Per un pugno di pesos

La rivolta dei maestri di Oaxaca… non è ancora finita

Per oltre 5 mesi, a Oaxaca, stato del Messico centrale, lo sciopero dei maestri ha paralizzato 12 mila scuole pubbliche, ricevendo il sostegno di 350 organizzazioni civili di base e resistendo alla repressione violenta del governo centrale, Ulises Ruiz, finché il nuovo presidente del Messico ha firmato un accordo con il sindacato degli insegnanti. La scuola è ripresa, ma la tensione continua.

«Fino a quando non pagheranno un po’ di più mio papà, non me ne andrò da questa piazza». Adriana ha 9 anni ed è già una messicana decisa e senza timori. Con il sorriso ammaliante dei bambini e due occhioni luccicanti, mi viene incontro guardandoti fisso in volto e cercando la tua approvazione. «È quasi quattro mesi che dormo qui nello zócalo, la piazza principale della città, e lo faccio assieme a loro», mi dice la bambina indicandomi con il dito le centinaia di persone che, sotto tendoni di fortuna e striscioni di ogni tipo, vivono barricati in una sorta di campeggio cittadino.
Ma dove siamo?
«Bienvenidos en Oaxaca – continua Adriana – il luogo in cui i diritti umani non esistono più». Fa impressione sentir parlare una bambina in questo modo. Per capie di più, mi avvicino al gruppetto di donne più vicine a lei: sono la sua mamma, la zia e due cugine, anche loro ragazzine. Sguardo fiero e un’aria distesa, nonostante la situazione precaria, espongono Adriana come un piccolo trofeo. «Sono orgogliosa di lei – dice – per come mostra amore e solidarietà a suo padre, che si trova in una situazione bruttissima: è un maestro».
«Che male c’è ad essere un insegnante?» penso. Ma la donna mi anticipa: «Mio marito è uno dei 70 mila maestri pagati una miseria dallo stato, che ora è in sciopero permanente assieme a tutti gli altri».
L’equivalente di quasi 100 euro al mese, ecco quello che guadagna un maestro di Oaxaca. Uno stipendio da fame. Che lo porta a cercare un doppio, triplo lavoro, con il quale non riesce più a passare del tempo in casa e a crescere i propri figli. La situazione a Oaxaca e nello stato omonimo (il Messico è una federazione) è insostenibile da anni, ma solo il 14 giugno 2006, esasperati, i maestri sono scesi in piazza, per una marcia pacifica in cui chiedevano un aumento di salario.
Il governatore statale, Ulises Ruiz Ortiz, non ha badato a mezze misure nel reprimere la sollevazione popolare: gas lacrimogeni, proiettili di gomma, manganelli in aria hanno seminato il panico tra i manifestanti, bambini compresi. La violenza della polizia statale, anziché zittire il movimento di protesta, ha scatenato l’indignazione della società civile di Oaxaca e di tutto il Messico. Il capo della polizia si è dovuto dimettere, ma il governatore, la vera mente dell’assalto, è rimasto al suo posto, diventando così il bersaglio popolare.
Invitato ad andarsene anche dal governo centrale di Città del Messico, «Uro» (così chiamato per le iniziali del suo nome) non ha fatto alcun passo indietro, anzi: «Non cederò ai ricatti di questi sobillatori» ha detto, riferendosi ai maestri. I quali, decisi ad andare fino in fondo nella loro rivolta, si sono organizzati in una assemblea permanente, la Appo: Assemblea popolare dei popoli di Oaxaca.
La Appo è diventata da subito un esempio a livello mondiale per la radicalità della sua lotta: in decine di parti della città, ma anche nei piccoli centri dello stato, sono sorti dei plantón, cioè occupazioni di piazze, edifici pubblici, emittenti radiotelevisive. Sono state messe auto, pullman di traverso per le strade, e sassi giganteschi hanno impedito il passaggio di qualsiasi veicolo. Proprio quando stava per arrivare il flusso di turisti nordamericani, canadesi ed europei, Oaxaca è diventata una città fantasma, sconsigliata da tutti gli operatori turistici mondiali.

La gente del posto, all’inizio, era divisa in due pensieri: da una parte, con l’occupazione, perdeva i guadagni del turismo, che permettevano un’esistenza dignitosa a migliaia di persone; dall’altra, le veniva spontaneo appoggiare la lotta dei maestri, la cui soddisfazione lavorativa avrebbe garantito un’adeguata educazione ai propri figli, in una zona dignitosa ma in cui la povertà non è mai stata completamente cancellata. Alla fine i commercianti, a parte qualcuno vicino al potere, ha appoggiato la protesta.
Dopo la violenza iniziale delle autorità, per 160 giorni, da giugno a ottobre 2006, il conflitto che si è creato ha conosciuto solo botta e risposta attraverso i mezzi di comunicazione. Le forze di polizia, accusate di corruzione e brutalità, sono state costrette ad abbandonare la città, mettendosi in periferia.
Dentro, la sicurezza era garantita dalla gente della Appo, che, organizzata in tui, manteneva l’ordine pubblico in un modo a prima vista facile, senza grandi problemi: la coscienza collettiva era ai massimi livelli; si sapeva che bastava veramente poco per generare un caos in cui le prime vittime sarebbero state i civili e il messaggio pacifico che portava con sé la protesta. In città tutto continuava a funzionare, compreso il coloratissimo mercato cittadino, in cui decine di donne industriose vendevano i loro prodotti fabbricati a mano: vestiti, oggetti in legno, e molti generi alimentari, soprattutto cibo prodotto in casa, come lo squisito pizatl, una sorta di pollo cotto al vapore, immerso nella polenta e racchiuso in una foglia di pannocchia o di banana. Erano funzionanti anche i locali in cui scorrevano fiumi di mezcal, la famosa bevanda alcolica messicana, quella del guisanito, il vermicello messo a riposare sul fondo della bottiglia per dare più sapore alla storica bevanda.
Per tutto questo tempo, centinaia di persone, come Adriana e la sua famiglia, hanno abbandonato le proprie case e sono andate a dormire in piazza. Soprattutto donne, mentre i mariti (più del 90% dei maestri è di sesso maschile) discutevano in accese riunioni sui passi successivi da compiere.
«C’è qualcuno che vorrebbe passare a un’azione più diretta – racconta José, insegnante elementare padre di quattro bambini -. Meno male che poi si convince a continuare la protesta in forma nonviolenta». Per far capire alla gente le loro intenzioni, decise ma contrarie all’uso della violenza, José e gli altri maestri hanno tappezzato la città di gigantografie di Gandhi, il padre della nonviolenza.
Anche i comuni della zona, imitando in piccolo Oaxaca, hanno organizzato forme di resistenza popolare, sospendendo le attività, scendendo in piazza con i gonfaloni, offrendo appoggio e mezzi alla campagna informativa della Appo. «Ci diamo da fare per far conoscere a tutti la situazione – dice Marcela, giovane attivista -. In molte piazze abbiamo allestito punti di informazione che, con video e assemblee, spiegano quello che sta accadendo».
I l luogo più suggestivo è la piazza di San Francisco, dove sorge la chiesa più bella e meglio conservata della città: qui, subito fuori l’imponente struttura dei francescani e all’inizio di una delle vie dove si vende artigianato e il famoso cioccolato locale, si è installato il Campamento por la dignidad y contra la represion en Oaxaca (Accampamento per la dignità e contro la repressione a Oaxaca). Marcela parla a decine di cittadini e ai pochi viaggiatori che entrano in città, raccontando la vita disperata di migliaia di maestri e delle loro famiglie. «Riceviamo appoggio e solidarietà da tutto il Messico e dall’estero – dice -: è una grossa spinta ad andare avanti».
E come hanno reagito i religiosi all’occupazione simbolica della piazza? «Sostenendoci anche loro – rivela con un sorriso Marcela -. Qui la chiesa è vicina alla gente, ne vive problemi e sfide, cercando di offrire il massimo appoggio».
Proprio così. Dai pulpiti delle decine di chiese di Oaxaca i sacerdoti invitano la gente a tener duro, senza cedere alla tentazione dello scontro diretto. Una mensa popolare è stata aperta proprio nei locali attigui alla cattedrale, nella piazza principale. La chiesa stessa rimane aperta giorno e notte per le preghiere dei fedeli, qui come in tutto il Messico molto devoti. «Non possiamo non sentire l’ansia della gente in questo momento» dice padre Andres, cappellano della cattedrale.
In effetti, a fine ottobre la tensione è alle stelle. Giravano voci di un avvicinamento di soldati dell’esercito alla città, in arrivo dalla capitale. Si era in alerta roja, allarme rosso. Ma senza farlo troppo vedere. «Da fuori, Oaxaca sembra una città in preda alla guerriglia» dice Sandra, che gestisce una pensione nel centro città, a pochi passi dallo zócalo. «La realtà, invece, mostra una città tranquilla, troppo tranquilla; chissà quando tutto si sistemerà e come andrà a finire» continua la donna preoccupata.

I timori di Sandra sono risultati profetici: il 28 ottobre, a 160 giorni dall’inizio del conflitto, la polizia di Uro ha fatto sgombrare con la forza la piazza principale; nella settimana successiva si è scatenato il finimondo: dieci persone sono rimaste uccise, tutti civili, tra cui un ragazzino 14enne e un giornalista freelance statunitense, William Bradley. Altre 70 persone almeno sono state arrestate, in maggioranza maestri e leader della Appo.
Grande è stata l’indignazione mondiale per il modo in cui è stata affrontata la situazione: il governatore si è dimostrato un mandante di assassini feroci, a volte travestiti da cittadini comuni, come nel caso dell’uccisione del maestro Fidel Garcia: è stato colpito alle spalle da una raffica di proiettili, mentre tornava a casa dopo una riunione della Appo.
L’arcivescovo di Oaxaca, Wilfredo Mayren, ha dato asilo politico a decine di maestri, tra cui Flavio Sosa, uno dei massimi dirigenti della Appo. «Esiste un terrorismo di stato e una persecuzione schizofrenica» affermava l’arcivescovo, accusando duramente le forze armate statali.
Per qualche giorno tutto è stato zittito e, quando la polizia se n’è andata, Oaxaca è tornata una città fantasma; ma per poco. La voce popolare, nonostante i morti, i feriti e i detenuti, si è rifatta viva quasi subito, con nuove occupazioni, nuovi scioperi, ed eclatanti denunce verso le autorità penitenziarie, ree di usare contro i maestri incarcerati violenza e torture, documentate dalla Ccdoih, Commissione civile internazionale per l’osservazione dei diritti umani, creata con l’avvallo di Amnesty Inteational.
Il famigerato Uro è rimasto al suo posto e lo è ancora oggi. Ma la situazione è cambiata, complice il cambiamento avvenuto il primo dicembre 2006 a livello di governo centrale: Vicente Fox, che si era mostrato indifferente verso la protesta dei maestri, viene sostituito alla presidenza del paese da Felipe Calderón, compagno di partito (del Pan, Partito di azione nazionale, conservatore), ma, almeno in apparenza, più deciso a risolvere la crisi di Oaxaca, tenendo conto delle richieste della gente.
Calderón è salito al potere nel mezzo di scandali e accuse di brogli elettorali: ha vinto per poche migliaia di voti, battendo il favorito della vigilia, il progressista Manuel Lopez Obrador, che non ha mai riconosciuto l’esito del voto. Nonostante ciò, il nuovo presidente ha concluso un accordo con la Appo per un aumento dei salari e un miglioramento delle condizioni di vita.
Tutto risolto, quindi? «All’apparenza sembra risolto – dice Berta Muñoz della Ccdoih -. Il 9 marzo 2007 c’è stato l’ultimo arresto ai danni di una professoressa, Yolanda Ramirez, portata via dalla polizia mentre camminava per strada, senza alcuna spiegazione né accusa specifica». Berta, la Appo e tutte le persone di Oaxaca si chiedono quale sarà la prossima mossa di Uro. Perché alla fine, come spesso succede in America Latina, le efferatezze vengono ideate da chi dovrebbe difendere il popolo, anziché attaccarlo.
Il nuovo presidente dice di volere la pace sociale, ma la gente gli crede poco. Nel frattempo, a Oaxaca qualche piazza rimane occupata, soprattutto in periferia e nei quartieri più popolari, dove le forze dell’ordine non riscuotono alcun successo.
I turisti sono tornati. Questi sono interessati alle spoglie ma affascinanti rovine di Monte Albán (poste su un’alta collina a 15 minuti dal centro), ai 42 metri di circonferenza di El Tule, l’albero più grande al mondo, alla natura incontaminata di Ixtlán e ai lavoratissimi palazzi della civiltà mixteca di Mitla.
Il commercio è ripreso, le scuole anche. Ma quello che manca all’appello, come spesso accade, è il rispetto dei diritti umani, soprattutto dei «senza voce». Chissà se Adriana, un giorno, vorrà seguire le orme del padre e diventare maestra. Forse no. 

