Presenza scomoda

Cristiani a Urmia, nel Nord dell’Iran

La storia dei cristiani assiri, caldei, armeni è costellata di ostilità e persecuzioni; quelli che vivono a Urmia, nell’Azerbaigian occidentale (Iran), non fanno eccezione. L’emorragia di giovani in cerca di libertà continua; eppure la presenza cristiana nel mondo islamico ha ancora senso e costituisce un esempio per i cristiani che vivono nei paesi liberi.

Urmia è una tranquilla città nel nord dell’Iran, capoluogo della provincia dell’Azerbaigian occidentale. Pare che il suo nome significhi «culla d’acqua». L’acqua in questione potrebbe essere quella del lago omonimo, sulle cui rive è distesa la città: un’acqua salatissima, forse più di quella del Mar Morto, tanto che in alcuni punti il sale si raccoglie e diventa spiaggia e scogli. Oppure potrebbe essere l’acqua che scende dai monti Zagros, sulle cui propaggini hanno cominciato ad arrampicarsi i nuovi quartieri della città.
Se si attraversano gli Zagros e si scende dall’altro versante, quello iracheno, si arriverà nella piana del Tigri, non lontano dai resti di Ninive, l’antica capitale dell’impero assiro, un nome che rimanda d’istinto al manuale scolastico di storia antica.

IDENTITà CRISTIANA
Quello assiro fu uno dei tanti imperi, la cui gloria sorse e tramontò in quella parte d’Asia che si suole chiamare «fertile mezzaluna». Dei regni e popoli che vi si succedettero – medi, sumeri, accadi, babilonesi, cassiti, hittiti, mitanni – oggi rimangono solo pochi resti. Si stenta a credere che gli assiri, invece, siano riusciti a non sprofondare nell’abisso della storia e siano arrivati fino a noi attraverso i millenni.
La conversione alla fede cristiana li ha distinti come gruppo e li ha aiutati a mantenere viva la coscienza della propria identità in una terra dove hanno sempre predominato altre religioni: lo zoroastrismo sotto i parti e i sassanidi, l’islam a partire dalla conquista araba del vii secolo. Altro tratto distintivo di questa comunità è la lingua: essi parlano una lingua semitica del gruppo aramaico, che nella variante antica è rimasta fino a oggi la lingua della liturgia.
Gli assiri conobbero il cristianesimo già nel primo secolo; la loro evangelizzazione si fa risalire all’apostolo Tommaso, cui fu affidato il compito di portare la buona notizia alle genti della Mesopotamia. 
Centro spirituale dei cristiani della Mesopotamia era il patriarcato di Seleucia-Ctesifonte, la cui sede si trovava fuori dei confini orientali dell’impero romano; di qui la definizione di chiesa d’Oriente, o siriaco orientale, con cui furono indicate le comunità cristiane costituitesi nell’impero persiano. La circostanza di trovarsi nel territorio dei persiani, nemici di Roma, fu determinante per la chiesa d’Oriente, perché non poté partecipare ai concili della cristianità occidentale e seguì un percorso suo. Essa adottò la dottrina cristologica antiochena, un rappresentante della quale, Nestorio, fu sconfessato al concilio di Efeso del 431. Per questo motivo spesso si parla, impropriamente, di chiesa nestoriana. In realtà, i cristiani d’Oriente non si riconoscono in questo termine e Nestorio rimane per loro una figura secondaria.
In quanto minoranza, in Oriente i cristiani sperimentarono forme diverse di ostilità e subirono la persecuzione sotto i re sassanidi. Essendo loro preclusa la via dell’Occidente, essi rivolsero il proprio slancio missionario a est e portarono il cristianesimo in India, Cina e Mongolia. I loro monaci erano tenuti in grande considerazione alla corte del Gran Khan.
Quando gli eserciti mongoli di Hulagu distrussero Baghdad, nel 1258, e stabilirono il proprio dominio sulla Persia, i cristiani non solo furono risparmiati, ma godettero del favore dei conquistatori. Nuove chiese furono costruite in diversi centri dell’Azerbaigian: oltre che a Urmia, dove la presenza degli assiri è attestata dall’inizio del xii secolo, a Tabriz, Salmas, Marāghe. I cristiani non sfuggirono, invece, alla ferocia di Tamerlano, che alla fine del xiv secolo percorse a più riprese la Persia e la Mesopotamia, distruggendo e uccidendo. I secoli successivi furono più tranquilli, ma con l’inizio della prima guerra mondiale una nuova tragedia si abbatté su queste comunità.

