Orizzonti accorciati

Un paese in bilico tra passato e futuro

Conciliare la modeità con la fedeltà alle radici islamiche: è questa la sfida dell’Algeria, disattesa dalla classe dirigente e funestata da rigurgiti di violenza di frange estremiste. In bilico tra le spinte al cambiamento e i segni di ritorno al passato, gli algerini si preparano alle elezioni del 2009 e si capirà quale direzione imboccherà il paese.

«L’Algeria deve dare l’esempio di un progetto di società, dove autenticità e modeità possano coniugarsi. Deve imparare a vivere in modo moderno, a iscriversi nel xx secolo, pur restando fedele ai suoi riferimenti e valori. Perché non è questione di dimenticare: non c’è futuro senza memoria. È questione di costruire un progetto di società e mi dispiace che questo sia insufficiente o addirittura assente nel mio paese».
Mustapha Cherif, intellettuale algerino, esperto di relazioni inteazionali e dialogo fra le culture e le religioni non è tenero con il suo paese. Anche se l’esperienza di ex ministro dell’Istruzione superiore e della Ricerca scientifica e di ambasciatore l’ha reso avvezzo a misurare scrupolosamente le parole. Soprattutto quando si tratta di questioni politiche. E, tuttavia, non si sottrae dallo stigmatizzare alcuni nodi cruciali della complessa e talvolta drammatica attualità algerina. Un paese in bilico tra passato e futuro, tra desiderio di apertura e «modeità» e spinte retrograde e oscurantiste. Un paese che deve ancora fare i conti con una storia di lotte e violenze e che continua a essere ferito da sanguinosi attentati, che colpiscono indiscriminatamente i simboli delle istituzioni e la gente comune. L’ultimo, quello dello scorso 11 dicembre, ha ferito al cuore la capitale, uccidendo 62 persone (tra cui tre stranieri). Due gli obiettivi: un simbolo del potere algerino, la sede del Consiglio costituzionale sulle alture di Ben Aknoun, e uno degli emblemi della presenza occidentale, la palazzina dell’Onu, a Hydra, nel quartiere dei ministeri e ambasciate, dove è presente l’Alto commissariato per i rifugiati (Acnur) e il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp).
Non è che l’ultimo di una serie di attentati rivendicati dal Gruppo salafista per la predicazione e il combattimento (Gspc), che dalla fine del 2006 si proclama braccio di Al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi) e che si pretende impegnato a liberare la regione da tutti gli infedeli, mirando sempre più in alto.
Solo nel 2007 si è reso protagonista di una serie impressionante di operazioni terroristiche. Tra le più clamorose, il duplice attentato ad Algeri, l’11 aprile, che ha provocato almeno 30 morti e più di 200 feriti e che ha preso di mira il Palazzo del governo in pieno centro città e un commissariato alla periferia est della capitale. E poi, il 6 settembre a Batna, nell’est del paese, dove sono morte 22 persone e più di 100 sono rimaste ferite in un attentato-suicida contro il corteo del presidente Abdelaziz Bouteflika, vero obiettivo di un attacco, rivolto direttamente contro la più alta carica dello stato.
Uno stato che fa sempre più fatica a gestire non solo questo rigurgito di terrorismo islamico, ma che non ha ancora fatto pienamente i conti con il suo passato: prima la guerra di liberazione contro i colonizzatori francesi, una delle più lunghe e cruente, con una stima di oltre un milione e mezzo di morti algerini, quei mujahiddin (combattenti), che ancora oggi sono celebrati come eroi nazionali; e poi il decennio funesto del terrorismo, quegli anni Novanta, segnati da una follia sanguinaria impregnata di estremismo islamico, che ha spazzato via più di 200 mila vite umane.
E oggi, un presente in bilico tra pressioni e spinte spesso opposte e contraddittorie. «L’avvenire dei paesi arabi e musulmani – continua il professor Cherif – si gioca sulla definizione di un progetto di società adatto ai nostri tempi. Anche in Algeria. Noi siamo vicini all’Europa e all’Occidente, e allo stesso tempo gelosi delle nostre radici. È qui che questa congiunzione e questo rapporto devono realizzarsi. La maggioranza del popolo algerino desidera il progresso, ha sete di giustizia sociale e di sviluppo e, contemporaneamente, è fiera di essere musulmana. È questa combinazione che dobbiamo costruire e non possiamo permettere agli estremisti, di qualsiasi tipo, di impedirci di realizzarla, perché separarci dalle nostre radici da un lato, o dal resto del mondo dall’altro, sarebbe come finire in un’impasse senza vie d’uscita».

E ppure, quella che si presenta come una sfida ineludibile per l’Algeria, sembra oggi disattesa da più parti. A cominciare dai vertici dello stato, dove è in corso una lotta acerrima per il potere. All’orizzonte, le elezioni presidenziali del 2009, cruciali per il futuro del paese. Lo sa bene il presidente Abdelaziz Bouteflika, al termine del suo secondo e, teoricamente, ultimo mandato, ma che, nonostante la grave malattia che lo minaccia da tempo, non intende rinunciare a brigare per un terzo incarico. Anche se questo significa necessariamente un cambiamento della Costituzione.
Del resto, la posta in gioco è enorme e riguarda innanzitutto la gestione di milioni di barili di petrolio, il cui prezzo è impennato sino a sfiorare i 100 dollari l’uno. Una manna a cui nessuno vuole rinunciare e che rappresenta un altro dei paradossi dell’Algeria, paese potenzialmente ricchissimo, con una popolazione che vive in miseria o quasi.
Ma la classe dirigente – generali dell’esercito compresi – impegnata a garantire la propria sopravvivenza, non sembra in alcun modo intenzionata a promuovere cambiamenti e riforme. È vero che, negli ultimi anni, nel paese si sono moltiplicati i cantieri: strade, autostrade, ferrovie, dighe, la metropolitana di Algeri… Ma i lavori proseguono a rilento e, come per tutto, un sistema di corruzione e cattiva gestione ne ipoteca sin dall’origine i risultati. Recentemente ha fatto molto discutere e ha suscitato un mare di polemiche il progetto di una nuova immensa moschea ad Algeri – la terza per grandezza dopo quella della Mecca e di Medina – che costerà la bellezza di 3 miliardi di dollari. Uno spreco inconcepibile agli occhi di molti che faticano letteralmente a sopravvivere.

