La notte è troppo lunga
Reportage: tra i bambini di strada della capitale argentina (2.a puntata)
Ci sono quelli della stazione dei treni. Quelli della metro. Quelli che stanno sotto un porticato. Sono chicas y chicos de la calle che si arrabattano per sopravvivere nelle strade, tra droghe, pericoli e polizia. E poi c’è lui, Mario, insegnante di arti marziali e factotum, ma soprattutto ex bambino di strada. Oggi investe molto tempo ed energie per aiutare i bambini direttamente, senza intermediari. Assieme a Mario abbiamo trascorso una notte tra le ranchadas di Buenos Aires, nascoste dietro le luci della città, metafora di una società che, ad un tempo, abbaglia ed esclude.
Buenos Aires. Barracas è un quartiere della capitale cresciuto lungo il Riachuelo, un fiumiciattolo (oggi inquinatissimo) che sfocia nel Río de la Plata. Il barrio non ha la notorietà dei confinanti San Telmo e Boca. È un quartiere senza pretese, proletario.
Sulla via Salom le case sembrano abbandonate. La strada, poco illuminata, è praticamente deserta, sia di passanti che di automobili.
L’abitazione in cui entriamo è una vecchia casa in assi di legno. All’interno ci sono due stanze ammobiliate in maniera essenziale.
Il bambino con il rosario al collo
Fisico possente, viso da indio, baffi e pizzetto, giaccone, cappellino con visiera alla rovescia, di prim’acchito Mario Julio Sotelo, 47 anni, incute un po’ di timore.
Un passato in Costa Rica e Stati Uniti, una piccola attività di messaggeria (portare documenti e cose da una parte all’altra della città), Mario fa volontariato al Centro Miguel Magone: insegna arti marziali ai piccoli ospiti. Proprio al centro gestito dai salesiani lo abbiamo incontrato per la prima volta. «Nel mio piccolo anch’io cerco di aiutare i bambini di strada» ci aveva detto, invitandoci a visitarlo.
«Questa è la mia umile casa. Un livello poco sopra della ranchada della strada», avverte Mario, quasi per scusarsi. Con il termine ranchada si indica l’estemporaneo rifugio dei bambini di strada: il luogo dove si ritrovano in gruppo, dove dormono, dove stabiliscono il da farsi.
Che fanno i bambini nelle ranchadas? «Decidono le loro attività», spiega Mario, senza cercare di abbellire la situazione. «Attività che spesso sono furti; sono pochi i gruppi che vivono con l’attività di cartoneros». Quindi, il nostro ospite, che parla con visibile partecipazione emotiva, aggiunge: «E poi nelle ranchadas si consumano droghe».
Mario Julio Sotelo non è un assistente sociale, non è un religioso, certamente non è ricco, ma da anni segue i bambini di strada. Perché?
«Ne sento la necessità, perché io fui della strada. Anzi, di più se possibile, dato che sono orfano e non ho mai conosciuto i miei genitori. Sono cresciuto in istituto e in istituto (che comunque era un luogo rispettabile) ho imparato a sopravvivere».
La casa di Mario è aperta a tutti. «Ripeto – insiste – : questa è una ranchadita, non una vera casa, dove ci sono letti e comodità. Io vivo la casa e non il contrario. Mi basta l’essenziale. Vivo con mio figlio. Ho 3 forchette: una per me, una per lui ed una per il visitatore di tuo, che adesso è Maxi».
L’interessato ascolta ed annuisce. «Maxi – prosegue Mario – lo conosco da qualche anno, ma da poco vive qui con me. Mi aiuta nel lavoro di messaggeria, che è un lavoro libero perché si fa all’aperto».
Nelle ruvide mani della polizia
Cappellino, capelli ricci, maglietta calcistica, un rosario tenuto a mo’ di collana, occhi espressivi, labbro superiore un po’ gonfio: è Massimiliano detto Maxi.
«Quando ero piccolo, rimasi con mio padre per 7 anni. Poi con mia mamma per 2 anni, finché lei non morì di Sida. Non volevo stare con i miei parenti e scelsi la strada. Da 6 anni non vedo alcuno di loro e non ho nessuna voglia di vederli».
Maxi, come si vive in strada? «Si apprendono sia cose buone che cose cattive. Quelle buone sono che impari a convivere con altre persone; quelle brutte è che impari a drogarti e a rubare».
Tu quante volte sei stato nelle mani della polizia?, domandiamo. «Un paio di volte. Non posso dire che tutta la polizia sia cattiva. Ci sono alcuni che ti portano da mangiare, altri che ti tengono tutto il giorno senza un bicchiere di acqua».
Maxi continua a raccontare, con tranquillità, senza particolare enfasi, quasi fosse una cosa normale. Spiega la sua ultima disavventura con le forze dell’ordine, quella che si è conclusa con il suo affidamento a Mario. «Nel portafogli dell’amico con cui ero hanno trovato della marijuana, una piccola dose. Dato che io non avevo alcun precedente di droga, ho detto che era mia per mio consumo personale. Sono stato 11 ore nel commissariato senza neppure il permesso di andare al bagno. E senza la possibilità di fare una telefonata».
«Alla fine è venuto Mario, ma anche per lui non è stato semplice perché non sapeva i miei dati personali, dato che mi conosceva soltanto come Maxi».
Massimiliano conclude la sua storia: «Io non sono una cattiva persona. Anche se la gente pensa subito così, appena ti avvicini per chiedere una moneta. Cominciano a guardare la loro borsa, il cellulare. Ma non tutti siamo eguali, come sa Mario che ha accettato di farmi da tutore».
