Da Somoza al ritorno di Ortega
Un piccolo paese «strangolato» più volte nel corso della sua storia: prima dalla dittatura della famiglia Somoza, poi dalle decisioni del presidente Usa Ronal Reagan ed infine dalle devastanti politiche neoliberiste. Oggi il Nicaragua torna a guardare al proprio passato rivoluzionario. Anche se i tempi sono cambiati.
Il Nicaragua si fa conoscere nel mondo tra gli anni Settanta ed Ottanta per la rivoluzione sandinista, che trionfa sulla tirannia della dinastia dei Somoza, famiglia imposta e sostenuta dagli Stati Uniti, poco prima dell’assassinio di Sandino nel lontano 1934. Dopo quasi 45 anni di governo dittatoriale, la famiglia Somoza aveva spinto contadini, studenti e sindacati alla clandestinità e all’opposizione in forma di guerriglia.
Nel 1978 la guerriglia si amplia e diventa insurrezione popolare, in cui si coalizzano 3 tendenze: la tendenza proletaria, quella della guerra popolare prolungata e quella insurrezionale. Quest’ultima, che fa capo a Daniel Ortega, nel 1979 trionfa. Negli anni Ottanta, dopo 4 anni di rivoluzione, si propongono elezioni che vedono la schiacciante vittoria del «Frente sandinista de liberacion nacional» (Fsln) di Ortega, a capo di una direzione nazionale formata da 9 comandanti.
Il Nicaragua sviluppa un processo rivoluzionario molto simile a quello cubano, ma con alcune fondamentali differenze: il pluralismo politico, il suffragio universale, un sistema economico misto (stato e privati) e la scelta del non-allineamento sul piano internazionale.
Si comincia ad installare giganteschi complessi agroindustriali statali (con l’aiuto di Cuba e dell’Unione Sovietica) per l’agroesportazione. Il governo statunitense, per frustrare l’industrializzazione e destabilizzare il paese, comincia allora una guerra di aggressione, obbligando il Nicaragua a destinare la maggior parte delle sue risorse alla difesa nazionale. In questo stesso decennio, Washington decreta l’embargo alle esportazioni e mina i porti nicaraguensi.
Nel contempo, i reduci della Guardia nazionale somozista, guidati dal colonnello Enrique Bermudez, vengono riuniti, assessorati e finanziati dalla Cia e dai militari argentini della dittatura militare. La Guardia, ribattezzata «la Contra», partendo dall’Honduras e dal Costa Rica, intraprende una guerra (non dichiarata) di guerriglia, che il presidente Usa Ronald Reagan chiama «guerra a bassa intensità» (sull’esperienza dei vietcong in Vietnam). Una guerra, fatta con l’obiettivo di impedire il successo della rivoluzione e bloccare la diffusione dell’entusiasmo rivoluzionario al Salvador e al Guatemala, che alla fine lascerà sul terreno ben 50.000 vittime.
Dopo un decennio di guerra, di scandali inteazionali (come quello dell’Iran-Contras: vendita illegale di armi al paese mediorientale per finanziare i mercenari antisandinisti all’insaputa del Congresso statunitense) e di insuccessi bellici dei Contras, il governo nordamericano democratico di Jimmy Carter decide di intavolare conversazioni di pace con il governo di Daniel Ortega. Al tempo stesso, anche i sandinisti, senza l’appoggio del blocco sovietico (ormai traballante) e per evitare una sconfitta militare, propongono la fine della guerra e le trattative di pace con presenza internazionale (Esquipulas II).
Nel 1990 Ortega indice elezioni generali per la seconda volta. L’opposizione (formata da liberisti-somozisti, liberisti indipendenti, conservatori, socialcristiani e sandinisti pentiti, in tutto 14 partiti) si unisce contro i sandinisti nella Uno («Union nacional opositora») e con Violeta Barrios de Chamorro vince le libere elezioni.
Il nuovo governo di Violeta Chamorro trova un paese prostrato da anni di guerra, l’economia altamente indebitata con gli organismi finanziari inteazionali del Nord del mondo e un legame strettissimo con Washington. La formula principale di stabilizzazione economica che il governo di Violeta Chamorro applica consiste nella «donazione» del governo statunitense di 3.550 milioni di dollari al Banco centrale del Nicaragua per garantire il «cordoba oro», la nuova moneta cambiata alla pari con il dollaro. La donazione viene pagata a caro prezzo: la rinuncia alla richiesta di pagamento di 17.000 milioni di dollari, secondo quanto previsto dalla sentenza della Corte internazionale dell’Aja delle Nazioni Unite come indennizzo per l’intervento nella guerra di aggressione degli anni Ottanta.
Al momento della sconfitta elettorale del Fsln, Daniel Ortega fa un appello ai suoi militanti a «governare dal basso». Ma la sconfitta provoca nei sandinisti una grande tristezza e spesso rassegnazione. Una sorta di «si salvi chi può» e «si rompano le fila» colpisce gli intellettuali, nonché gli ex ministri e ambasciatori: Daniel Ortega rimane da solo.
Dall’inizio del governo Chamorro, i sandinisti sono all’opposizione. Come risposta all’apertura del libero mercato, alla privatizzazione delle imprese statali, al licenziamento di massa del personale statale e all’incremento dei prezzi degli alimenti base, insieme alle organizzazioni dei lavoratori, dei contadini e dei rappresentanti dei quartieri popolari, essi paralizzano il paese in varie occasioni con violente proteste di piazza, esigendo che si preservino le conquiste sociali della rivoluzione.