Di Daniela Biella

Daniele Biella




NOSTRA COMPAGNA DI GALERA

20 giugno, festa della Consolata

La curiosa storia di un quadro della Consolata, oggi venerato nella cappella della Casa regionale
dei missionari della Consolata a Nairobi (Kenya), di un «magico» coltellino milleusi e di dodici monete d’argento. Il tutto sullo scenario della II guerra mondiale.

Un giorno indimenticabile quel 10 giugno 1940. Gli italiani avevano appena ricevuto dalla radio la notizia che la nazione era formalmente entrata in guerra, contro Inghilterra e Francia e già il giorno seguente, in Kenya, volavano ordini tassativi di imprigionamento e deportazione di tutti i missionari e missionarie di nazionalità italiana presenti nel paese.
Quel mattino, inaspettati, gli inglesi giunsero fino alla missione del Mathari e, senza tante cerimonie, dissero: «Tutti i membri di nazionalità italiana sono da questo momento sotto arresto. I padri missionari hanno venti minuti di tempo per raccogliere le loro cose e presentarsi a questo comando. Le suore dovranno restare nei loro conventi fino a nuovo ordine».
Venti minuti di tempo per raccogliere le proprie cose… Nel cuore dei missionari scese un gelo di sconforto. Venti minuti per impacchettare il materiale di una vita di lavoro. Che fare, cosa poter scegliere, cosa abbandonare in venti minuti? Ognuno corse alla sua stanza e cominciò a mettere in sacche e vecchie valige quel poco di roba e libri personali ritenuti utili…
A un missionario venne subito in mente che quel giorno era il primo giorno della novena della Consolata. Nella chiesetta del Mathari c’era il quadro della Vergine; come si poteva lasciarlo solo, abbandonato?
Si trattava di un’immagine speciale, uno di quei quadri che il beato Allamano aveva consegnato ai componenti delle varie spedizioni che partivano da Torino. «Portatelo con voi, custoditelo, perché vi protegga sempre», sembravano ancora echeggiare le parole del Fondatore. Il missionario si precipitò in chiesa. Tentò di armeggiare per vedere di togliere dalla coice quella tela, ma si rese presto conto che sarebbe occorso troppo tempo.
Aveva un coltellino in tasca, quel coltellino milleusi sempre così utile quando si trattava di  cavar spine e pulci penetranti. Con decisione e precisione il coltello si insinuò lungo la linea della coice e la tela ne uscì fuori in poco più di un minuto. Il Santissimo Sacramento venne tolto dal tabeacolo e portato al sicuro dalle suore. L’icona della Consolata, ben arrotolata, andò a far compagnia ai pochi libri e calzini puliti e sporchi del «padre salvatore».

LA LUNGA PRIGIONIA
«Dove si va?» era la domanda sulla bocca di tutti. Purtroppo la risposta non lasciava molte speranze. La meta era la prigione di Nairobi-Kabete, dove i missionari italiani vennero condotti in attesa che arrivassero i loro confratelli, arrestati nelle altre missioni del Nyeri e del Meru quello stesso giorno.
Dalla prigione temporanea di Kabete (oggi un grande sobborgo di Nairobi), dove in totale vennero radunati ben 419 missionari, incluse alcune suore, ben poco riuscì a trapelare. Le poche notizie che si hanno di quei giorni, le raccogliamo da una lettera scritta l’anno successivo, in cui l’autore, padre Giuseppe Maletto, pur misurando con attenzione le parole per paura della censura, dà un breve resoconto di quei giorni. L’autore, raccontando di quei giorni, scrive che dall’11 giugno i missionari «furono inteati fino al 4 ottobre, quando partimmo per il Sudafrica, via mare… Alcuni missionari dello Spirito Santo e di Mill Hill ci sostituirono nelle missioni. Le reverende suore furono dapprima tutte radunate nella fattoria di Nyeri; in seguito alcune furono lasciate ritornare in 4 o 5 stazioni di missione, soltanto del vicariato di Nyeri…».
La lettera di padre Maletto venne scritta da Koffiefontein, località del Sudafrica, oggi famosa per le miniere diamantifere, ma in quei giorni sede di un grosso campo di prigionia. In esso, nel frattempo, erano stati inviati anche i missionari italiani provenienti dal Kenya.
Lo stesso padre Maletto fornisce, anche qualche particolare su come viene vissuta la vita di preghiera all’interno del campo: «Abbiamo una cappellina che può contenere 10 persone inginocchiate e 20 in piedi e pigiate…» (da lettera del giugno 1941).
Anche se le rassicurazioni date da padre Maletto in merito alle condizioni dei missionari della Consolata in prigionia consolò i superiori di Torino, una seconda lettera, inviata il mese successivo, dava una visione meno ottimistica della vita in cattività: «Noi stiamo relativamente tutti bene. Per noi, fatti i due appelli giornalieri, la pulizia delle camerette e personale, lavatura e cucitura, il resto è tempo libero. Come però desidereremmo di poterci sgranchire le gambe con qualche passeggiata o almeno quattro passi fuori dei reticolati spinosi. In Kenya, a Kabete, ci si conduceva a spasso una, due o tre volte la settimana, come i collegiali, sorvegliati da assistenti. Era una gran festa. Qui nulla di nulla. La nostra minuscola cappella con il Santissimo è un grande conforto per noi. Altri non ne abbiamo…» (lettera del 24/3/1941, giunta in Italia nel luglio 1941).
A commento del breve brano della lettera di padre Maletto, in cui si ricordano i «tempi della prigionia di Kabete», il sottoscritto ricorda una breve conversazione avuta con un missionario compagno di prigionia, il padre Merlo Pick. Parlando dei «quattro passi fuori dei reticolati», pur sorvegliati dagli assistenti, Merlo Pick ricordava come due o tre padri riuscivano sempre, avvalendosi della conoscenza della lingua kikuyu, ad avere notizie delle missioni del Nyeri da parte di finti e occasionali viandanti.
La situazione risultava essere un po’ una comica: la comitiva dei «collegiali prigionieri» sembrava andare a passeggio, ma qualcuno, con la voce un pochino più alta, chiedeva notizie in kikuyu ai passanti che sembravano divertirsi di quei prigionieri in casacca da galeotti. «Come stanno le suore a Nyeri? Come vanno le missioni abbandonate? Salutateci tutti…».
Nessuno dei sorveglianti, del resto ignari del kikuyu e tanto più dell’italiano, riuscì mai a scoprire lo stratagemma. Al massimo, qualcuno pensò che nel gruppo dei galeotti ci fosse il «solito buontempone», in vena di sollevare il morale alla truppa!

LA CONSOLATA SI FA BELLA
A Koffiefontein la vita di prigionia scorreva monotona, senza troppi sussulti.
Però, si sa, il missionario non ama starsene con le mani in mano. Molti, infatti, occuparono questo lungo periodo di inattività forzata con l’apprendimento di lingue utili per il futuro: qualcuno si dedicò con dedizione allo studio del kiswahili, del kimeru, altri ancora si cimentarono addirittura con il tedesco. Alcuni dimostrarono interesse alla pittura, scultura, musica e altro ancora. Ci fu persino chi scoprì che tra le sabbie e pietruzze del campo di concentramento c’erano minuscoli diamanti e rubini…
A un certo punto, alcuni missionari decisero di cimentarsi con l’oreficeria! L’icona della Consolata, trafugata e messa in valigia di tutta fretta, faceva la sua bella figura nella cappelletta di fortuna che i missionari avevano ricavato nel campo di prigionia. Perché non abbellirlo? In fin dei conti la Consolata aveva accompagnato i «suoi» missionari addirittura in galera. Si meritava davvero un po’ di attenzione. Si iniziò con il produrre una bella coice per rimpiazzare quella originale, rimasta nella missione quando la tela fu tagliata e asportata.
A parte qualche rustico attrezzo, recuperato tra i rottami del campo di concentramento, non si poteva contare su struomenti adatti per lavorare il legno. L’arte, però, non conosce ostacoli e la coice venne scolpita con il solito e indispensabile coltellino milleusi.
Guardando l’immagine della Consolata nella sua nuova sede, saltò anche fuori la proposta di riprodurre le stelle che incoronano la Madonna, come nel quadro originale venerato nel santuario di Torino. «Bellissima idea – concordarono i più -. E perché non costruire le stelle in metallo prezioso?».
Già, proprio una bella idea! Ma dove si sarebbero potuti trovare dei metalli preziosi in una prigione? Oro? E chi ne aveva con sé? Argento? Alla parola «argento» qualcuno inizió a sussultare: la moneta del Sudafrica, il rand, era d’argento, forse la soluzione era stata trovata. Molti prigionieri accettarono, di buon grado di mettere a disposizione la «cinquina» che il governo inglese passava ai prigionieri: uno scellino al giorno. Al cambio risultavano circa 12 rand.
Dopo vari tentativi, l’orefice autodidatta riuscì a ottenere 12 belle stelle d’argento, con un piccolo punteruolo che permettesse di applicarle alla tela dell’icona. L’effetto fu sorprendente. Che emozione, la Consolata sembrava più bella… Anzi, meno triste, nonostante fosse anche lei in galera insieme a tutti i suoi missionari, dove resterà fino al mese di settembre del 1944.

RITORNO A CASA
Fu la voce della Radio Vaticana ad annunciare, il 20 settembre di quell’anno, che «i padri e le suore del Kenya erano tutti tornati alle loro missioni!».
L’anonimo «salvatore» della Consolata si era riportato in Kenya, tra le sue poche cose, anche il prezioso quadro. Per prudenza staccò le stelle d’argento, mettendole al sicuro. Incredibilmente, il quadro trovò ancora la sua vecchia coice, anche se, ahimé, fu necessario restringerla un pochino, dopo il taglio della tela praticato al momento dell’arresto.
Non ne uscì un capolavoro; anzi, a ben guardare, la squadratura non risultava delle più perfette. Nessuna paura! Era come avesse fatto la guerra! Purtroppo, però, nel trambusto del ritorno dalla prigionia, delle 12 stelle d’argento ne restavano solo nove.
Quando, nel processo di africanizzazione della diocesi di Nyeri, i missionari affidarono la missione al clero locale, pensarono di lasciare il quadro di questa «famosa» Consolata alle suore missionarie della Consolata di Nyeri. Ma dopo alcuni anni, le sorelle restituirono gentilmente il cimelio ai padri missionari, che ora lo conservano nella cappella della loro Casa regionale di Nairobi.
Ma quelle tre stelle mancanti…
Un giorno mi feci coraggio e raccontai questa curiosa storia a un amico indiano, ottimo orafo del Kashmir. Mi stette ad ascoltare per un po’ e poi, d’impulso, disse: «Mi porti una stella, padre, e io farò quel che devo fare».
Gli portai una stella di campione e dopo tre giorni mi chiamò a ritirare tre altre bellissime stelle d’argento, più lucenti delle prime.
«Voglio anch’io onorare la vostra Vergine – mi disse – perché benedica anche me e la mia famiglia. Anche se sono indù, apprezzo il vostro lavoro di missionari».
Oggi il quadro è tornato ad avere le sue 12 stelle. E la Vergine Consolata, prigioniera con i suoi missionari per tre anni nei campi di concentramento del Sudafrica, continua a presentarci il suo Bambino, a benedirci e accompagnarci in Kenya e in altre parti del mondo.  

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




Cari missionari …

Avanti «in Domino»!

Gentile Direttore,
da quando ho capito che quello di cui ci chiederà conto il Signore sarà cosa abbiamo fatto per il prossimo sofferente, il mio impegno è rivolto soprattutto verso i missionari, vera punta di diamante della chiesa, che testimoniano il Signore con la parola e con l’esempio. Devo dire che il suo periodico è fra i migliori, se non il migliore, di quelli missionari per la ricchezza di argomenti, la chiarezza e indipendenza nella denuncia dei misfatti e ingiustizie contro i poveri nel mondo.
Mi sorprende molto il fatto che qualche volta ci siano lettori che, solo perché un articolo denuncia la sopraffazione dei potenti e dei ricchi sulla povera gente, tacciano l’autore come comunista, cattocomunista, prete compagno, ecc.
Mi chiedo: «Ma non sono i cristiani quelli che si devono occupare e combattere per primi per la giustizia sociale e aiutare i bisognosi?».
Caro Direttore, vada avanti tranquillo: Missioni Consolata dà forza ai coraggiosi e scuote le coscienze degli indifferenti.
Buon lavoro! Con stima,
Dante Bersetti
Montemarciano (AN)

Grazie di cuore per l’incoraggiamento ad «andare avanti tranquilli». Il nostro beato Fondatore diceva: «Avanti in Domino!» (nel Signore).

