Nelle mani dell’Agenzia

La nuova legge per la cooperazione

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il 12 gennaio scorso il Disegno di legge Delega al Goveo per la riforma della disciplina della cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo. Un passo atteso da anni che avvia il processo di riforma della ormai obsoleta legge 49 del 1987.  Entro 24 mesi il governo dovrà produrre i decreti legislativi che riformeranno il sistema di cooperazione italiano.
Tra le grandi novità c’è l’istituzione di una Agenzia per la cooperazione allo sviluppo e la solidarietà internazionale, ente di diritto pubblico con capacità di diritto privato, che avrà lo scopo di attuare gli indirizzi e le finalità stabiliti dal ministro degli Affari esteri o dal vice ministro delegato.
La nuova legge sarebbe incentrata su due istituzioni: il ministro decide le linee e l’Agenzia le attua, il tutto considerando la cooperazione internazionale parte integrante della politica estera italiana. Le priorità, disponibilità finanziarie per paese e area di intervento saranno quindi decise in questo contesto.

La legge delega esplicita che i decreti dovranno tenere conto e «riconoscere la funzione della cooperazione decentrata, prevedendo modalità di cornordinamento con la politica nazionale di cooperazione allo sviluppo»,  e anche «prevedere che nell’attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo sia riconosciuto e valorizzato il ruolo dei soggetti pubblici e privati, nazionali e locali».
L’Agenzia concentra non solo l’attuazione delle politiche governative di cooperazione, ma potrà erogare servizi di assistenza e supporto delle amministrazioni. Potrà eseguire progetti finanziati dalla Commissione europea e altri organismi inteazionali. Dovrebbe assicurare la coerenza con le linee di indirizzo di tutte le iniziative di cooperazione allo sviluppo, incluse quelle proposte e finanziate dalle regioni e dagli enti locali.

L’Agenzia disporrà di un fondo unico dove confluiranno i finanziamenti del bilancio dello stato per l’aiuto pubblico allo sviluppo, proventi derivati dai servizi erogati e anche fondi apportati  «dalle regioni e dagli altri enti locali allorché questi ritengano di avvalersi dell’Agenzia».
Un ruolo preponderante quindi che occorrerà conciliare con la miriade di iniziative italiane di cooperazione decentrata e non. Attendiamo i decreti attuativi.

Ma.B.

Marco Bello




L’Harmattan non ci spaventa

Comminando sul filo tra «primo» e «terzo» mondo

Un gruppo di assessori, funzionari comunali, associazioni e insegnanti sbarcano in un paese saheliano. Incontrano un sindaco e la società civile del suo comune. Il clima è torrido, il sole picchia e la polvere ricopre ogni cosa. Ma i nostri riescono a creare un legame tra le città e i loro abitanti. Con la scusa di un progetto di sviluppo. Reportage.

Aicha ha sette anni. Nel suo zainetto di plastica ha un quaderno con la copertina colorata e una matita. Come ogni giorno percorre i tre chilometri che separano la sua casa dalla scuola, nel villaggio di Tirgo. Siamo nel Nord del Burkina Faso, nei pressi di Ouahigouya, la quarta città del paese. In pieno Sahel, savana secca, spazzata dall’Harmattan, il vento che arriva dal Sahara. La polvere è ovunque, copre ogni cosa, fa parte della vita. Qui sono tutti agricoltori, lavorano per strappare la poca terra rimasta all’avanzata del deserto, ma piove solo tre – quattro mesi all’anno.
Da queste parti, in ambiente rurale, le bambine non vanno a scuola. I genitori preferiscono tenerle a casa e avviarle, fin da piccole, ai lavori domestici. La scuola ha un costo: iscrizione, materiali, divisa. I maschietti hanno più fortuna e magari frequentano le prime due o tre classi di elementari.
Fatimata percorre in bicicletta molti chilometri. Va da un villaggio all’altro per distribuire copie di «Pagb yell goama» (sguardo di donna), una semplice rivista stampata su otto fogli di carta grigia. è scritta in mooré, la lingua più diffusa in questa zona, per sensibilizzare le donne contro l’escissione (mutilazione genitale femminile), il matrimonio forzato, la violenza di cui sono vittime da secoli. Di solito chi legge ad alta voce è circondato da molte che ascoltano.
Awa vive in un quartiere povero di Ouahigouya. Non sapeva né leggere né scrivere e non aveva un mestiere. Ha potuto frequentare per due anni di seguito i corsi di alfabetizzazione e poi una formazione sulla gestione di un piccolo commercio. In seguito ha ottenuto una piccola sovvenzione, che le ha permesso di acquistare alcuni montoni, allevarli e rivenderli.
Aicha, come altre 350 bambine dei villaggi vicini, Fatimata, Awa e le sue compagne, beneficiano di un progetto di cooperazione decentrata nato a fine 2002 grazie alla collaborazione di cinque comuni piemontesi (Rivoli, Moncalieri, Nichelino, Beinasco e Settimo Torinese) membri del Coordinamento comuni per la pace della provincia di Torino e la città di Ouahigouya.
Un legame sempre più forte tra territori italiani e africani. Le attività in Italia puntano a informare i cittadini sul Burkina Faso, paese sconosciuto ai più, nelle scuole, si organizzano mostre fotografiche, proiezioni, si stampano documenti sul tema. è stato anche attivato uno scambio di giovani che ha permesso visite in Piemonte e in Burkina.

Sicurezza alimentare e cellulare

A Ouahigouya, in questi anni, sono pure state realizzate alcune scuole e appoggiata la biblioteca comunale, su richiesta delle autorità della città.
«Ho trovato grosse differenze con la nostra realtà, anche a livello del comune e dei servizi che può offrire. Non ne sono rimasto scioccato perché ero preparato». Angelo Ferrero presidente del Cocopa e assessore alla pace di Moncalieri, descrive così una sua recente visita ai partner burkinabè. «Una cosa che mi ha colpito è che quasi tutti abbiano il cellulare, quando ci sono ancora gravi problemi di sicurezza alimentare. Ho notato, inoltre, che sono piuttosto abituati a fare cooperazione». «Posso parlare di due livelli: i rapporti con le istituzioni, nelle quali ho trovato una buona disponibilità e accoglienza. Si tratta di amministratori pubblici: hanno chiaro l’importanza di avere della cooperazione internazionale sul loro territorio. L’altro livello sono le associazioni: ancora più calorose, ma anche sfacciatamente interessate all’appoggio finanziario».
Il sindaco della città saheliana, Abdoullaye Sougouri, ci spiega l’importanza di questa cooperazione: «Ouahigouya è un comune relativamente vecchio, con molte ambizioni ma mezzi limitati. Adesso è il momento dello sviluppo alla base. Per questo motivo, il sostegno di amici all’estero è determinante, per favorire l’accesso della popolazione ai servizi minimi per tutti. Parlando di educazione, sanità, giovani, molte cose sono realizzate ma molte altre restano da fare.  Una sinergia d’azione è quindi fondamentale. Nel corso del 2007 abbiamo elaborato un bilancio di 287 milioni di franchi (ca 437 mila euro). Se guardiamo i servizi che bisogna realizzare nella città, ad esempio per l’acqua, anche se utilizzassimo interamente questa cifra, sarebbe come una goccia nell‘oceano».
Ma la cooperazione tra enti locali deve andare nelle due direzioni, volendo essere il legame tra due territori. Anche se lo squilibrio di risorse finanziarie si fa sentire, gli africani hanno molto da insegnarci.
«Cooperazione è innanzitutto costruire legami tra comunità e città nell’ambito dell’amicizia e della pace. Attraverso questi aspetti si sviluppa la solidarietà, che gioca un grande ruolo. Con gli amici si condividono le stesse preoccupazioni e difficoltà, ecco perché sovente i nostri partner del Nord vengono a sostenerci nelle azioni di sviluppo. Ed è piuttosto l’aspetto finanziario che viene sottolineato, dimenticando le cose fondamentali. Penso che nell’ambito culturale i paesi del Sud possono portare le loro esperienze e contributi, attraverso i legami che si creano». Continua Sougouri.

«Un’altra visione del mondo»

Quarantacinque chilometri più a sud, un’altra città, Gourcy, ha iniziato nel 2005 un percorso di cooperazione con un altro gruppo di comuni piemontesi: Grugliasco, Alpignano, Brandizzo e Pianezza.
Roberto Montà, assessore alla pace di Grugliasco vede così il contributo degli africani al suo comune nella cintura torinese: «Possono trasferirci un’altra visione del mondo utile per amministratori e cittadini. Possiamo superare gli stereotipi nei confronti degli africani. D’altro lato abbiamo da imparare sul piano culturale e sull’approccio ai problemi e alla vita. I nostri bisogni sono molto più generali e sovradimensionati. Il nostro modello di sviluppo è sproporzionato. Per approccio alla vita intendo anche il confrontarci sui nostri modelli di sviluppo. Ad esempio in Africa ho visto che talvolta copiano i nostri modelli. Questo non ha senso. La mia speranza è che ognuno prenda il meglio dei due approcci. Noi dobbiamo capire quali sono le loro esigenze, ma anche il loro valore aggiunto in termini di cultura e visione del mondo. Loro però devono capire che alcuni nostri modelli sono sbagliati».
Il sindaco di Gourcy, Dominique Ouedraogo, replica: «Abbiamo culture molto diverse, noi non abbiamo soldi, ma abbiamo sviluppato quello che in fondo ci può assicurare un minimo di vita, che è la solidarietà. Io conosco l’Euro­pa e penso che questi valori si stiano perdendo. Anche le relazioni umane contano molto nella società africana: il rispetto dei valori tradizionali, dei valori trasmessi dai nostri genitori, ad esempio nell’educazione dei bambini. Qui il rispetto degli anziani impone che un giovane debba obbedire ai suoi genitori, al contrario di quello che vediamo in Europa».
Ma come fare a trasmettersi tutte queste esperienze? «Con gli scambi culturali. Mandateci i piccoli italiani e anche i loro genitori. Diamo la possibilità a qualcuno di venire a vivere le nostre realtà. Si renderanno conto che l’Africa ha qualcosa da condividere: questo calore umano, che non troviamo in Europa, dove invece ognuno va per se. Da noi non immaginiamo qualcuno che viva fuori dall’ambito famigliare, che per noi è sacro. Mentre in Europa vince sempre più l’individualismo nella vita. Penso che con gli scambi e i viaggi, i nostri amici europei possono rendersi conto che hanno perso molte cose».
A Gourcy, città di 80.000 abitanti, i quattro comuni italiani stanno realizzando, grazie anche all’appoggio finanziario della Regione Piemonte, un polo zootecnico, composto da un nuovo mercato del bestiame e un mattatornio. Lo sviluppo di questo programma è previsto in tre anni e vuole diventare un riferimento non solo a livello comunale, ma provinciale. Gourcy ha anche proposto lo sviluppo della biblioteca comunale. Un altro livello di intervento è quello scolastico. Non solo è stata realizzata una scuola elementare ma si è messo in piedi uno scambio tra gli allievi di questa scuola e di una decina di classi di scuole medie ed elementari di Grugliasco e Alpignano. I licei di Grugliasco e il liceo provinciale di Gourcy comunicano via posta elettronica, grazie al progetto.