FUGA DAL GENOCIDIO
Si calcola che all’inizio del Novecento nella regione di Urmia i cristiani, tra assiri, caldei e armeni, fossero circa il 40% della popolazione. Essi abitavano prevalentemente nei villaggi. Nell’Ottocento avevano cominciato ad arrivare in Persia i missionari occidentali, primi tra tutti i protestanti americani, che nel 1834 aprirono una missione a Urmia, subito seguiti dai lazzaristi francesi, poi dagli inglesi e, infine, dai russi.
A quei tempi la Russia si contendeva con l’impero britannico il dominio sulla Persia che, rimanendo formalmente uno stato indipendente, era stata divisa nel 1907 in due zone di influenza: quella inglese a sud e quella russa a nord. Quando la Russia entrò in guerra contro l’impero ottomano, benché la Persia fosse neutrale, le sue province settentrionali furono ben presto interessate dal conflitto.
Alla fine del 1914 gli ottomani attaccarono le posizioni russe nel Caucaso e cominciarono ad avanzare verso Tabriz e Urmia. Questo fatto non lasciava presagire niente di buono per i cristiani. Nella regione si sapeva dei massacri contro gli armeni avvenuti in Turchia negli anni 1894-96 e della politica dei «Giovani turchi», sfociata nel genocidio di un milione e mezzo di armeni e 275 mila cristiani assiri e siro-caldei.
Alla notizia dell’arrivo dei turchi molti cristiani fuggirono verso il Caucaso russo, quelli rimasti cercarono rifugio presso le missioni occidentali, mentre le truppe irregolari curde al seguito degli ottomani razziavano e distruggevano i villaggi. Si calcola che le missioni americane siano arrivate a ospitare fino a 15 mila rifugiati, quella francese 10 mila. Sebbene gli ottomani rispettassero la loro neutralità, le condizioni al loro interno erano così terribili che moltissimi morirono per malattie e stenti. Alla fine della guerra, dopo una seconda occupazione ottomana nel 1918, ai cristiani fu permesso di tornare, ma la loro presenza nella regione non toò mai più ai livelli di prima.

L’ESODO CONTINUA
Molte di queste cose mi erano ancora ignote quella mattina, mentre, seduta nel cortile della chiesa di Santa Maria, aspettavo di parlare con un rappresentante della comunità assira. Secondo una tradizione locale, questa chiesa fu eretta sulla tomba di uno dei magi che seguirono la stella di Gesù, ma nulla rimane dell’edificio originale e neppure di quello ricostruito dai russi a fine Ottocento, raso al suolo durante l’occupazione ottomana. Al suo posto è sorta una spartana cappella, accanto alla quale, in anni recenti, è stata costruita una chiesa molto più grande.
Era un venerdì, giorno di festa e di riposo in Iran; il cortile era pieno di giovani, venuti a fare lezione di aramaico. Sebbene lo parlino in famiglia, i ragazzi che frequentano le scuole statali non sempre imparano anche a scriverlo e a leggerlo.
Mentre osservavo i crocchi in attesa della lezione e meditavo su quale lingua avremmo utilizzato per comunicare, mi sono sentita salutare in perfetto italiano. No, non era uno sperduto connazionale capitato per caso in quel luogo, era padre Bengiamin, o Paolo, come si fa chiamare quando è in Italia. Non avrei potuto trovare una guida migliore.
Padre Bengiamin è in Italia dal 1996. È stato il patriarca Dinkha iv a chiedergli di venire a studiare nel nostro paese. Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 2001 ha continuato gli studi. Ha alle spalle cinque anni di Gregoriana e adesso sta ultimando un master in diritto canonico presso il Pontificio istituto orientale.
Tanti anni in Italia, eppure ogni anno ha problemi con il permesso di soggiorno, come se fosse un novellino. In estate dà una mano all’altro sacerdote assiro di Urmia, padre Dariaush, che si trova da solo a provvedere a una comunità di 3-4 mila persone. Padre Bengiamin si ricorda di quando gli assiri erano 20 mila in città e provincia, quasi 50 mila in tutto l’Iran. Adesso i numeri sono diversi. A Teheran, dove c’è il gruppo più numeroso, sono meno di 6 mila. Anche la comunità assira, come quella armena, è afflitta dal fenomeno dell’emigrazione. Le mete principali sono America e Australia, più di rado l’Europa.

