Lo scrittore turco Orhan Pamuk, premio Grinzane Cavour 2002 nella sezione Narrativa straniera e premio Nobel per la letteratura 2006, è stato portato davanti ai giudici per «avere offeso la turchità».
Orhan Pamuk, che nei suoi romanzi spazia dalla realtà al sogno, ha vissuto un vero e proprio incubo nel dicembre 2005, quando fu costretto a comparire davanti al giudice di un tribunale turco con l’accusa «di avere offeso la turchità», poiché, come dichiara lo stesso scrittore, «in un’intervista per una rivista svizzera nel febbraio dello stesso anno ho detto che in Turchia sono stati uccisi 1 milione di armeni e 30 mila curdi. Ho detto anche che nel nostro paese non si parla di queste cose perché rappresentano un tabù. Mi riferivo a quello che è accaduto agli armeni ottomani a partire dal 1915… Alcuni giornali hanno dato il via a una campagna d’odio; alcuni editorialisti hanno detto apertamente che era il momento di farmi tacere; gruppi di fanatici nazionalisti mi hanno insultato per le strade e hanno organizzato dimostrazioni; i miei libri e le mie fotografie sono stati bruciati».
Pamuk ha rischiato tre anni di carcere ma, grazie anche al sostegno a livello internazionale, il processo è stato interrotto e le accuse sono state ritirate il 22 gennaio 2006.
È stata, perciò, una splendida realtà vedere cento e più persone in coda per far firmare copie dei suoi libri a Orhan Pamuk, dopo una conferenza organizzata a Torino, giovedì 6 settembre 2007, dal Premio Grinzane Cavour nel bel cortile di palazzo Chiablese, conferenza a cui ha partecipato un pubblico di circa 400 persone.
Durante tale conferenza Pamuk, con la consueta sincerità e chiarezza, ha sviscerato il suo rapporto amore-odio nei confronti dell’Occidente, ricordando come nei primi volumi del Diario di André Gide, premio Nobel per la letteratura 1947, «s’incontrano punte beffarde e irose scagliate contro la Turchia, da lui visitata nel 1914, dopo le guerre balcaniche». Eppure Gide è ammirato da tanti intellettuali turchi come Tanpinar, che prova «stupore» davanti al suo «disprezzo per i turchi».
Lo stesso Gide, però, ammira Dostoevskij che, nel suo Diario di uno scrittore parla «dell’ipocrisia francese, di come i grandi principi di questa terra siano svaniti, estinti di fronte al denaro». Uno scrittore può, quindi, amarci o non amarci, ma ci attrae «per i mondi, i valori, la maestria».
Pamuk sviscera i suoi sentimenti affermando: «Dalla finestra da cui mi pongo a osservare l’idea d’Europa o d’Occidente si manifesta appunto fra le ombre di quel rapporto. Essa non è solare, brillante. Immaginare l’Europa, per me, significa trovarmi in forte tensione tra ripugnanza e amore, attiva nostalgia e disprezzo patito». Ricorda, poi, le riforme influenzate dall’Occidente, effettuate da Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della Repubblica, il padre della nazione turca modea, dal 1923 agli anni Trenta. Infatti, «accanto a cambiamenti formali, quali il passaggio dall’alfabeto arabo a quello latino, l’adozione del calendario “cristiano”, lo spostamento alla domenica del giorno festivo settimanale, ne esistono altri che hanno lasciato tracce più marcate nella società, come il miglioramento dei diritti delle donne». Riforme, ancora oggi, oggetto di tante dispute tra gli intellettuali turchi.
Mentre Pamuk mi firmava una copia de Il libro nero gli ho detto, in inglese, che quando leggo i suoi libri non posso fare a meno di pensare a Pirandello. Lo scrittore turco si è fatto una bella risata, affermando che era arrivato a Pirandello tramite Borges. Ha poi risposto con un vigoroso assenso con il capo quando gli ho chiesto se è stato influenzato dal drammaturgo siciliano.
Infatti, solo pensando a Pirandello, che spazia sul continente e trasforma i suoi personaggi al massimo in Enrico iv, sono finalmente riuscita a capire Il castello bianco di Pamuk, ambientato nel 1600, dove la trasformazione avviene tra Oriente e Occidente, ovvero il sosia turco di un dotto prigioniero schiavo veneziano ne assume sembianze e sapere.
Chi è lo scrittore Orhan Pamuk, amato ed odiato, certamente perseguitato per la sua sete di «verità»?