Multinazionale Gisas

Gentile redazione,
in riferimento al vostro articolo «Multinazionale Gisas» (M.C. settembre 2003, ndr), vorrei distanziarmi da quanto detto. Sono in generale d’accordo sulla critica fatta a Benny Hinn e all’emittente Tbne. Ma affermate anche, spero in buona fede: «Per chi volesse conoscere cosa pensa il mondo evangelical italiano che conta 300 mila persone, la Tbne rappresenta un buon strumento, anche se non tutti vi si riconoscono». La realtà è un’altra! Pochi credenti evangelici, inclusi quelli che chiamate «caldi», cioè i carismatici (ai quali io non appartengo, ma che è un movimento trasversale comune al mondo cattolico), si identificano con Benny Hinn o l’emittente di cui parlate.
Credo che sia un atto di diffamazione affermare questo di persone che credono sinceramente nella bibbia. Una caratteristica degli evangelici è (o dovrebbe essere) il non conformarsi agli uomini e a non idolatrare altri esseri umani, ma di coltivare un rapporto personale con Gesù Cristo e a comportarsi come tempio dello Spirito Santo. Certo, è una caratteristica della fallacia umana, il voler avere altri esempi oltre a quello supremo di Gesù Cristo e questo può portare a innalzare eccessivamente persone e non Dio. Ma ciò è comune a ogni religione… Citando un’altra frase: «Un’impresa commerciale quindi? Quando ci troviamo davanti a cifre da capogiro, viene il dubbio che qualcuno lucri alle spalle dei fedeli», ricordo che essa è applicabile anche al mondo cattolico, in cui molti fanno affari a costo dei fedeli…
Vi chiederei quindi, di correggere suddetto articolo in quanto non conforme alla realtà evangelica italiana e, mi auguro, neanche a quella americana…
Annegret Martella
Via e-mail

Fin dall’inizio l’autore dell’articolo distingue chiaramente tra «evangelical» ed «evangelico». Col primo termine viene indicato chi, come Benny Hinn e Tbne, riducano la religione a spettacolo teatrale e prodotto di consumo emotivo. Per cui niente di personale contro gli «evangelici» in generale e quanti seguono Cristo crocifisso e risorto.

Più testimoni

Caro padre Pozzoli,
desidero inviarle i miei più cordiali auguri di buon lavoro per il nuovo incarico di direttore della rivista Missioni Consolata che tanto amo.
L’occasione mi è propizia per esprimerle un desiderio, da me profondamente sentito e condiviso da un numeroso pubblico che giorno dopo giorno testimonia il suo affetto al mondo dei missionari. Per favore dedicate, sulla rivista, molto più spazio alla testimonianza e alla vita dei missionari della Consolata (e dei loro amici) nel mondo. Abbiamo tutti bisogno del loro esempio e di conoscere il loro pensiero e la loro opera.
Apprezzo anche i vari dossier/inchieste che spesso pubblicate. Tuttavia trovo che, alcune volte, tali servizi troverebbero spazio più confacente su altre riviste. Per esempio, il dossier sulla Tv, pubblicato sul numero di aprile di quest’anno, pur se condiviso da me, non ha nulla di pertinente con la rivista. È come se su una rivista di finanza venisse pubblicato un articolo di moda per bambini.
Mi scusi di questi piccoli suggerimenti e buon lavoro!
Giovanni Pirovano
Via e-mail

Grazie per l’amore alla nostra rivista e grazie anche per i suggerimenti. Siamo pienamente d’accordo che, come diceva Paolo vi, «oggi il mondo ha più bisogno di testimoni che di maestri»; e i missionari sono testimoni qualificati e credibili. Purtroppo, non sono molti quelli che osano raccontare la loro vita. Da parte nostra cerchiamo di sfruttare anche le letterine di natale che inviano i nostri missionari.
A riguardo del dossier sulla Tv, ricordiamo la campagna condotta lo scorso anno dalle riviste missionarie in Italia: «Notizie, non gossip», che sembra aver ottenuto qualche risultato (vedi M.C. maggio 2007 p.3). Soprattutto, la Tv fa parte del «primo areopago moderno» da evangelizzare (Redemptoris missio 37).

Il cuore della missione

Cari missionari,
mi capita spesso che la lettura di Missioni Consolata mi provochi l’amarezza di non trovare in essa un aiuto alla mia vita, a ciò in cui credo.
Faccio un piccolo esempio. L’editoriale del numero di aprile del nuovo direttore, come in tante altre occasioni, dopo alcune considerazioni sulla violenza in Colombia che arriva a uccidere anche i missionari, ripone la speranza di una soluzione in strategie etico-sociali, pur necessarie e alle quali non può mancare il contributo di tutti, anche di chi è impegnato direttamente o meno nell’azione missionaria, ma che non rappresentano, a mio avviso, il cuore della missione.
Da una rivista missionaria mi aspetterei che mi ricordasse sempre le ragioni della missione, il nesso concreto tra la fede e l’impegno quotidiano sia dei missionari in paesi lontani, sia del mio qui, dove vivo.
Vorrei che mi venisse confermata la speranza che dà senso al mio sforzo di «servo inutile». «Mia forza e mio canto è il Signore: egli mi ha salvato» si prega nella liturgia delle Lodi con le parole dell’Esodo.
Di questa non corrispondenza mi dispiace, perché i missionari della Consolata sono anche parte della mia famiglia. Spero e prego che lo Spirito, che certamente ha mosso il Fondatore, possa trasparire con sempre maggior chiarezza dalle pagine della rivista, come accade, ad esempio nello stesso numero di aprile, nella presentazione della figura della beata madre Laura Montoya Upegui.
 Carlo Viscardi
Via e-mail

Siamo convinti anche noi che le motivazioni di fede e di speranza sono alla base dell’azione missionaria e costituiscono «il cuore della missione», anche se molte volte le diamo per scontate o troppo sottintese.

VIVERE SENZA TV … SI PUO’

V orrei esprimere i miei complimenti per la qualità della rivista che, senza dover ricorrere necessariamente a confronti, non sfigura certo paragonata ad altre di maggior fama e fortuna.
Scrivo a commento del dossier sulla televisione, direi necessario e riuscito. Nella mia famiglia non abbiamo Tv, e non ne sentiamo la mancanza; premetto che la scelta è avvenuta per caso: appena sposati e trasferiti, tra le tante cose da fare «la» abbiamo lasciata fra le ultime necessità. Poi ci siamo accorti che anche «senza di lei» il tempo per fare tutto ciò a cui avremmo tenuto scarseggiava, senza contare la necessità di sacrificarle uno spazio in casa. Con l’arrivo dei figli tempo e spazio si sono ridotti in loro favore e, pur non escludendone l’acquisto, questo viene rimandato a quando «ce ne sarà bisogno».
Non rifiutiamo i Dvd di film, cartoni e i tanto invocati documentari; ma lo schermo del Pc, non collegato a internet, non troneggia come un grande idolo al centro di ogni luogo di vita domestica – cucina, camera da letto – né dove vengono ricevuti gli ospiti.

O ra, un interrogativo che aleggia inespresso nel vostro dossier, ma che non è stato formulato: si può fare a meno di passare ore incollati allo schermo? Vivere senza le fiction, i reality,  gli aggioamenti quotidiani sugli amori dei divi, è possibile? E soprattutto senza comprare la Tv?
Spesso mi viene chiesto come faccia a informarmi. Io chiedo di definire l’informazione. Sapere che, ad esempio, in Indonesia si è rovesciato un autobus, causando decine di morti, è importante per la mia «informazione»? Ma anche nell’ambito nazionale, che importanza ha sapere, a distanza di anni dal fatto oltretutto, se effettivamente la perizia psichiatrica fatta e rifatta ha finalmente stabilito se quel determinato assassino era pazzo veramente, o fingeva soltanto, una volta portato in tribunale? Opprimere il nostro cuore di sciagure (in tempi evidentemente altrettanto duri, qualcuno ha detto «il bene è tanto, ma non fa notizia») è informazione? Sapere, o formarsi questa impressione, che in Italia vivono persone che non aspettano altro che esca di casa per truffarmi, cominciando dai comuni che operano false raccolte differenziate dei rifiuti, mi aiuta a proteggermi o alimenta l’emulazione dei disonesti e la sfiducia nel sistema?

D ieci anni or sono il monopolio televisivo era del calcio, fra partite e approfondimenti pre-durante-post. Ora ci sono i reality. Nulla di grave da parte di chi li produce, meglio per chi vi partecipa, grave e colpevole è chi li alimenta: chi è disposto a rinunciare al proprio tempo libero in favore della demenzialità, chi si porta sempre dietro conduttori e partecipanti, chi li elegge a modelli.
Se poi l’invocato documentario è un modo poco faticoso per tentare di colmare lacune liceali, dandoci l’impressione di sapere o affinché l’uomo della strada possa discutere dei «quanti» mi fermo a riflettere anche sulla sua utilità.
Ma spesso osservo che tra la demenzialità, per non dire di peggio, televisiva e quella cartacea c’è poca differenza. Il «buon libro» quale sarebbe? Anche la carta stampata predilige il best seller da spiaggia all’opera ricercata, è massificata, le porcherie dello schermo arrivano in romanzi scritti male e viceversa; nella carta patinata le riviste pseudo scientifiche danno l’impressione di sapere senza dover fare la fatica di imparare. Non credo che oggi i tempi siano più duri, per la Cultura, di secoli or sono: Machiavelli era famoso nella sua epoca per due commedie (Mandragola e Clizia) sboccate e sciatte, dalla trama volgare, non certo per il De Principatibus; e del Decameron ci ricordiamo solo Bruno e Buffalmacco, che ordiscono truffe ai danni del più debole e sprovveduto Calandrino.
Senza perdere la speranza, il vostro richiamo a rimanere sempre vigili è utilissimo, ma domando: fra i teledipendenti che anelano ai muscoli o alle linee perfette, quanti avranno letto il vostro dossier?

Gionata Visconti
Via e-mail




Balcani, la bomba Kosovo

Con l’avvio dei colloqui conclusivi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per definire lo status finale della provincia serba del Kosovo, la situazione nella regione balcanica sta divenendo sempre più incandescente, con violenze e atti terroristici quotidiani, di cui però non si trova traccia nel panorama dell’informazione mediatica occidentale.
Assalti, ferimenti, incendi, omicidi, attentati alle comunità serbe e rom, alle loro case ed agli ultimi monasteri ortodossi (quelli non ancora devastati), così come gli attentati e l’ostilità contro strutture e mezzi delle Nazioni Unite, considerati possibili testimoni scomodi, in previsione degli scenari della definitiva pulizia etnica, che si preparano per il post indipendenza. Ormai è uno stillicidio continuo e quotidiano, così come monta sulla stampa e i media televisivi indipendentisti albanesi kosovari, una campagna mediatica sistematica che fomenta l’odio etnico e l’obiettivo – a loro dire – «non più trattabile» della secessione e indipendenza definitivi.
Negli incontri con membri delle comunità serbe kosovare e dei profughi in Serbia, al di là del senso di solitudine che sentono sulla pelle, emerge una forte determinazione alla resistenza e opposizione a questo ennesimo atto di ingiustizia e di violenza contro le minoranze del Kosmet. Per tutto questo le popolazioni chiedono di non essere nuovamente lasciate sole di fronte ad atti e logiche violente, che nulla hanno a che fare con il progresso e la convivenza tra i popoli; chiedono che il destino e il futuro del Kosovo non sia deciso in cancellerie inteazionali dell’Occidente, ma venga discusso e deciso dai popoli (minoranze o maggioranze) che hanno sempre abitato quella terra. È una richiesta assurda e stravagante?