GIOCHI PANASSIRI
Proprio quel venerdì si concludevano i giochi panassiri, una manifestazione che si svolge ormai da sei anni e che raccoglie giovani da tutti i paesi in cui sono presenti le comunità assire: oltre all’Iran, la Georgia, l’Armenia, l’Iraq e la Siria. Tutti parlano la stessa lingua, con piccole differenze locali. I giochi si svolgono nel club assiro di Urmia; l’alloggio, invece, è offerto dal governo iraniano, che quest’anno ha messo a disposizione un albergo in riva al lago. La comunità non sarebbe in grado di pagare le spese della manifestazione, circa 50 mila euro, se non ci fossero i finanziamenti pubblici, ottenuti attraverso il proprio rappresentante in parlamento.
I giochi sono una grande occasione d’incontro: per 10 giorni i giovani stanno insieme, ne nascono amicizie, che proseguono con scambi di visite e che, a volte, hanno come esito il matrimonio. Per gli assiri iraniani questa possibilità non è irrilevante. I matrimoni misti in Iran non sono ammessi, a meno che l’uomo o la donna cristiani siano disposti ad abiurare la propria fede. Durante lo scià c’era libertà di culto, ma adesso la conversione a una fede diversa dall’islam è un delitto che prevede perfino la pena di morte.
Quando padre Bengiamin e padre Dariaush si recarono all’albergo per salutare i partecipanti ai giochi, mi invitarono ad accompagnarli. Gli iracheni erano già partiti, mentre gli altri gruppi si stavano raccogliendo nella hall e nello spiazzo davanti all’ingresso per godere degli ultimi momenti insieme. C’era un’atmosfera di festa. Per molti quello non voleva essere un addio, ma un arrivederci, ci si scambiava indirizzi, promesse di visite; qualcuno indossava la maglia della nostra nazionale di calcio, vincitrice della coppa del mondo.
Padre Bengiamin, che ben conosce le abitudini degli italiani, mi invitò a prendere il caffè preparato dagli armeni, gli unici a non condividere la predilezione orientale per il tè. Ne approfittai per scambiare qualche parola con loro.
L’Armenia, come la Georgia, è un paese cristiano, di conseguenza per gli assiri la vita è più facile che nei paesi di fede islamica. C’è, però, in agguato un pericolo d’altro genere, quello dell’assimilazione. Assimilarsi offre innegabili vantaggi: finché vengono percepiti come un gruppo a sé, gli assiri restano esclusi dalle reti di solidarietà, che favoriscono, nel lavoro e nella politica, gli armeni.
A questo proposito è interessante il ruolo che svolge la lingua. Si assimilano gli assiri che frequentano le scuole armene e che quindi finiscono per usare abitualmente la lingua locale, mentre quelli che frequentano le scuole russe mantengono la propria identità. Il fenomeno dell’assimilazione è massimamente diffuso tra coloro che sono emigrati in Occidente: difatti, mi diceva con un certo tono di recriminazione il rappresentante della comunità armena, gli unici a non partecipare ai giochi sono gli assiri della diaspora.