Questa situazione polarizzata porta ai cosiddetti «accordi di transizione», in cui il governo neoliberista promette di lasciare intatte molte delle conquiste economiche e sociali della rivoluzione. Un accordo che sarà denominato la «piñata sandinista». Questi accordi rallentarono lo smantellamento dei benefici ottenuti nel periodo sandinista. Tuttavia, lo scontento per i risultati elettorali e per questi accordi producono la più importante scissione all’interno dei sandinisti: nasce il «Movimento di rinnovamento sandinista» (Mrs).
Nelle successive elezioni del 1996 vince il «Partito liberale costituzionalista» (Plc), un partito con una base elettorale di tipo tradizionalista-clientelare. Presidente è Aoldo Alemán, un avvocato difensore delle cause somoziste, di sinistra reputazione, leader antisandinista, immagine del karma politico di Anastacio Somoza. Il governo di Alemán approfondisce l’applicazione del neoliberismo, con nuovi licenziamenti di massa, smantellamento delle dirigenze sindacali, sgombero di massa delle terre occupate, privatizzazione dei servizi pubblici e una grottesca corruzione e saccheggio delle risorse dello stato, accompagnata da bancarotta fraudolenta delle banche e infine ripartizione delle terre dei popoli indigeni agli ex contras. Nonostante queste premesse, la minima differenza di rappresentazione nel parlamento, le elezioni avvolte dall’ombra dei brogli, lo scandalo che produsse l’accusa di abuso sessuale della figliastra di Daniel Ortega inducono il fronte sandinista a proporre un patto di convivenza con il Plc di Alemán. Questo patto riguardava la ripartizione proporzionale dei rappresentanti degli organismi statali e giudiziali, insieme alla riforma della costituzione.
Questo accordo politico ha profonde ripercussioni nell’autorità morale del leader sandinista, generando sfiducia e alimentando le proposte dell’Mrs, proposte che consistevano nel cambio di direzione del sandinismo verso una democratizzazione della sua struttura centralista, derivata dalla guerra, ma più che altro al rinnovamento della sua dirigenza, considerata logorata dai suoi errori.
Al governo di Alemán succede quello del suo vicepresidente, il conservatore Enrique Bolaños, un latifondista, che per uno stretto margine vince le elezioni del 2001 su Ortega. Il nuovo presidente si proclama nemico della corruzione che aveva caratterizzato il predecessore. Era stato infatti scoperto un saccheggio milionario dei fondi dello stato, insieme a tutti gli aiuti inteazionali arrivati per la ricostruzione a seguito dell’«uragano Mich» del 1998, che aveva distrutto la struttura produttiva del Nicaragua.
Alemán viene scaricato anche dal governo statunitense. La divisione della destra lascia Bolaños con una minima rappresentanza parlamentare, che lo obbliga ad allearsi con l’Fsnl. Alleanza con cui riesce a togliere l’immunità parlamentare ad Alemán e a portarlo davanti alla giutizia. Una giudice sandinista lo condanna a 20 anni di prigione. L’ex presidente entra ed esce dal carcere più volte, in relazione al momento politico contingente, fino al dicembre 2007, quando viene deciso il suo incarceramento.
Il governo Bolaños continua a sviluppare la politica neoliberista, privatizzando i servizi pubblici che ancora restano come l’educazione pubblica (sotto la finzione della «autonomia scolastica») e l’acqua (sotto il travestimento di «contratti privati di industrializzazione ed ampliamento del servizio»).
Il governo è però minato dall’instabilità. Il presidente tenta di utilizzare l’esercito per controllare le proteste popolari e lo scontento per il moltiplicarsi della povertà e gli intenti di privatizzazione. Bolaños spacca infine la destra, formando il «Partito dell’alleanza liberale nicaraguense» (Aln), che però viene sconfitto nelle ultime elezioni (novembre 2006).
Aconti fatti, tutti e tre i governi neoliberisti – di Violeta Chamorro, Aoldo Alemán ed Enrique Bolaños – hanno perseguito la privatizzazione dello stato nazionale, includendo i servizi base tra cui l’energia, la salute, l’educazione, l’acqua, il trasporto, le infrastrutture e il sistema pensionistico.
Questi governi hanno proceduto sottraendo al bilancio dello stato fondi destinati ai servizi pubblici, rendendoli così sempre più deficitari. L’intento era di arrivare ad una privatizzazione senza resistenze popolari e offrendo, a prezzi di bancarotta, alle società transnazionali 200 anni di conquiste sociali.
Una politica siffatta ha facilitato lo smantellamento del sistema produttivo nazionale, affossato anche dalla privatizzazione della Banca nazionale e di conseguenza del credito (colpendo con ciò i piccoli produttori, sia contadini che microimprenditori, che sono la maggioranza in Nicaragua).
In un secondo momento, viene distrutto il commercio interno, trasformando il Nicaragua in un grande importatore di beni e servizi esteri, che costituiscono il grande business della globalizzazione. Globalizzazione che in realtà, nei paesi poveri, altro non è se non una neocolonizzazione.
José Carlos Bonino