Sia a livello europeo, che negli Usa e in Canada, molti noti giornalisti di testate inteazionali informano e denunciano ormai apertamente la situazione di pericolo e i nuovi venti di guerra che si vanno profilando; è necessario e giusto che anche in Italia il movimento per la pace, i sinceri democratici, le forze progressiste prendano atto dei rischi di una nuova escalation di guerra e conflittualità. Un fatto che certamente non rimarrebbe circoscritto, ma produrrebbe un nuovo sconvolgimento degli equilibri inteazionali, con il riaccendersi di focolai di violenza, legittimati da un’eventuale indipendenza decisa negli uffici dei padroni dell’impero, ma fuori dal diritto internazionale e dalla Carta dell’Onu.
Sarebbe quell’ «effetto domino» già preannunciato da molti esperti e osservatori inteazionali: se una banda di criminali e narcotrafficanti (come fu definita l’Uck nel ’98 in un report della stessa Cia), può vedere riconosciuto un territorio come repubblica indipendente («uno stato delle mafie», come è stato definito), fuori da qualsiasi ragionevole logica, perché i serbi della Bosnia e della Repubblica di Krajina in Croazia, i popoli dell’Ossezia, dell’Abkhazia, della Transnistria, i curdi della Turchia, i corsi e i bretoni in Francia, i baschi in Spagna, i nordirlandesi, i palestinesi, i russi perseguitati nelle Repubbliche Baltiche, non potranno avere il diritto alla secessione e all’indipendenza?
E l’elenco potrebbe continuare. Ma c’è anche un altro aspetto: sono gli effetti devastanti che si scatenerebbero nella stessa Serbia, dove nella provincia del Sangiaccato l’«Armata nazionale albanese» opera con assalti, attentati, violenze, collegata con un’altra forza secessionista albanese della Valle del Presevo nel sud della Serbia, per unirsi al Kosovo indipendente; ma nella stessa strategia operano forze secessioniste albanesi in Macedonia, Montenegro, Grecia del nord.
Dopo la vergognosa partecipazione dell’Italia ai bombardamenti del 1999, il nostro paese sarebbe nuovamente coinvolto direttamente in scenari di guerra, con le relative conseguenze. Per opporci a tutto questo, per lavorare per la pace e contro la guerra, per continuare a lavorare per la convivenza e l’amicizia tra i popoli, lanciamo un appello/manifesto (sosyugoslavia@libero.it) come strumento positivo per una soluzione pacifica e negoziale del problema Kosovo Metohija e delle genti che lo hanno sempre abitato.

Enrico Vigna
(Forum Belgrado Italia e Associazione SOS Yugoslavia)

Enrico Vigna




Il potere secondo l’Africa (italiano/ français)

Considerazioni sulla democrazia

La democrazia: un bel concetto. Va di moda anche in Africa. Anzi è ormai condizione indispensabile per ottenere i finanziamenti. Ma occorrerebbe adattarla. E i politici del continente non sanno rinunciare a pratiche «locali». Di nascosto, però.

La democrazia è oggigiorno il riferimento politico supremo. In seguito alle dittature dette «popolari» dell’impero sovietico e le dittature mono partigiane installate in molti stati africani, nessuno vuole più essere escluso da questa corrente che attraversa il pianeta. Nonostante ciò, le realtà che si nascondono dietro le professioni di fede democratica sono talmente diverse e talvolta contraddittorie che non mancano di suscitare interrogativi. In Africa le etnie e le tribù, le famiglie e i clan, hanno dato alla democrazia un colore molto locale, a tal punto che alcuni si chiedono se non occorrerebbe dare un fondamento costituzionale a questi modelli politici.

Il 2007 è per alcuni paesi dell’Africa dell’ovest un anno di elezioni: Mauritania, Mali, Nigeria, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Togo. In un sistema democratico l’elezione è il meccanismo attraverso il quale il popolo sovrano sceglie a intervalli regolari coloro che devono condurre le trasformazioni sociali, indispensabili in materia di sviluppo economico e sociale. Questo suppone una dinamica intea fondata sulla convinzione degli attori sociali che lo sviluppo è affar loro. Ora, per i nostri politici africani, la nozione di popolo si riduce spesso alla tribù, quando non è semplicemente il clan o la famiglia. Immaginiamo in queste condizioni che contenuto può avere il gioco democratico, ben codificato dalle regole di diritto moderno. Se a ogni elezione un buon numero di partiti politici sono sul bordo dell’implosione a causa delle dispute intee, e pure la stabilità degli stati è minacciata, questo è dovuto spesso alle specificità molto africane, non sempre confessabili certo, ma ben radicate nei costumi politici.

L’osservatore straniero non capisce che una struttura ad hoc messa in piedi per organizzare le elezioni, che non è affatto abilitata a risolvere i contenziosi elettorali, possa decidere di una materia di competenza giudiziaria. È quanto appena visto in Nigeria, gigante d’Africa con una tradizione giuridica consolidata. Si possono capire cose del genere solo mettendosi nella mentalità africana, dove tutte le strutture sociali di qualsiasi natura, hanno come senso e finalità di servire il capo. Questi in Africa è un uomo forte per tradizione e per necessità.
È in questo spirito che un presidente africano in carica si è recato di persona in una prigione della capitale del suo paese per ordinare la liberazione del suo amico, giudicato e imprigionato dall’istituzione giudiziaria di cui lui dovrebbe essere garante (riferimento a recenti avvenimenti in Guinea Conakry, ndr).

La democrazia si presenta molto spesso in Africa come un gadget che si acquisisce giusto per far piacere agli occidentali. I dirigenti non accettano di applicare la democrazia che nelle sue forme apparenti. Vi sono tenuti a causa dei criteri di «buon governo», condizione necessaria per ottenere gli aiuti inteazionali, soddisfatti i quali la natura democratica del regime politico è dimostrata.
Ma questo non impedisce che le mentalità africane continuino a essere governate da principi e usi tradizionali, troppo spesso agli antipodi dei sistemi di riferimento delle società modee. È in questo senso che svariati responsabili politici africani ricorrono ai feticci (amuleti) per vincere le elezioni. Mai gli altari tradizionali sono bagnati di sangue d’animale come durante le campagne elettorali. Bovini, ovini e caprini sono ritualmente immolati. Ma anche animali più vicini all’uomo come cani e asini subiscono il barbaro supplizio.
Certe pratiche feticiste prescrivono che siano sepolti vivi. Più la richiesta è forte e maggiore il sacrificio richiesto. È come se bisognasse rispondere a una situazione compromessa con dei mezzi eccezionali.

Tutte queste pratiche causano naturalmente delle spese esorbitanti, ma bisogna credere che gli africani non indietreggiano davanti a nulla, quando c’è in gioco il potere o il denaro, due cose che vanno generalmente insieme.
Sono queste le ottusità, che hanno fatto dire che l’Africa non è pronta per la democrazia. Alcuni hanno perfino affermato che questi aspetti sono talmente scritti nei geni degli africani che bisogna tenerli in conto negli strumenti normativi che codificano la vita politica. È come dimenticare che, in Africa, sono sempre più numerosi coloro che vedono nella persistenza di pratiche occulte, il ricorso al comunitarismo o al clanismo, le cause del ritardo economico e del sotto sviluppo.
Certamente la democrazia non è una ricetta pronta per essere applicata. Ma non si può neppure presentare per ragioni di autenticità, come una riproduzione pura e semplice di un modo d’organizzazione ancestrale.
La democrazia è un principio dinamico che si nutre della storia dei popoli. Sfortunatamente l’Africa è in difficoltà sul pensiero politico. Questa è la principale causa del sottosviluppo.

Di Germain Bitiu Nama

Les pouvoirs africains et la démocratie
                                                                         

La démocratie est de nos jours la référence politique suprême. Après les dictatures dites populaires de l’ancien empire soviétique et les dictatures mono partisanes instaurées dans maints états africains, plus personne ne veut être en marge de ce courant mondial qui balaie toute la planète. Cependant, les réalités qui s’abritent derrière les professions de foi démocratiques sont si différentes et parfois même contradictornires qu’elles ne manquent pas de susciter des interrogations. En Afrique, les ethnies et les tribus, les familles et les clans ont donné à la démocratie une couleur très locale au point que certains se demandent s’il ne faut pas se résoudre à concéder un fondement constitutionnel à ces modèles politiques spécifiques.

L’année 2007 est pour un certain nombre de pays d’Afrique de l’Ouest, une année d’élections : Mauritanie, Mali, Nigéria, Burkina, Côte d’Ivoire, Togo. En système démocratique, l’élection est le mécanisme par lequel le peuple, souverain par principe, choisit à intervalles réguliers ceux qui doivent conduire les transformations sociales indispensables en matière de développement économique et social. Cela suppose une dynamique intee fondée sur la conviction des acteurs sociaux que le développement est leur affaire. Or pour  nos  politiciens africains, la notion de peuple se réduit souvent à la tribu si ce n’est tout simplement au clan ou à la famille. On imagine dans ces conditions quel contenu peut revêtir le jeu démocratique par ailleurs bien encadré par des règles de droit modee. Si à chaque élection nombre de partis politiques sont au bord de l’implosion et que même la stabilité des Etats se trouve menacée de rupture, cela tient souvent à ces spécificités très africaines, pas toujours avouables certes, mais bien ancrées dans les moeurs politiques. L’observateur étranger ne comprend pas qu’une structure ad hoc mise en place pour organiser des élections et qui n’est nullement habilitée à connaître les contentieux électoraux puisse décider sur une matière qui relève de la compétence judiciaire. C’est ce qu’on vient de vivre dans un pays comme le Nigéria, un géant d’Afrique qui a cependant une tradition juridique bien établie. On ne peut comprendre pareille chose qu’en se situant dans la mentalité africaine où toutes les structures sociales de quelque nature que ce soit ont pour sens et finalité de servir le chef. Le chef en Afrique est un homme fort par tradition et par nécessité. C’est dans cet ordre d’esprit qu’un président africain en exercice est allé en personne dans une prison de la capitale de son pays ordonner la libération de son ami, jugé et écroué par l’institution judiciaire dont il est censé être le garant.

La démocratie se présente bien souvent chez les Africains comme un gadget que l’on acquiert tout juste pour faire plaisir aux Occidentaux. Les dirigeants n’acceptent volontiers d’user de la démocratie que dans ses formes apparentes. Ils y sont tenus en raison de critères de bonne gouveance attachés à l’aide inteationale, au nombre desquels la nature démocratique du régime politique figure en bonne place. Cela n’empêche pas que  les mentalités africaines continuent d’être gouveées  par des principes et usages traditionnels, bien souvent aux antipodes des référentiels des sociétés modees. C’est dans cet esprit que nombre de responsables politiques africains recourent aux fétiches pour gagner une élection. Jamais les autels traditionnels ne sont aussi abreuvés de sang d’animaux qu’en période électorale. Bovins, ovins et caprins sont ainsi rituellement immolés. Même des animaux aussi familiers de l’homme que le chien ou l’âne subissent le supplice le plus barbare qui soit. Certaines pratiques fétichistes amènent à les enterrer vivants. Plus la doléance est forte, plus le sacrifice exigé est élevé.  Comme s’il fallait répondre à une situation compromise par des moyens exceptionnels.

Toutes ces pratiques occasionnent bien sûr des dépenses faramineuses mais il faut croire que les Africains ne reculent devant rien quand il s’agit d’une question de pouvoir et d’argent, deux choses qui vont généralement ensemble.
Ce sont là des pesanteurs qui ont fait dire que l’Afrique n’était pas mûr pour la démocratie. D’autres ont même affirmé que ces tendances étaient si inscrites dans les gènes des Africains qu’il fallait les prendre en compte dans les instruments normatifs qui codifient la vie politique. C’est oublier que dans la même Afrique, de plus en plus nombreux sont ceux qui voient dans la persistance des pratiques occultes, le recours au communautarisme ou au clanisme, les causes du retard économique et du sous-développement. Certes la démocratie n’est pas une recette toute prête qu’il s’agit simplement d’appliquer. Elle ne peut non plus se présenter pour des raisons d’authenticité, comme une reproduction pure et simple d’un mode d’organisation sociale ancestral. La démocratie est un principe dynamique qui se nourrit de l’histornire des peuples. Malheureusement, l’Afrique est en panne de pensée politique. C’est la principale cause de son sous-développement.

Germain Bitiu Nama

Germain Nama




Quello infide fibre d’amianto

Un problema grave, a lungo sottovalutato

Ne parlava anche Plinio il Vecchio, che lo chiamava «lino vivo». Ne scrisse
Marco Polo ne Il Milione.  Le proprietà dell’amianto sono note da tempo.  
Per questo è ovunque. Chi non conosce i tetti in «onduline» (Eteit)
o i pavimenti in «linoleum»? Senza dire degli utilizzi non immediatamente riconoscibili. Da anni, si è scoperto che l’amianto è molto pericoloso per la salute, essendo causa di neoplasie fatali. Per questo è stato messo
al bando in molti paesi, ma – considerata la sua diffusione e le lacune
normative – i suoi effetti si faranno sentire a lungo. E pesantemente.

In igiene industriale vengono considerate «fibre» tutte le particelle allungate, di tipo aghiforme, con un rapporto lunghezza/diametro almeno pari a 3:1, un diametro uguale o inferiore a 3µ e una lunghezza uguale o superiore a 5µ (micron; cfr. MC, febbraio 2007, Glossario). Per avere un’azione patogena le fibre devono essere respirabili, cioè devono essere in grado di giungere fino al comparto polmonare più profondo, quello alveolare. Solo le fibre con diametro inferiore a 3µ e con lunghezza non superiore a 200µ possono essere respirate.
Questi requisiti sono posseduti dalle fibre d’amianto, un materiale ampiamente usato in svariate produzioni industriali, proprio grazie alla sua struttura fibrosa. Infatti tale struttura si rivela indispensabile per certi tipi di lavorazioni. Ad esempio, nell’industria tessile non si potrebbe fare a meno di materiali in grado di essere filati, così come nell’industria dei materiali compositi, cioè quei prodotti in cui una componente solida particellare viene inglobata in una matrice amorfa resinosa, o di altra natura, per formare un complesso resistente. In particolare, in questo secondo tipo d’industria, i materiali fibrosi sono usati specialmente perché possiedono una superficie maggiore a parità di volume, rispetto alle particelle rotondeggianti, quindi offrono una maggiore possibilità d’interazione chimica e un contatto fisico più ampio con i componenti della matrice.
Per questo motivo l’amianto, formato da fibre dotate di elevata resistenza alla tensione, grande flessibilità, grande resistenza al calore e agli acidi, è stato ampiamente utilizzato nelle più diverse produzioni industriali, finché non è stato messo al bando in molte nazioni tra cui l’Italia, una volta provata la sua cancerogenicità.

