Onu. «Oggi gran parte del nostro operato si rivolge a ripristinare la convivenza tra le varie etnie, con progetti di integrazione e inclusione che non sempre vanno a buon fine – continua Miftari -, però la situazione sta migliorando, in modo lento, ma costante, e questo ci spinge a non gettare la spugna».
Come per Bobaj, anche per il giovane responsabile della Caritas kosovara i discorsi sullo status del Kosovo passano in secondo piano di fronte ai problemi della società civile. «La prima battaglia da vincere oggi è quella contro la perdita delle nostre tradizioni – riprende Miftari -. Se per la convivenza possiamo sperare in risultati positivi nel futuro, per quanto riguarda la salvaguardia del valore della famiglia stiamo facendo notevoli passi indietro».
In che senso? «Si sta consumando una rottura con il passato: le nuove generazioni, spinte da nuovi modelli che non appartengono loro, stanno lasciando a se stessi gli anziani, spesso abbandonandoli al loro destino, andando a vivere in un’altra casa – spiega il responsabile Caritas -. Per la prima volta, in Kosovo si parla di non autosufficienza di persone anziane o disabili. Si stanno cercando soluzioni, che per ora non arrivano».
Dopotutto, un vero stato non c’è e i fondi per aiutare le persone con problemi non ci sono. «Ma anche potenziando il servizio di assistenza, le cose non si risolvono: quasi sempre la presenza di persone non autosufficienti non viene segnalata da nessun familiare; e quando si viene a sapere, spesso è troppo tardi» ammette Miftari.
Nelle centinaia di villaggi kosovari, il capovillaggio (riconoscibile dal copricapo bianco a scodella) rimane ancora una figura autorevole, ma il suo carisma non è più quello di un tempo. «Faccio fatica a farmi rispettare dai più giovani, che hanno in testa l’Europa e non vedono l’ora di andarsene» mi sussurra prima di recarsi a fare una visita medica Haxi (il cognome è incomprensibile, così pure il nome del suo villaggio, tra Prizren e Giacova), capovillaggio 74enne con il quale condivido una corsa in un combi, i taxi collettivi diffusi in tutti i Balcani.
Il miraggio di una vita migliore all’estero è ancora molto diffuso, nonostante la voglia di molti giovani di partecipare alla «ricostruzione» della propria terra. Dopotutto, i problemi cronici del Kosovo post-conflitto sono la prima fonte di scoraggiamento delle nuove generazioni. Disoccupazione a parte, l’altro annoso problema è la carenza di elettricità, dovuta al fatto che l’unica centrale della regione non basta al fabbisogno. Nella capitale e nelle altre città la corrente c’è tre ore sì e tre ore no un giorno, quello successivo quattro ore sì e due no; nelle campagne va peggio, arrivando a un’ora di erogazione ogni cinque. I generatori sono ancora oggi uno dei simboli del Kosovo.
«Come si può lavorare in queste condizioni?» chiede il proprietario di una macelleria di Prizren, al quale si affianca annuendo il responsabile di uno delle decine di internet point della città, tanto diffusi quanto economici.
Poi ci sono le altre questioni aperte della regione: traffici illeciti e corruzione ancora estesa. «Ma qualcosa in questo senso si sta facendo» riprende il cornoperante Bobaj, mostrando un foglietto che viene distribuito da qualche mese in tutti gli edifici pubblici cittadini. «C’è un numero nuovo al quale chiamare per segnalare episodi di corruzione o racket – spiega -, garantendo l’anonimato: la gente si fida e chiama. Nella sola Prizren, una quarantina di persone sono state arrestate grazie alle segnalazioni».
Il servizio è stato messo a punto dalla polizia kosovara con l’appoggio delle forze Unmik, il contingente Onu in Kosovo. Il quale, benché abbia ridotto la sua presenza e stia progressivamente lasciando i poteri in mano alle autorità locali (la vecchia sede Unmik della città è dall’anno scorso sede della polizia municipale), è ancora ben visibile nelle strade kosovare. «Non siamo ancora pronti a cavarcela da soli; la presenza internazionale serve come precauzione, anche se spesso non esercita più un ruolo di controllo».
Un esempio? «Guarda la chiesa lassù sulla collina – dice Bobaj, indicando il monastero ortodosso di San Giorgio, il più grande e bello della città -, tutt’attorno ci sono le forze Unmik, ma mentre negli anni scorsi la loro presenza serviva a evitare danneggiamenti all’edificio, oggi i soldati sono lì solo perché si ha la migliore vista dall’alto della città».
La conferma alle parole del cornoperante arriva poco dopo. «È un ottimo punto di osservazione e la chiesa è ora riaperta per le visite» spiega un militare tedesco all’uscita da uno dei barbieri più rinomati del centro storico. Nel corso degli anni, la distanza tra popolazione locale e forza internazionale di pace è diminuita notevolmente. «Il contatto non è mai troppo, ma le relazioni si possono sviluppare bene – continua il militare -. Certo non tutti apprezzano la nostra presenza, ma c’è molta più tranquillità che in passato. Il fatto che, poco alla volta, aumentino le esperienze positive di integrazione con le minoranze, è un buon punto di partenza. Non è detto che, indipendenza o meno, non si possa tornare con gli anni alla convivenza di prima». È la speranza di tutti. O quasi.
Il 10 dicembre 2007 si è chiusa con un nulla di fatto la commissione formata dalle delegazioni di kosovari albanesi e serbi, di intermediari di Usa, Ue e Russia, sotto la guida del mediatore Onu Martti Ahtisaari, per la ricerca di un compromesso sullo status del Kosovo. La proposta di «indipendenza sotto tutela internazionale» è rifiutata dai kosovari albanesi, che reclamano piena indipendenza, e dai serbi, che non vogliono perdere la sovranità sulla loro provincia, in base al diritto internazionale.
Le due posizioni inconciliabili hanno radici storiche. Nel Kosovo i serbi hanno le radici della propria identità nazionale: vi sono conservate le reliquie dei primi re ortodossi e buona parte del patrimonio culturale e religioso. A partire dal 1389, però, tali radici, cominciarono ad essere sconvolte: gli ottomani annientarono la coalizione serbo-bosniaca nella battaglia della Piana dei merli e avviarono l’occupazione e islamizzazione dei Balcani. Per 520 anni il Kosovo rimase sotto il potere turco. I tentativi di ribellione provocarono repressioni, esodi massicci di serbi, rimpiazzati con trasferimenti di musulmani albanesi.
Nel 1912, in seguito alle guerre balcaniche, la Serbia ristabilì la sua sovranità sul Kosovo e riprese la ricolonizzazione del territorio con famiglie serbe, al posto di quelle turche e albanesi costrette a fuggire o emigrare. Altri esodi e contro esodi di serbi e albanesi si alternarono durante le due guerre mondiali, finché il Kosovo divenne parte della Federazione jugoslava (1945), come provincia autonoma della Serbia, con uno status di grande autonomia, ma inferiore alle sei repubbliche federate (Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Macedonia, Montenegro), che avevano il diritto costituzionale di secessione.
Dopo la morte di Tito e la dissoluzione della Federazione jugoslava, il forte incremento demografico dei kosovari albanesi (90% della popolazione totale) mise in allarme il nazionalismo serbo, guidato da Sloboda Milosevic, che revocò gran parte delle autonomie del Kosovo (1989) e avviò una politica di ri-serbazione forzata, proibendo la lingua albanese nelle scuole e sostituendo funzionari amministrativi e insegnanti con personale serbo.