L a situazione economica e sociale, del resto, è alquanto precaria. Con un tasso di disoccupazione che tra i giovani supera il 50%, la mancanza cronica di alloggi, una burocrazia ammorbante e un costo della vita proibitivo, le prospettive di futuro, soprattutto per i giovani, sono praticamente bloccate. Non per nulla molti tentano in tutti i modi di andarsene. Li chiamano harraga, questi disperati che su barche di fortuna, cercano di attraversare il Mediterraneo, spesso senza riuscirci. Nel 2006, la guardia costiera ha intercettato e rispedito indietro 4.500 giovani algerini. Ma quanti altri siano morti in mare nessuno è in grado di dirlo.
«Non c’è lavoro, non ci sono alloggi, non c’è speranza che le cose cambino. Per questo i giovani se ne vanno!», denuncia con forza Baya Gacemi, giornalista e scrittrice. Uno dei suoi libri, Nadia, tragica storia della moglie di un emiro del Gruppo islamico armato (Gia), è stato tradotto e distribuito in Italia da Sperling & Kupfer. Il suo giudizio sulla situazione politica algerina è decisamente tranchant. «Abbiamo un potere politico falso e non democratico, persone senza competenza e credibilità, che impongono alla gente di tacere, che cercano di escludere la società civile da tutte le dimensioni della vita politica, economica e sociale. Per questo molti si scoraggiano e lasciano perdere e molti altri se ne vanno. Anche gente istruita e professionalmente preparata: circa 450 mila quadri hanno lasciato l’Algeria. E molti altri sono pronti a partire, perché vedono il loro orizzonte qui completamente chiuso. In questo modo, però, perdiamo tutta la parte più dinamica della società».
Secondo la Gacemi, la politica è un affare di «parassiti e corrotti. Per questo la gente se ne sta sempre più alla larga». Lo dimostrano anche le ultime elezioni amministrative dello scorso 29 novembre: ufficialmente si è recato alle ue il 44,09% degli aventi diritto; ma molti sostengono che la percentuale fosse ancora più bassa. Come del resto era successo per le legislative del maggio 2007 e per il referendum del novembre 2006.
«Questo potere ha scavato un fossato tra politica e società – sostiene la giornalista -. La gente si sente esclusa dalle decisioni di un governo che si impone con la forza. Il solo modo per far fronte alle difficoltà che vive questo paese e per evitare un ritorno alla violenza è scegliere la democrazia. E coinvolgere la società civile nelle decisioni politiche».

N on sono molte, tuttavia, le associazioni che riescono effettivamente a far sentire la propria voce o che sono realmente ascoltate. Molte sono quelle che si occupano dei diritti e promozione della donna, in un contesto islamico che, dopo una parziale apertura alla fine degli anni del terrorismo, sta richiudendosi di nuovo su se stesso. E anche in una città mediterranea e vivace come Algeri, il numero dei veli che sono ricomparsi sulle teste delle donne continua ad aumentare in maniera percettibile.
È solo un segno, tra i molti, che dicono della paura o incapacità di accettare un reale pluralismo e una differenza all’interno di una società che, specialmente nelle grandi città, sta progressivamente perdendo i riferimenti tradizionali, affascinata, ma anche spaventata, da modelli occidentali carichi di miraggi e contraddizioni.
E così anche la presenza, numericamente insignificante, di pochi cristiani, quasi tutti stranieri, provoca le reazioni spesso spropositate del potere che, in più occasioni, durante il 2007, ha tentato di espellere religiosi e laici presenti nelle quattro diocesi del paese. O che rende quanto mai problematico l’ottenimento di visti per i nuovi arrivi.
«La nostra presenza qui – commenta mons. Henri Teissier, arcivescovo di Algeri – si situa all’interno di una società, che è attraversata da difficoltà evidenti, ma dove continuano a esistere possibilità di incontro e collaborazione. Grazie soprattutto alle molte persone che cercano di superare certe chiusure per favorire una possibilità di conoscenza e arricchimento reciproco».
«La nostra chiesa – gli fa eco mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaïa, l’immensa diocesi del Sahara – condivide con il popolo algerino un’esperienza di vicinanza, solidarietà e fedeltà e, nello stesso tempo, introduce all’interno di questa società un elemento di “differenza”, che aiuta i nostri amici algerini a sentirsi, loro stessi, più aperti. Più capaci, vorremmo sperare, di vivere la loro stessa appartenenza all’islam in maniera più libera e “plurale”. Un islam che non può essere solo quello intollerante predicato da frange di estremisti o quello “socialista” imposto dal potere».
I prossimi mesi di avvicinamento alle elezioni presidenziali del 2009 saranno decisivi per comprendere in quale direzione vorrà incamminarsi questo turbolento paese che è l’Algeria. 

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi

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