Cari missionari

Missionario del cuore

Carissimi missionari,
ho 30 anni e da 7 conoscevo padre Alex Signorelli attraverso la corrispondenza. Sapevo che non stava bene, ma la sua morte mi addolora molto: ho perso il mio missionario del cuore, colui che sapeva far fruttare al meglio l’offerta che gli inviavo; sono rimasta orfana.
All’epoca del primo contatto epistolare volevo solo aiutare un missionario, ma attraverso lui ho conosciuto il mondo della Consolata e sono stata catapultata nelle vostre missioni: una finestra aperta su una parte del mondo che troppo spesso fingiamo non esista. Non ringrazierò mai abbastanza la Provvidenza per questo incontro, fortuito quanto fortunato.
Ma ora cosa debbo fare? Vorrei continuare a sostenere i suoi progetti in Kenya, ma voglio un nome:  quello di chi si occupa di quelle missioni oggi o, in alternativa il nome del missionario più disagiato e in difficoltà. Voglio un nome, una storia, un volto, perché sostenere le missioni non è solo inviare denaro; quasi che attraverso un’offerta si possa lavarci la coscienza, sentirci a posto. Non potremo mai sentirci con la coscienza a posto. Voglio partecipare a quella missione, conoscere le difficoltà, essere parte attiva anche e soprattutto con la preghiera.
Mi rendo conto che la vita mi ha dato molto, e non parlo di denaro; sarei la più grande egoista e ingrata se non condividessi con gli altri ciò che il Signore, generosamente, mi ha donato. Vi prego, quindi di segnalarmi quel nome. Anche se non potrà sostituire padre Alex, per me impresso nel cuore, sarò lieta di aiutarlo come e quanto più posso.
Patrizia De Angelis
via e-mail

Grazie per il suo affetto verso padre Alex e i missionari della Consolata. Ho inviato il suo messaggio al superiore del Kenya e spero che le sia stato comunicato il nome di un nuovo «missionario del cuore».  

Buona o mala… fede?

Spett. Redazione,
ho letto sul numero di dicembre 2007 l’intervista a don Capovilla e mi ha colpito la totale noncuranza verso i problemi dei bambini palestinesi: non una parola sul fatto che nelle scuole venga loro insegnato a combattere e siano indottrinati sul bello del farsi esplodere; non una parola sui miliardi destinati alla gente, ma che la vedova di Arafat si gode all’estero.
La semplificazione dei problemi è una bella cosa, ma tacere sugli attentati e guerre subite da Israele (che è sempre stato attaccato dagli arabi, mai viceversa) e sul fatto che la spianata delle moschee non sia uno dei tre luoghi sacri dell’islam, ma «semplicemente» la spianata del tempio, quindi sacro per tutti i «popoli del libro», ma da molti anni frequentabile solo dai musulmani, fa sospettare una mancanza di buona fede.
Mi risulta che il papa Giovanni Paolo ii sia potuto andare a pregare al Muro del pianto, ma non sulla spianata; sono stati i palestinesi a entrare in armi nelle chiese di Betlemme, non i soldati israeliani. Quindi sembra che non ci sia quell’enorme tolleranza verso i cristiani.
Mi sarei quindi aspettato un riassunto storico della situazione, o comunque un’altra voce, oltre alla pubblicità, neppure velata, dei libri dell’intervistato. Certa che la parzialità sia stata casuale e non finalizzata alla suddetta pubblicità, cordiali saluti.
Luisa Pellegrino
via e-mail

L’intervista in questione vuole solo far conoscere una iniziativa a sostegno degli arabo-cristiani ancora presenti in Israele-Palestina, ugualmente mal sopportati da ebrei e musulmani. Ad onor del vero, più di una persona ha telefonato in redazione per conoscere meglio tale iniziativa. Una risposta di don Capovilla sarà pubblicata su MC il prossimo mese.