Sin da giovanissimo Orhan Pamuk, nato a Istanbul nel 1952, ha navigato tra i 1.500 libri della biblioteca di suo padre, erede di un’agiata famiglia e lui stesso imprenditore di altee fortune con l’animo del poeta. Durante i suoi frequenti viaggi, molti a Parigi, Pamuk padre prendeva appunti, scriveva poesie, ascoltava gli amati scrittori francesi, acquistava libri e, sollecitando la fantasia del figlio, inconsciamente forgiava lo scrittore.
Orhan ricorda: «Quando divenni uno scrittore, non ho potuto mai dimenticare che era in parte grazie al fatto che ho avuto un padre che mi parlava degli scrittori del mondo molto più che di pascià o leader religiosi».
Nel 1974, osteggiato dalla madre e incoraggiato dal padre, Pamuk ha iniziato a scrivere regolarmente, dopo aver frequentato la facoltà di architettura all’Università di Istanbul e essersi laureato in giornalismo. Da allora ha vinto prestigiosi premi letterari a livello internazionale, tra cui il Grinzane Cavour nel 2002 con Il mio nome è Rosso, e ha continuato da laico, ma quasi come un eremita, nel faticoso lavoro d’introspezione in se stesso e a produrre romanzi di altissimo livello letterario.
Pur non avendo mai fatto il giornalista, Pamuk conosce tutti i trucchi, le grandezze e le meschinità del mestiere. Lo dimostra bene ne Il libro nero, tratteggiando, anche con un pizzico di ironia, il personaggio «fantasma» del famoso giornalista Celâl, fratellastro di Ruya, la moglie sparita dell’avvocato Galip, che alla ricerca dei due ci conduce dagli interminabili e prevedibili pranzi di famiglia ai meandri più segreti di Istanbul. Pamuk è stato insignito del premio Nobel per la letteratura proprio perché «nella ricerca dell’anima melanconica della sua città natale ha scoperto nuovi simboli per lo scontro e l’intreccio delle culture».
Nel discorso ufficiale a Stoccolma, dedicato con affetto al padre scomparso nel 2002, Pamuk afferma: «Solo scrivendo libri ho potuto raggiungere la comprensione dei problemi dell’autenticità (come ne Il mio nome è Rosso e Il libro nero) e i problemi della vita in periferia (come in Neve e Istanbul)». Ma ricorda anche il travaglio e la fatica del bravo scrittore: «Il segreto dello scrittore non è l’ispirazione – non è mai chiaro da dove arriva – ma la sua ostinazione e pazienza… Nel mio romanzo Il mio nome è Rosso, quando scrissi degli antichi miniaturisti persiani che hanno disegnato lo stesso cavallo con la stessa passione per molti anni, memorizzando ogni pennellata tanto da poter ricreare lo stesso bellissimo cavallo anche a occhi chiusi, sapevo che stavo parlando della stessa professione dello scrittore e della mia vita». E, finalmente, dopo aver cercato a lungo un «centro» di vita ha capito che: «Per me il centro del mondo è Istanbul. Non perché ho vissuto qui per tutta la vita, ma perché negli ultimi 33 anni, ho raccontato le sue strade, i suoi ponti, la sua gente, i suoi cani, le sue case, i suoi giorni e le sue notti, facendole divenire parte di me, abbracciandole tutte».
Eppure è con il romanzo Neve, ambientato nella città di Kars sul confine orientale della Turchia ai piedi del Caucaso, che Pamuk nel microcosmo di una società ristretta, per di più isolata dalle abbondanti nevicate, ci svela idee, azioni ed emozioni degli attori che animano lo scontro islam-occidente, spaziando dalle azioni violente dei fondamentalisti, della polizia e delle frange comuniste allo sgomento dei poeti, di tante donne e dei veri credenti di Allah.
Il protagonista del romanzo è Ka, un poeta esule in Germania, che dopo tre giorni di viaggio raggiunge Kars per indagare sulla misteriosa vicenda di ragazze suicide, perché non è loro permesso di portare il velo all’università, ma anche per incontrare la bella Ipek di cui è sempre stato innamorato. Quattro anni dopo questo viaggio, che ha risvegliato in lui la creatività del poeta, Ka sarà assassinato in Germania da mani misteriose.
L’amico del poeta, lo scrittore Orhan (alias Pamuk), indaga ripercorrendo, aiutato da un diario, le vicende di Ka. Omicidi, faide, tradimenti (lo stesso Ka si rivelerà un traditore), dolore, tanto dolore, esaltazioni mistiche e ambizioni di potere accompagnano i protagonisti disperati di questa saga. Malgrado ciò, contemplando la neve, il poeta sente che «quei fiocchi suscitavano in lui un sentimento che gli ricordava la bellezza e la brevità della vita e gli faceva pensare che, malgrado le ostilità, gli uomini si somigliassero: l’universo e il tempo erano vasti, mentre il mondo dell’uomo era piccolo». •
Silvana Bottignole