Paese geograficamente e culturalmente in bilico tra Europia e Asia
Una lunga successione di imperi, invasioni, guerre e massacri, ex repubblica sovietica, indipendente dal 1991, la Georgia è pervasa da forti tensioni intee (tra i vari gruppi etnici) e a livello internazionale (distacco dall’influenza russa e legami con gli Stati Uniti). Il vento del patriottismo si riflette anche
a livello religioso: la piccola comunità cattolica rivendica le proprie chiese, usurpate dalla maggioranza ortodossa, unica chiesa riconosciuta ufficialmente dallo stato.
I n nessuna delle repubbliche ex-sovietiche da me visitate ho mai avuto problemi a orientarmi, sia nelle città che nei villaggi, grazie alla mia conoscenza del russo. In Georgia, invece, la prima volta nel metrò di Tbilisi sono rimasta interdetta: tutte le indicazioni erano nel ricciuto alfabeto georgiano. Non c’era traccia né di cirillico né di latino. Come capire in che direzione andare, a quale fermata scendere?
Era dal mio ultimo viaggio nel nord della Cina che non provavo quella sgradevole sensazione d’isolamento; eppure la Georgia è molto più vicina a noi, in tutti i sensi: è quasi Europa, o perlomeno aspira a diventarlo.
La sera, dopo aver assistito a uno spettacolo di balli nazionali georgiani, a vedere la gente che si accalcava all’uscita, sulle prime mi ero chiesta cosa ci facessero tanti italiani in quel luogo. Poi avevo sorriso della mia ingenuità: non mi ero ancora abituata alla straordinaria somiglianza di tratti tra i nostri due popoli; e mentre camminavo per le vie di Tbilisi, tutti si ostinavano a volermi parlare in georgiano. Di tale somiglianza ero cosciente dai lontani tempi degli studi a Mosca, dove venivo sistematicamente scambiata per una «gruzinka».
Raramente in un paese ho respirato un’aria tanto patriottica. I balli folcloristici appena visti, eseguiti con maestria e virtuosismo eccezionali, erano tutti un’esaltazione dello spirito nazionale georgiano; giornali e televisione inneggiavano alle qualità delle tradizioni, carattere, prodotti georgiani; nelle parole della gente risuona spesso l’orgoglio per il proprio passato eroico, le virtù guerriere, i martiri per la fede cristiana, abbracciata da questo popolo fin dal iv secolo.
«La Georgia è la nuova terra promessa. Vedrà, la rinascita del cristianesimo partirà da qui!» mi diceva una donna incontrata mentre salivo alla gigantesca cattedrale della Santa Trinità, finita di costruire nel 2004 su una collina che domina la capitale.
UNA TERRA TORMENTATA
Il Caucaso è una cerniera tra Asia ed Europa; è terra di montagne, ma anche di fertili piane e passi, attraverso cui dall’antichità sono passati popoli ed eserciti. La Georgia si distende tra le due catene del Grande e del Piccolo Caucaso, di qui occupa la parte centro occidentale.
Per buona parte montagnosa, ha al suo centro i due bacini idrici del Rioni, che corre a occidente verso il Mar Nero, e del Kura, molto più lungo, che forma la depressione transcaucasica e degrada a oriente verso il lontano Caspio. Il loro basso spartiacque divide le due antiche regioni della Colchide e dell’Iberia.
Il Caucaso costituisce un confine naturale sia per la pianura russa a nord, sia per gli altipiani iranico, a sud, e anatolico, a est: è il punto in cui sono venuti a cozzare i grandi imperi che li hanno di volta in volta dominati.
È lungo l’elenco delle potenze che si sono contese questo lembo di terra, rendendo la vita assai difficile ai popoli che lo abitavano: medi, persiani, sciti, cimmeri, parti, romani, sasanidi, bizantini, arabi, selgiuchidi, mongoli, ottomani, e, da ultimi, i russi, cui è riuscito di riunire in un unico stato cristiano le terre georgiane, dalla metà del xv secolo divise in piccoli regni soggetti ai persiani o ai turchi.