LIBERI…  A SAN SERGIO
Per il pomeriggio mi avevano consigliato di visitare la chiesa assira di san Sergio, appena fuori città, sulle pendici degli Zagros, che nei giorni di festa diventa meta di escursioni e picnic. Quando vi fui arrivata, capii perché il luogo è così popolare. Circondata da campi e ulivi, l’antica chiesa si trova a metà collina, in una posizione che domina la regione circostante. Da lì lo sguardo abbraccia tutta Urmia e arriva fino al lago e ai monti lontani.
L’edificio è di un’estrema semplicità: rettangolare, in pietra; all’interno è diviso in due cappelle comunicanti, le pareti sono completamente spoglie e solo la croce sul fondo sta a indicare dove ci troviamo. Mi sedetti sull’unica sedia a contemplare quella pace. Di tanto in tanto entrava qualche visitatore; i musulmani si comportavano come in moschea: lasciavano le scarpe all’ingresso, anche se non c’erano tappeti da calpestare.
Saranno state le cinque, ma di gente lì intorno non se ne vedeva molta. Ero un po’ delusa, perché mi aspettavo di trovarvi più animazione. Ma un’ora più tardi, discendendo da una passeggiata su per la collina, mi si presentò uno spettacolo del tutto imprevisto: vie e spiazzo intorno a san Sergio formicolavano di gente, macchine parcheggiate dappertutto, altre stavano riempiendo un ampio prato poco distante. Mi domandavo dove avrebbero trovato posto tutte quelle che stavano salendo, formando una sequenza ininterrotta fino a dove arrivava l’occhio.
Non meno sorprendente era vedere che le persone lì convenute avevano messo da parte l’etichetta islamica: i giovani si mischiavano tra loro, molte ragazze e signore erano senza velo e, a volte, addirittura sbracciate.
Uno dei motivi per cui i cristiani lasciano l’Iran è di riacquistare la libertà di comportarsi in luogo pubblico come ci si comporta nel privato, tra familiari e amici. I doppi standard nel vestirsi, nei rapporti interpersonali, cui tutti sono costretti, cristiani e musulmani allo stesso modo, sono un aspetto assai poco piacevole della vita in questo paese.
Si può, dunque, capire l’aspirazione a liberarsi per sempre dalle rigide regole di comportamento imposte dalla Repubblica islamica, e non solo per poche ore, su a san Sergio. Di una libertà di tal fatta coloro che si trasferiscono in Occidente ne trovano in abbondanza.
C’è, però, chi ritiene che la presenza dei cristiani in questi luoghi continui ad avere un senso, anche nelle non facili condizioni in cui si trovano a vivere. Ne ebbi una conferma il giorno dopo, nell’incontro con l’arcivescovo caldeo di Urmia, mons. Thomas Meram.