L’amianto nella storia

L’utilizzo dell’amianto inizia in epoche lontane.
Per via della sua proprietà di poter essere filato e di resistere al fuoco, veniva utilizzato, ad esempio, per produrre tovaglie che venivano ripulite sulla fiamma, stoppini per le lampade e lenzuola per cremare i cadaveri.
Plinio il Vecchio lo chiamava «lino vivo», con riferimento alla facilità con cui poteva essere tessuto.
Grazie alla sua resistenza al fuoco, nel Medioevo fu associato con la salamandra e con questo nome Marco Polo, ne Il Milione, definì un minerale che veniva filato per fare delle stoffe, che non bruciavano se gettate nel fuoco.
Il nome commerciale salamandra venne dato ai primi materassi per termocoibentazione in amianto prodotti industrialmente.
La rivoluzione industriale iniziata con l’invenzione del telaio meccanico e, nella seconda metà del xix secolo, con l’utilizzo diffuso della macchina a vapore e dei processi di fusione dei metalli, determinò un forte aumento dell’impiego dell’amianto al fine di non disperdere il calore dei foi, delle caldaie e dei tubi per la distribuzione del vapore.
La produzione di amianto arrivò a superare i 5 milioni di tonnellate all’anno.
Sempre per via delle sue proprietà isolanti, l’amianto è stato utilizzato in Europa per produrre manufatti per l’edilizia come canne fumarie, tubi dell’acqua, tetti (ondulati di cemento-amianto), intercapedini (cartongesso), pavimenti (linoleum).
L’amianto è stato anche utilizzato, mescolato a caldo con il catrame, per impermeabilizzare i tetti piani.
Molto pericolosa è stata l’applicazione a spruzzo, al fine di ottenere uno strato isolante per pareti e soffitti. L’amianto in polvere veniva soffiato con l’aria compressa insieme a una colla liquida (tipo Vinavil). Inutile dire che la lavorazione sviluppava nubi di polvere, ma va anche detto che lo strato isolante così ottenuto non era compatto e, dove è stato applicato, può rilasciare ancora oggi grandi quantità di fibre di amianto nell’ambiente.
Sempre al fine di proteggere dal calore e insonorizzare, è stato fatto un largo uso di amianto anche nei mezzi di trasporto: lo troviamo nelle locomotive e nei vagoni dei treni, nelle intercapedini delle navi, nei ripari dei motori, nei freni e nelle frizioni degli autoveicoli.
Per quanto riguarda il settore ferroviario, basti pensare, ad esempio, che in una carrozza ferroviaria passeggeri potevano essere collocate anche 2 tonnellate di materiale coibente.
Proprio nel settore dei trasporti si concentra ben il 25% delle neoplasie da asbesto complessivamente indennizzate dall’Inail dal 2001 al 2005.
Ben sapendo che possono passare decine di anni dal momento dell’esposizione a rischio all’insorgenza di una neoplasia provocata dall’amianto, anche se questo pericoloso minerale è stato messo al bando, dovremo aspettarci numerosi casi di patologie neoplastiche almeno per altri venti anni.
Si mantiene infatti elevato, rispetto al complesso delle neoplasie professionali, il numero di quelle causate dall’asbesto, con oltre 400 casi/anno riconosciuti (1), il 75% dei quali sono casi di mesotelioma pleurico, che sono in costante aumento; infatti prima del 2000 i casi riscontrati erano circa 100 all’anno (2).
Anche l’asbestosi rimane una delle principali patologie polmonari di origine professionale: nel quinquennio 2001-2005 ne sono stati riconosciuti dall’Inail più di 1.300 casi, di cui il 25% diagnosticato nel settore trasporti (3).

L’amianto oggi

Nonostante la messa al bando in Italia nel 1992, il rischio amianto è ancora attuale, ad esempio, per gli operai impegnati nella manutenzione o nei lavori di bonifica.
Possiamo trovare amianto anche in oggetti di uso comune, tipo foi da cucina, asciugacapelli, stufe elettriche, assi per stirare, presine e guanti da foo.
Non dimentichiamo che tuttora in Russia, in Canada, in Cina e in altre parti del mondo, l’amianto viene ancora utilizzato e possiamo trovarlo in manufatti importati.
In Europa, alla fine degli anni Novanta, l’amianto è stato messo al bando; ma, mancando una normativa che ne imponesse la bonifica, lo possiamo trovare ancora oggi in gran quantità e in condizioni sempre peggiori per via del deterioramento causato dal tempo.
L’amianto è un rischio professionale e ambientale di proporzioni catastrofiche. I dati di cui la letteratura scientifica sanitaria dispone a livello mondiale riportano che l’amianto è stato responsabile di oltre 200.000 morti negli Stati Uniti, e si stima che procurerà altri milioni di morti in tutto il mondo (4).
È grave dover riscontrare che questa enorme tragedia era annunciata e poteva essere evitata, non utilizzando l’amianto.

È attorno a noi

I minerali di amianto vengono suddivisi in due grandi gruppi: il serpentino e gli anfiboli. C’è un solo tipo di amianto derivato da minerale di serpentino, il crisotilo, noto anche come amianto bianco. Gli anfiboli comprendono cinque tipi di amianto: amosite, crocidolite, tremolite, antofillite e actinolite. Due di questi sono le varietà di maggior valore commerciale: l’amosite, o amianto marrone, e la crocidolite, o amianto blu. Gli altri anfiboli sono di scarsa importanza commerciale. Indicazioni iniziali che il crisotilo potesse essere meno pericoloso di altri tipi di amianto non sono state confermate (5). Attualmente la maggioranza dei lavori scientifici dimostra che anche il crisotilo causa tumori, compresi il cancro polmonare e il mesotelioma (6). Anche il crisotilo canadese, privo di anfiboli, è associato a mesoteliomi (7).
Gli effetti sull’uomo sono conosciuti da quasi un secolo.
Negli anni Venti del secolo scorso si cominciarono a studiare gli effetti dell’amianto sull’organismo, evidenziando le situazioni di accumulo nei polmoni (asbestosi); nei decenni successivi si cominciarono ad osservare gli effetti neoplastici di queste fibre, dal carcinoma polmonare al mesotelioma pleurico e peritoneale, che possono colpire non soltanto i lavoratori, ma anche la restante popolazione, a causa della presenza di amianto anche negli ambienti estei alle industrie, ad esempio nelle città.
I temibili effetti sulla salute hanno determinato dapprima la messa al bando delle lavorazioni più inquinanti, per esempio la coibentazione a spruzzo, e dell’utilizzo dell’amianto nell’industria alimentare, dove serviva per filtrare il vino o per la cottura dei biscotti. Da non dimenticare che l’amianto è stato utilizzato anche nei filtri delle sigarette.
Come già accennato prima, l’amianto è stato messo al bando, ma rappresenta ancora oggi un rischio non solo per i lavoratori, ma anche per i cittadini.
In molti casi, quando si riscontra un tumore da amianto, non si riesce a individuare una causa di rischio legata al lavoro svolto.
È ormai ben noto che anche l’inalazione delle fibre di amianto presenti negli ambienti urbani può essere fatale a distanza di tempo.

Quante fibre di amianto
respiriamo al giorno?

Viene spontaneo chiedersi: quanto amianto può essere pericoloso?
Studi condotti su diverse città italiane (Milano, Casale Monferrato, Brescia, Ancona, Bologna, Firenze), hanno evidenziato concentrazioni aerodisperse di amianto crisotilo comprese tra 0,1 e 2,6 fibre/litro. A Torino, per esempio, viene confermato da esperti del Politecnico e dell’Inail che la concentrazione media di amianto è di 1 fibra/litro. Per legge, il primo livello di allarme indicativo di una situazione di inquinamento è di 2 fibre/litro. Il livello stabilito dalle normative mette al riparo dal rischio di ammalarsi di asbestosi, ma gli studiosi concordano sul fatto che non evita il rischio cancerogeno.
Lo stato della Califoia ha cercato di dare un valore soglia e ha stabilito, come livello di rischio non significativo, il valore di 100 fibre al giorno di amianto crisotilo, che per essere correttamente misurato richiederebbe di avere a disposizione una tecnica strumentale e una procedura in grado di raggiungere un limite di rilevabilità pari a 0,005 fibre/litro (8).
Gli strumenti attualmente utilizzati non hanno una tale precisione, ma servono solo a misurare concentrazioni molto più elevate. Il limite di sensibilità degli apparecchi «a norma» si ferma a 0,4 fibre/litro per cui anche superando fino a 80 volte il livello stabilito dagli studiosi califoiani, i nostri rilevatori continuerebbero a segnare zero.
Ma quanto amianto respiriamo?
Con la presenza di una fibra/litro, ipotizzando un volume di aria respirata di 18 metri cubi al giorno, si può ritenere, con buona approssimazione, che un uomo respiri in un giorno 18.000 (diciottomila) fibre di amianto; questo valore viene definito «concentrazione di riferimento ambientale».

Dalla II Guerra mondiale
alle ricerche di oggi…

Circa 10 anni fa, il compianto prof. G. Scansetti (Dipartimento di traumatologia, ortopedia e medicina del lavoro dell’Università di Torino) in un articolo scientifico dal titolo «L’amianto ieri ed oggi» scriveva: «L’ultimo effetto largamente documentato, il più temibile anche per la restante popolazione, è stato il mesotelioma multiplo maligno, della pleura e del peritoneo. Se in ambito professionale nel nostro paese ci dobbiamo attendere effetti ormai soltanto riconducibili ad esposizioni “storiche”, la storia degli effetti sulla popolazione generale per la (bassa) contaminazione generale è tutta da scrivere» (9).
Il professore ricordava anche gli studi relativi al cancro polmonare associato all’esposizione all’amianto citando, tra l’altro, due lavori di uno studioso tedesco, Nordman (10), che nel 1941, con Sorge, diede anche la dimostrazione sperimentale (11).
Fra il 1943 e il 1944 un altro studio di Wedler citò anche «carcinomi pleurici» nelle sue statistiche, tedesche, sui tumori all’apparato respiratorio degli asbestosici (12).
Il prof. Scansetti ricordava anche un effetto negativo, non secondario, indotto, fra gli altri, dalle guerre: gli statunitensi e, più in generale, gli alleati non credettero a questi risultati dei tedeschi – pur giunti a loro conoscenza – perché sospettati di essere menzogne manipolate ad arte dal nemico: basti pensare ai lavori di coibentazione, con grande utilizzo di amianto, a bordo delle navi da guerra.
Le preoccupazioni di allora del prof. Scansetti trovano oggi riscontri precisi.
Il ministero della salute sottolinea che a differenza dell’asbestosi, per cui è necessaria un’esposizione intensa e prolungata, per il mesotelioma non è possibile stabilire una soglia di rischio, ossia un livello di esposizione così ridotto all’amianto, al di sotto del quale risulti innocuo. Il decorso della patologia tumorale è molto rapido e la sopravvivenza è in genere inferiore a un anno dalla prima diagnosi. Non sono state individuate terapie efficaci.
L’Università di Torino (Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, Sezione di Anatomia Patologica) in un lavoro del 1997 dal titolo eloquente «Implicazioni medico-legali della diagnosi di mesotelioma» (F. Mollo, D. Bellis) riporta che: «È stato ripetutamente affermato che esposizioni molto lievi e brevi possono causare lo sviluppo del mesotelioma maligno (13,14,15). Ma in pratica la dose-soglia cumulativa (al di sotto della quale sia da escludere nel caso singolo la possibile azione carcinogenetica dell’amianto nei confronti del mesotelioma maligno) non è definita (16), e forse non è definibile».

L’Europa si muove

Il problema dell’amianto è ben conosciuto in Europa e l’Italia ha recentemente recepito la direttiva 2003/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 marzo 2003, che modifica la direttiva 83/477/CEE del Consiglio sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione all’amianto durante il lavoro. In un paragrafo della direttiva si ricorda che: «Non è stato ancora possibile determinare il livello di esposizione al di sotto del quale l’amianto non comporta rischi di cancro». 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara


(1) Rapporto annuale INAIL 2005
(2) Rapporto annuale INAIL 2000
(3) Dati INAIL sull’andamento degli infortuni sul lavoro, Giugno 2006
(4) Sixth Collegium Ramazzini Statement (1999)
(5) UNEP, ILO, WHO, 1998
(6) Smith e Wright, 1996; Stayner, Dankovic e Lemen, 1996
(7) Frank, Dodson e Williams, 1998
(8) Fondazione Salvatore Maugeri, Concentrazione di riferimento ambientale dell’amianto crisotilo in aree urbane: l’esperienza della città di Pavia, IRCCS, Pavia 1997
(9) Fondazione Salvatore Maugeri, L’amianto ieri e oggi,  IRCCS, Pavia 1997
(10) Nordman M., Der Berufskrebs der Asbestarbeiter, Z. Krebsforsch, 1938; 47: 288-302
(11) Nordman M., Sorge A., Lungenkrebs durch Asbeststaub in Tierversuch, Z. Krebsforsch 1941; 51: 168-182
(12) Wedler H.W., Asbestose und Lungenkrebs, Dtsch. Med. Woch. 1943; 69: 575-576
(13) Bertazzi P.A., Piolatto G., Epidemiologia mondiale ed italiana, in Mesotelioma Maligno, Ed. Regione Piemonte, Torino 1985, 18-31
(14) Scansetti G., Piolatto G., Pira E. Il Rischio da Amianto Oggi, Ed. Regione Piemonte, Torino 1985
(15) De Vos Irvine H., Lamont D.W., Hole D.J., Gillis C.R., Asbestos and lung cancer in Glasgow and the West of Scotland. Br. J. Med., 1993; 306: 1503-1506
(16) Doll R., Peto J., Asbestos: Effects on Health of Exposure to Asbestos, London: Health and Safety Commission, HMSO, 1985

Il Glossario di «Nostra Madre Terra»

L’ABC DEL PROBLEMA 

Amianto: è stato abbondantemente usato nell’industria dall’inizio del secolo scorso fino alla metà degli anni Settanta, dopodiché, data la sua pericolosità, è stato sempre meno utilizzato, fino alla totale messa al bando in alcuni paesi. In Italia è stato bandito dalla legge 257/92. Tra i suoi effetti patologici ricordiamo l’asbestosi, la formazione delle placche pleuriche e il mesotelioma pleurico e peritoneale.

Asbestosi: è la fibrosi polmonare da amianto, caratterizzata dalla formazione di granulomi, contenenti al centro una o più fibre di amianto, che appaiono rivestite da un’incrostazione ad astuccio, formata da proteine ad alto contenuto di ferro e calcio, provenienti dall’ospite. Queste strutture vengono chiamate anche «corpuscoli dell’asbesto» e possono essere reperite sia nel tessuto polmonare, che nell’escreato del paziente. La reazione infiammatoria, di cui la formazione dei granulomi è una parte, richiama la presenza dapprima di granulociti e poi di macrofagi e linfociti, cioè di globuli bianchi con funzione di difesa. In particolare i macrofagi esercitano un’azione di fagocitosi verso i corpuscoli dell’asbesto; tuttavia, poiché le dimensioni di tali corpuscoli vanno da 5µ a 100µ, quindi spesso sono al limite delle dimensioni del macrofago, la fagocitosi da parte di quest’ultimo risulta spesso incompleta. In molti casi, inoltre, il macrofago, che ha inglobato il corpuscolo, va in necrosi, perché al suo interno vengono liberati enzimi litici, quindi la cellula muore e il corpuscolo dell’asbesto può penetrare in un altro macrofago. All’accumulo dei macrofagi e alla loro necrosi si associano altre manifestazioni infiammatorie, tra cui reazioni vasculo-essudative e fibroblastiche, con produzione di sostanza fondamentale e di fibre (tipici materiali del tessuto connettivo), da cui la fibrosi.

Fagocitosi: attività esplicata principalmente dai macrofagi, ma anche da altri globuli bianchi, tra cui i granulociti, consistente nell’inglobare all’interno della cellula un corpo estraneo, grazie ad opportuni movimenti della membrana cellulare, che lo avvolge. Si forma così un vacuolo digestivo, all’interno del quale vengono riversati degli enzimi litici, da parte di organuli cellulari detti lisosomi. In tale modo il corpo estraneo viene quasi sempre digerito, tranne in casi particolari, come quello delle fibre di asbesto (vedi testo).

Fibroblasti: sono le cellule principali del tessuto connettivo, responsabili della produzione di fibre collagene ed elastiche, nonché della sostanza fondamentale, in cui le fibre sono immerse. Nel connettivo, le cellule sono distanziate tra loro e le fibre e la sostanza fondamentale si trovano negli spazi intercellulari. La maggiore o minore compattezza ed elasticità del tessuto sono date dalla quantità e qualità delle fibre, nonché dalle condizioni della sostanza fondamentale, che si presenta come un gel, la cui fluidità dipende dal rapporto tra acido ialuronico e acido condroitinsolforico, due mucopolisaccaridi di cui è costituita.

Fibrosi: abbondante produzione di fibre collagene, da parte dei fibroblasti (reazione fibroblastica), con funzione di riempimento di una lesione.

Granulociti: globuli bianchi ricchi di granulazioni, da cui il nome, capaci di movimenti ameboidi (assottigliamento della cellula e possibilità di strisciare), che consentono loro di fuoriuscire dai capillari sanguigni e raggiungere l’area d’infiammazione, dove esplicano anch’essi la funzione di fagocitosi, ma solo su particelle piccole come i batteri, a differenza dei macrofagi, che sono in grado d’inglobare anche cellule intere. I granulociti sono di tre tipi: neutrofili, eosinofili e basofili, a seconda del colore assunto dalle granulazioni, con le comuni colorazioni di laboratorio; il diverso colore corrisponde a vari tipi di enzimi contenuti nei granuli.

Granuloma: è una funzione infiammatoria cronica, circoscritta e caratterizzata da una reazione cellulare esuberante dovuta soprattutto a macrofagi, linfociti e plasmacellule. Rappresentano di solito la risposta del connettivo ad un processo infettivo specifico o comunque all’ingresso di un agente estraneo.

Linfociti: globuli bianchi responsabili della difesa di tipo specifico del sistema immunitario. Appartengono a due categorie: B e T. I linfociti B, una volta riconosciuto l’antigene estraneo, si attivano, si trasformano in plasmacellule e iniziano la produzione di anticorpi (o immunoglobuline), che vengono riversati nel sangue e vanno a legarsi in modo altamente specifico, secondo un meccanismo chiave-serratura, all’antigene, determinandone la distruzione mediante l’attivazione di un sistema enzimatico detto complemento, oppure la precipitazione e successiva eliminazione. I linfociti T hanno un’attività citotossica altamente specifica, per cui dopo avere riconosciuto l’antigene, si avvicinano alla cellula estranea e la uccidono (linfociti T killer), per rottura della membrana cellulare. I linfociti T sono particolarmente attivi nelle reazioni di rigetto, nei trapianti d’organo. La risposta specifica del sistema immunitario è più tardiva, rispetto a quella aspecifica, ma molto più efficace e duratura, grazie a particolari linfociti B e T, detti cellule «di memoria», che, una volta incontrato un certo antigene, non si attivano subito, ma ne registrano la presenza, per attivarsi poi in una seconda eventuale infezione.

Macrofagi: cellule con spiccata attività fagocitaria, responsabili della difesa di tipo aspecifico. Possono essere circolanti nel sangue (monociti, precursori inattivi) e fissi in molti tessuti (istiociti, attivi). Rappresentano uno dei più rapidi sistemi di difesa, seppure di tipo primitivo, del nostro organismo e la loro attività nei confronti di un qualsiasi agente estraneo è coadiuvante l’attività altamente specifica dei linfociti.

Mesotelioma pleurico e peritoneale: è una gravissima neoplasia maligna, che interessa la membrana sierosa di rivestimento del polmone (pleura) e il peritoneo, che riveste gli organi addominali. Le prime osservazioni di questi tumori risalgono all’inizio degli anni ‘30 nel Regno Unito. Nel 1964 l’Accademia delle Scienze di New York ha stabilito, per consenso unanime, il rapporto causale tra l’amianto ed il mesotelioma e successivamente è stata rilevata la maggiore pericolosità degli anfiboli, in particolare della crocidolite e della amosite. La messa al bando della crocidolite, la fibra più pericolosa, è avvenuta nel 1966 nel Regno Unito, nel 1970 in Australia, nel 1985 in Finlandia e nel 1986 in Italia, dove peraltro nel 1992 sono stati banditi tutti i tipi di amianto.

Placche pleuriche: ispessimenti a volte calcifici della membrana sierosa, che riveste il polmone.

Reazioni vasculo-essudative: edema e gonfiore presenti in zone infiammate.

(a cura di R.Topino e R.Novara)

Le coperture di Eteit
QUANDO SONO PERICOLOSE?

Non esiste una normativa che obblighi alla rimozione delle coperture in fibrocemento in buon stato di conservazione, ma il passare del tempo determina un progressivo deterioramento dei tetti con il rilascio nell’ambiente di fibre: in questi casi, quando i danni del materiale sono evidenti, la legge prevede la bonifica e la sostituzione delle coperture con altre senza amianto.
È l’esposizione agli agenti atmosferici che determina il progressivo degrado delle coperture per azione delle piogge acide, degli sbalzi termici, dell’erosione eolica e di microrganismi vegetali (muffe, licheni).
Per i motivi elencati, dopo anni dall’installazione, si possono determinare alterazioni corrosive superficiali con affioramento e rilascio delle fibre.
I principali indicatori utili per valutare lo stato di degrado delle coperture in cemento-amianto e conseguentemente l’aumento di rischio di rilascio di fibre, sono: la friabilità del materiale, lo stato della superficie con affioramenti di fibre e la formazione di muffe, la presenza di sfaldamenti, di crepe, di rotture e di materiale friabile o polverulento in corrispondenza di scoli d’acqua e grondaie.
Il segno più importante che dimostra la pericolosità del tetto è la presenza di materiale fibroso conglobato in piccole stalattiti in corrispondenza dei punti di gocciolamento.
In questi casi la dispersione di fibre è evidente e la bonifica è doverosa.

Roberto Topino e Rosanna Novara




L’unione fa la forza

Cocopa: oltre la sigla

Fino a qualche anno fa le attività inteazionali degli enti locali italiani erano limitate ad alcune azioni di collaborazione all’interno dei gemellaggi istituzionali,  oppure a donazioni di denaro in seguito ad emergenze (terremoti, inondazioni, ecc.), accoglienza e ospitalità (profughi da zone di guerra, bambini di Ceobyl).
Spesso i comuni hanno finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo realizzati da Ong o associazioni di volontariato internazionale, ma il loro ruolo era sostanzialmente di finanziatori senza altra forma di coinvolgimento all’interno dei progetti.
Verso la metà degli anni ’90, gli enti locali hanno iniziato a definire meglio il loro ruolo all’interno della cooperazione allo sviluppo. Ciò  è stato determinato da alcuni fattori.
I processi di inteazionalizzazione e globalizzazione hanno avvicinato molti dei cittadini dei nostri comuni ai drammatici squilibri Nord – Sud e hanno fatto crescere la consapevolezza delle collettività locali, di essere sempre più parte di un sistema interdipendente. Si è capito che ciò che capita a migliaia di chilometri ha effetti in diverse parti del mondo (guerre, violazione dei diritti dei lavoratori in Cina, crack finanziari, atti di terrorismo, fenomeni di immigrazione, emergenze ambientali e climatiche, ecc.). Oggi molti avvertono la necessità di aprirsi al mondo, di coinvolgersi nella riflessione sui modelli di sviluppo, di agire per l’attenuazione degli squilibri e di cercare di dare risposte globali a problemi ormai diventati planetari.
Alcuni insuccessi della cooperazione governativa hanno lasciato nuovi spazi alle amministrazioni locali. Cresce la convinzione che gli eletti (sindaci, consiglieri, ecc.) del Nord e del Sud rappresentino il livello istituzionale più vicino alla popolazione e che conoscano concretamente le problematiche dei cittadini, ma anche le risorse che possono essere messe in gioco. Possono dunque collaborare più efficacemente «dal basso», in modo molto concreto e trasparente.

Dieci anni per la pace

Nel 1996 è nato in provincia di Torino il Coordinamento comuni per la pace (Cocopa) con l’obiettivo di promuovere un’autentica e diffusa cultura di pace attraverso  la realizzazione di progetti concreti e cornordinando l’impegno dei singoli enti in iniziative comuni. Oggi aderiscono al Coordinamento 35 comuni e la provincia di Torino in rappresentanza di circa il 70% della popolazione provinciale.
Il Cocopa ha individuato come uno dei propri ambiti di intervento,  la promozione di progetti consortili di cooperazione decentrata in partenariato con comuni del Sud del mondo e le numerose espressioni della società civile attive sul proprio territorio.
Sulla base di queste riflessioni il Coordinamento ha sviluppato una propria metodologia di lavoro, perfezionata grazie ad un percorso di auto formazione nell’ambito degli «Stati generali della cooperazione» della Regione Piemonte (un percorso triennale di confronto tra enti locali, con la collaborazione di Ong e missionari sulle metodologie e buone pratiche della cooperazione decentrata).
Ne è nato un modello di cooperazione decentrata, o «comunitaria» che non si pone come unico obiettivo la realizzazione di infrastrutture o iniziative di solidarietà, ma in cui sono fondamentali i processi di partecipazione, coinvolgimento e sensibilizzazione dei cittadini.
Una cooperazione in cui si pone al centro il rapporto con le municipalità di Africa e America Latina, spesso fragili e di recente costituzione, cui si riconosce innanzitutto pari dignità e con cui ci si confronta su modelli di sviluppo, sulle modalità di erogazione dei servizi essenziali ai cittadini (anagrafe, educazione, gestione dell’acqua, dei rifiuti, ecc.). Si tratta di lavorare per dare sostanza ai piani di sviluppo elaborati dai partner, adoperandosi affinché contribuiscano a tutelare i diritti fondamentali delle persone e si caratterizzino per una modalità di progettazione e gestione il più possibile partecipata con la cittadinanza.

Scambiando si sviluppa

è un’ idea di una cooperazione che prevede uno scambio tra comunità, in cui i territori e i diversi attori si attivano e si incontrano (amministratori, funzionari, istituzioni scolastiche, associazioni…), in cui il coinvolgimento attivo della struttura comunale diventa risorsa e opportunità per riflettere su questi temi, superare pregiudizi, accrescere il coinvolgimento. Il ruolo dell’ente locale è dunque non solo quello di essere portatore di competenze specifiche utili ai partner, ma di rappresentare un territorio e di mettere in relazione attori diversi.
I progetti sono un’occasione di apertura delle nostre città al mondo, a realtà in passato lontane ora rese più vicine, tangibili. Un modo di conoscere direttamente altre città, di rivedere stereotipi e anche, in maniera critica, le informazioni che ci provengono dai media, costruire davvero una cultura di pace che si fondi sulla relazione diretta tra i popoli, sul mutuo riconoscimento tra comunità, sulla solidarietà.
I comuni hanno scelto di lavorare insieme, dando vita a progetti consortili in cui siano valorizzate le scarse risorse disponibili. Le azioni coinvolgono soggetti diversi avvalendosi della collaborazione di Ong, università, sindacati, associazioni, mondo missionario. Le Ong, ad esempio, spesso mettono a disposizione il loro personale  nei paesi di intervento per il monitoraggio delle attività e per facilitare l’incontro tra gli attori del Sud e del Nord.
Al momento la legislazione italiana in materia di cooperazione decentrata è assai carente. A differenza di altri paesi europei, manca un riconoscimento formale del ruolo degli enti locali nella cooperazione italiana. Senza il quale i fondi ad essa dedicati e l’impegno dei comuni resteranno marginali rispetto agli altri compiti istituzionali.
Un altro rischio è che, in seguito alla continua contrazione delle risorse di cui dispongono, i comuni riducano il loro coinvolgimento attivo, limitando il proprio impegno a finanziare progetti, senza apportare alcun valore aggiunto.

Di Edoardo Daneo

Edoardo Daneo




Rilanciare lo «sviluppo»

Gianfranco Cattai: lo «storico» della decentrata

Gianfranco Cattai è un pezzo da novanta per quanto riguarda la cooperazione decentrata in Italia. Si può dire sia  la memoria storica di questo processo. Lavora da anni per l’Ong Lvia di Cuneo per quale è responsabile di comunicazione e territorio.

Ci racconta l’origine della cooperazione decentrata?
Nasce agli inizi degli  anni ‘90 a Bruxelles, quando alcune persone della Commissione europea e del sistema non governativo, teorizzano la necessità di promuovere un fenomeno di ampia diffusione. Nasce da una riflessione condivisa tra parlamentari europei, funzionari della commissione e rappresentanti del sistema non governativo europeo che all’epoca si aggirava su circa 700 associazioni. La prima esperienza strutturale in Italia è stata alla fine degli anni ‘90 quella della  Regione Piemonte, con quattro paesi del Sahel.  Della cooperazione decentrata si possono dare tante definizioni, ad esempio in Francia è nata come  cooperazione condivisa tra governo centrale e realtà locali, che collaborano con il Sud del mondo. L’innovazione dell’esperienza piemontese fu forte: un approccio tra soggetti similari del Nord e del Sud, armonizzato dall’ente locale, dove questo non solo si metteva in gioco con l’ente omologo del Sud, ad esempio con il rafforzamento di capacità, ma era contemporaneamente in grado di valorizzare il territorio, le sue eccellenze a favore di una realtà nel Sud. L’ente locale dunque capace di rinunciare alla tentazione di “progettare” in modo autonomo per poi affidare l’esecuzione ad operatori del proprio territorio. È uno dei pericoli che vedo, e limiterebbe la creatività e la libera iniziativa degli attori, profit e non profit, dei singoli contesti.  

Quali sono gli altri rischi di questo metodo di fare cooperazione?
Spesso c’è tendenza diffusa che l’ente locale assuma o immagini di assumere il ruolo di una piccola o grande Ong: è un errore fondamentale. L’Ong è cittadinanza attiva che si è strutturata e si è data una missione specifica.  Il ruolo degli eletti degli enti locali decentrati è innanzitutto  quello di fare politica di cooperazione e di assumere le scelte amministrative congruenti e conseguenti. Non è unicamente attenzione all’azione  ma anche al senso e cioè alla politica. C’è spazio per tutti rispettando le specificità, senza dimenticare che gli eletti hanno un mandato,  anche nell’ambito della cooperazione internazionale.  Le Ong non possono avere questa peculiarità. La politica opera scelte che devono  confrontarsi con il consenso e quindi hanno un forte valore. Gli organismi spontanei non hanno questo confronto.  Gli enti locali possono attuare  anche iniziative  concrete in modo diretto ma non possono dimenticare che l’impegno assunto, a volte anche molto limitato, deve avere anche la capacità di legittimare e valorizzare quanto soggetti profit e non profit del territorio fanno in modo autonomo o condiviso.

Ha osservato un’evoluzione della cooperazione decentrata in questi dieci anni?
Una grande evoluzione. Oggi è più chiaro che c’è volontà da parte degli enti locali e si possono esprimere in modalità diverse. Primo: mettere a disposizione dei fondi su proposta di terzi. Secondo fare, in proprio progetti in modo diretto. Terzo: mantenere la responsabilità culturale  dell’azione ma farsi accompagnare da chi ha competenze specifiche (come per esempio le Ong che dovrebbero avere radici sia al Sud che al Nord). Quarto: rafforzamento istituzionale di soggetti similari al Sud. Si moltiplicano le esperienze in tutta Italia da questo punto di vista. Oggi assistiamo alla realizzazione di questi quattro livelli, che possono coesistere. In passato la situazione era più confusa.

Che peculiarità ha questo metodo rispetto alla cooperazione governativa centrale?
Nel tempo, a livello centrale, è aumentata la consapevolezza  delle scelte che si dovrebbero operare, ma è diminuita la tendenza a fare cooperazione allo sviluppo. Ci si è spostati verso temi come l’emergenza e la sicurezza internazionale (vedi Afghanistan, Iraq). C’è sempre meno tensione e attenzione verso quella foresta da far crescere rispetto al concentrarsi sull’albero che cade. Spesso i fondi della cooperazione sono dirottati rispetto a queste questioni certamente urgenti ed anche più comprensibili a livello mediatico. Il problema è tornare a una cooperazione capace di lavorare sugli obiettivi del millennio. Rispetto alle dichiarazioni dei nostri governi italiano ed europei, crediamo necessaria una lobby popolare che spinga per rilanciare questo tipo di cooperazione. La cooperazione decentrata ha quindi, tra l’altro, l’importante ruolo di rilanciare la cooperazione allo sviluppo, e questo è un’opportunità affidata a ciascuno di noi. Evidentemente la cooperazione non si riduce alla disponibilità di denaro, pur necessario.  La mia preoccupazione maggiore è il fatto che non ci siano oggi in Italia luoghi dove riflettere  sulla  politica della cooperazione. Anche nel caso della nuova proposta di legge, si dibatte più degli aspetti strutturali (e sono quasi 20 anni!) e meno, per esempio  su come dare risposte agli   obiettivi del millennio.  Non è solo un problema di investimenti economici ed organizzativi: anche se li moltiplichiamo i fondi non basteranno. Occorre un rilancio di «interessi» per lo sviluppo. Il vero problema è portare l’attenzione su percorsi di cooperazione che coinvolgano associazioni di giovani e di categoria, piccole imprese, ordini professionali, università, scuole. Una coscienza collettiva che permetta di muovere competenze, disponibilità, creando così un effetto moltiplicatore degli impegni  pubblici e governativi.

 a cura di Ma.B.
Per scambi d’opinione : italia@lvia.it

Marco Bello




Sitema Italia cercasi

Il valore aggiunto della cooperazione tra enti locali

Uno sviluppo fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Sul rafforzamento delle capacità e dei poteri dei comuni al Sud. Una cooperazione più vicina alle priorità delle popolazioni, perché nasce dal territorio. Riflessioni di un ricercatore.

A partire dagli anni ’90 è cresciuto il ruolo delle autonomie locali (o enti locali, regioni, province, comuni) nella cooperazione allo sviluppo. Nonostante diverse definizioni di cooperazione decentrata, il minimo comune denominatore riconosciuto a livello internazionale e italiano è rappresentato dall’azione delle autonomie locali, che sempre più non si limitano a contribuire finanziariamente ai progetti portati avanti dai diversi soggetti del proprio territorio, ma che assumono su di sé un ruolo politico e di proposta attiva. Nell’accezione italiana si dà solitamente maggiore enfasi al rapporto virtuoso tra autonomie locali e soggetti del territorio, sia del mondo sociale, sia economico e culturale. Per questo si sottolinea il concetto di partenariato tra territori,  che risulta fondato sui principi di sussidiarietà, verticale ed orizzontale, e sviluppo partecipativo. La sussidiarietà verticale è quella che delega, a partire dal governo centrale, l’istituzione più adatta a svolgere determinate funzioni, come lo sviluppo locale, quindi regione, provincia, comune. Quella orizzontale è invece la divisione dei ruoli tra amministrazione pubblica, mercato e società civile.

Un nuovo approccio

In questo senso la definizione italiana si collega a quella del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Pnud) e dalla Commissione europea, che indica nella decentrata una nuova modalità di politica di cooperazione allo sviluppo focalizzata sugli attori. è espressione di un nuovo modo di concepire lo sviluppo equo e sostenibile tra i popoli, fondato sulla partecipazione, la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, il rafforzamento delle capacità e dei poteri degli attori decentrati, in particolare dei gruppi svantaggiati. L’obiettivo di questa cooperazione è quello di favorire uno sviluppo migliore perché considera in misura maggiore (rispetto alle tradizionali politiche tra stati) i bisogni e le priorità delle popolazioni nei loro luoghi concreti di vita. Importante è quindi il sostegno alle politiche di decentramento amministrativo nei paesi partner e il ruolo dei poteri locali, delle comunità e delle organizzazioni della società civile.
Un altro concetto di grande rilevanza che differenzia la cooperazione decentrata rispetto a quella tradizionale è l’adozione «dell’approccio per processo». Non si tratta di «fare progetti» ma di partecipare e sostenere processi di sviluppo locale, di decentramento, di empowerment (vedi glossario, ndr). Le azioni puntuali vanno pensate in sequenze flessibili a seconda dei ritmi degli attori secondo un approccio strategico di medio periodo, fondato sull’ascolto, sul dialogo e su un confronto continuo. Diventa quindi essenziale la dimensione politica e la costruzione di istituzioni di partenariato nelle quali condividere i modelli di sviluppo, obiettivi, strumenti e ruoli dei diversi soggetti territoriali.

Quale valore aggiunto

Sulla base di queste considerazioni è essenziale ricordare i «quattro valori aggiunti» della cooperazione decentrata.
1. L’assunzione dell’impegno politico delle autonomie locali verso i fini della cooperazione allo sviluppo (ad esempio gli obiettivi del millennio). 2. La concretizzazione di questo impegno con la sensibilizzazione e mobilitazione di competenze, capacità e risorse del territorio nelle relazioni inteazionali, attraverso la creazione di sistemi territoriali per la cooperazione allo sviluppo (partenariati territoriali). 3. L’impegno diretto delle amministrazioni su tematiche di loro competenza e relative al sostegno al processo di democratizzazione, decentramento, sviluppo locale. 4. La mobilitazione di risorse finanziarie aggiuntive sia da parte delle amministrazioni sia da parte del territorio (partnership pubblico-privata).
La cooperazione decentrata assume dunque principi, modalità e valori aggiunti particolarmente innovativi e ambiziosi, che risultano molto impegnativi, soprattutto per degli attori, gli enti locali, che hanno iniziato da pochi anni a misurarsi con le problematiche della cooperazione allo sviluppo. In effetti è bene sottolineare che nel panorama italiano la concretizzazione dei «valori aggiunti» è ancora da venire per la maggior parte delle amministrazioni. La cooperazione decentrata nella gran parte dei casi rappresenta un’attività marginale e incipiente. Sono poche le regioni, province e comuni che cercano di integrarla nei piani di sviluppo del proprio territorio. Le risorse finanziarie e soprattutto umane sono ancora scarse. La cooperazione decentrata è vissuta più come un’appendice dell’amministrazione vincolata ai soggetti tradizionali (organizzazioni non governative, istituti missionari) e nuovi (associazioni no global, ambientalistiche e per i diritti umani, ma anche agenzie di sviluppo locale) impegnati nei rapporti Nord – Sud.

Risorse in aumento

Ciò nonostante si è registrata in questi ultimi tempi una forte crescita delle risorse, più che raddoppiate in cinque anni. Il Centro Studi Politiche Intea­zionali (Cespi) ha stimato che dal 2000 al 2005 i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, corrispondenti ad oltre il 10% della cooperazione bilaterale italiana (senza tener conto dell’annullamento del debito). Queste risorse rimangono tuttavia ancora scarse, soprattutto se si confrontano con il caso spagnolo. Secondo le statistiche del Development Aid Commettee (Dac) dell’Ocse (Or­ga­nizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) le autonomie locali della Spagna hanno stanziato 321 milioni di euro nel 2003, superate solo da quelle tedesche (687 milioni di euro), che però si sono dirette per ben il 90% alla distribuzione di borse di studio. Mentre secondo il ministero Affari esteri (Mae) italiano gli aiuti degli enti italiani sono ammontati a 27,3 milioni di euro (un dato che secondo il Cespi e l’Osservatorio Interregionale per la Cooperazio­ne allo Sviluppo è sicuramente sottostimato).
All’aumento delle risorse è corrisposto un sostanziale ampliamento delle amministrazioni coinvolte. Oramai tutte le regioni, oltre la metà delle 107 province (che mobilitano circa 2 milioni di euro di risorse proprie) e centinaia di comuni risultano attivi in una miriade di iniziative, la maggior parte delle quali piccole e puntuali. Vi sono inoltre dei casi di alcune autonomie locali che hanno fatto crescere un embrione, più o meno formalizzato, di sistema di soggetti rivolto alla cooperazione decentrata, che si intreccia all’inteazionalizzazione e al marketing del territorio (politiche per attrarre investimenti esteri), così come ad un nuovo ruolo delle amministrazioni locali in materia di relazioni inteazionali (paradiplomazia, svolta cioè dalle autonomie locali e non dal governo centrale e diplomazia dal basso).

Manca il «sistema Italia»

Tutto ciò però non costruisce il «sistema Italia» ma si articola in una relativa dispersione di azioni, in alcuni, pochi, sub-sistemi regionali, in una serie di reti, associazioni e cornordinamenti a geometria variabile, e in alcune autonomie leader con una buona visibilità. Questo nonostante che la cooperazione italiana abbia sostenuto prima con i programmi di sviluppo umano locale di Pnud, e poi con programmi diretti in convenzione con le regioni, Upi (Unione delle province italiane) e Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani), iniziative volte a informare, formare e cornordinare i diversi attori in iniziative di cooperazione allo sviluppo. Molto resta ancora da fare nel creare una strategia della cooperazione decentrata, che continuerà peraltro ad essere in parte ingovernabile o non ordinabile secondo un approccio centralistico, essendo costitutivamente fondata sui principi di autonomia e pluralità.

Di Andrea Stocchiero

Andrea Stocchiero




Creare «reti complesse»

La voce della Regione Piemonte, intervista a Giorgio Garelli

Il dottor Giorgio Garelli lavora al Settore Affari Inteazionali e Comunitari, Gabinetto della Presidenza della Giunta Regionale del Piemonte. Ha una grossa esperienza in cooperazione internazionale e in particolare di quella realizzata dagli enti locali. Conosce bene anche il «terreno» in quanto è stato volontario in Africa.

Dal vostro punto di vista cos’è la cooperazione decentrata?
Il nostro concetto si rifà alle linee guida della direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del ministero Affari Esteri, che risale al marzo 2000. Si parla di cooperazione tra territori che acquisisce titolo solo se  sono coinvolti i rappresentanti istituzionali che garantiscono questo legame. Secondo questa definizione il contatto tra i singoli gruppi non è cooperazione decentrata, ma è rapporto tra associazioni di base della società civile.  Tali azioni rientrano nella cooperazione decentrata solo se c’è una relazione tra autorità elette, che in quanto tali rappresentano una comunità, un territorio e hanno mandato e responsabilità per realizzare iniziative  a nome della comunità stessa.

Negli ultimi cinque anni i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, perché secondo lei?
La cooperazione decentrata è un processo che vede protagoniste le comunità territoriali, realtà disponibili anche a mettere risorse proprie, al di là dei fondi pubblici dello Stato. Il territorio chiede, perché ne sente l’esigenza, di diventare attore «attivo». Questo comporterà una diversa consapevolezza, una piccola rivoluzione culturale, nell’analisi degli squilibri tra Nord e Sud. Oggi, infatti,  non riusciamo a concepire in modo corretto la cooperazione, né noi né loro. Per noi è una donazione di qualcosa di superfluo, per loro, spesso,  un’accettazione passiva di risorse. Non esiste un’idea, condivisa da tutti, che tenga conto della necessità di ricercare un futuro compatibile e sostenibile per ciascuna realtà. Dobbiamo relazionarci con l’Africa, come diceva Robert Schuman, uno dei padri dell’Europa, «il problema dell’Europa è lo sviluppo dell’Africa». Ma in questi 50 anni l’Africa non si è sviluppata.
Iniziamo a capire anche noi che c’è bisogno di una nuova cultura della cooperazione. Non dobbiamo fare progetti perché è giusto, ma perché altrimenti non c’è futuro. è un obbligo economico, sociale, tecnico.
La cooperazione decentrata può dare il suo contributo perché spinge i cittadini a diventare protagonisti, li mette davanti ai problemi e nell’impossibilità di eluderli.

Cosa pensa del processo in corso per riformare la legge sulla cooperazione internazionale in Italia?
è importante la volontà del governo che intende procedere alla riforma della legge in tempi brevi (tramite la legge delega, vedi box).
È una grande occasione per analizzare i nuovi percorsi di cooperazione che stanno sviluppandosi in Italia e per costruire una nuova  disciplina che rafforzi, cogliendone gli aspetti positivi, queste esperienze, mettendole in sinergia con le altre forme di cooperazione più classica (multilaterale, bilaterale e non governativa).
Purtroppo nella proposta di legge non è chiaro questo importante obiettivo, ma le dinamiche del rapporto dello stato con le  regioni e la società civile, dovrebbe portare in parlamento un dibattito utile per una maggior consapevolezza del legislatore sulla necessità di un nuovo approccio, anche culturale, in  questa materia.

Quali sono le priorità della Regione Piemonte in termini di cooperazione internazionale?
Una priorità «intea» è legata alle politiche di sviluppo sul nostro territorio: far crescere la capacità di fare cooperazione.  Vuol dire dare strumenti, organizzare eventi, per migliorare la capacità di azione delle istituzioni locali. Renderle in grado di attivare il loro territorio. In questa logica, per noi, il comune è il «mattone» base. I risultati sono buoni, se si considera che sono circa 100 i comuni capofila ad avere presentato una richiesta di finanziamento all’ultimo bando. Tutto questo è stato sviluppato negli ultimi tre – quattro anni.
Abbiamo anche richieste di partecipazione e finanziamento da altre componenti della società civile che hanno competenza in materia: associazioni, istituzioni religiose, ecc. Quando ci propongono delle idee cerchiamo di metterli in contatto con gli altri elementi dal proprio comune, creando così reti complesse. Oggi abbiamo più di 800  enti piemontesi che lavorano nei progetti di cooperazione decentrata sostenuti dalla regione.
Le organizzazioni non governative, con le loro specifiche conoscenze delle realtà locali dei paesi del Sud del mondo, contribuiscono in modo essenziale al corretto sviluppo di queste esperienze e le rafforzano sotto il profilo tecnico e relazionale.
Ci sono poi priorità geografiche. Vogliamo avere impatto nelle aree in cui ci interessa essere presenti: Mediterraneo e Maghreb in particolare sia per il ruolo che intendiamo sviluppare nell’area, sia per la presenza di significative comunità di immigrati provenienti da questi paesi. Ma anche iniziative per i paesi che hanno presentato richiesta di pre-adesione all’Unione europea, e attenzione a quei paesi da cui proviene il flusso migratorio verso la nostra regione.
Un’altra area di particolare interesse economico e politico è il Brasile.  Sia per l’importante ruolo che svolge in America Latina sia per le numerose relazioni con il nostro territorio dovute alla consistente presenza degli emigrati piemontesi.
Per le zone più lontane lavoriamo sulla base di priorità tematiche. La «sicurezza alimentare», che concentriamo geograficamente in alcuni paesi dell’Africa Occidentale, scelti anche dopo un’analisi dei soggetti piemontesi che  vi operano. Oppure l’appoggio a comunità di immigrati strutturate presenti sul nostro territorio, come, per esempio, quella senegalese.

Quanto investite nella riflessione su queste tematiche oltre che sull’azione diretta?
Cerchiamo di creare situazioni per le quali il nostro sistema di cooperazione decentrata sia in grado di attivarsi. Vogliamo farlo crescere, per questo periodicamente realizziamo eventi o iniziative di riflessione intea.

In Italia siamo in ritardo rispetto a Spagna e altri paesi europei, perché secondo lei?
In Spagna il meccanismo è legato a una legge statale che impone una percentuale del bilancio da spendere in cooperazione. Questo fa crescere l’impegno di regioni ricche, come la Catalunya che arriva a 60 milioni di euro all’anno. Anche i francesi sono avanti, per una loro particolare attenzione verso i paesi ex coloniali. Gli spagnoli hanno forti motivazioni legate alla questione dell’immigrazione, che impone loro conseguenze operative. Su queste tematiche l’amministrazione intende dare segnali chiari al cittadino. Ciò sarebbe importante anche nella nostra realtà.

Che rapporti avete con la cooperazione governativa del ministero Affari esteri?
Il problema è che la cooperazione in Italia non  riesce a fare politiche innovative. Da un lato il ministero degli Affari esteri ci assegna  finanziamenti per fare cooperazione e dall’altra in alcune occasioni  impugna le leggi regionali in materia di cooperazione internazionale perché ritenute incostituzionali. Il dibattito aperto con la riforma della legge sarà sicuramente un’occasione per riflettere sulle proprie competenze e sull’opportunità di costruire nuovi strumenti per favorire il cornordinamento e la valorizzazione delle rispettive specificità.
Un caso recente di collaborazione tra Ministeri e Regioni è il programma di sostegno alla cooperazione regionale. Lo ritengo particolarmente significativo in quanto vengono utilizzati  fondi per le aree sotto utilizzate (Fas) tipicamente destinati per lo sviluppo dei territori regionali che in questo caso  verranno impegnati per realizzare progetti di cooperazione internazionale nei Balcani e nel Mediterraneo concertati tra più regioni e con i diversi ministeri. L’utilizzo di tali fondi implica anche il riconoscere che per promuovere lo sviluppo dei nostri territori è necessario costruire relazioni inteazionali anche a livello locale. Un nuovo approccio che apre interessanti ipotesi di lavoro.

Quali sono le prospettive sul medio termine per questo modello di cooperazione?
Prevedo una forte crescita. Le problematiche della globalizzazione producono interrelazioni tra territori e comunità ed evidenziano la necessità di una cooperazione a 360 gradi. La richiesta che ci perverrà dalle nostre popolazioni sarà, a mio avviso,  di creare le condizioni che consentano ad una società civile del Nord di relazionarsi con quella del Sud per affrontare gli effetti locali prodotti dalla globalizzazione. Ciò  valorizzando la capacità di fare rete raccordando le diverse «proprie» specifiche conoscenze e capacità. Si tratta di un’esperienza già ricca, che nasce dal basso, da una domanda del territorio,  a cui le diverse amministrazioni devono rispondere.

a cura di Ma.B.

Marco Bello