Furono i sovietici a tracciare i confini dell’attuale repubblica di Georgia. Al suo interno i georgiani costituiscono la stragrande maggioranza, più del 70%; il rimanente 30% è costituito da altre etnie: abkhazi, osseti, armeni, russi, azeri, greci.
Dal momento in cui è entrata in crisi la compagine sopranazionale dell’Urss, la presenza di queste minoranze, esigue ma territorialmente concentrate, ha reso assai tormentata la vita della repubblica. Dal 1990 essa ha vissuto due guerre civili, le cui conseguenze perdurano tutt’oggi: tra georgiani e osseti nel 1990-92, tra georgiani e abkhazi nel 1992-93. Se gli ultimi avvenimenti lasciano sperare in una distensione nei rapporti con l’Ossezia, la possibilità di ricomporre la frattura con l’Abkhazia rimane assai remota.
Altre due regioni inquiete sono l’Agiaria, abitata da georgiani etnici, ma di fede musulmana, e il Giavakheti, a maggioranza armena. Una ex-minoranza è quella dei turchi meskheti, deportati in massa in Asia Centrale da Stalin durante il secondo conflitto mondiale: fino a poco tempo fa, il governo georgiano ha negato il permesso di ritornare, ma ora stanno rientrando alla spicciolata.
Problemi non da poco per un paese che è meno di un quarto dell’Italia.
OCCUPAZIONE SOVIETICA
I georgiani hanno sempre manifestato un forte senso d’identità. Nel 1978, ancora in pieno totalitarismo sovietico, estese manifestazioni popolari costrinsero Mosca a modificare la nuova costituzione repubblicana, che stabiliva il russo come lingua di stato, e a riconfermare la priorità del georgiano. Essi furono tra i primi e più convinti sostenitori della secessione dall’Urss. Con l’indipendenza e l’erompere dei nazionalismi uguali e contrari di abkhazi e osseti, il patriottismo dei georgiani si è ulteriormente acuito. A fae le spese è stato anche il vicino russo, cui viene attribuita la causa di tutti i mali che affliggono la repubblica.
«I russi, che brutta razza» sono le prime parole udite sul loro conto al mio arrivo in Georgia, durante uno degli ormai ricorrenti conflitti tra i governi dei due paesi. Tbilisi da anni accusa Mosca, e non senza fondamento, di sostenere il separatismo abkhazo e osseto; Mosca accusa Tbilisi di dare rifugio ai guerriglieri ceceni. Quella volta sembrava che dovesse finire peggio del solito e l’esercito georgiano aveva già avuto l’ordine di mobilitazione.
L’occupazione sovietica è sempre stata mal digerita dai georgiani. Subito dopo la rivoluzione del 1917 la Georgia si era resa indipendente e solo nel febbraio del 1921 fu riconquistata dall’armata rossa e costretta ad aderire all’Urss. In seguito, tuttavia, i georgiani diedero un considerevole contributo al regime sovietico, i cui crimini non si possono imputare ai soli russi. Georgiani erano Stalin e Berija, dal 1942 capo dell’Nkvd e della polizia politica: la Georgia non può certo chiamarsene fuori.
Ai tempi dell’Urss la repubblica godeva di un tenore di vita alto rispetto ad altre parti dell’Unione, crollato rapidamente dopo l’indipendenza con la chiusura delle fabbriche e lo scatenarsi dei conflitti sopra accennati. Eppure, a differenza di altre repubbliche ex sovietiche, qui non ho sentito nessuno lamentarsi che, almeno dal lato economico, si stava meglio prima.
Patriottismo… indolenTE
L’amor di patria non è certo un cattivo sentimento; ma, allora, perché tutte quelle braccia giovani e forti pendono inerti dalle spalle, perché tutti quegli uomini seduti ai bar o appoggiati al muro di una casa? Perché le buche nelle strade non vengono colmate, i campi rimangono incolti, gli edifici cadono a pezzi senza che nessuno li ripari?
Appena si lascia la Georgia e si entra in Turchia, attraverso il remoto posto di frontiera tra le montagne del Samtskhe, sembra di essere catapultati in Svizzera, tanto è stupefacente il contrasto tra le due parti del confine. D’improvviso l’auto prende a scivolare su un asfalto lucente, ovunque si vedono i segni del lavoro dell’uomo nei campi ordinati, nelle case, nei paesi.
Qualche ora prima, in territorio georgiano, la nostra jeep arrancava su una strada tutta buche, con un pallido ricordo dell’antico fondo asfaltato; si attraversava paesi decrepiti e campi incolti. Nella cittadina di Vale, il maggiore centro urbano prima della frontiera, il luogo più animato era la fontana, dove la gente veniva di continuo ad attingere acqua, che le tubature rotte ormai non portano più nelle case. Seduti sulle panche sistemate lì accanto o appoggiati agli alberi della via, c’erano diversi giovani in attesa, di che cosa? Forse, di un autobus che non passa mai. Di scene simili in Georgia se ne possono osservare a ogni passo, nelle città come nei villaggi.
Il conte polacco Jan Potocki, che viaggiò nel 1797 da Mosca al Caucaso, così scriveva nel suo diario: «Ho attraversato ancora un villaggio cosacco e sebbene non fosse più giorno festivo, ma feriale, non ho visto nessuno che si occupasse di alcuna opera e il far niente mi sembra in gran favore presso questo popolo». Almeno sotto quest’aspetto russi e georgiani sono fratelli. Anche a chi viaggia in terra georgiana viene da pensare che la cultura del lavoro non vi sia molto sviluppata, se non altro nella sua parte maschile, perché le donne sembrano avere un ruolo più attivo nell’economia.
Non se ne può dare tutta la colpa al periodo sovietico, che ha inibito la libera iniziativa, o alla mancanza di lavoro, che ha spinto i più intraprendenti ad andarlo a cercare in altri paesi, soprattutto in Russia. Padre Carlo, della missione stimmatina di Kutaisi, così spiega l’indolenza degli uomini: «Nel passato il loro compito era difendere la famiglia e la terra dagli aggressori, la casa non interessava perché poteva andare distrutta. Anche oggi l’uomo presidia il territorio, lo tiene sotto controllo, ed è pronto a prendere le armi in qualsiasi momento per difenderlo. Partirebbero tutti quanti alla riconquista dell’Abkhazia, che considerano terra loro, se il governo non lo impedisse».
È vero, i georgiani erano famosi e apprezzati per le loro doti guerresche, sviluppate in secoli di lotte contro invasori e razziatori d’ogni sorta. Nel xiii secolo i mongoli li utilizzarono addirittura nelle campagne contro Baghdad e l’Egitto, con ottimi risultati. Oggi, però, l’abilità nel guerreggiare purtroppo non è sufficiente a fare andare avanti il paese.
TRA RUSSIA E OCCIDENTE
La Georgia era il frutteto dell’Urss. Le condizioni climatiche vi permettono la coltivazione di una gran varietà di colture, non solo frutticole. Nella piana del Rioni, che ha un microclima subtropicale, crescono grano, riso, tabacco, cotone, tè; la Kakhetia, a ovest, è il regno della vite. Sono scarse, invece, le risorse del sottosuolo, se si esclude il manganese. Per questo, mentre l’industria vi era relativamente poco sviluppata, sulle tavole di tutta l’Urss si gustavano i prodotti della terra georgiana: vino, acque minerali, agrumi, tè.