CATTOLICI ASSIRO-CALDEI
Seppellita tra i vicoli di un vecchio quartiere di Urmia, non molto distante da quella assira, si trova la chiesa cattolica caldea.
Nel 1552, a seguito di una disputa sull’elezione del nuovo patriarca, all’interno della chiesa d’Oriente si verificò uno scisma. Coloro che non lo riconobbero ne elessero un altro, il quale l’anno successivo chiese e ottenne il riconoscimento di papa Giulio iii. Per la parte entrata in comunione con Roma si affermò da allora il termine «caldea». Il vecchio nome legato alla nazionalità, però, continuò a esercitare una certa attrazione, tanto che nel 1973 i caldei lo reinserirono: ora si chiamano ufficialmente «cattolici assiro-caldei».
La chiesa caldea di Urmia, un ampio edificio di recente costruzione, al momento della mia visita era deserta, finché arrivò il sacrestano a riordinare l’altare. Saputo che ero italiana, il signor Michail mi prese in simpatia e, vista la mia curiosità, mi domandò a bruciapelo se mi sarebbe piaciuto parlare con l’arcivescovo Thomas Meram, sempre che egli avesse tempo per ricevermi.
Di lì a poco, mi trovai di fronte un uomo sulla sessantina, in maniche di camicia, dai modi semplici e risoluti. Un incontro inaspettato per tutti e due. Da persona abituata a non perdere tempo in convenevoli, monsignore attaccò subito a parlare della sua comunità; nelle sue parole è risuonata quella nota di rimpianto che ben conoscevo: ai tempi dello scià i cristiani caldei erano 30 mila, adesso arrivano a malapena a 5 mila.
Quando era sacerdote a Teheran, nel 1977, mons. Meram conosceva personalmente le 1.600 famiglie della città, più altre 200 che non figuravano nei registri. Si celebravano 110 battesimi all’anno, 40 matrimoni. Ma adesso…
Adesso la gente se ne va in America, senza sapere neanche perché. Molti partono per ricongiungersi a parenti che vi abitano di già e che li chiamano. Non ci sono motivi gravi per lasciare il paese. «Qui possiamo praticare la nostra fede senza problemi – continua mons. Meram -. Quattro anni fa ho ricostruito la chiesa e un rappresentante del governo è venuto alla consacrazione; adesso stiamo costruendo una nuova sede arcivescovile».
Le sue parole si stavano facendo sempre più accalorate. «Penso che dobbiamo ringraziare Dio di vivere in un paese musulmano, in questo modo teniamo salda la nostra fede. E sì, perché l’Europa si sta scristianizzando. Guardi la Spagna. Zapatero non è un agnostico, ma uno che ha dichiarato guerra al cristianesimo. Tutto è lecito, ogni tipo di comportamento sessuale, ogni forma di manipolazione della vita.
Per un musulmano questa è la dimostrazione della superiorità della loro fede, e sa perché? Perché per loro l’Europa è una terra tutta cristiana, così come nei paesi islamici tutti sono musulmani. Per loro vale l’equazione: Europa = cristianesimo. Quindi, nella loro testa tutto ciò che accade in Europa è opera di cristiani. Così, quando è scoppiato il caso delle barzellette su Maometto, l’impressione che se ne è avuta qui è che siano stati dei cristiani a pubblicarle.
Quando il governatore della nostra provincia è venuto ad assistere a una messa in occasione dei 27 anni della rivoluzione islamica, giorno che coincideva con la presentazione di Cristo al tempio, ne ho approfittato per affrontare l’argomento. Gli ho spiegato che non bisogna mettere in conto quelle barzellette alla cristianità, perché in Europa, come nel resto del mondo, non esistono governi cristiani, semmai il contrario».
Le parole di mons. Meram non ammettevano repliche, né, d’altronde, io avrei avuto alcunché da replicare. L’arcivescovo di Urmia, che parlava un ottimo inglese, dimostrava di essere bene informato sulla situazione europea: era venuto diverse volte in Occidente e in quel momento davanti a lui, sul tavolo, c’era una nota rivista italiana d’attualità e politica.

Alla luce dei fatti recenti, qualcosa, però, si potrebbe aggiungere al suo discorso. Se è vero che i cristiani assiri e caldei non hanno motivi seri per abbandonare l’Iran, ciò non vale, purtroppo, per un altro paese musulmano. I loro confratelli che vivono al di là degli Zagros, in territorio iracheno, stanno attraversando uno dei peggiori periodi della loro storia millenaria: sono perseguitati per la loro fede e oggetto di continue minacce e violenze da parte di gruppi ed elementi che mirano alla totale islamizzazione del paese.
La cronaca riporta una serie continua di intimidazioni, attacchi a chiese e uccisioni di fedeli e religiosi. Nessuno è in grado di garantire la loro incolumità. Dal 2003 il numero dei cristiani in Iraq si è dimezzato e continua a diminuire. E come non fuggire, se per il solo fatto di portare al petto una croce si può essere impunemente ammazzati, come sotto i «Giovani turchi», che all’inizio del Novecento svuotarono il proprio paese della presenza cristiana?
Allora gli eccidi furono organizzati dal governo, adesso le violenze trovano terreno favorevole grazie al caos e alla mancanza di istituzioni credibili, ma il risultato potrebbe essere lo stesso. 

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra