Bambini disabili e comunità indigene andine
Llaqui causaimanta cushicui causaicama: in lingua quechua significa:
«Dalla sofferenza alla felicità». È il cammino sperimentato da alcuni bambini fisicamente o psicologicamente svantaggiati di varie comunità indigene della diocesi di Riobamba, in Ecuador. Grazie alla tenerezza e all’amorevole caparbietà di un missionario di lungo corso.
Il racconto di Gesù che predica nella sinagoga di Nazaret, secondo la versione che ce ne dà l’evangelista Matteo, illustra lo stupore manifestato dalla gente per lo stile del discorso del messia. La gente, infatti, rimaneva meravigliata e diceva: «Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli?… E si scandalizzavano per colpa sua» (Mt 13, 54.57).
Non è il contenuto dell’insegnamento di Gesù ciò che causa scandalo, bensì il modo e il metodo di insegnare, le opzioni e le intenzioni che lasciano intravedere il punto di partenza di un cammino nuovo. Sappiamo bene che il vangelo è una storia emergente, una «contro-storia» vissuta tra gli ultimi del mondo, in cui si scorge perfino la prospettiva di un avvenire inaudito «dove gli ultimi diventano i primi».
Partendo da questo presupposto e volendo testimoniare coerentemente la nostra fede cristiana abbiamo l’impegno di dar vita a eventi educativi che servano da premessa obbligata a futuri pedagogici impensati e inauditi.
Tale impegno ci sfida quando ci addentriamo nel difficile contesto delle persone disabili all’interno del mondo indigeno andino, contesto nel quale dobbiamo osare domande scomode. In altre parole, bisogna chiederci seriamente se dobbiamo accettare a braccia incrociate i vari fallimenti riguardo ai bambini disabili nel mondo culturale e sociale delle tradizioni indigene attuali. Cosa facciamo quando ci troviamo al cospetto di una persona, in modo particolare di un bambino «speciale» e portatore di difficoltà personali e comunitarie, lo abbandoniamo? Ci dichiariamo incapaci di soluzione? Il disabile è da considerarsi solamente come soggetto di terapie straordinarie o può entrare anche lui in una quotidianità educativa vissuta e alla portata degli altri bambini del suo clan, nella sua zona di residenza? Dobbiamo aspettare di raggiungere nuovi orizzonti attraverso percorsi idonei e già previsti o diventiamo artigiani di una pratica possibile oggi, qui, adesso?
Doppiamente svantaggiati
Nella mentalità culturale indigena conta colui che vale e che sa farsi valere. Chi, al contrario, ha bisogno di una mano, di un aiuto, di un appoggio che non sia vincolato a una scadenza da onorare non ha posto a sedere neanche nella compassione. Nel mondo indigeno un bambino disabile vale poco, per non dire nulla; anzi, è un prestito da rimborsare. Nessuno pensa che con il tempo possa rendere. Un tempo le famiglie se ne sbarazzavano immediatamente; poi, grazie all’evolversi sociale e all’incontro con il cristianesimo non l’hanno più fatto, ma il disagio nei confronti di un membro della comunità fisicamente o psicologicamente svantaggiato non è diminuito. Alla mamma un figlio disabile costa troppo, è una creatura alla quale bisogna dare il minimo indispensabile perché possa vivere, ma essendo un caso «extra-ordinario» è anche fonte di inevitabili spese extra… Questo incide molto sulla vita di tutti i giorni, visto tutto il tempo che si deve dedicare all’accompagnamento del bambino con disabilità, a discapito del lavoro e a detrimento dell’appoggio che si potrebbe offrire agli altri figli sani.
Nel contesto indigeno tradizionale le famiglie non possono neppure aspettarsi un grande aiuto dalle proprie autorità comunitarie. Un bimbo con handicap è un evento straordinario e ha bisogno di sostegni straordinari. In questi anni abbiamo cercato di portare avanti un lavoro di educazione dei dirigenti indigeni, orientato al rispetto per la persona, soprattutto per i bambini, spingendo affinché la comunità sentisse l’importanza di dare ai giovani sussidi e sostegni per la loro formazione. Ma il cammino è ancora lungo; nel mondo indigeno non esiste ancora uno spirito di gratuità: aiutano perché sono aiutati. L’idea di sacrificare qualche cosa di personale a titolo gratuito e a beneficio altrui non appartiene ancora a una cultura che fonda la propria etica della relazione sulla reciprocità e, quindi, sul do ut des: ti do se mi dai, oppure mi aspetto qualcosa da te in cambio di quanto ti ho dato. Al contrario, il gesto verso un bambino disabile è pura solidarietà, perché un bambino del genere non può darti nulla in cambio.
Con pazienza abbiamo insinuato l’idea che la situazione delle persone in difficoltà deve diventare una priorità dell’organizzazione e della progettazione comunitaria. La famiglia fa parte di una comunità, ne rappresenta la sua porzione più piccola; i suoi problemi e le sue priorità sono di interesse comune e non si limitano ai membri della famiglia stessa. Ne consegue che una buona progettazione comunitaria non deve pensare esclusivamente alla strada, all’acquedotto, ma puntare al benessere della gente inteso in un senso complessivo. Lo stesso discorso vale anche per gli anziani. Diventando vecchie e malate le persone iniziano a rimanere al margine della società e cominciano ad aver paura, paura, persino, che si dia loro qualcosa per andarsene da questo mondo il più in fretta possibile. Finché una persona serve, lavora e produce si guadagna il rispetto; quando invece la stessa persona non riesce più a contribuire alla vita della comunità diventa un peso, un valore passivo nel bilancio che deve essere limitato al massimo in attesa di venire eliminato del tutto. Chiaramente generalizzare non è possibile, ma nello stesso tempo bisogna riconoscere che questa mentalità è ancora viva. È una degenerazione del concetto di reciprocità che diventa un assoluto soffocante e schiavizzante.
Medicina «del cuore»
È dunque possibile che a tali sfide si possa rispondere con la tenerezza? La tenerezza non è solo una capacità affettiva, ma un trattamento che la pedagogia educativa deve cominciare a stimare e considerare come prezioso alleato. Diventare umani nelle relazioni reciproche e vincolanti per vari motivi di vicinanza e di mutuo riconoscimento è compito di tutti i giorni e di ogni giorno in particolare. Per questo parliamo di quotidianità educativa nella costruzione dell’elemento umano, cercando e avvicinandoci al più concreto, più conosciuto e più prossimo. Lì, di fronte alla persona reale e vicina, suggeriamo gli accorgimenti della sopravvivenza, come resistenza agli sconforti e come speranza di un modo di vivere nuovo, adatto a divenire parte ordinaria della vita.
Vogliamo educare esseri umani a diventare più umani e «meglio» umani, ben consapevoli che l’umanità in sé comporta una condizione non conclusa e incompiuta.
Nella cosmovisione andina l’armonia tra le creature è essenziale per la convivenza. Ognuno deve stare al proprio posto senza invasioni o abusi spaziali. Se uno, invece, non occupa il proprio posto per insufficienza o provvisorietà di qualsiasi genere bisogna aiutarlo ad arrivare ad assumere una posizione propria nel contesto comunitario.
Sorge allora incontrastato il diritto alla tenerezza: amorosa, sensibile, affettiva. La tenerezza è la qualità che rende possibile la convivenza umana rispettando la singolarità e la diversità di ognuno, che fa volgere lo sguardo e prestare attenzione verso il più debole, la persona svantaggiata che non ha una posizione definita e conclusa nell’armonia del cosmo.
Più che attribuzione, la tenerezza è un paradigma di convivenza che deve realizzarsi nel terreno familiare, sociale e comunitario, conquistando progressivamente il diritto ad esistere nei territori che, per varie ragioni, si sentono autorizzati ad escludere i differenti, i «non conclusi», coloro che non hanno posizione, come nel caso dei portatori di disabilità.