Il fatto d’avere la sua maggiore ricchezza nell’agricoltura è stata una fortuna per il paese. Con la fine dell’Urss, mentre molte fabbriche, qui come in altre repubbliche ex sovietiche, erano costrette a chiudere per l’interrompersi di un ciclo economico atto a funzionare solo all’interno del gran corpo dell’Unione, la Russia ha continuato a consumare i prodotti georgiani, di cui è rimasta il maggior importatore. Ora, però, la politica apertamente russofoba del nuovo governo ha compromesso rapporti commerciali consolidati, causando ingenti perdite al settore agricolo.
Questo nuovo corso si è inaugurato all’inizio del 2004 con l’elezione alla presidenza di Mikhail Saakashvili, un giovane avvocato di 35 anni. Egli ha fatto una scelta decisamente filo-occidentale, rivolta in primo luogo agli Stati Uniti. Non ha, però, abbandonato gli slogan nazionalisti. Oltre a guardare a ovest, oltre alla lotta alla corruzione, il suo Movimento nazionale ha come obiettivo quello di ripristinare il controllo centrale sulle regioni secessioniste. Un programma ampiamente condiviso, se gli ha permesso di conquistare il 97% dei voti.
Questo governo dei «ragazzini» – come qualche georgiano lo definisce con condiscendenza, riferendosi alla squadra di trentenni e quarantenni di cui il presidente si è circondato – qualche risultato l’ha ottenuto. Tbilisi è riuscita a spodestare dall’Agiaria il governatore Aslan Abashidze, che dagli anni ‘90 l’aveva retta come un feudo personale, e sta ora cercando di riprendersi l’Ossezia con una politica di divide et impera e di allettamenti economici.
Anche la lotta alla corruzione ha dato qualche esito, per lo meno tra le forze dell’ordine. Da un giorno all’altro sono stati licenziati tutti i poliziotti. «Per tre mesi non se ne è visto uno in giro – ricorda padre Carlo -; poi, al posto dei vecchi agenti, tronfi e panciuti, ne sono comparsi di nuovi: tutti in perfetta tenuta, magri, puliti, rasati, educati e, soprattutto, che non chiedono soldi. Bisogna dire che adesso la polizia funziona».
Dopo l’arrivo al potere di Saakashvili gli aiuti occidentali sono più che raddoppiati: si calcola che, in rapporto alla popolazione, la Georgia sia la maggiore beneficiaria delle elargizioni americane, dopo Israele. Il presidente, e con lui la maggioranza dei georgiani, ha scelto di stare con l’Occidente, ignorando i russi. Ma, a meno che il paese non intenda vivere di sussidi, permane un ragionevole dubbio su quanto tale scelta sia compatibile con i suoi reali interessi.
Dal punto di vista economico la Georgia interessa all’Occidente soprattutto come terra di passaggio del gas e petrolio del Caspio. È in questo settore che si concentrano gli investimenti esteri. Ma quella legata agli idrocarburi è ricchezza volatile, che dura tanto quanto dura il greggio e che tende a finire nelle mani di pochi.
Lo sbocco naturale per l’economia georgiana rimane la Russia, e non solo come mercato di beni, ma anche di forza lavoro. Le rimesse di coloro che vi lavorano costituiscono da sole il 5% del bilancio della repubblica.
In ogni caso, a dispetto di sussidi e investimenti la Georgia continua a vivere in povertà. Ciò è evidente perfino nella capitale Tbilisi, dove non sembra che molto sia stato fatto dai tempi sovietici. Negli ultimi anni alcuni edifici sono stati ristrutturati, altri sono stati costruiti, qualche cantiere è aperto. In centro sono state rimesse a posto un paio di vie pedonali, dove hanno aperto ristoranti, caffè e negozi alla moda; ma appena ci si allontana di pochi metri ci si trova tra case semidiroccate, balconi sbilenchi, muri pericolanti, cortili ingombri di macerie. È un peccato. Delle tre capitali caucasiche Tbilisi è di gran lunga la più interessante.
PRIMO STATO CRISTIANO
Forse gli edifici che hanno maggiormente beneficiato della fine dell’Urss sono quelli religiosi. Sono tante le chiese a Tbilisi e in tutta la Georgia scampate alla furia del bolscevismo e in questi anni ritornate in possesso del Patriarcato; molte di esse sono state restaurate. Abituata alle pareti spoglie, severe delle chiese in Armenia, l’altro paese cristiano del Caucaso, che nell’architettura sono molto simili a quelle georgiane, la prima volta che sono entrata in una chiesa di Tbilisi sono rimasta a bocca aperta: le pareti erano coperte da affreschi in cui predominavano le tinte allegre e luminose, l’azzurro negli sfondi, il rosso, il giallo e il bianco nelle figure. Le figure erano disegnate con tratti ingenui, occhi grandi, facce buffe e buone. Una vera gioia per gli occhi.
In Georgia le chiese raramente sono vuote; in qualsiasi giorno e a qualsiasi ora c’è sempre un via vai di fedeli che si fermano a pregare davanti a un’icona, mettono una candelina ed escono segnandosi devotamente. Anche per la via o durante un viaggio, molti nel passare accanto a una chiesa si segnano con larghi gesti.
La conversione della Georgia al cristianesimo avvenne intorno al 330. La tradizione la fa risalire al battesimo del re d’Iberia Mirian a opera di santa Nino, una giovane prigioniera della Cappadocia. Da allora il cristianesimo fu accettato come religione di stato e formò l’identità nazionale dei georgiani, contraddistinguendoli dagli altri popoli della regione, dove, col passare dei secoli, la presenza dell’islam si andava facendo sempre più soverchiante.
La Georgia ha una lunga lista di martiri per la fede cristiana. Si ricordano anche episodi di martirio collettivo, come quello dei 100 mila abitanti di Tbilisi, uomini, donne, bambini, che nel 1227, durante l’invasione del turco Jelal ad-din, si rifiutarono di calpestare le icone della Vergine e del Salvatore e furono decapitati. Stessa sorte toccò nel 1616 a 6 mila monaci del monastero di Davit Garegia ad opera dei soldati dello scià di Persia Abbas I.
Il sentimento religioso ha raggiunto in Georgia espressioni altissime soprattutto in architettura e lavorazione dei metalli. Dopo secoli di invasioni e saccheggi, è ancora molto grande la quantità di opere d’arte sacra che oggi possiamo ammirare. Basterebbe una visita al Tesoro, custodito all’interno del Museo dell’arte di Tbilisi, dove sono esposti alcuni dei capolavori dei maestri orafi: oggetti liturgici, icone, croci di grande valore artistico testimoni della storia del cristianesimo georgiano.
La Georgia è stata nei secoli un raro esempio di tolleranza religiosa, vi hanno vissuto insieme ortodossi e musulmani, ebrei e cattolici. Queste comunità, tutt’ora presenti nel paese, hanno una lunga tradizione di convivenza pacifica e hanno tutte ugualmente sofferto durante i 70 anni di regime sovietico. Ma negli anni ‘90, con l’indipendenza, il vento del nazionalismo ha cominciato a soffiare anche in campo religioso.
CATTOLICI DIMEZZATI
Kutaisi, al centro della fertile piana del Rioni, è la seconda città della Georgia. Qui si sente la vicinanza del mare, il caldo è umido e la vegetazione lussureggiante. Un tempo capitale del regno d’Imereti, sede di alcune delle vestigia più care al cuore dei georgiani, oggi la città dà un’impressione di sordida miseria. Nel periodo sovietico era un importante centro industriale, ma ora le fabbriche sono chiuse e il lavoro manca.
Mia destinazione a Kutaisi era il Centro cattolico, tenuto da tre padri stimmatini e tre suore della congregazione delle Piccole figlie di san Giuseppe. Il Centro ha sede nel quartiere ebraico, in una palazzina ristrutturata da padre Gabriele, il primo ad arrivare in Georgia. Al piano terra è stata allestita una cappella, unico luogo di preghiera per la comunità locale, perché la chiesa cattolica è stata presa dagli ortodossi e da anni se ne chiede inutilmente la restituzione.
Ad accogliermi ho trovato padre Carlo, suor Annamaria e suor Josephina. A cena, naturalmente, si è parlato della situazione in Georgia. Mi era rimasta impressa una frase detta quella mattina da padre Rolandas, della nunziatura, dopo la messa celebrata nella chiesa dei santi Pietro e Paolo a Tbilisi: «La chiesa cattolica non ha status ufficiale nel paese. Non è mai stata riconosciuta dal governo e funziona solo come associazione privata». La cosa mi era sembrata strana, perché perfino in Russia, dove notoriamente i rapporti tra Patriarcato e Santa Sede non sono facili, la chiesa cattolica è ufficialmente riconosciuta. Ero convinta di avere inteso male.
«Proprio così – mi diceva padre Carlo -. Però siamo in buona compagnia. Qui di ufficiale c’è solo la chiesa ortodossa, nessuna delle altre comunità religiose è riconosciuta. Per motivi nazionalistici. Eppure gli ebrei, per esempio, non sono arrivati ieri: nel 2000 a Kutaisi hanno celebrato i 2.500 anni di permanenza».
I padri stimmatini sono qui da 14 anni. «Siamo arrivati nel 1994, perché i cattolici di Kutaisi, attraverso la nunziatura aperta nel 1992, avevano chiesto di avere dei preti – ha spiegato padre Carlo -. L’ultimo prete cattolico era morto nel 1943. Gli italiani sono più bene accetti dei polacchi, che tradizionalmente servono i territori della Russia e dell’ex Urss. Italiano è stato anche il primo rettore del seminario di Tbilisi. Ai tempi dell’Urss c’erano, tra georgiani e armeni circa 50 mila cattolici, ma dagli anni ‘90 in poi questo numero si è dimezzato».
Era un’altra notizia di cui facevo fatica a capacitarmi: come è possibile che il numero dei cattolici si sia dimezzato, rispetto al periodo sovietico, quando non c’era libertà di culto, le chiese quasi tutte chiuse e senza preti, mentre adesso si può liberamente professare la propria fede? «La faccenda non è semplice. Domani vai a trovare padre Gabriele a Batumi: è lui la persona più indicata a spiegartela» mi disse suor Annamaria.
Dopo cena, insieme a suor Annamaria, ho dato un’occhiata a una delle sinagoghe di Kutaisi, a pochi passi dalla casa dei missionari. Il prospiciente giardinetto, risistemato in occasione del 2.500° anniversario della comunità, mostrava già segni di degrado. Poco lontano s’intravedeva la grande mole dell’ormai ex-chiesa cattolica, proprio di fronte al promontorio dove spiccano le rovine dell’antica cattedrale di Bagrat, lasciate a memoria della furia turca che la distrusse nel 1692.
Al mattino siamo partite presto, io per Batumi, suor Annamaria e suor Josephina per la regione impervia a sud della Georgia dove vivono alcune comunità di cattolici armeni. Meno male che guidavano una solida jeep perché, come ho già detto, le strade georgiane mettono a dura prova ruote e sospensioni. «I preti cattolici georgiani sono solo due, quindi dobbiamo trottare parecchio per raggiungere tutti coloro che hanno bisogno di noi» mi spiegavano le suore.
A Batumi ho trovato padre Gabriele nella sua «nave», così padre Carlo mi aveva descritto l’architettura della nuova chiesa cattolica, costruita nel 2000, al posto della cattedrale in centro città, passata ora agli ortodossi. Il paragone è tanto più appropriato in quanto la chiesa si trova proprio di fronte al porto. Padre Gabriele non poteva fermarsi molto a lungo, ma mi ha concesso tutto il tempo necessario per rispondere alle mie domande. È stata una conversazione cordiale, ma che ha lasciato l’amaro in bocca (vedi riquadro).
La giornata termina con la visita alla nuova chiesa, anch’essa, come la cappellina di Kutaisi, progettata da padre Gabriele. Sebbene molto più piccola della vecchia cattedrale cattolica, è pur sempre spaziosa, atta a ospitare una discreta assemblea di fedeli, che però, se trovassero conferma le parole del vescovo di Batumi, presto potrebbe non esserci più.
Di Bianca Maria Balestra
L’ECUMENISMO CHE NON C’È
Padre Gabriele mi aveva ritagliato uno spazio fra i suoi tanti impegni. Il tempo era poco e tante erano le cose che avrei voluto chiarire, così ci siamo messi subito al lavoro.
Se la chiesa di Roma non è riconosciuta, come si spiega la visita di Giovanni Paolo ii nel novembre 1999?
«Il papa è venuto come capo di stato e come personaggio storico che ha contribuito alla fine dell’Urss. È stato invitato dall’allora presidente Shevaadze; il patriarca non ha potuto opporsi, l’ha accolto a denti stretti. Però la chiesa ortodossa ha chiesto che la messa non si facesse in piazza, così si è celebrata allo stadio. Nel frattempo alla televisione veniva detto che chi vi avesse partecipato sarebbe stato scomunicato».
Come mai tanta acrimonia verso i cattolici? Forse per ragioni storiche?
«Niente affatto. I georgiani hanno sempre avuto rapporti con la chiesa di Roma. La Georgia è rimasta lontana dalle vicende legate allo scisma, non ci sono rotture ufficiali con Roma. Domenicani e francescani sono arrivati su invito dei re locali, qui avevamo scuole, chiese e monasteri. Nel tempo ci sono stati diversi scambi di lettere tra i re georgiani, il Patriarcato e la Santa Sede. Tra le nostre chiese c’è una storia di bellissimi rapporti fratei. Quando, ad esempio, nel 1918 fu ricostituito il Patriarcato, che era stato sostituito da un sinodo dopo l’arrivo dei russi alla fine del xviii secolo, la prima chiesa a congratularsi fu quella di Roma. Fino a 20 anni fa i cattolici che venivano in Georgia partecipavano alla messa e venivano ammessi alla comunione; ciò valeva anche per le delegazioni ufficiali inviate dal Vaticano. Durante il comunismo i preti cattolici erano sostenuti dai preti del Patriarcato. Ci si aiutava a vicenda per l’amministrazione dei sacramenti. Ci si faceva battezzare o sposare da preti ortodossi e cattolici indifferentemente».
Ma, allora, cos’è successo?
«È successo che all’ideologia comunista è subentrata quella nazionalista, secondo la quale il georgiano deve essere ortodosso. Adesso l’ortodossia georgiana è la più chiusa di tutte. Non per caso una delle colpe che ci rimproverano è l’ecumenismo. E non soltanto a noi. Quando nel 2003 il patriarca di Costantinopoli è venuto a Kutaisi, ha fatto un discorso sull’unità delle chiese. Ciò non è piaciuto ad alcuni gruppi fanatici, che lo hanno duramente contestato. Anche una mia conferenza ad Akhaltsikhe è stata interrotta da gruppi estremisti. I giovani che vogliono essere ortodossi entrano in questi gruppi. Ufficialmente la chiesa non li sostiene, ma, di fatto, se ne serve».
E come spiegare che il numero di cattolici oggi si è dimezzato rispetto ai tempi dell’ateismo di stato?
