La parabola del «figliorl prodigo» (15) La corsa dell’amore senza decoro
«(Gesù) cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatornio» (Gv 13, 5)
Abbiamo lasciato il figlio giovane nella decisione di partire verso casa. Siamo giunti a una svolta che crea una condizione nuova: ogni decisione di vita, anche se motivata insufficientemente, genera sempre un cambiamento che coinvolge chi la compie e quanti ne sono interessati. In tutta la prima parte della parabola il «padre» è nominato solo tre volte (v. 12), mentre nel resoconto del viaggio del figlio «senza salvezza» (v. 13) non è più nominato, anche se noi sappiamo che la sua presenza costante e fedele segue il figlio fino al punto da costringerlo a tornare a casa. Chiedendo la porzione di vita del padre (v. 12), il figlio non si accorge che volendo abbandonare tutto si porta dietro la vita del padre che non lo abbandona mai.
L’amore sa vedere da lontano
La partenza, anzi il ritorno al padre, coincide con la «risurrezione» del figlio e la ripresa della vita. Al v. 20a, infatti, dice il testo greco alla lettera: «Dopo essere risorto, partì». Non è una partenza qualsiasi, ma un andare verso quel padre da cui non vedeva l’ora di allontanarsi. L’aspirazione più grande del figlio era di allontanarsi dal padre, mentre ora la necessità di vivere impone di tornare al padre come condizione minima e vitale di sopravvivenza: anche se per vivere bisogna fare il servo. La forza che attrae il figlio che è più forte della morte, è la presenza del padre che anima e sostiene le deboli decisioni del figlio.
Non è ancora partito, non è giunto ancora all’orizzonte che il padre «sa già» che suo figlio sta arrivando. Nel v. 20b si esprimono in una intensità drammatica cinque azioni del padre, il solo che «ancora lontano» sa rinascere il figlio senza vederlo: vide, fu commosso nelle viscere, corse, si gettò sul collo e lo baciò. «Tutto» il padre è coinvolto in questo processo di ritorno: occhi, cuore, gambe, braccia e mani, bocca. È la descrizione dell’amore senza tornaconto e senza misura, che quando si realizza coinvolge anima e corpo, cuore e sentimenti.
L’amore sa vedere da lontano e anche per sperimentare la misericordia bisogna «vedere». La visione di Dio è l’aspirazione di ogni religione e fede. «Vogliamo vedere Gesù» dicono i greci a Filippo e Andrea (Gv 12,21); «Venite e vedete» risponde Gesù ai discepoli di Giovanni il Battezzante, i quali «andarono e videro» (Gv 1,39). Mosè arde dal desiderio di contemplare il volto di Dio: «Fammi vedere la tua Gloria» (Es 33,18) allo stesso modo del giovane innamorato che brama l’innamorata: «Fammi vedere il tuo viso» (Ct 2,14).
L’amore vede lontano
«Il padre lo vide». In questa espressione non c’è solo la vista di uno che arriva e appare subito familiare. No! C’è la dimensione interiore del padre, che aspettava da sempre il figlio: prima di vederlo con gli occhi, lo vide con il cuore; anzi, prima ancora che comparisse all’orizzonte, sentì nell’anima che quel figlio non era perduto, ma stava tornando. L’amore non ha distanze e non teme ostacoli.
Quando diciamo di amare Dio, ci accontentiamo di uno sguardo distratto, di un rapporto razionale, ma forse non sappiamo andare oltre le regole del buon senso. L’avverbio greco «makràn» (lontano, distante) misura l’abisso dell’amore del padre che è inversamente proporzionale alla distanza del figlio: più il figlio è distante, più invade l’animo del padre. Il padre è una potente calamita che attira il figlio anche da lontano e lo attrae al suo cuore. Il figlio non sa, non conosce la forza che lo spinge, ma ne è coinvolto e quando è all’orizzonte, prima ancora di vederlo, il padre ne percepisce la presenza e corre, corre, corre precipitandosi verso di lui perché il suo cuore «sa già» che è lui.
Nell’impatto dell’incontro nessuna parola, solo una convulsa gestualità di affetto. Padre e figlio comunicano con la fisicità dei loro corpi, perché quando l’amore esplode, nessuna parola del vocabolario è sufficiente a esprimee la pienezza e totalità. Resta solo il silenzio d’amore che parla attraverso i gesti del corpo. In questo senso la corporeità acquista una valenza fortemente spirituale, perché diventa l’anima visibile e palpabile.
Bisogna vedere non solo da lontano, ma bisogna anche sapere vedere lontano per cogliere i segni di una presenza che solo nella profondità e lungimiranza si può scrutare. Che fare con quel figlio dato per morto? Agli occhi del padre deve essere apparso come uno spettacolo miserevole, un uomo ridotto in schiavitù, un figlio mezzo morto e perduto, eppure quegli occhi sanno vedere oltre, contemplano la visione del figlio in quanto tale, indipendentemente dalla condizione in cui si trova. Un padre comune, potremmo dire un padre «ovvio», a questo punto per prima cosa avrebbe fatto una predica al figlio e lo avrebbe inchiodato in un senso di colpa da cui difficilmente si sarebbe salvato. Il padre della parabola al percepire il figlio ancora prima di vederlo, mentre era lontano, ritrova la vita. Certo, il figlio ha sperperato la sua vita in un paese lontano, ma ora torna e riporta solo le briciole di quella vita che ha disperso senza senso e senza salvezza. Il padre sa che deve ripartorire quel figlio, se vuole che rinasca di nuovo. Anche il figlio, ora, lo sa.
L’amore rimette in moto la vita
Dopo la «visione» il padre «fu commosso nelle viscere». Luca usa il verbo passivo greco «esplanchnìsthē» che traduce l’ebraico rahàm (da cui rèchem, utero, e il suo plurale rachamìm, uteri, viscere interiori). Da questo termine deriva anche ciò che noi esprimiamo con la parola misericordia. L’ebraico richiama l’utero materno (= rèchem) nell’atto di generare alla vita (cf Sal 51/50,3): il soccorso dato a qualcuno, l’aiuto donato è sempre un gesto generante.
La traduzione della Bibbia Cei, che rende con «commosso», non fa giustizia al testo che invece intende e descrive un amore viscerale, cioè senza ragione logica, un amore a perdere, che solo una madre e un padre sanno sperimentare: il riferimento al «grembo/utero» materno mette in evidenza che la misericordia di Dio, qui rappresentato dal «padre», non è una concessione benevola, ma un atto che genera e riporta alla vita. Quando si è afferrati dal perdono di Dio si scoppia di vita e questa zampilla di gioia. Ecco lo scandalo del Dio di Gesù Cristo: egli perdona perché vuole fare rinascere a vita nuova.
Il sapiente Siracide aveva criticato il padre le cui viscere si sconvolgono a ogni grido del figlio (cf Sir 30,7), mentre l’innamorata del Cantico si sente sconvolta nelle viscere, quando l’amante cerca di forzare la porta per entrare da lei (Ct 5,4) e infine il profeta Isaia afferma l’impossibilità per una madre di abbandonare il figlio a se stesso: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?» (Is 49,15). Geremia invece ci ricorda che Dio, nonostante l’infedeltà di Efraim, prova per lui un amore di tenerezza: «Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza» (Ger 31,20).
In tutti questi testi in ebraico si usa il verbo o il sostantivo «rachàm, rèchem» e il Siracide che è scritto solo in greco usa il sostantivo corrispondente «splànchina», restando quindi tutti nel contesto del significato fondamentale: un amore generativo senza calcolo e senza aspettative che Davide invoca dopo il duplice peccato di omicidio e di adulterio: «Sii grazioso, o Dio nella tua tenerezza, nell’abbondanza delle tue rachamìm (viscere matee) puliscimi dalle mie ribellioni» (Sal 51/50,3).
Un Dio recidivo
È interessante notare come lo stesso verbo nella stessa costruzione sintattica è usato da Luca altre due volte sole. Nella parabola del Samaritano (Lc 10,25-37) che mentre si trova in viaggio passa accanto a un suo acerrimo nemico, «lo vide e n’ebbe compassione». Il secondo verbo in greco è reso da «esplanchnìsthē» (Lc 10,33). Un nemico che sperimenta un amore viscerale, generativo è un atto rivoluzionario che incrina la logica dell’odio e vendetta.
Nel racconto della vedova di Naim, Gesù «è scosso nelle viscere» (Lc 7,13) di fronte a una donna senza marito che perde anche il figlio. Qui lo scuotimento interiore previene una catastrofe: una donna in quelle condizioni poteva diventare schiava, perché senza protezione, senza uomo. In tutti e tre i casi Lc descrive un ritorno alla vita, una rigenerazione delle persone coinvolte.
Il padre, secondo l’usanza del tempo, avrebbe dovuto attendere il figlio fermo, in piedi sulla soglia di casa, invece troviamo un uomo che corre disordinatamente, perdendo la sua dignità: «Correndo cadde sopra il collo di lui e lo baciò (teneramente)» (v. 20). Con nove parole (in greco) l’evangelista riesce a dipingere una scena drammatica e straordinaria: il padre che corre, inciampa nel figlio nella foga di toccarlo, lo investe quasi a volerlo riportare dentro le sue viscere patee, lo bacia senza ritegno e senza fine. È un modo simbolico per esprimere il desiderio di «mangiarselo» per riportarlo dentro il suo cuore reintegrando la sua condizione di figlio rigenerato.
L’irruenza del padre che irrompe nella vita del figlio della parabola lucana, è espresso dall’autore con una co-struzione orecchiabile (tecnicamente si dice «onomatopèica, fare lo stesso nome-suono»): epèpesen epì tòn tràchēlon. Il verbo epèpesen (cadde) è costruito ripetendo due volte la preposizione «epì-», che in italiano significa «sopra» e non è assolutamente possibile rendere con tutta l’intensità del greco: «Cadde sopra, (proprio) sopra il collo di lui».
Perdere la dignità per restituire l’onore
L’accenno esplicito alla «corsa del padre» è significativa: secondo il costume del tempo (sia in Oriente che in Grecia, a Roma), l’uomo che «corre» compie un gesto ignobile, contrario alla sua dignità di uomo e di «capo» con una autorità legale e sociale. Avere fretta significa non rispettare il tempo necessario a ogni cosa e l’uomo che corre ha fretta e con ciò dimostra di essere ineducato e inferiore. L’uomo maturo, nobile non ha mai fretta perché tutto deve compiersi con onore e dignità. È terribilmente disdicevole che un padre corra verso suo figlio. Il padre sa tutto questo e, nonostante tutto, «corre»: preoccupato di restituire la dignità al figlio, non esita a perdere la sua. Il padre non tiene in alcun conto la sua dignità e decoro. È un elemento ulteriore della natura del padre come immagine del «Padre» dei cieli: davanti al recupero, nessun galateo o convenzione può bloccare la gioia incontenibile, che suscita atteggiamenti e comportamenti che all’esterno possono apparire anche come disdicevoli e non consoni alla dignità di chi li compie.
Un parallelo al femminile di questo comportamento si trova nel libro di Tobia dove l’autore usa le stesse parole. Tobia è di ritorno con l’angelo, portando il fiele di pesce per curare la cecità del padre. Egli è un figlio che lascia il padre per andare a cercare lontano una cura che lo guarisca. La madre di Tobia, Anna, sta seduta sulla soglia di casa a scrutare la strada da cui era partito il figlio. Ella ha la percezione di vedere il figlio e dopo averlo detto al padre Tobi, così continua il testo greco: «Anna corse avanti e si gettò sul collo del figlio» (Tb 11,5-13, qui v. 9). In greco vi è una corrispondenza straordinaria: sia il padre del figlio della parabola che la madre di Tobia non temono di perdere la faccia pur di andare incontro ai rispettivi figli che tornano salvi: il primo dopo avere ucciso il padre torna con un residuo di vita che vuole consumare nella servitù; il secondo per amore del padre che vuole guarire dalla sua cecità con l’aiuto di Dio.
Il bacio: sacramento del perdono
«Lo baciò». Baciare qualcuno non significa solo vicinanza e affinità, ma anche perdono. Il bacio è il segno del perdono totale, perché è un gesto d’amore totale. Insegna la psicologia che il bacio per sua natura tende al morso, perché esprime il desiderio di comunione assoluta: mangiare l’altro per fae la parte interiore più profonda di sé. È l’atteggiamento della mamma che colmando di baci il proprio bambino dice «ti mangio, ti mangio». Chi bacia esprime, chiede e offre intimità, comunione, condivisione, totalità.
Nella bibbia si hanno alcuni esempi di questa dinamica affettiva: «Cadere sul collo e baciare». Nel racconto dell’incontro tra Giacobbe ed Esaù, questi ha tutte le ragioni ambientali per odiare suo fratello che lo aveva scippato della primogenitura; invece «gli corse incontro, lo abbracciò, cadde sul collo di lui, lo baciò e piansero» (Gen 33,4). Anche Giuseppe, quando incontra il vecchio padre Giacobbe, «si gettò sulla faccia di suo padre, pianse su di lui e lo baciò» (Gen 50,1).
Anche Giuda «baciò» il suo maestro, ma solo per indicarlo come bersaglio dell’aggressione umana e ferocia assetata di morte (Mc 14,45). Lo stesso gesto può essere simbolo e sigillo di amore totale, ma anche di tradimento senza scampo. Il bacio del padre però non è disgiunto dal fatto che «cadde sul collo di lui», quasi a dire che intende raccoglierlo nel suo grembo e goderselo come figlio partorito per la seconda volta. L’azione del cadere indica che il padre lo copre con tutta la sua persona, facendo da scudo alla fragilità del figlio e rincuorandolo con i baci del cuore espressi dai baci della bocca.
Il figlio non fa in tempo a dire il suo pentimento che già si trova «baciato» dal padre, cioè perdonato: egli è perdonato prima ancora di chiedere perdono. Sta qui l’annuncio della parabola lucana, che ancora oggi facciamo fatica a capire, per cui non riusciamo nemmeno a incontrare Dio, perché ci incaponiamo di volergli attribuire modi umani di comportamento: il perdono del figlio, dato prima ancora che lo chieda, è la logica di Dio, è la rivoluzione delle religioni di ogni tempo, che si basano su una certa reciprocità. Qui non c’è alcuna reciprocità, perché chi ama non aspetta di ricevere in cambio qualcosa, non mercanteggia e non ha dignità da salvaguardare. Chi ama perde se stesso, perché vive per l’altro senza calcoli e interesse, ma con il solo obiettivo di essere strumento di nascita per la persona amata.
Paolo Farinella