A Nazaret, Gesù si stupì della incredulità dei suoi compaesani. La sua pedagogia aveva indicato come realtà prioritarie momenti umani non conclusi: poveri, ciechi, prigionieri, sordomuti, ecc. che aspettavano attenzione e considerazione. Aveva anche lasciato capire che i loro affetti e le loro cosmovisioni senza tenerezza per la povera gente erano progetti lontani da Dio.
Sarà un messaggio valido anche per noi, oggi? Nel nostro mondo c’è la tenerezza? Nella chiesa, nelle nostre comunità religiose c’è la tenerezza? Domande scomode, ma che è urgente farsi. Nella lettera ai Romani (10, 10), San Paolo parla di: parola e cuore. Con la parola proclami e con il cuore credi. È difficile far entrare la tenerezza in un determinato contesto perché oltre alle parole bisogna saper mettere il cuore.
In questo oggi latinoamericano, così pieno di sfide e così scao di incoraggiamenti e speranze, irrompe una riflessione nuova e promettente che, senza permesso, avvicina e articola campi teorici e pratici nella pedagogia e nella scienza dell’educazione. Il progetto di Gesù conserva tutta la sua forza e la sua attualità.
In un mondo senza tenerezza abbiamo provato a porci la domanda: «La tenerezza fa bene o no? Anche a coloro che sembrano escluderla dalle loro relazioni interpersonali?». Quando si è iniziata la nostra attività con i bambini disabili delle nostre comunità indigene, si è agito su un piano di scommessa: «Scommettiamo che la tenerezza piace?». È piaciuta ed è stata la prima medicina, che ha letteralmente trasformato bambini rifiutati, marginalizzati, senza possibilità e che adesso si sentono stupendi. Solo poco tempo fa mi è giunta la notizia che due bambine della nostra comunità hanno partecipato alle paraolimpiadi, organizzate in Ecuador dall’esercito, e una di esse ha vinto una medaglia. La tenerezza ha fatto effetto, è entrata in piccole dosi, ma ora non se ne può più fare a meno. Ricordo la «battaglia delle scarpe», combattuta tempo fa: cosa non c’è voluto per inculcare l’importanza di usare scarpe in un ambiente come quello montano della provincia del Chimborazo in Ecuador, dove si vive a circa tremila metri d’altezza! Adesso tutti mettono le scarpe e non possono fae a meno. Quando si comincia ad usare una cosa e si fa esperienza della sua utilità, poi non se ne può più fare a meno! Se mettiamo tenerezza nelle nostre relazioni con i bambini, questa viene da loro assimilata con naturalezza e altrettanto spontaneamente trasmessa ad altri.
Sono solamente 5 anni che si lavora in questo campo, ma già si vedono piccoli risultati che confortano e fanno ben sperare per il futuro; bisogna assolutamente confidare nel tempo. In particolare lo si nota fra le ragazze del posto che abbiamo iniziato a formare come educatrici: che bello vedere con che tenerezza trattano questi bambini. Un’indigena che si preoccupa di un’altra indigena è un bel segno! Ragazzi che si preoccupano di altri indigeni che non appartengono direttamente alla loro comunità rappresentano un bel passo avanti, si creano delle trasformazioni che produrranno del bene non soltanto ai bambini più svantaggiati, ma alle famiglie e, attraverso di loro, a tutta la comunità.
Una goccia d’ acqua fresca nell’oceano della solitudine: questa è l’esperienza di Bucapne (Buscar casa para niños especiales), un progetto che si propone di cercare casa per bambini diversamente abili.
Il progetto è nato cinque anni fa, al rientro dalle mie vacanze in Italia. Avevo fresca nella memoria la triste visione di bambini emarginati da qualsiasi contesto sociale ed educativo perché indigeni e disabili. Nelle comunità indigene il «problema disabili» esiste, anche se molte volte in modo nascosto, ed è generalmente avvertito come una disgrazia. Nessuno però, si sente di dare a questa «disgrazia» una risposta concreta; chi, del resto, investirebbe con coscienza un solo dollaro su una scommessa già persa in partenza? In una cultura dove neanche una moglie merita sostegno economico quando si ammala e non può più essere fonte di guadagno, come ci si potrebbe aspettare di veder finanziate opere per bambini che sono e saranno sempre problemi costosi senza soluzione?