«Non è poi così strano. I cattolici sono sottoposti a mille pressioni. Sui mass media c’è un bombardamento in favore dell’ortodossia. Alla televisione, ad esempio, è stato trasmesso il matrimonio di un cattolico diventato ortodosso. Gruppi fanatici hanno distribuito viveri ai villaggi cattolici perché passassero all’ortodossia; mentre la Caritas viene tacciata di fare proselitismo. E poi c’è la dolorosa questione delle chiese.
Nel 1988-89 i cattolici di Kutaisi hanno chiesto di poter riaprire la loro chiesa. Essa è stata sì riaperta, ma per essere consegnata agli ortodossi. Il processo che ne è seguito non ha portato alla restituzione, nonostante che i documenti prodotti dimostrassero senza possibilità di dubbio la sua appartenenza alla comunità cattolica. La Santa Sede non ha voluto insistere per non creare contrasti. A Batumi è successo qualcosa di simile; qui, però, siccome siamo in Agiaria, che è regione autonoma, abbiamo potuto almeno costruire un’altra chiesa. Sono cinque le chiese cattoliche prese dagli ortodossi: a Kutaisi, Batumi, Gori e due nel sud. Sembra che siamo noi ad averle rubate un tempo e che adesso gli ortodossi se le stiano giustamente riprendendo.
Roma chiede di far silenzio per l’unità dei cristiani, come se qui la giustizia non contasse. Il Vaticano ha detto: non preoccupatevi delle chiese, il dialogo è più importante. Va bene, non parliamo delle chiese. E del fatto che la gente viene ribattezzata? Neanche. È un fenomeno iniziato negli anni ‘90. Ci sono stati anziani ottantenni ribattezzati, perché il prete aveva detto loro che altrimenti non sarebbero entrati in paradiso con la moglie o il marito. Si riesce a immaginare che trauma è stato per quelle persone? Piangevano mentre lo raccontavano.
La chiesa di Roma non sta aiutando quei georgiani che hanno sofferto per rimanerle uniti. In questo modo si sta facendo morire il cattolicesimo. Il vescovo di Batumi lo ha detto: costruite pure la vostra chiesa, tanto fra poco sarà mia, perché non ci saranno più cattolici. Prima intorno alla chiesa di Kutaisi abitavano cattolici, adesso non più. Si sta perdendo la memoria del passato e le nuove generazioni non hanno più il riferimento di un luogo fisico.
In compenso per i giovani ortodossi quella chiesa è loro, perché vi sono stati battezzati. Andrebbe ancora bene se ci considerassero fratelli, ma quando ci dicono che siamo figli di satana… Qui mi sono sentito chiamare eretico, mi hanno anche buttato fuori dalle chiese.
Eppure il dialogo tra la chiesa cattolica e quella ortodossa sembra procedere bene, più che con le altre confessioni cristiane.
Non in Georgia. Purtroppo qui l’evoluzione è in negativo, ma in Europa non lo si percepisce. I bei discorsi del patriarca restano tra le quattro mura. Il pubblico georgiano non sa che è venuto il cardinale Kasper; che la chiesa ortodossa georgiana partecipa agli incontri ecumenici a Belgrado o al funerale del papa. Tali notizie non vengono date sul giornale del patriarcato. Si scrive di una delegazione andata a Bari a vedere le reliquie di san Nicola, si omette che quella è una chiesa cattolica, dove i georgiani hanno celebrato una messa. Infatti, all’estero i georgiani celebrano nelle chiese cattoliche.
Adesso ha preso il via una commissione mista cattolica-ortodossa. Nel 2004 si era detto: se voi smettete il processo per la chiesa cattolica di Kutaisi ne parliamo attorno a un tavolo. Ebbene, il primo incontro si è tenuto nel 2007. Noi abbiamo espresso la nostra posizione, ma finora nessuna risposta è arrivata da parte degli ortodossi. D’altronde, cosa ci aspettiamo, se di questi problemi non riusciamo a parlarne neanche tra noi cattolici?».
Bianca Maria Balestra
Biancamaria Balestra