Collegamento istituzionale

Montà spiega il valore di interagire con un comune africano: «Sul piano istituzionale è riconoscere alle istituzioni locali il ruolo fondamentale sullo sviluppo del loro territorio. Inoltre consente ai comuni italiani di esercitare in prima persona il ruolo di partner di sviluppo e quindi di farsi carico di questo compito sul proprio territorio. Il comune non si limita a dare i soldi in beneficenza, ma controlla l’intero processo. Questo gli permette di interagire, collaborando, relazionandosi e rafforzando colleghi eletti che hanno bisogno di sostegno. La cooperazione tradizionale (governativa, ndr.) è più efficiente, noi siamo più farraginosi, articolati, ma abbiamo la possibilità di mobilitare le coscienze, dialogare con comuni al sud del mondo. Perché, con gli amministratori, dal dialogo può nascere il reciproco interesse, su tematiche comuni, come l’erogazione dei servizi».
Un chiaro esempio di raccordo istituzionale è stato il ruolo giocato dal comune di Orbassano, come ci racconta il sindaco, Mario Marroni, nel distretto di Taraka, in Kenya, nei pressi della missione Mariamanti, della Consolata: «In collaborazione con le autorità locali abbiamo sviluppato il progetto sull’acqua, la costruzione di un acquedotto, promosso da un’associazione locale. Anche grazie al nostro intervento, il governo del Kenya ha poi investito sulla depurazione. La nostra presenza ha facilitato i rapporti con le istituzioni. Il nostro ruolo è creare il collegamento istituzionale nei nostri limiti e possibilità».
Una preoccupazione di un amministratore eletto, che ha dunque un mandato preciso, è anche rendere conto alla popolazione, come racconta Ferrero: «Cerchiamo di fare informazione sul nostro territorio rispetto a questi progetti. Ma penso che siamo ancora carenti. Il cittadino fa fatica a sapere cosa succede. Per spiegarlo, tento di descrivere la situazione nel paese in cui operiamo e le nostre attività. Spesso c’è molta sensibilità e la gente mi chiede cosa può fare, come singoli o associazioni».
Il sistema messo in piedi dal comune di Grugliasco prevede di coinvolgere le diverse realtà del proprio territorio, stimolarle a intraprendere un percorso di cooperazione con realtà similari in Africa e accompagnarle qualora queste iniziative si concretizzino. Roberto Montà ci descrive come: «Ai cittadini diciamo che con i soldi pubblici stiamo portando avanti progetti certi, ben definiti e controllati direttamente da noi. Il comune si assume la responsabilità in toto. Favoriamo la riflessione con tutti i soggetti del nostro territorio, in particolare con il settore scolastico e l’associazionismo. Ci serve per portare a tutta la città l’importanza di questi temi. Per costruire una domanda su base locale di sensibilizzazione e formazione, che punta a fornire gli strumenti per intraprendere in piccolo attività in società in via di sviluppo. Come i gemellaggi di 30 anni fa con i paesi francesi. In questo caso però c’è anche un gap finanziario, che rende necessarie più risorse. Non è un’attività singola ma un cornordinamento generale. Con il nostro progetto consortile in Burkina Faso abbiamo creato un tavolo di lavoro tra le associazioni e abbiamo attivato le nostre scuole per scambi con istituti africani. è una cooperazione organizzata con obiettivi, metodologia, criteri ben precisi. Se il comune riesce a cornordinare in modo generale i vari soggetti che portano avanti questo tipo di cooperazione su base locale è un buon risultato. Per accompagnarli occorre monitorare i loro progetti e aiutarli a reperire risorse. Il comune cornordina ma non è lesivo delle autonomie».

Quel filo tra Nord e Sud

Ma chi esegue  progetti di cooperazione decentrata, oltre a scontrarsi con le complessità tecniche e legate al contesto, comuni agli altri progetti di sviluppo, deve affrontare problematiche intrinseche dovute al gran numero e diversità di attori coinvolti. I comuni piemontesi si avvalgono in Burkina Faso dell’appoggio tecnico dell’Ong Cisv di Torino, che mette a disposizione la sua struttura nel paese. «Il problema maggiore riscontrato nella cornordinazione e nella gestione di questi progetti è indubbiamente quello di lavorare “in bilico” tra due realtà diametralmente opposte. è come camminare su un filo che collega direttamente Nord e Sud, primo e terzo mondo, modeità e tradizione, benessere e sottosviluppo. Chi lavora sul campo si trova su questo filo: è il facilitatore nelle relazioni tra gli attori» racconta Fabio Carbone, responsabile della cooperazione decentrata in Burkina Faso per la Cisv. «Chi cornordina questi progetti ha il compito, non facile, di smussare un po’ le divergenze, di far capire agli uni le esigenze e i bisogni degli altri, di metterli a confronto, sempre nel rispetto delle usanze e delle abitudini di chi sta dall’altra parte» continua Carbone.
Aicha torna a casa, dopo una giornata di scuola. Il suo passo leggero percorre uno dei centinaia di sentirneri nella savana burkinabè. Qui le automobili sono molto rare e i più fortunati si spostano in bicicletta. Il caldo inizia a farsi sentire in questa stagione, che in Europa si chiama primavera, ma nel Sahel è solo il periodo più caldo e secco dell’anno. Superiamo i 45 gradi all’ombra e l’acqua scarseggia. è così difficile per Aicha pensare a come sia la giornata tipo di un bambino italiano. Impossibile anche per un suo coetaneo di Moncalieri o Grugliasco, pur dotato di televisione e playstation, immaginare la vita di Aicha. Chissà se, un giorno, queste enormi distanze si ridurranno.

Di Marco Bello

Marco Bello




Tu vuoi fare l’africano

Le sfide della nuova cooperazione

I comuni italiani sono sempre più impegnati in progetti di cooperazione con città del Sud del mondo. Che sia per aiutare il decentramento amministrativo,  fornire consulenze specifiche o realizzazioni pratiche, si scontrano con le diversità culturali e il divario di risorse. Per questo si fanno spesso accompagnare da associazioni e Ong del loro territorio.

In nessuno dei Paesi cosiddetti «ricchi» del mondo è ancora stata scoperta la formula magica che permetta di stabilire quale sia il giusto equilibrio di ripartizione dei poteri (legislativo, giudiziario e amministrativo) tra un governo centrale e i suoi enti locali per un’ottimale gestione del territorio ed il miglioramento del benessere dei suoi abitanti. Non c’è bisogno di ricordare, ad esempio, quanto in Italia sia ancora oggi acceso il dibattito su come attuare il decentramento, o anche solo il federalismo fiscale, sulla base di quanto scritto nella nostra costituzione oltre mezzo secolo fa, all’articolo 5 e nell’ormai famoso titolo V.
La verità è che questa formula non esiste. I nostri politici (a tutti i livelli istituzionali) dovranno continuare a cercare i migliori compromessi per adattare quanto le teorie economiche e ideologie propongono, in funzione dei cambiamenti sociali e delle continue difficoltà finanziarie che ogni governo si ritrova ad affrontare in questa epoca di globalizzazione.
è in questo contesto che, da più di dieci anni, in Italia va sviluppandosi una nuova forma di cooperazione internazionale che viene ormai comunemente definita come «cooperazione decentrata». Una cooperazione che vede come protagonisti gli enti locali italiani (comuni, province, regioni, ecc.), che a partire dagli anni ‘90 hanno avuto la possibilità di spendere fuori dal loro territorio e per progetti di cooperazione e solidarietà internazionale una cifra pari all’otto per mille dei primi tre titoli delle entrate correnti dei propri bilanci di previsione. Nel 2000, ad esempio, la cifra complessivamente stanziata dagli enti locali italiani nel loro insieme ha cominciato a superare in termini economici i 50 milioni di euro annuali.

Un mondo più giusto?

Fra le ragioni di questa cooperazione decentrata normalmente vengono citati diversi aspetti.
Prima di tutto la volontà della società civile nel suo insieme di partecipare attivamente alla costruzione di un mondo più giusto e più pacifico. Volontà di cui le istituzioni locali vogliono sempre più spesso farsi portavoce e anche promotrici in prima persona.
In secondo luogo la determinazione delle istituzioni locali di promuovere iniziative che permettano di avere ricadute importanti in termini di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che vivono in zone più svantaggiate della terra. Azioni che al tempo stesso permettano la crescita di una cultura di pace e di solidarietà sul loro stesso territorio. Soprattutto alla luce dei sempre più rilevanti fenomeni migratori e dell’importanza che questi vengano gestiti in un’ottica di integrazione sociale e di valorizzazione delle diversità culturali. Questa ultima motivazione è fra le più utilizzate per spiegare ai cittadini perché per fare cooperazione internazionale vengono in realtà usate le loro tasse due volte, cioè prima quelle da loro pagate a livello locale per la cooperazione decentrata e poi quelle già pagate dagli stessi cittadini allo stato per fare la stessa cosa nel quadro più ampio della politica estera nazionale.
Infine, il desiderio di mettere a disposizione le competenze maturate nel corso della nostra esperienza di decentramento politico e amministrativo. Questo punto è sempre più spesso sottolineato quando si vogliono difendere le spese sostenute per entrare in contatto e costruire un rapporto di collaborazione duraturo con un ente «omologo» (comune, ecc.) di un paese estero.
Naturalmente sperando che tutto ciò possa essere utile, in particolare che altri, grazie al nostro impegno e alla nostra disponibilità, possano evitare di ripetere errori da noi commessi, in un passato comunque molto recente.

Aiuto al decentramento

Quindi la cooperazione non solo come ulteriore impegno e contributo delle istituzioni locali a favore della pace e della lotta contro la povertà a livello globale. Ma come un processo, che se non nel breve termine, nel medio o lungo, potrà aiutare i governanti degli stati e degli enti locali partner a elaborare i loro propri modelli di gestione del territorio, promozione dello sviluppo locale, ripresa economica. Ma soprattutto di lotta contro le micidiali disuguaglianze che vedono nei paesi più poveri poche élites vivere sulle spalle di masse di persone in condizioni di estrema povertà.
Facendo questo ambizioso e ammirevole ragionamento, comuni e regioni italiane danno però quasi per assodato (così come la maggior parte delle organizzazioni inteazionali prime fra tutte la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale) che il decentramento politico e amministrativo dei poteri nei paesi cosiddetti in «via di sviluppo» sia un fatto assolutamente necessario, perché gli Stati centrali da soli non ce la possono fare. Così come spesso viene dato per certo che l’apertura al liberalismo sia l’unica possibilità di salvezza per le economie più deboli (ma la partecipazione di 8 regioni, 21 province e 29 comuni al recente Forum sociale mondiale di Nairobi dimostra che molti la pensano diversamente).
Queste due tesi sono tutt’altro che dimostrate. Ed è proprio qui che si dovrebbe inserire il ruolo cruciale delle organizzazioni non governative italiane (Ong), che lavorano per la cooperazione allo sviluppo da oltre mezzo secolo. Così come l’innumerevole schiera di esperti italiani che a livello nazionale e internazionale hanno lavorato e lavorano al ministero Affari esteri, nelle agenzie delle Nazioni Unite, presso l’Unione Europea. Ma anche il mondo universitario, che da sempre si occupa di studiare le politiche socio-economiche a livello internazionale e che da una decina di anni ha avviato simili percorsi di cooperazione decentrata (si chiama sempre così) con gli atenei di numerosissimi paesi del Sud del mondo.