Una telefonata alla mamma
Mentre parliamo arrivano altri 2 ragazzi. Si accomodano sul divano, mentre il figlio di Mario e la sua ragazza preparano loro un tè caldo. Uno dei due ha un labbro spaccato, ma non è a causa di quello che parla biascicando.
Mario gli dice di telefonare alla mamma, che da giorni lo sta cercando. «Pronto, mamma», la conversazione prosegue, come tutto fosse normale. La mamma si preoccupa della sua salute e lui la rassicura: «Sì, ho un po’ di tosse, ma va già meglio». Poi promette: «Domani passo da casa». Il padrone di casa si fa passare la cornetta del telefono per tranquillizzare la mamma: «Questa notte lo faccio dormire da me».
Estacion Constitución, una «corte dei miracoli»
Mario non possiede un’automobile. Lui si muove in moto. Per questa sera, però, ha chiesto al vicino di casa la sua auto in prestito. Vuole portarci a visitare alcune ranchadas del centro. Ci faremo accompagnare dai 2 bambini, che ben conoscono i luoghi e i loro frequentatori.
Arriviamo a Constitución. La stazione dei treni è una sorte di «corte dei miracoli», soprattutto durante la notte. Qui si incontrano cartoneros, bambini di strada, malviventi. Mario vuole farci parlare con i bambini che nella stazione hanno la loro base. Li troviamo senza difficoltà e ci sistemiamo sui gradini di una scala per conversare. Ma siamo subito disturbati da alcuni ragazzi più grandi, visibilmente alterati, che non gradiscono la nostra presenza. Mario, pur molto conosciuto in questi ambienti, decide però che è meglio uscire dalla stazione.
La ranchada di Maria
Facciamo pochi minuti di auto. Ci fermiamo nei pressi di un porticato dove dormono molte persone e famiglie con bambini. I giacigli sono improvvisati, ma almeno ci sono le coperte. Tutt’attorno borse e sacchi di plastica riempiti con le cose personali. Qualcuno ha raccolto del cartone, per venderlo o per usarlo come riparo. E poi ci sono vari carrelli di supermercato, usati come mezzo di trasporto dei propri averi.
Viso da adolescente, bel sorriso, una sigaretta in mano, Martin è un po’ timido davanti alla videocamera ma, dietro richiesta di Mario, si convince a dire qualche parola.
Che fai qui? «Niente. Dormo. Sono solo, per questo sono venuto alla ranchada di Maria, che è un’amica». E durante il giorno che fai? «Il giocoliere nelle strade».
Quanti anni hai, Martin? «Tredici. Sono di Buenos Aires. Vivo in strada dall’età di 9 anni. Mia mamma vive con il mio patrigno e una sorellina, ma non li vedo da molto tempo».
Come si vive in strada? «Freddo, fame, problemi con la polizia. Tutti i giorni».
Mario gli dice di mostrarci le mani. Un po’ titubante, Martin apre le mani: sono rovinate come quelle di un manovale di lungo corso. «Sono i segni che lascia il Poxiran», spiega Mario.
La ranchada di Maria è in un angolo del porticato, davanti alle serrande di un negozio. Maglione verde, capelli lunghi e neri, la troviamo con un neonato in braccio: è il figlio di sua figlia (minorenne). Il figlio maschio, Victor, è un consumatore di droga. Caduto dal treno, ha subito l’amputazione di un piede. Una serie impressionante di disgrazie che atterrerebbe chiunque.
Invece, Maria riesce ancora a sorridere, mostrando la bocca sdentata. Ma il suo è un sorriso stanco. Quanti anni hai, Maria?, domandiamo, ormai bloccati dalla crudezza della situazione, incapaci di fare domande che abbiano un senso e che non abbiano il sapore di un’inutile curiosità. Maria risponde «29». Ci guardiamo sorpresi, perché non può avere l’età che dice. «Non è un vezzo», ci spiega Mario. «Maria non ha realmente cognizione della sua età».
Arriva anche la figlia con un amico e tutti fanno festa a Mario. Ma per noi è ora di salutare Maria e la sua famiglia e andare a visitare un’altra ranchada.
Subte, linea «B», fermata «Florida»
Arriviamo in centro, a poca distanza dall’Obelisco e da Florida, la lunga via pedonale nota a tutti come paradiso dello shopping. E ai ragazzi di strada come un luogo dove si può «lavorare» bene, nonostante la presenza della polizia.
Ci fermiamo sulla scala della linea «B» della metro di Buenos Aires, a quest’ora della notte chiusa agli utenti.
Victor vive nella strada da 8 anni. Perché? «Mi piace», risponde alzando le spalle e ridendo. Un bambino, più piccolo di statura rispetto ai compagni, si fa avanti. È particolarmente vivace. Dice di avere 13 anni. Vive nella strada da poco, meno di un anno. Mario fa un cenno di conferma.
Dove dormite?, chiediamo. Invece di rispondere, due di loro ci mostrano come si rannicchiano sulle scale della metro durante la notte. Dormono sui gradini finché, al mattino, non si aprono le porte della metro o finché non passano i poliziotti a scacciarli.
«Chi sta fumando?», chiede Mario, con fare amichevole.
Pegamento, paco, o marijuana?
Il gruppo si è allargato ad altri, richiamati dalla presenza di Mario, una persona conosciuta ed affidabile. Tutti vogliono dire la loro. I ragazzi ridono divertiti e sventolano davanti alla videocamera una busta di pegamento e un sacchettino di marijuana. Mario li guarda, comprensivo ma non consenziente.
Paolo Moiola