Nelle città esistono istituzioni adeguate all’assistenza di persone disabili, ma accettano soltanto i bambini le cui famiglie presentano determinati requisiti come una certa possibilità economica e la disponibilità di tempo per accompagnare e seguire la persona nel cammino di riabilitazione.
Quando ho deciso di occuparmi di questi bambini, ho cercato di fare una diagnosi della situazione reale. Era infatti importante avere un quadro generale dei possibili fruitori del programma. I miei collaboratori si sono messi all’opera e alla fine delle loro ricerche hanno presentato una lista di ben ottanta casi da prendere in considerazione. Davanti a tale numero ho deciso che se proprio dovevo pensare ad un’opera conclusiva della mia carriera missionaria, non poteva essere che quella.
Amici generosi mi hanno animato e concesso l’appoggio di cui avevo bisogno. Alcuni di essi dovranno andare in cielo a «furor di poveri» per l’incoraggiamento e la mano che hanno saputo darmi.
Comprai un pulmino perché la prima cosa da fare era accompagnare i bambini presso specialisti che ci aiutassero a selezionare bene i casi su cui intervenire. Il risultato di questo lavoro iniziale fu positivo: grazie ai primi interventi molti bambini migliorarono la vista, l’udito, il modo di parlare. Altri bambini vennero inseriti in vari centri educativi della zona. Rimasero quelli che avevano bisogno di trattamento speciale, i cosiddetti «formula 3A»: Amore, Attenzione e Alimentazione. Tra di essi vi erano bambini ciechi, denutriti, con gravi problemi motori, di espressione, epilettici, ecc. Tutte creature da «rifare» nei cinque sensi.
Oggi come oggi, anno 2008, posso dire che si sono conseguiti dei buoni risultati. L’azione continua, anche se essendo dovuto rientrare in Italia agisco a distanza e mi appoggio a preziosi collaboratori del posto che continuano a setacciare le comunità nella ricerca di casi non ancora individuati. Ora le mamme non si vergognano più nel portare sulla schiena i loro bambini disabili e si avvicinano al progetto (un tempo guardato con sospetto) con fiducia e speranza.
I punti positivi si sommano in titoli di «missione compiuta». Ecco i principali.
✔ Bambini che si pensava essere inguaribili sono stati invece ricuperati con successo.
✔ Bambini sono stati iscritti in scuole speciali per sordi, ciechi e down.
✔ Bambini con disabilità cronica e irrimediabile hanno trovato casa permanente in istituzioni governative specializzate.
✔ Una dozzina di bambini con gravi problemi di denutrizione sono stati ricuperati e avviati a frequentare centri educativi normali.
✔ Varie ragazze indigene hanno ricevuto una formazione specializzata, diretta a migliorare l’assistenza dei bambini affetti da disabilità fisica e mentale nelle comunità locali.
✔ Sono stati formati e abilitati anche alcuni animatori comunitari in grado di aiutare le famiglie che vivono il problema di un figlio disabile a conoscersi e a crescere in modo da creare intorno al bambino un ambiente sereno e idoneo alla crescita. Tali animatori si occupano anche di avviare relazioni con i dirigenti locali, così da creare un fronte comune e organizzare iniziative mirate e comuni in favore dei bambini svantaggiati.
Rimane il problema di finanziare un progetto che ha solo uscite economiche e nessuna entrata sicura. Il progetto dei bambini speciali è cominciato nel dicembre 2002. Da allora siamo diventati tutti evangelici perché, come dice il vangelo: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i sordi ascoltano; tutti ricevono molta tenerezza e molto amore e sono felici. Le entrate sicure non esistono. Di sicuro ci sono solo la Provvidenza e la tenerezza di Dio. Se il Signore vorrà continuare a servirsi del nostro ministero non ci farà mancare i mezzi economici necessari e sufficienti a dare a un bambino disabile un po’ di felicità.
Giuseppe Ramponi