Meglio soli o accompagnati?

Il Consorzio delle Ong piemontesi (Cop) ha accettato nel 2004 (ma diverse singole Ong lo facevano sin dal 1997) la proposta fatta dalla Regione Piemonte di «accompagnare» i processi di cooperazione decentrata intrapresi dai suoi enti locali in otto paesi dell’Africa Occidentale, arrivando a fine 2006 alla firma di un accordo programmatico triennale (in forma di Convenzione) sulla base del quale Regione e Consorzio definiranno gli interventi progettuali annuali e co-progetteranno le azioni di dettaglio. Questo, con l’idea di aprire una discussione e un confronto costruttivo, oltre che per mettere a disposizione l’esperienza delle Ong. Il quadro è quello del Programma regionale per «la sicurezza alimentare e la lotta alla povertà». Un’esperienza unica in Italia, che dal 1997 vede la Regione Piemonte impegnata con uno stanziamento annuale di circa 2 milioni di euro. Dopo soli 10 anni di lavoro ha coinvolto in collaborazione con le Ong una rete di oltre 150 enti locali piemontesi e un grande numero di associazioni, enti religiosi, scuole, parchi regionali, strutture sanitarie, enti di formazione e associazioni di categoria.

Due mondi

Un lavoro enorme che, se si guarda oltre le innumerevoli opere obiettivamente concrete e positive realizzate insieme ad altrettanti partner locali, come ad esempio pozzi, interventi agricoli, corsi di formazione, ecc.  ha davanti a sé proprio l’immensa sfida di collaborare con le autorità locali africane per capire ed elaborare, magari insieme e in un’ottica di disinteressata solidarietà, i modelli politici e amministrativi capaci di generare uno sviluppo locale partecipato.
Sfida immensa, appunto. Soprattutto considerando le sconvolgenti differenze esistenti tra il nostro paese e i loro, evidenti quando si leggono ad esempio gli indici di sviluppo umano delle Nazioni Unite, a partire da quello dell’aspettativa di vita che in Italia ha ormai raggiunto gli 80 anni e, ad esempio, in Burkina Faso è appena di 48. Può sembrare banale, ma immaginatevi una discussione con un sindaco cinquantenne di una cittadina burkinabè su cosa si possa fare nei prossimi dieci anni per migliorare la situazione della sua città. Vi risponderà vedremo, cominciamo a sperare che io sia ancora qui l’anno prossimo.
Ma soprattutto, continuando con il caso del Burkina, consideriamo che il Pil (prodotto interno lordo) italiano supera i 1.800 miliardi di dollari (2005), quello del Burkina Faso è poco meno di 6 miliardi. E quasi a parità di dimensioni, in Italia siamo 58 milioni di abitanti e in Burkina solo 14. In Italia sono oltre 40 milioni le persone che vivono in città (70% del totale), mentre in Burkina circa 2 milioni (il 17% del totale). E a proposito delle finanze pubbliche? Se in Italia la spesa per l’amministrazione pubblica nazionale equivale al 25% del Pil e quella dei comuni a circa il 6%, in Burkina il governo centrale spende il 12% del Pil e i comuni solo lo 0,3% (e il Pil del Burkina è meno di un centesimo del nostro). In altri termini, da noi i comuni gestiscono risorse pari al 26% di quanto gestisce il governo centrale, mentre in Burkina questa percentuale scende al 2%. Un sindaco del Burkina Faso ha in realtà in questo momento ben pochi euro  da spendere, e non può pretendere più di tanto il pagamento di tasse da parte di una cittadinanza che come reddito procapite annuale guadagna in media circa 430 euro mentre la nostra, di media (si intende) è pari a 20.000 euro.

Quante potenzialità

Di fronte a questi dati, certo è difficile sostenere che il decentramento politico e amministrativo può essere uno strumento in grado di consentire nel breve termine ai paesi del sud del mondo di risolvere i problemi legati alla povertà estrema della maggioranza della popolazione e della pressoché totale mancanza di servizi pubblici per i cittadini. Oppure che il decentramento può creare spazi per la partecipazione della società civile alla promozione dello sviluppo locale, o ancora garantire una più efficiente allocazione delle poche risorse disponibili (incluso quelle provenienti dalla cooperazione internazionale) e promuovee anche la maggiore mobilitazione a livello locale. O ancora che possa migliorare la governance a livello locale così come a livello nazionale. Tutto questo si scontra per il momento con una sostanziale mancanza di risorse come rivelano gli sconfortanti dati appena considerati, situazione nella quale si trova la maggior parte dei paesi del mondo non industrializzato.
Ma è proprio in questo contesto che la cooperazione decentrata può e deve cercare di muoversi, a piccoli passi e chiamando alla riflessione su quali siano le possibili soluzioni, il maggior numero di soggetti, dal mondo del terzo settore e delle Ong a quello delle istituzioni pubbliche, dagli enti fornitori di servizi (educativi e di ricerca, sanitari, ambientali, ecc.) fino al mondo imprenditoriale ed economico. Senza scoraggiarsi, ben inteso, e nella consapevolezza che anche un piccolo impegno può dare vita, in questo contesto, a grandissimi risultati.

di Andrea Micconi


Andrea Micconi




Quando le città (italiane) vanno in Africa

I perché della «cooperazione decentrata»

Negli ultimi dieci anni chi si occupa di cooperazione internazionale allo sviluppo ha visto crescere un fenomeno nuovo. Le città italiane, così come province e regioni hanno iniziato a interessarsi sempre più ai comuni e alle entità loro simili in Africa e America Latina. Sono nati cornordinamenti per la pace tra comuni italiani e altri enti territoriali.
Piccole quote dei bilanci comunali sono state allocate a progetti di cooperazione nel Sud del mondo, mentre alcune regioni e province si sono connotate come promotrici e finanziatrici di cooperazione.
Il fenomeno non coinvolge solo l’istituzione, ma questa funziona da «attivatore» delle realtà sul proprio territorio. Così associazioni di base e di categoria, istituti scolastici di vario grado, università, parchi, hanno creato le loro iniziative per mettere il proprio «mattone» di sviluppo in qualche sperduto paese africano o latino americano. Non senza commettere errori o prestare il fianco alle critiche.

Spesso tanti micro interventi su un territorio non creano sviluppo, ma arricchiscono qualche personaggio locale, oppure creano ancora più disuguaglianze. Fondamentale è l’approccio territoriale. Questo significa avere uno sguardo che coinvolge le diverse competenze di un comune italiano. Ma anche affrontare il tema dello sviluppo locale in un territorio lontano in modo integrato e con conoscenze in materia. Per questo, per interessare i territori, l’ente locale diventa l’istituzione più adatta a interagire con un ente analogo in un paese povero. Chi meglio conosce, o dovrebbe conoscere, il proprio territorio, da entrambe le parti.

C’è poi la questione della politica della cooperazione, che su base locale è, necessariamente, di competenza degli enti locali (che non dovrebbero essere in conflitto con le linee guida della cooperazione governativa). Per quanto riguarda le conoscenze tecniche e di contesti così diversi dal nostro è obbligatorio farsi accompagnare da chi queste tematiche le affronta da sempre come propria missione: le Ong di sviluppo e talvolta gli istituti missionari. Sono loro i veri «traduttori culturali» oltre che i tecnici dello sviluppo.

Nasce così un modo di fare cooperazione «dal basso» che coinvolge decine di attori diversi (ed è questa la grossa difficoltà dell’approccio), ognuno dei quali deve mantenere il proprio ruolo. Una cooperazione che ha tutte le caratteristiche per essere quella più vicina alla gente, del Sud come del Nord. Infatti un effetto positivo della cooperazione decentrata è che le ricadute sono anche nei nostri comuni, dove si crea maggiore conoscenza, sensibilità e forse si formano le coscenze per nuovi stili di vita. Perché per creare sviluppo, è obbligatorio passare attraverso a  una nuova redistribuzione di risorse e di consumi, a livello planetario.

                                                                                   Marco Bello

Marco Bello




La parabola del «figliol prodigo» (10)

Si allontanò dal suo popolo verso un paese lontano

«13Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolto tutto, se ne andò via
per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto
[lett. da (uomo) senza salvezza]. 14Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne
una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò
e si mise a servizio [lett. si incollò/attaccò] di uno degli abitanti di quella regione,
che lo mandò nei campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube
che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava» (Lc 15,13-16).

L a sequenza narrativa dei vv. 13-16 descrive la prima parte dell’agire del figlio «più giovane» che si potrebbe chiamare «il distacco». La sequenza è drammatica, perché con una sintesi straordinaria descrive sedici affreschi che possiamo così ricomporre:
1.    la fretta di scappare e togliersi da una situazione diventata pesante (dopo non molti giorni);
2.    l’attore è il figlio più giovane, quasi a mettere in evidenza la sua condizione di privilegiato;
3.    l’illusione di una ricchezza senza fine e autosufficiente (raccolto tutto);
4.    il distacco, il taglio definitivo con il proprio passato e la propria radice (se ne andò via);
5.    la mèta come realizzazione di sé e delle proprie aspirazioni (per un paese lontano);
6.    l’ingordigia di essere finalmente libero (sperperò la sua natura/le sue sostanze);
7.    la piena soddisfazione dei bisogni a lungo repressi e finalmente realizzati (vivendo da dissoluto);
8.    la fine della ricchezza considerata «tutto» e fonte di libertà (quando ebbe speso tutto);
9.    il paese lontano, la mèta diventa un incubo di sopravvivenza (in quel paese venne una grande carestia);
10.    l’inizio di una nuova vita: l’indipendenza diventa bisogno (cominciò a trovarsi nel bisogno);
11.    quello che un tempo era figlio ora diventa servo (si mise a servizio);
12.    il padre da cui ci si affranca ora diventa «uno qualsiasi» (uno degli abitanti di quella regione);
13.    il fondo dell’abisso dell’impurità (lo mandò nei campi a pascolare i porci);
14.    chi aveva «tutto» si accontenta degli avanzi di carrube (avrebbe voluto saziarsi con le carrube);
15.    chi era commensale del padre, ora aspira a diventare commensale dei porci (che mangiavano i porci);
16.    il prediletto del padre è respinto anche dai porci (nessuno gliene dava).
Queste sedici pennellate formano l’affresco dei quattro versetti che abbiamo citato e che formano una unità letteraria che descrive le prime tre tappe del «viaggio» verso la libertà del figlio più giovane: la partenza in ricchezza, lo sperpero in baldoria, la schiavitù nella fame.
Iniziamo a esaminare più da vicino il v. 13, sezionandolo in più parti per potee cogliere meglio la portata e riflettere ad un livello più profondo per cogliee il messaggio di salvezza per noi.

V. 13:  Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose se ne andò via per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Traduzione letterale: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolto tutto, si allontanò/separò dal [suo] popolo verso un paese lontano e là disperse la sua natura da [uomo] senza salvezza.

«Dopo non molti giorni»
L’espressione «dopo non molti giorni» significa «dopo pochi giorni» ed è una figura retorica che in letteratura si chiama «litòte» (dal gr. litòs = semplice). Essa attenua la durezza di un contenuto o di un’affermazione, negando il contrario (pochi = non molti; appena sufficiente = non è poi così male). Lc non vuole calcare la mano: invece di dire che se ne andò via quasi subito, afferma che se ne andò «dopo non molti giorni», ponendo l’accento sull’aggettivo «molti» che induce a riflettere. Questa figura letteraria è molto presente in Lc specialmente negli Atti degli Apostoli (Lc 21,9; At 1,5; 12,18, ecc.).
La manciata di ore intercorse tra la richiesta del figlio minore, che pretende la vita del padre, e la sua partenza verso la libertà devono essere carichi di emozioni e imbarazzo, impregnando di emotività la casa che già appare vuota: vuota per il padre, che vede il figlio esigere la propria morte per affermare se stesso, e vuota per il figlio, che con la testa è già nel suo mondo virtuale e lontano. Domina un silenzio carico di sconfitta, scandito dalle lacrime mute del padre, che impotente assiste alla propria morte pur restando in vita e col pensiero immagina gli scenari veri di morte certa in cui si sta avventurando il figlio.
«Dopo non molti giorni» è una pausa musicale in un rapido fugato di note che si arrampicano correndo verso la fine: come se Lc volesse concedere un attimo di respiro in una situazione di soffocamento e prima della tragedia che si sta preparando.

«Raccolto tutto»
Il figlio che col corpo è in casa, ma con il cuore e la testa è già «lontano», si premura di passare in rassegna tutta la casa per  non lasciare nemmeno le briciole di «quanto gli spetta» (v. 12) della metà della vita che il padre gli ha donato.
Il testo greco non dice «raccolte le sue cose», ma «raccolto tutto», suggerendo l’idea che il figlio passa in rassegna ogni angolo con una accurata ispezione. Anche tutto quello che ha è di suo padre, ma queste sono sottigliezze di cui uno spirito libero non si cura. Questa sottolineatura è importante, perché l’autore vuole metterla in relazione al v. 14 dove ci avverte che spese «tutto».
Gli sforzi per liberarsi del padre, l’anelito della libertà, l’aspirazione a una vita autonoma e senza freni, tutto ciò per cui ha vissuto svanisce in un baleno: tutto è inutile, perché come aveva raccolto «tutto», così ora spende «tutto»: nudo è nato da sua madre e nudo resterà senza suo padre (cf Gb 1,21).

«Si allontanò/separò dal (suo) popolo»
Il testo greco usa il verbo apo-dēmèō che è composto dalla preposizione di allontanamento «apò-» e «dêmos-popolo». L’idea soggiacente è molto più che un andare via da casa. Il figlio più giovane, andandosene, «si allontanò/separò dal [suo] popolo», tagliando dietro di sé ogni radice e ogni riferimento.
Per un orientale, allontanarsi dal clan, dalla tribù, dalla famiglia, rappresentata dal padre, significava andare incontro alla morte, perché vuol dire andare allo sbaraglio, senza alcuna protezione. Esaù, per es., quando vuole separarsi dal fratello Giacobbe, non parte da solo, ma raduna tutta la sua tribù, il gregge, il bestiame e tutti i suoi beni per andarsene «lontano dal fratello» (Gen 36,6-9). Parte con il suo popolo.
Il figlio più giovane della parabola lucana, invece parte senza popolo: ha già perso la sua identità prima ancora di sperperarla in un «paese lontano».
Egli è l’opposto di Abramo che, in Gen 12,1-4, «deve» lasciare il paese, la patria e il padre per ubbidire al Dio che chiama e convoca per un progetto di popolo nuovo con una prospettiva missionaria. Abramo, infatti, andrà «verso una terra» non ancora conosciuta, che Dio stesso gli indicherà per donargliela come promessa ed eredità (cf Gen 15 e 17). Abramo non si preoccupa di conoscere la mèta «verso cui andare», perché a lui basta sapere «da dove» parte. Egli non si allontana «da» qualcuno, ma va «verso» qualcosa, un futuro, una promessa, un’alleanza. «E Abramo partì» (Gen 12,4). La partenza di Abramo è solenne e maestosa, perché è la risposta a una chiamata e quindi la realizzazione di una vocazione. Il «partì» è un progetto.
Il figlio giovane della parabola invece «si allontanò» quasi di nascosto, fuggendo, in fretta: egli non ha un progetto, ma sa esattamente «dove vuole andare». Come Abramo lascia il suo paese, la sua patria e suo padre, ma solo per egoismo e interesse. Abramo è aperto alla fecondità sconfinata («padre di molti popoli»); il giovane figlio è chiuso nella sua grettezza. Abramo si affida alla parola del «Padre», sulla quale soltanto fonda il suo futuro («farò, benedirò, renderò, diventerai, maledirò»); il giovane figlio ha soltanto la certezza di lasciare il suo passato per andare incontro «ad un paese lontano», dove non c’è salvezza. Abramo aspira l’eredità della «terra promessa»; il figlio giovane, aspirando al suo egocentrismo, erediterà soltanto una porcilaia e una fame da schiavo.
Usando il verbo «apo-dēmèō» l’autore sottolinea che il figlio giovane non si mette solo in cammino verso un suo destino, ma che egli «lascia» dietro di sé tutti i fondamenti della vita: si separa dalla «comunità» di cui non è più membro e resta un solitario che cammina isolato verso un destino di morte. Fuori della comunità o del proprio popolo, non si dà vita, ma solo illusione, che presto si trasforma in morte. È l’apostasia che conduce all’inferno dell’isolamento e dell’egoismo.

«Per un paese lontano»
In tutto il NT un’altra volta soltanto si trova questa espressione e cioè in Lc 19,12: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi tornare». L’uomo nobile parte per ritornare, il figlio più giovane parte per allontanarsi definitivamente. L’uomo nobile va in un paese lontano solo provvisoriamente, il giovane «emigra» per sempre, entrando in una diaspora senza fine.
Il viaggio del figlio minore è l’inverso dell’esodo dei suoi padri, i quali uscirono «insieme» dalla condizione di schiavitù per andare verso una terra «lontana» e sconosciuta, che avrebbe loro garantito la libertà e la dignità di «nazione», anzi, di «nazione santa, popolo di Dio» (Es 19,6; 1Pt 2,10). Ora invece assistiamo al viaggio di un solitario che emigra verso «un paese lontano» per essere straniero tra stranieri. Egli va in esilio anche da Dio, perché allontanandosi dal padre, dalla casa e dalla «comunità», egli abbandona anche il «Dio di suo padre» (Es 3,6).
Giacobbe quando partì per la terra straniera di Egitto si fermò a Bersabea, ultimo avamposto abitato, prima di inoltrarsi nel deserto del Neghev, dove «offrì sacrificio al Dio di suo padre Isacco» (Gen 46,1). Andandosene, il figlio giovane compie un gesto di apostasia: egli rinnega suo padre e il Dio di suo padre, il suo fondamento e il suo principio. In una parola rinnega se stesso.
L’espressione «paese lontano» è quasi una formula per indicare una terra pagana abitata da stranieri (Dt 29,21), cioè tutto ciò che è opposto alla «terra santa» abitata da Dio. Da questa «santità» della terra si allontana il giovane figlio, che così non si mette in viaggio verso una mèta, ma s’incammina verso l’esilio. Il suo è un cammino dalla «santità» all’impurità.
Viene alla mente la figura femminile di Rut che, pur essendo pagana, si comporta in modo opposto al «figlio più giovane» che è un giudeo osservante. La nuora di Noemi, invitata dalla suocera a ritornare al suo paese, nella «casa di sua madre» (Rut 1,8) cioè «in terra lontana», si rifiuta e sceglie la dimora di Noemi come sua dimora, il popolo di Noemi come suo popolo e il Dio di Noemi come suo Dio (Rut 1,16).  Nella parabola di Lc, invece, un figlio d’Israele rifiuta il padre, il paese e la patria  «per un paese lontano». A differenza dei suoi antenati, a cui in «terra straniera» gli si attaccava la lingua al palato per l’impossibilità di cantare i canti del Signore (Sal 137/136,4-6) per non renderli impuri, questo figlio che rinnega la pateità aspira all’impudicizia del paese lontano e alla indipendenza da ogni dovere, perdendo così ogni diritto.

«E là disperse la sua natura
vivendo (uomo) senza salvezza»
Fa pensare che questo giovane figlio dissolve e consuma non se stesso, ma la parte di vita del padre, che egli ha preteso come parte spettante della sua eredità. Dilapida la vita di suo padre, che si era portato dietro come mezzo per acquisire la sua libertà. L’autore della parabola usa il verbo «dia-skòrpizō» che in italiano è tradotto con «io sperpero». Alla lettera potremmo tradurre con «fece scorpacciate», cioè si abbuffò, oppure «disperse» tutto ciò che era e che aveva, cioè la vita di suo padre, cioè la sua natura. Egli può permettersi di essere dissoluto perché non si gioca del suo dal momento che nulla possiede, ma della vita del padre che gli è stata regalata con abbondanza e che ora dilapida e sperpera senza criterio, da «dissoluto».
Il testo greco è pregnante e tagliente, perché usa un avverbio tragico e definitivo: «asôtōs» è un avverbio che deriva dall’aggettivo «à-sōstos» che è composto dalla vocale privativa «a», che significa «senza», e dal termine «sôstos» che a sua volta proviene dal verbo «sôzō» che significa «io salvo». Si può quindi tradurre l’avverbio con «senza speranza di salvezza», oppure «senza salvezza». Noi abbiamo tradotto: «Vivendo da (uomo) senza speranza di salvezza».
La dissolutezza non è solo un comportamento immorale, come dirà il fratello maggiore al v. 30, dove accusa il «figlio di suo padre» di avere divorato tutto con le prostitute, ma è un atteggiamento interiore, un modo di accostarsi e vedere la vita, una scelta consapevole di vita: il dissoluto è colui che non ha una prospettiva spirituale, ma è rivolto esclusivamente alle cose materiali, che diventano il suo unico orizzonte immediato e finale.
Il dissoluto «si dissolve» lentamente, a mano a mano che si consuma insieme alle cose che usa e che consuma: non significa necessariamente «scostumato», come forse si potrebbe pensare, ma letteralmente è uno «che si scioglie due volte», perché è un antropofago di se stesso nello stesso istante in cui sbrana le cose che sta usando: si consuma consumando.
Non è libero chi è riempito di cose con cui ha coperto la propria anima, che diventa sorda e dissoluta, perché già seppellita  nel vacuo e nell’effimero. La schiavitù più grande e irrimediabile è quella di colui che perde anche la speranza di essere salvato, perché vede la sua vita rinchiusa e ripiegata su se stesso, senza alcun riferimento agli altri che sono sempre, sul piano affettivo e di fede, la parte migliore di sé.
D’altra parte se il figlio giovane lascia suo padre e il suo popolo e il suo Dio, avendo raggiunto la mèta della sua vita, che è «un paese lontano», che altro può fare se non perdere la speranza? È la fine totale, perché tutto sarà perdonato, ma non il peccato contro lo Spirito Santo, cioè il peccato di disperazione, la morte della speranza (Lc 12,10). Il figlio giovane somiglia ad Adam, che «pretende» la conoscenza del bene e del male del «Padre», che egli vuole spodestare per sostituirvisi. Volendo diventare «come Dio», Adam ed Eva di fatto intendono uccidere Dio per sostituirlo; ne esigono la morte, lusingati dal potere di essere affrancati dalla libertà che avevano di mangiare «tutti gli alberi del giardino»; ma vogliono di più, vogliono ancora, vogliono «tutto» (Gen 3,1-7). Si ritrovano alla fine «nudi», «scacciati dal giardino di Eden», stranieri in mezzo al deserto, terra lontana e di nessuno (Gen 3,23-24).
Come i suoi progenitori, anche il figlio della parabola lucana si scaccia da sé dall’Eden, alla ricerca di una libertà che nemmeno conosce e che non saprà nemmeno gustare, perché estranea alla sua condizione di schiavo del suo bisogno.
Ci resta una sola domanda: dove si annidano in noi l’Adam e il figlio «prodigo»?                            (continua – 10)

Paolo Farinella




SPIRITO… CERCASI

La chiesa dell’America Latina di fronte alla sua nuova missione

Inizia il 13 maggio, con la celebrazione eucaristica presieduta da papa Benedetto xvi, la quinta assemblea del CELAM, la Conferenza episcopale dell’America Latina e dei Caraibi. Luogo dell’evento è il santuario di Aparecida, in Brasile. Per la chiesa latinoamericana, 15 anni dopo Santo Domingo,  
è un nuovo momento di comunione e riflessione, alla ricerca delle linee direttive che guideranno la cattolicità del continente nei prossimi anni.
Il tema: discepolato e missione.

G razie ai suoi 7 milioni di pellegrini all’anno, il santuario di Aparecida è, dopo quello di Nostra Signora di Guadalupe in Messico, il secondo centro di devozione dell’America Latina in ordine di importanza e frequentazione. A 165 chilometri da San Paulo, il santuario è meta di innumerevoli pellegrinaggi da tutto il Brasile e buona parte del Sudamerica. Dal 1930, la Vergine «Aparecida» (Apparsa) è patrona del Brasile. L’imponente costruzione di mattoni forati domina, con il suo campanile alto 80 metri, la verde valle del fiume Paraiba e può ospitare fino a 45 mila fedeli.  Nessun dubbio: il 13 maggio prossimo farà ancora una volta il tutto esaurito. Ospite di riguardo sarà infatti niente meno che Benedetto xvi, in occasione del primo viaggio apostolico del suo pontificato fuori dai confini del continente europeo.
Il santo padre celebrerà, infatti, la messa inaugurale della «V Conferenza dell’Episcopato dell’America Latina e dei Caraibi» (CELAM), che si terrà nella località brasiliana dal 13 al 31 maggio di quest’anno. Un appuntamento importante a cui il papa non ha voluto mancare, rispettando in questo modo gli impegni precedentemente stabiliti dal suo predecessore, Giovanni Paolo ii.
Il «CELAM 5», infatti, era stato programmato per l’anno 2005, in occasione del cinquantesimo anniversario della prima Conferenza dei vescovi latinoamericani, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1955. Era stata la lunga e irreversibile malattia del papa, sfociata nella sua morte il 2 aprile di quell’anno, a consigliare prelati sudamericani e Vaticano di posticipare l’evento a miglior data: oggi, per l’appunto.

50 ANNI DI STORIA

Aparecida 2007 si colloca nella scia di altre importanti assemblee ecclesiali che hanno visto protagonista la chiesa del continente. Ripercorriamone brevemente la storia, cercando di rintracciare le radici su cui si fonda l’incontro di quest’anno, destinato a influenzare la riflessione dottrinale e le linee pastorali per il prossimo decennio.   
Partiamo dalla già nominata prima Conferenza di Rio de Janeiro. Convocata dall’allora pontefice Pio xii, la chiesa che si ritrovò nella metropoli brasiliana era segnata dalle contraddizioni e dalle tensioni dell’epoca precedente il Concilio Vaticano ii. I temi in agenda erano la penuria di vocazioni sacerdotali, l’importanza di rinnovare e riqualificare le attività di educazione e istruzione religiosa e la sperequazione economico-sociale, causa di divisione ed ingiustizie. Quest’ultimo punto, seppure trattato ancora larvatamente dalla conferenza, diede il via a una riflessione sull’inscindibilità di promozione umana, coscienza sociale e evangelizzazione destinata a diventare cruciale nelle assemblee seguenti. Non mancò neppure un piccolo accenno alla «questione india», che teneva in conto la presenza nel continente di quelle sacche di popolazione aborigene  emarginate e perseguitate.
Il punto centrale della Conferenza di Rio fu, però, la nascita stessa del CELAM, un consiglio episcopale permanente delle chiese latinoamericane, con la funzione di studiare gli argomenti di maggior interesse per la chiesa in America Latina, promuovere opere ed attività di promozione umana, nonché impostare la riflessione sul futuro della cattolicità nel continente organizzando i futuri incontri assembleari.
Tredici lunghi anni dovettero trascorrere prima che il CELAM promuovesse una nuova Conferenza generale, convocata da papa Paolo vi e svoltasi a Medellín (Colombia) dal 26 agosto al 6 settembre 1968. In questa occasione il CELAM preparò anche l’Instrumentum Laboris dell’assemblea, che venne poi corretto e ampliato dalle Conferenze episcopali e dalla Santa Sede. Il documento aveva come linee fondamentali: la realtà congiunturale, la riflessione teologica e le applicazioni concrete di tale riflessione. Ispirata dal documento conciliare sulla chiesa nel mondo contemporaneo «Gaudium et Spes» e dall’enciclica «Populorum Progressio», pubblicata l’anno precedente, Medellín pose l’accento sulle profonde relazioni che legano fra loro fede e giustizia. Entrarono prepotentemente nel dibattito temi cari alla teologia della liberazione quali il tema del peccato strutturale, la liberazione dei poveri e la trasformazione del mondo come espressione della costruzione terrena del Regno di Dio.
Il tema della liberazione dei poveri divenne centrale nella terza conferenza del CELAM, tenutasi a Puebla (Messico) dal 28 gennaio al 15 febbraio del 1979. Questa conferenza rappresentò anche la presa di contatto diretta con la realtà ecclesiale latinoamericana, in qualità di papa, di Giovanni Paolo ii, eletto soltanto pochi mesi prima al soglio pontificio. Quattro anni dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi» la chiesa latinoamericana venne convocata a riflettere su un proprio stile di evangelizzazione che partisse dal contesto storico e sociale del continente. La linea guida di Puebla risiedeva nella certezza che la chiesa potrà diventare soggetto di evangelizzazione, nella misura in cui saprà presentarsi come luogo di comunione e partecipazione. La liberazione dei poveri e degli oppressi, desiderosi di trovare nella chiesa un «popolo in cammino» in grado di condividere con loro le ansie, i drammi, le paure e le violenze della vita quotidiana divenne lo sfondo della riflessione assembleare. Grande enfasi venne posta sul lavoro delle Comunità ecclesiali di base (Ceb) che si erano venute diffondendo proprio per dare una risposta a quest’ansia di incarnazione del messaggio evangelico nel tessuto più capillare della società.
Il tema della «Nuova evangelizzazione» fu alla base della iv Conferenza di Santo Domingo, inaugurata da Giovanni Paolo ii il 12 ottobre 1992, in occasione del cinquecentenario dell’evangelizzazione del continente americano. L’accento venne posto sull’annuncio kerygmatico, sul suo contenuto e sulle sue modalità. Un annuncio che doveva prendere spunto e forza dalla professione di fede e dall’illuminazione teologica, capaci di guidare le linee di azione pastorale delle chiese latinoamericane nel nuovo millennio.
Dopo Medellín e Puebla venne dunque abbandonata la prassi teologica «dal basso», propria della teologia della liberazione, del «vedere – giudicare – agire»; la cosa non mancò di scatenare proteste di cui rimangono vestigia nel dibattito che ha portato alla preparazione della Conferenza di Aparecida. Il periodo intercorso tra Puebla e Santo Domingo aveva infatti visto crescere il sospetto delle autorità vaticane nei confronti della teologia della liberazione, atteggiamento concretizzatosi in modo particolare nella pubblicazione di due documenti – Libertatis Nuntius (1984) e Libertatis Conscientia (1986) – della Congregazione per la dottrina della fede, presieduta dall’allora cardinal Ratzinger, oggi papa Benedetto xvi.
Non poche furono le accuse levate ai lavori di Santo Domingo, tra le quali quella di un’eccessiva «interferenza» vaticana, di tradimento alla tradizione di Medellín e Puebla, di svalutazione del lavoro delle Ceb e quella di aver celebrato i 500 anni di evangelizzazione banalizzando la contemporanea catastrofe umana rappresentata dall’esperienza coloniale. Anche a causa di queste critiche, Santo Domingo rimase un momento controverso nella storia della chiesa del continente. I suoi meriti furono: il riconoscimento delle diverse culture indigene, afroamericane e meticce che formano il variegato panorama etnico latinoamericano e la necessità di inculturare il messaggio del vangelo nel loro tessuto, la proposta di un annuncio di «seconda evangelizzazione» per tutti quei battezzati solo «formalmente cristiani», il cui numero stava nettamente aumentando; infine, quello di suggerire la necessità urgente di una lettura teologico-pastorale del crescente fenomeno dell’urbanizzazione selvaggia, in atto in tutti i paesi latinoamericani.
Alle quattro conferenze del CELAM andrebbe aggiunto anche il «Sinodo speciale sulla chiesa in America», tenutosi a cavallo fra novembre e dicembre del 1997 e che ha visto, per la prima volta, la partecipazione congiunta dei vescovi di entrambi i continenti americani.

UNA NUOVA MISSIONE

Queste radici hanno dato vita all’albero su cui è chiamata a innestarsi oggi l’assemblea di Aparecida. Speranze, dubbi e anche qualche polemica rendono il prossimo incontro carico di aspettative. L’ultima controversia è stata quella scatenata dall’ufficializzazione del richiamo, impartito dalla «Congregazione per la dottrina della fede», del teologo gesuita Jon Sobrino, uno dei più importanti esponenti della teologia della liberazione.
È comunque molto difficile parlare di risultati sperati o previsti. Sarebbe chiedere troppo a un momento di condivisione ecclesiale come questo. Le analisi e le proposte che emergeranno, dovranno essere passate al vaglio delle varie commissioni e necessiteranno tempo per poter essere metabolizzate a dovere dalle varie chiese. Avranno soprattutto bisogno di essere «forgiate» al fuoco dell’esperienza, in un continente che mai come in questi anni ha presentato processi di trasformazione così radicali e veloci. È la società latinoamericana stessa, i suoi costumi, il suo modo di raccontarsi, il suo far emergere nuovi e importanti interlocutori in campo economico, politico e sociale a chiedere alla chiesa di proporre una missione rinnovata e rinnovatrice.
Il tema di Aparecida, come appare nel «Documento di partecipazione» (lineamenta ) ed inviato a tutte le diocesi per stimolare la produzione di contributi da presentare all’assemblea, è proprio la missione. «Discepoli e missionari di Gesù Cristo. Affinché i nostri popoli abbiano la vita in Lui.  “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 5)» è il lungo titolo, scelto dal CELAM (e «ritoccato» dal  papa, che ha voluto aggiungere la citazione giovannea), per richiamare la chiesa latinoamericana alla doppia irrinunciabile funzione del discepolo di Cristo: chiamato a «stare» con il Maestro per poter essere da lui «inviato». Ma chi è oggi, in America Latina,  il discepolo di Cristo? Come si forma a questo discepolato? Quali sono il terreno e gli utenti della sua missione?
Il documento prodotto dal comitato del CELAM non vuole dare risposte, ma piuttosto offrire degli stimoli per la riflessione e il confronto delle esperienze. La metodologia seguita nel preparare il documento si lascia alle spalle il metodo classico del «vedere-giudicare-agire». Parte invece da una riflessione antropologica sulla felicità anelata dall’uomo, alla cui incompiutezza viene in soccorso la rivelazione di Dio che ha il suo culmine nella venuta di Cristo. Prosegue con un racconto storico del processo di evangelizzazione in America Latina, per poi imbastire una riflessione teologica sul discepolato, punto di partenza e postulato di ogni successiva tensione pastorale e missionaria. Solo in seguito il testo affronta la realtà del continente, con le sue sfide più urgenti.
A questo riguardo, è interessante notare come la sintesi dei contributi della chiesa brasiliana, preparata da una commissione appositamente incaricata dalla Conferenza episcopale del Brasile, ha raccolto i numerosissimi apporti provenienti dalle singole diocesi secondo il trinomio «vedere-giudicare-agire». Fatto proprio dal Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes (GS, 4) e tanto caro alla teologia della liberazione, questo approccio sembra garantire «una diagnosi più obiettiva della realtà, una riflessione attuale sulla stessa e un impegno pastorale come risposta a domande concrete» (Cf. Il Regno – Documenti, 1/2007, pag. 46).
La globalizzazione è la prima sfida con la quale l’assemblea dovrà confrontarsi. Agli indubbi vantaggi provocati da questo fenomeno, soprattutto nei campi del sapere e della comunicazione, fa riscontro una cresciuta insicurezza delle persone che si manifesta in un vero e proprio sradicamento, tanto  familiare come politico, sociale e religioso. Su quest’ultimo punto si nota un radicale e repentino cambiamento di tendenza. La chiesa latinoamericana, da sempre viva, fecondata dalla grazia di Dio e dal sangue dei martiri, vive un momento di involuzione che il documento stesso riconosce nel capitolo dedicato alle sfide che la realtà oggi propone all’evangelizzazione: una mentalità che ormai tende a prescindere da Dio, un laicismo militante che incontra sempre maggior visibilità anche nei mezzi di comunicazione e che si ribella, talvolta aggressivamente, contro la chiesa, la sua gerarchia e le sue istituzioni. Si nota inoltre un significativo calo nel numero dei cattolici e nella prassi sacramentale degli stessi, nonché un esodo di molti verso le chiese evangeliche e pentecostali, che alimenta un vero e proprio «supermercato di alternative religiose». Crescono anche teologie che si rifanno  a precise realtà etniche, come la «teologia india» e la «teologia afroamericana», impegnate in alcuni casi a coniugare la fede cristiana con le tradizioni religiose proprie o, in alcune correnti più radicali, a escludere il cristianesimo dalla loro agenda.

QUALE CHIESA?

È una chiesa, quella del «dopo Aparecida», che sarà chiamata a confrontarsi sui temi di giustizia, pace e integrità del creato, dando risposta ai milioni di persone che vivono in stato di miseria, lasciate perennemente ai margini di una società che insegue modelli di benessere escludenti. Sarà chiamata a farlo in un inedito panorama socio-politico, in alcuni casi controverso e per nulla incline a lasciare alla chiesa l’esclusiva della leadership morale finora spesso e volentieri goduta.
È soprattutto una chiesa che dovrà dire in modo netto e trasparente se l’opzione preferenziale per i poveri, eredità delle precedenti assemblee di Medellín e Puebla, è ancora valida. Se la missione, oggi in America Latina, si identifica ancora con questa scelta radicale per gli ultimi, i piccoli, per quelli che sempre camminano al traino della società finché ne hanno la forza, pronti per essere scaricati alla minima accelerazione. Dai «lineamenta» ciò non appare chiaramente e con forza; molto, si spera, potrà emergere dai contributi offerti dalle varie commissioni. Parecchi interventi a commento di questa fase preparatoria dell’assemblea del CELAM hanno auspicato un’assemblea illuminata e animata dallo Spirito, vero protagonista della missione e unico soggetto capace di dare una risposta a quell’anelo di felicità che l’uomo cerca disperatamente e che, in troppi casi, vede frustrato, calpestato o ucciso.
Lo spirito missionario esige una passione viscerale per Gesù Cristo e per il Regno. È lo stesso spirito che, nella sinagoga di Nazaret, ha identificato chiaramente l’ambito di detta missione: una missione scomoda, fatta di testimonianza verso gli ultimi e i poveri perché ad essi appartiene il Regno dei cieli, ad essi è principalmente diretta la «Buona notizia».   

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




«NOTIZIE, NON GOSSIP»

«Se la Rai ha aperto una sede in Africa, molto lo si deve alla mobilitazione del mondo missionario». Parola di Enzo Nucci, corrispondente Rai da Nairobi. Attivo da alcuni mesi, il suo ufficio, intitolato a Ilaria Alpi e Milan Hrovatin uccisi in Somalia nel 1994, verrà ufficialmente inaugurato di qui a qualche settimana. Riportiamo la notizia con una certa soddisfazione. I lettori infatti ricorderanno l’iniziativa «Notizie, non gossip», che le riviste missionarie, riunite nella Fesmi, lanciarono all’inizio del 2006, chiedendo un salto di qualità nell’informazione televisiva, in modo particolare di quella offerta dal servizio pubblico, i cui costi sono pagati anche dal canone dei cittadini. Molti firmarono il nostro appello e ci scrissero messaggi di incoraggiamento.
L’appello della Fesmi e gli incontri di alcuni direttori delle testate missionarie con i vertici Rai (prima Meocci, poi Cappon) un risultato significativo l’hanno dunque sortito. A dimostrazione che un impegno corale del mondo missionario e un sano lavoro di lobby e «pressing» sono preziosi. Ma, vinto il primo round, c’è ora da continuare la partita. La soddisfazione per un traguardo raggiunto non deve abbassare il livello di guardia. L’informazione – l’abbiamo detto e lo ripetiamo – è la prima forma di solidarietà. Perciò riteniamo che ora si debba insistere per alzare ulteriormente, nel pubblico italiano, il tasso di consapevolezza delle questioni inteazionali e, specificamente, il grado di conoscenza della realtà del Sud del mondo.
A poco servirebbe una sede in Kenya (così come le altre aperte di recente in India e Turchia) se poi l’approccio alle notizie e il taglio dei servizi rimanesse quello oggi predominante, tendenzialmente sbilanciato sui fatti negativi e clamorosi (guerre, eventi disastrosi…) e poco capace di cogliere i cambiamenti positivi, le novità all’orizzonte, il vissuto della gente.

In virtù dell’apertura di nuove «finestre sul mondo», ci sentiamo di chiedere alla Rai un giornalismo che sappia far parlare le persone, che metta in luce il positivo di un continente, l’Africa, che è molto diversa da quel ricettacolo di mali e problemi che spesso viene dipinto. Crediamo che un diverso racconto dell’Africa potrebbe contribuire ad abbattere troppi stereotipi e immagini stantie che ancora si registrano sugli immigrati africani (e non solo). Potrebbe inoltre sortire influssi sorprendentemente positivi sugli africani di casa ormai in Italia, che si sentirebbero finalmente visti in una luce più veritiera.
In questo senso, diamo il benvenuto all’iniziativa «Dimmi di più» che Medici senza Frontiere ha lanciato di recente per far sì che su crisi inteazionali e guerre l’informazione non si limiti a resoconti episodici e frammentari. A nostro giudizio, occorre andare ben oltre: c’è tutto un mondo – donne e uomini che vogliono essere protagonisti del loro domani, una società civile in crescita, culture e tradizioni ricchissime – che merita d’essere raccontato. Scriveva Missione Oggi in una lettera aperta a Enzo Nucci qualche mese fa: «Con te e la Rai a Nairobi l’Africa si fa più vicina: vogliamo credere che sarai capace di raccontarci non solo gli eventi di rilievo, ma anche un nuovo stile di vita, fatto di aggregazione sociale e una gran voglia di futuro».
Insomma: diteci di più sulle guerre, ma diteci anche qualcosa che non siano solo le guerre. Soprattutto ditecelo non a notte inoltrata, in spazi che assomigliano a oasi nel deserto dei palinsesti affollati di Grandi Fratelli e di Vallettopoli. A poco servirebbe una nuova sede Rai se non si traducesse in una piccola-grande occasione per osare un nuovo stile, cambiare mentalità. In una parola: per fare cultura.
È troppo chiedere che la direzione generale della Rai mantenga la sua promessa di un monitoraggio sui Tg e la loro attenzione al Sud del mondo? È troppo ipotizzare che in un futuro non lontano i Tg ospitino spazi fissi di approfondimento su temi e questioni inteazionali, come oggi fanno per motori o enogastronomia?
Come cittadini – prima che come rappresentanti di donne e uomini impegnati in nome del Vangelo nei diversi continenti a servizio delle persone di qualsiasi etnia e religione – siamo convinte e convinti che una Rai più attenta a quanto si muove nel Sud del mondo faccia il bene dei suoi utenti e, di riflesso, contribuisca a renderli un po’ di più, giorno per giorno, «cittadini del mondo».

Federazione Stampa Missionaria Italiana




Cari missionari

Lula: il «calamaro»

Cari missionari,
per l’attuale presidente del Brasile avete avuto sempre un debole e anche nel 1° numero del 2007 non vi siete smentiti, riproponendo tra l’altro un’immagine dell’allora candidato premier Lula il giorno che venne a farvi visita (1999). Come darvi torto? Anche a me Lula è simpatico: ho sempre sperato che, con lui, i brasiliani potessero aprire un nuovo corso nel segno della giustizia, della pace e, data la sua predilezione per san Francesco, della salvaguardia del creato.
Come sappiamo, Lula oltre agli amici, ha sempre avuto tanti nemici: i media hanno provato più volte a screditarlo, a presentarlo come uno smidollato incapace, giocando sul fatto che, in portoghese, «lula» significa «seppia, calamaro», ossia animali invertebrati, privi di spina dorsale.
Questo tipo di attacchi non deve sorprenderci… La sorpresa invece – e non è stata una sorpresa gradevole – è venuta quando ci siamo accorti che, con il ministro dell’Ambiente, Marina Silva (un’altra persona per la quale chi ama il Brasile, indios e giungle amazzoniche non può non provare simpatia) Lula i contrasti li aveva eccome: contrasti sulle autorizzazioni da rilasciare per le piantagioni di soia ogm e, più in generale, sulla gestione sostenibile delle foreste.
Non so se, come asserisce qualcuno, in Amazzonia le cose siano andate peggio sotto Lula che sotto i suoi predecessori, ho l’impressione però che il premier qualche grosso errore l’abbia fatto: per questo è tempo di far qualcosa per rimediare a tali errori.
Spero vivamente che il secondo quadriennio del presidente sia migliore del primo: Lula pensi al suo nome, che non è semplicemente il nome di un invertebrato, ma di creature fantastiche, dotate di occhi e sistemi di adattamento alle condizioni estreme, che non hanno eguali in natura. Grazie ad essi i calamari giganti degli oceani riescono in imprese che sono precluse a tutti gli altri animali: anche il Lula presidente dunque, usi i suoi occhi per vedere le sofferenze di quell’oceano, ahimé sempre meno verde, che è l’Amazzonia, li usi per circondarsi di collaboratori leali, onesti, coerenti, in grado di resistere alle lusinghe dei potenti, e dotati a loro volta di occhi grandi, che li mettano nelle condizioni di disceere la luce dalle tenebre, la verità dalla menzogna, tecnicismo e sviluppismo dall’autentica civiltà e autentico progresso.
Ludovico Torrigiani
Fano (PU)

Anche noi speriamo e auguriamo a Lula di usare tutto il suo coraggio per realizzare i suoi programmi nel segno della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato, per il bene dei brasiliani, degli americani e altri popoli del globo.

«Usati»… a scuola

Caro Direttore,
qualche anno fa, mi capitò di imbattermi in uno scritto di padre Pietro Parcelli a Cava dei Tirreni (SA), quando insegnavo alle elementari in località Pregiato. Non l’ho conosciuto personalmente, ma idealmente è scattata una molla e da allora sono un Parcelli boy.
Mi si è aperto anche un mondo attraverso la vostra rivista, che stampa reportage sconvolgenti, che non trovano spazio da nessuna parte. Perché seguendo il dettato evangelico «la verità vi farà liberi» continuate per la vostra strada, io continuo con caparbietà la mia opera alle scuole medie e cerco di «usarvi», per comprendere il mondo attraverso occhi diversi da quelli dell’ufficialità, dove i silenzi superano la verità.
Anche io spero in un mondo migliore e di dare sempre il massimo, seguendo l’esempio dei miei genitori e di quanti mi hanno preceduto. Forse non farò mai carriera, ma è certo che i miei ideali non sono in vendita; come il senatore Bob Kennedy, deploro questa insensata violenza che non ci permette di cogliere il senso pieno e ultimo della nostra esistenza, che non si può ridurre e banalizzare di continuo, mentre c’è qualcosa di Alto che è da sempre lì e ci aspetta.
Come giornalista a voi il mio totale apprezzamento, come cattolico la mia stima, come insegnante il mio rispetto.
Vi auguro buon lavoro.
Giuseppe Bonavita
Saleo

Continui pure a «usarci», prof. Bonavita. Da parte nostra continueremo «la nostra strada» con altrettanta «caparbietà», per difendere e proporre gli ideali del regno di Dio: giustizia, pace e frateità.

Complimenti di… autore

Caro Paolo,
sono riuscito finalmente a dare uno sguardo organico al mio articolo (dossier di febbraio 2007: «Vivere e sopravvivere in tempi di Inteet. Nuove tecnologie e sud del mondo, ndr). Debbo farti i complimenti per l’ottima qualità del lavoro redazionale. Avete impaginato e trattato il mio pezzo in modo mirabile. La tua rivista conferma la mia posizione per un giornalismo di qualità, con una grafica accattivante e raffinata, che non uccide il testo, ma anzi lo esalta. In quanto a presentazione e impaginazione del testo, è di gran lunga l’articolo più bello sul tema, tra tutti quelli che ho potuto vedere finora. Le immagini non sono mai state banali e ho visto che hai corredato il tutto con opportuni link e didascalie.
 Mi è piaciuta molto soprattutto la titolatura che, oltre a essere efficace e attraente, denota anche una perfetta comprensione degli elementi davvero salienti del testo. Così come i sommari che hai scritto. Mi è piaciuta in particolare la doppia titolatura degli articoli: sei riuscito ad assegnare a ogni articolo un titolo accattivante pur mantenendo in background il vecchio titolo da me suggerito (più libresco).
Ho preso poi dei brani a campione per verificare il testo e non ho trovato alcun refuso.
Infine mi è piaciuta davvero molto la tua introduzione, che sottoscrivo in pieno per la lucidità e la lungimiranza della prospettiva. Inutile dire che hai fatto venire voglia anche a me di rinunciare al telefonino…!
Visto il risultato, mi piacerebbe avere il più alto numero possibile di copie della rivista, in modo da poter divulgare il dossier ogni volta che me ne capiti l’occasione.
GianMarco Schiesaro
Roma

Ringraziamo dei complimenti e ricambiamo di cuore, poiché il primo a meritarli è l’autore del dossier. E passiamo i complimenti anche alle nostre collaboratrici che hanno corretto le bozze nei vari passaggi e prove di stampa.

Troppo… bravi!

Carissima Redazione,
sono un vostro abbonato e leggo sempre con molto interesse la vostra rivista. Ho anche consigliato l’abbonamento a vari amici e amiche e ne ho fatto regalo ad altri. Finalmente mi è arrivato il numero di gennaio, con un mese di ritardo; mentre altri amici di Prato, anche loro abbonati, l’hanno ricevuto puntualmente.
Sono abbonato a 4 riviste missionarie e ogni tanto ne leggo anche altre, ma la vostra è fra quelle che più apprezzo.  Grazie per il vostro lavoro, il vostro servizio, la vostra sensibilità, l’equilibrio: siete proprio bravi!
Carlo Faggi
Prato

Rivista… a ruba

Sto tenendo un corso di storia delle religioni presso l’Università popolare di Torino; ho portato copie della vostra rivista con il dossier sulle religioni (gennaio 2007) e sono andate a ruba… Grazie e complimenti per la lodevole iniziativa.
Piergiacomo Oderda
Torino

Ecologista anandro… sarà lei!

Egregio Direttore, da ragazzo sono vissuto a pane e… missionari della Consolata (padri Broggi, De Agostini e tanti altri che vivevano nella chiesa di  san Matteo). Sono cattolico e ho il nonno materno di cui è in corso il processo di beatificazione.
Prossimo ai 65 anni, non posso essere tacciato di spirito polemico; ma non sono d’accordo con quanto pubblicato da Bellesi a pag. 3 del numero di febbraio 2007 (Occhio ai Poli, ndr), né in parte con quanto si legge alle pagine 53 e seguenti (articolo sugli inquinanti atmosferici nelle città, ndr).
Il fatto è che oggi si fa terrorismo, anche da parte dei media, parlando di cose di cui non si sa nulla, così per sentito dire e per egocentrismo. Il famoso antropologo Carapezza ebbe a dire che ci sono troppi «anandro ecologisti» (io dico che se ci fossero stati al tempo dei romani non avremmo il Colosseo e l’acquedotto).
Non sono i mari che si sollevano per lo scioglimento dei poli (mettete in un bicchiere cubetti di ghiaccio e acqua fino all’orlo: quando il ghiaccio si liquefarà il livello diminuirà e non traboccherà una goccia); è la terra che si rattrappisce! Vi accludo quanto detto dal prof. Zichichi.
Quanto alle polveri sottili apprezzo lo sfoggio di erudizione (troppo ridondante e magari in parte copiato), ma si dà il caso che il prof. U. Veronesi ha sostenuto, anche in tv, che sono irrilevanti per il tumore ai polmoni (Milano ha meno casi statistici di tale affezione rispetto a Torino). E le mascherine, con le quali tanti ridicolamente  vanno in giro, non le fermano!
avv. Vittorio Cuccia – Palermo

Lasciamo la risposta (né polemica, né offensiva) agli autori dell’articolo, che scrivono né per sentito dire, né copiando, ma in base alla loro esperienza trentennale. 

«La lettera dell’avvocato Vittorio Cuccia offre l’occasione per alcune utili precisazioni.
Il prof. Veronesi non ha detto che le polveri sottili non fanno male, ma che c’è di peggio nei cibi. Il problema non sta nelle polveri in generale, ma nella loro dimensione e composizione. Ad esempio, il prof. Veronesi ha lanciato l’allarme per le polveri di amianto, che sono cancerogene e che, notoriamente, fanno parte delle polveri sottili.
Sulle mascherine comunemente utilizzate l’avvocato ha ragione, servono solo per fermare le polveri grossolane, ma sono inutili per vapori, CO2, ecc.
Il prof. Zichichi non dice che l’uomo non può modificare il clima, ma che le attività dell’uomo possono influire sull’ambiente per una percentuale ipotizzabile fino al 10%, che è un valore sicuramente non trascurabile!
Il ghiaccio che si scioglie e che preoccupa è quello dei ghiacciai: l’acqua che si forma va a finire in mare e può aumentae il livello.
Infine, Torino è una delle città più inquinate d’Italia ed è quella dove si riscontra il maggior numero di tumori polmonari da amianto: se l’avvocato vuol venire a trovarci potrà rendersene conto di persona!
Non è terrorismo su cose di cui non si sa nulla, ma un’attenta analisi basata su dati scientifici incontestabili».
dr. Rosanna Novara e dr. Roberto Topino




AMERICANI… «ANTI-AMERICANI»

Lettera aperta all’ambasciatore statunitense in Italia, Ronald Spogli, a proposito di «anti-americanismo»

Egregio Ambasciatore,  
            

come cittadini statunitensi in Italia le scriviamo per chiedere una fine alle ingerenze della nostra Ambasciata nella vita politica dell’Italia. La sua lettera firmata da altri 4 ambasciatori per fare pressione sul governo italiano perché continui la sua partecipazione alla guerra in Afghanistan è stata una inaudita e inaccettabile interferenza dell’Ambasciata Usa nella dialettica democratica di questo paese, oltre a suonare offensiva alla grande maggioranza degli italiani, che, secondo i sondaggi, vorrebbero il ritiro delle truppe italiane, anche in rispetto dell’art. 11 della Costituzione, che dichiara che «l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie inteazionali».
Pochi giorni dopo, l’Ambasciata Usa ha compiuto, a parere nostro, una seconda grave scorrettezza: ha inviato a noi statunitensi in Italia una lettera di avvertimento di possibile pericolo per noi qualora avessimo voluto andare a Vicenza il 17 febbraio per protestare, insieme ai cittadini italiani, contro la creazione di una megabase Usa… La lettera caratterizzava tale manifestazione come «anti-statunitense» e consigliava a tutti di stare lontano dalla città dal 16 al 18 febbraio per evitare di diventare «bersagli di manifestanti anti-Usa». I contenuti della lettera non corrispondono alla realtà, diffondono paura e ignoranza, offendono l’intelligenza degli statunitensi in Italia e la realtà democratica della società italiana.

Prima di tutto, la manifestazione del 17 febbraio non è anti-statunitense; è contro la richiesta da parte del governo Usa di costruire una nuova megabase statunitense nei pressi del centro di Vicenza, città riconosciuta dall’Unesco come patrimonio culturale dell’umanità.
La verità è che la stragrande maggioranza dei vicentini e del popolo italiano non vuole questa ennesima base Usa (siamo già presenti in Italia con circa 20 installazioni militari). Il 2 dicembre 2006 circa 30 mila persone hanno manifestato a Vicenza contro la base, con un bel corteo colorato e pacifico, al quale hanno partecipato delegazioni di cittadini statunitensi di Firenze e Roma, senza mai incontrare episodi «anti-Usa». Anzi, la nostra presenza è stata molto apprezzata.
Distribuire una lettera ai cittadini per dire che corrono dei pericoli in Italia a causa di una manifestazione politica è un tentativo neppure troppo nascosto di scoraggiare o mettere il bavaglio ai cittadini che vorrebbero esprimere il loro dissenso dalle politiche di guerra dell’amministrazione Bush.
Lei, Ambasciatore, certamente rappresenta il governo di Bush e Cheney, ma le ultime elezioni federali negli Usa dimostrano che quel governo non rappresenta più la maggioranza del nostro popolo, soprattutto per quanto riguarda politica estera e guerra. La società Usa è profondamente malata di militarismo e i nostri concittadini dicono sempre di più: basta!
Alle manifestazioni contro le basi (Vicenza, Camp Darby, Aviano, Sigonella), alle manifestazioni contro la guerra, qui in Italia e in tanti altri paesi come negli Usa (le centinaia di migliaia di manifestanti a Washington e altre città Usa il 27 gennaio scorso erano dei pericolosi anti-americani?), la gente protesta non contro il popolo statunitense, ma contro la violenza delle guerre e delle occupazioni militari sostenute dal governo Usa in Iraq (più di 655 mila morti dall’inizio della guerra), ma anche in Afghanistan e Palestina. Protesta contro la militarizzazione del territorio e dell’economia, contro la presenza di basi straniere con lo stoccaggio di armi nucleari e all’uranio impoverito; chiede, come Amnesty Inteational, la chiusura del campo di Guantanamo e di tutte le carceri segrete e la fine dei voli segreti della Cia (p.es. il caso di Abu Omar), oltre alla fine della pratica della tortura e la violazione dei diritti umani: sono richieste «anti-americane»? Chiede un altro mondo possibile con una nuova cultura di pace e giustizia globale.

Noi cittadini statunitensi in Italia, come milioni di altri concittadini negli Usa, ci opponiamo alla politica di guerre all’estero e di cancellazione dei diritti civili nel nostro paese, portata avanti dal governo di Bush e Cheney, mentre seri problemi sociali vengono ignorati.
Negli Usa abbiamo il peggior sistema sanitario del mondo occidentale, con circa 50 milioni di persone senza assicurazione sanitaria. Abbiamo il più alto numero di persone in carcere e il più alto tasso di incarcerazione di tutto il mondo (siamo 5% della popolazione globale con 25% degli incarcerati), con più di 4 mila persone nel braccio della morte. Chiediamo risorse non per le forze armate, ma per la sanità, scuola, ambiente, lavoro, ricostruzione delle città, trasporto pubblico, solidarietà con il resto del mondo.
Quarant’anni fa, ai tempi della guerra in Vietnam, Martin Luther King dichiarò: «Siamo al punto, nelle nostre vite, in cui bisogna agire in prima persona, affinché il nostro paese sopravviva alla propria follia. Ogni uomo con le convinzioni umane deve decidere la protesta che meglio si adatta alle sue convinzioni, ma dobbiamo tutti protestare». E aggiunse: «Viene il momento in cui il silenzio è tradimento».
Noi, cittadini statunitensi in Italia, il 17 febbraio saremo presenti a Vicenza, perché a parere nostro la manifestazione contro le basi e contro le guerre è una manifestazione di sostegno anche alla maggioranza dei cittadini statunitensi che desidera un cambio di rotta nella politica statunitense, all’estero e in patria.

Statunitensi contro la guerra (Firenze)
Statunitensi per la pace e la giustizia (Roma)
www.peaceandjustice.it

statunitensi contro la guerra




Quando «euro» non fa rima con «democrazia»

Desidero esprimervi i miei più sinceri apprezzamenti per la lucidità, la serietà, il rigore con cui avete affrontato, nel numero monografico di ottobre-novembre, la spinosissima questione dell’unità europea.
Io non sono né euroscettico né europessimista; al contrario, sono entusiasta della moneta unica e spero che, dopo la Slovenia, altre nazioni possano presto aggiungersi al cosiddetto «gruppo dei dodici» (espressione sulla quale nessuno ha mai trovato nulla da ridire, ma che non rende giustizia al Principato di Monaco, Repubblica di San Marino e Stato del Vaticano, che all’euro hanno aderito dall’inizio…).
Proprio la simpatia per l’euro ha fatto nascere in me il desiderio di sapee di più sui motivi per i quali è ancora così contestato in alcuni dei paesi, dove è stato adottato (nella nostra Italia, per esempio, non sono certo pochi quelli che rimpiangono la lira…) e guardato con tanto sospetto in quelli che, secondo gli esperti, potrebbero e dovrebbero adottarlo.
In particolare, pensando all’estremo nord dell’Europa, mi sono chiesto perché vi sia tanta ostilità verso la moneta unica, tant’è che Svezia, Danimarca, Norvegia, Islanda preferiscono tenersi le loro corone, anziché seguire il percorso della Finlandia.

Il caso svedese forse merita qualche parola in più: infatti nel settembre 2003 lo schieramento favorevole all’introduzione dell’euro subì una bruciante sconfitta e dovette accontentarsi del 41% (i contrari, invece, superarono il 56%…) dei suffragi. Secondo i sondaggisti lo scarto sarebbe stato sicuramente maggiore se, pochi giorni prima del referendum, un fanatico, legato ad ambienti neonazisti, non avesse barbaramente ucciso l’allora ministro degli Esteri, Anna Lindh, una delle più convinte sostenitrici dell’adesione all’euro.
Come mai neppure l’ondata emotiva scatenata dal mai abbastanza deprecato assassinio riuscì a far incanalare i voti verso il «sì»? Come mai tanta differenza con le proiezioni dei sondaggisti che avevano dato i due schieramenti praticamente alla pari? Il politologo Hans Magnus Johansson diede una spiegazione molto chiara, usando termini e concetti molto simili a quelli adoperati da Alessandra Algostino e da Beard Cassen negli articoli pubblicati nel vostro numero monografico: «Il ragionamento è stato: no, in Svezia abbiamo la democrazia. A Bruxelles non c’è…».
Credo di poter dire che in questi ultimi 4 anni la situazione non è migliorata; anzi, ho la sensazione che lo schieramento sfavorevole all’euro si sia nel complesso rafforzato.
L’avversione degli scandinavi per la moneta unica dovrebbe costituire anche per noi italiani un ulteriore motivo di riflessione: siamo sicuri che più Europa voglia dire più democrazia? Siamo sicuri che le nuove tasse che le leggi finanziarie ci costringono in un modo o nell’altro a pagare (più tasse sulla casa, sul lavoro, sui servizi essenziali, sulle rendite da capitale accumulato in modo… normale, non per mezzo di speculazioni ai danni della collettività) servono davvero a risanare il debito pubblico e a rilanciare il paese? Non sarà invece che tutti questi miliardi vengono impiegati per aumentare lo stipendio, la pensione, la liquidazione ai superburocrati di tuo?

I paesi scandinavi hanno tanti difetti (certe piaghe come la criminalità, specie quella di stampo politico, e quella legata all’uso di alcornol e droghe, sono purtroppo lungi dall’essere debellate), ma a Stoccolma, a Oslo, a Coopenaghen e dintorni, è impensabile che chi ha amministrato per meno di 2 anni le ferrovie se ne vada con una buonuscita di 5-6 o 7 milioni di euro e chi è alla guida della compagnia aerea di bandiera percepisca 8 mila euro al giorno o giù di lì. È impensabile che codesti compensi vengano corrisposti a manager che hanno lasciato le aziende loro affidate in condizioni molto peggiori di quelle in cui le avevano trovate all’inizio del loro mandato.
Ma soprattutto è inimmaginabile che queste stesse persone e i politici che hanno avuto la sciagurata idea di piazzarle su certe poltrone, continuino, anche dopo aver provocato disastri finanziari dell’ordine di miliardi di euro, a predicare in nome della stabilità, della competitività, dello sviluppo, in nome dell’Europa e ad esigere altri tagli, altro rigore, altre tasse, altri scempi ambientali (Tav, Ponte sullo Stretto, ecc…).
In Svezia la pressione fiscale è, non da ora, una delle più elevate al mondo, ma gli svedesi le imposte le hanno sempre pagate volentieri, perché sono sempre servite ad assicurare servizi di qualità e una lotta efficace contro la povertà, contro la precarietà, contro il disagio, contro l’esclusione sociale, contro la sperequazione retributiva.
In Italia e nel resto dell’area euro possiamo dire la stessa cosa?

C. E. Pace (Pesaro)

Pace