Inizialmente l’etnia albanese reagì con la resistenza non violenta, guidata dalla Lega democratica del Kosovo (Ldk) di Ibrahim Rugova, stabilendo istituzioni e scuole separate, dichiarando l’indipendenza della Repubblica del Kosovo (1990), riconosciuta solo dall’Albania. A partire dal 1995, molti separatisti albanesi scelsero la lotta armata, guidata dall’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), terrorizzando la popolazione serba, costringendola alla fuga, distruggendo chiese, santuari e monasteri. La repressione delle milizie serbe fu altrettanto violenta, finché l’intervento Nato, con massicci bombardamenti sulla Serbia (1999), costrinse Belgrado ad accettare la presenza nel Kosovo di forze inteazionali di interdizione (Unmik e Nato), che non sempre sono riuscite a impedire i rigurgiti di violenza contro persone, case e chiese nelle enclave in cui erano isolati i gruppi della minoranza serba (2004).
Di fronte al fallimento delle trattative Onu, l’ex capo guerrigliero dell’Uck, Hashim Thaci, uscito vincitore dalle elezioni di novembre 2007 con il suo Partito democratico del Kosovo (Pdk), aveva minacciato la dichiarazione unilaterale di indipendenza per il 10 dicembre 2007, ma tutto è rimandato al 2008.
Dal 1999 il Kosovo è praticamente autosufficiente e la Serbia non vi esercita alcuna sovranità effettiva. Anche se, sul piano legale resta valida la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza, che contempla la sovranità serba sul Kosovo.
Ma il problema, ormai, non è più l’indipendenza, ma il suo riconoscimento in ambito europeo e atlantico. Tale riconoscimento è diventato uno dei temi scottanti nella guerriglia fredda tra Stati Uniti, favorevoli da sempre all’autodeterminazione, e la Russia, che vi si oppone, non tanto per amore dei serbi, ma piuttosto per ripicca antiamericana. L’Unione europea è divisa: Gran Bretagna, Austria e Germania sono a favore (gli ultimi due stati hanno numerose comunità di immigrati kosovari), Grecia e Cipro contrari, gli altri paesi dell’Ue indecisi. All’inizio erano contrarie anche Spagna, Slovacchia e Romania.
Il riconoscimento di un’eventuale dichiarazione unilaterale d’indipendenza, secondo gli oppositori, costituirebbe un precedente con conseguenze incontrollabili, perché incoraggerebbe altre minoranze etniche a fare altrettanto: baschi e catalani in Spagna, corsi e bretoni in Francia, ungheresi in Slovacchia e Romania, turchi a Cipro, serbi in Bosnia e Croazia, albanesi in Serbia (Presevo), Macedonia e Montenegro, curdi in Turchia, abkhazi e ossezi in Georgia, russi nelle Repubbliche baltiche…
La soluzione della matassa kosovara interessa e coinvolge sempre più l’Unione europea, che continua a trattare con le parti in causa. Al governo kosovaro propone un’indipendenza sotto il protettorato civile dell’Onu, tuttora in funzione, e una più articolata amministrazione europea, con l’impegno di adeguare la macchina governativa agli standard europei in fatto di giustizia, polizia, carceri e altri settori vitali del paese. Alla Serbia, se accetta tale compromesso, vengono aperte le porte dell’Unione europea. L’integrazione di Serbia e Kosovo nell’Ue metterebbe la sordina alle rivendicazioni di sovranità e garantirebbe il rispetto dei diritti delle minoranze serbe nella ex provincia.
A partire da gennaio 2008, la presidenza semestrale dell’Unione europea è affidata alla Slovenia, un fatto di alto valore simbolico: Slovenia e Kosovo costituiscono l’inizio e l’epitome della dissoluzione della Federazione jugoslava. Riuscirà a chiudere per sempre la crisi balcanica? Ha tutte le carte in regola per porsi come esempio di transizione pacifica; inoltre, conosce gli umori delle popolazioni slave come le sue tasche, per cui potrebbe riuscire nell’impresa in cui le grandi potenze hanno fallito.
Daniele Biella e Benedetto Bellesi