La coca non è un affare… privato

Cari missionari,
vedo con piacere che il dottor Sandro Calvani continua a collaborare attivamente con la vostra redazione. Ho molta stima di quest’uomo: per me era già un personaggio speciale all’inizio degli anni ‘80, quando, invitato dai direttori dei centri missionari diocesani di Fano e Urbino, veniva a parlarci delle sue esperienze in Etiopia e far conoscere il mondo del  volontariato internazionale.
La scorsa estate l’ho rivisto, dopo tanto tempo, in televisione (Superquark Rai Uno 23/8/07) e spero che tante altre persone abbiano ascoltato il messaggio che, dalla martoriata Colombia, ha rivolto a tutti gli italiani: siamo il paese dove il consumo di cocaina sta aumentando più velocemente; tale consumo, oltre a devastare i cervelli e arrecare danni incalcolabili alla nostra salute ed economia (pensiamo a ciò che accade quando un cocainomane si mette alla guida di un automezzo…), sta portando la Colombia al collasso ecologico: per coltivare la coca, vengono spazzate via decine di migliaia di chilometri quadrati di foresta equatoriale e, per raffinarla, si usano sostanze chimiche che inquinano fiumi, laghi e falde con conseguenze irreparabili per tutto l’ecosistema.
Alla voce di Calvani si è unita quella di un capo indio: anche lui ha ribadito il concetto che chi si droga, in Europa e altri paesi cosiddetti sviluppati, contribuisce al degrado dell’Amazzonia colombiana, boliviana, peruviana, brasiliana e deve smetterla; deve smettere di pensare al consumo di stupefacenti come a un fatto privato!
Mi auguro che le parole di Calvani, del capo indio e di coloro che li hanno intervistati siano prese in attenta considerazione anche dai nostri legislatori, magistrati, avvocati, deputati e senatori, specie da quelli che si definiscono… verdi. Spero che il verde che sono impegnati a difendere sia quello delle foreste naturali, non quello delle piantagioni di coca. Difenderli tutti e due non è possibile: la storia raccontata della Colombia lo insegna.
Il discorso vale anche per i paesi asiatici produttori di marijuana e papavero da oppio (Afghanistan, Birmania, Laos, Thailandia) perché anche lì droga vuol dire deforestazione, perdita del patrimonio di biodiversità, degrado delle risorse idriche, dissesto del territorio… oltre che, manco a dirlo, allontanamento delle prospettive di riconciliazione e di pace. No, cari amici verdi, anticapitalisti e no global: non è possibile far coesistere antiproibizionismo e impegno ecologista, così come non è possibile conciliare il libero commercio degli armamenti con la pace.
No, cari amici della sinistra alternativa: non si può fare opposizione credibile ed efficace al neoliberismo se si rinuncia all’opzione fondamentale per la non violenza (che vuol dire, tra l’altro, no all’abortismo, agli atti di teppismo e vandalismo…), e all’opzione fondamentale per la sobrietà, che vuol dire anche no all’alcornol e no alla droga, pesante e leggera.
Sono d’accordo con voi quando criticate la Legge Biagi, il Pacchetto Treu e l’estealizzazione (ultimo elegante modo per non dire – o dire senza creare troppa apprensione – che anche chi ha un contratto a tempo indeterminato può ritrovarsi precario, sottoccupato, disoccupato…); lo sono anche quando invocate pene più severe per chi incendia i nostri boschi e uccide i nostri orsi, lupi, delfini, tartarughe; non lo sono invece quando dite che drogarsi non è un reato.
Ci sono tanti modi per provocare la morte dei boschi e del mare, uomini e animali. Dopo aver visto e sentito Calvani e il capo indio della Colombia, non vedo per quale motivo dovrei considerare la cocainomania meno grave – anche sotto il profilo delle ricadute ecologiche – della piromania e il consumatore di sostanze stupefacenti prodotte e magari anche raffinate in un paese asiatico, africano e latinoamericano, meno colpevole degli scellerati che a Peschici e a Patti (senza dimenticare gli incendi in Grecia, Spagna, Portogallo, Australia, Califoia…) hanno provato tanto lutto e tanta distruzione.
Grazie per l’attenzione.
Silvano Montenigri
Fano (PU)

OCCHIO A… FRUTTA E VERDURA

Spett.le Redazione,
sono meravigliato che una rivista come Missioni Consolata possa ospitare un articolo sugli antiparassitari, come quello pubblicato sul n. 9 di settembre 2007, senza sentire il dovere di pubblicare contemporaneamente un altro articolo in contrapposizione a quante ragioni ci sarebbero a smentita dei cata- strofisti di professione e da parte di esperti di notorietà nazionale e internazionale! Non si può spaventare la gente con un quadro così terrificante, come è evidenziato nell’articolo!
La frutta e la verdura fanno bene alla salute (lo dicono gli esperti, lo dicono tutti), e, grazie anche ad esse, l’età media della vita degli italiani è aumentata notevolmente; e questo vorrà dire pure qualcosa, con buona pace di chi, incredibilmente, voleva (e vuole) bandire la chimica dai campi.  Tra l’altro, frutta e verdura di produzione italiana sono considerate (e non sono io a dirlo) tra quelle più sicure in Europa. Certo, ci sono e ci saranno sempre dei casi di chi produce, colpevolmente, non secondo regole e coscienza. Ma questo è un altro discorso. Cordiali saluti.
Ottavio Molinaroli
San Giovanni Lupatoto (VR)

Gentile sig. Molinaroli,
è del tutto estraneo al nostro pensiero il concetto di bandire frutta e verdura della nostra tavola: esse apportano vitamine, oligoelementi e fibre, essenziali per la nostra salute; in questo senso, non possiamo che essere concordi con lei.
Pur nel rispetto della sua opinione, ci permettiamo di dissentire sulla sua difesa dell’uso della chimica in agricoltura, uso talvolta del tutto privo di controllo, correttezza e buon senso. La chimica ha sicuramente contribuito al progresso dell’uomo in molti settori, compreso quello farmaceutico. È innegabile l’aiuto dato da molti composti nell’eliminazione o limitazione di certe patologie, ma si tratta appunto di patologie, per le quali l’uso di un farmaco è mirato. Con la frutta e la verdura trattate con fitofarmaci, ci ritroviamo ad assumere inconsapevolmente delle sostanze chimiche presenti in tali alimenti e queste sostanze non solo non hanno lo scopo di preservare la nostra salute, ma molto spesso la possono danneggiare. Chi può garantire che tracce di pesticidi, una volta nel nostro organismo, non provochino patologie imprevedibili? Nessuno! Inoltre, perché rischiare di ammalarci con frutta e verdura trattate, solo per favorire gli interessi di certe multinazionali, nonché di agricoltori e commercianti senza scrupoli?
È da considerare, poi, che l’uso dei fitofarmaci in agricoltura non si è rivelato quella panacea per tutti i mali, che alcuni scienziati (spesso al soldo delle multinazionali dei pesticidi) ostentano nelle loro pubblicazioni. Basta dare uno sguardo ai risultati di certe ricerche, come quelle condotte per conto dell’Indian Council for Agricoltural Research, le quali sono giunte alla conclusione che in India, nonostante il massiccio impiego di pesticidi, attualmente il 35% del raccolto risulta danneggiato, mentre negli anni precedenti all’uso di tali sostanze, la percentuale di prodotti danneggiati oscillava tra il 5% e il 10%. Inoltre, a seguito dell’uso dei pesticidi, si sono moltiplicate le varietà di insetti nocivi; ad esempio, gli infestanti del riso sono passati da 40 specie nel 1920 a 299 nel 1992, grazie al fenomeno della resistenza ai prodotti chimici. E tutto questo, nonostante la produzione e l’impiego dei pesticidi siano continuati ad aumentare.
Ciò che auspichiamo è una maggiore informazione sul trattamento che i prodotti ortofrutticoli hanno subito, perché il cittadino ha il diritto di sapere cosa mette in tavola e, soprattutto, di tutelare la propria salute a partire da una scelta ragionata al momento dell’acquisto. In ogni caso, ci pare oltremodo discutibile anteporre alla salute delle persone gli interessi economici dei produttori e commercianti sia dei pesticidi che dei prodotti ortofrutticoli con essi trattati. Cordiali saluti.
Dr. Roberto Topino
Dr.ssa Rosanna Novara