Gianluca Iazzolino




La parabola del «figliol prodigo» (11): Quando desiderare tutto signigica possedere nulla

«Tutto mi è lecito». Ma io non mi lascerò dominare da nulla

N ella puntata precedente abbiamo elencato i sedici affreschi dei vv. 13-16 ed esaminato i primi sette riportati nel v. 13. Proseguiamo l’approfondimento esaminando altri tre affreschi contenuti nel v. 14.

Quando ebbe speso tutto
Al v. 13 avevamo lasciato il figlio giovane che aveva «raccolto tutto»; ora, al v. 14, lo ritroviamo che ha «speso tutto». Nella vita del giovane figlio, il «tutto» è sinonimo di «nulla». Al raccolto possessivo corrisponde la dispersione immediata. L’illusione di essere ricco non si è ancora sedimentata che già si trova vuoto di tutto. Aveva considerato il «possesso» della ricchezza il fondamento della sua libertà e si ritrova la povertà assoluta che diventa precarietà e inconsistenza. Voleva essere «adulto» e indipendente, ma ha solo dimostrato di essere imprevidente e incapace di calcolare le sue forze.
È evidente che nello «sforzo» superficiale di «spendere tutto» c’è anche il sarcasmo che egli non ha speso «del suo» perché il «tutto» come abbiamo visto era la vita del padre, che egli ha sperperato e svenduto.
Il «figlio più giovane» è il vero erede di Adam ed Eva che nel giardino di Eden, pur avendo tutto («di tutti gli alberi del giardino puoi mangiare», Gen 2,16), vogliono ancora di più e aspirano all’esclusività assoluta, cioè prendere il posto di Dio e possedere «l’albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2,17). Solo così possono affrancarsi dalla libertà reale che posseggono e che essi ritengono insufficiente, ritenendosi capaci di una libertà infinita.
Adam ed Eva si ritrovano «nudi», cioè spenti di vita e di luce, senza alcun potere e privi della loro stessa personalità. «Nudi» che scappano a nascondersi in mezzo agli alberi del giardino (Gen 3,10): desiderare una libertà maggiore di quella che si può contenere genera frustrazione e paura.
Una persona libera che si nasconde è una contraddizione esistenziale. Come i suoi progenitori, il giovane fi-glio è «nulla» in sé e per l’ambiente che lo circonda: egli è in «un paese lontano», dove per essere qualcuno deve comprare non gli amici, ma i compagni di baldoria. Spende tutta la parte di padre di cui si era impossessato per accreditarsi per quello che non è: un uomo ricco. Alle prime avvisaglie di una avversità, crolla la ricchezza che non c’è mai stata e sprofonda lui stesso nella sua inconsistenza. Inaspettata giunge una «potente carestia», che frantuma tutti i sogni del giovane illuso.
La libertà non è mai affrancarsi da qualcuno o da qualcosa perché resterebbe una finta libertà esteriore, cioè solo materiale. Non avere catene ai piedi non significa affatto essere liberi. La libertà è un atteggiamento dell’anima, un moto dello spirito che si compie e si realizza in gesti concreti di liberazione. Il giovane figlio non è libero nel cuore, perché egli è schiavo delle sue «presunte» ricchezze con le quali ha confuso la vita stessa di suo padre. Perdute le ricchezze, disperso il «patrimonio», egli annaspa nel vuoto e nel nulla. Si è liberi quando non si ha nulla da difendere perché nulla appartiene a chi ha regalato anche la propria libertà.
La persona libera è il povero nello spirito (Mt 5,3) perché accoglie i suoi stessi bisogni come compagni di viaggio senza mai trasformarli in padroni o peggio in «idoli» a cui ogni giorno bisogna sacrificare un pezzo di sé. È libero colui che sa dipendere dalle relazioni che sperimenta come strutture di crescita e come strumenti per generare altre relazioni che a loro volta generano ancora pienezza di vita. La persona gretta invece vive le relazioni (affettive, di amicizia, con Dio) in modo e forma «golosi», ma non ha tempo per assaporarli perché è solo preoccupato e occupato di avere di più per ritrovarsi alla fine senza nulla in mano e in cuore.

In quel paese venne una
carestia grande
(lett.: forte/potente)
Non basta allontanarsi dalla casa del padre per essere autonomo: la soglia di casa non è il confine tra l’autonomia e la dipendenza, ma la misura del confronto sia in casa che fuori. Il figlio giovane ora si trova in «quella regione» che diventa anche tragica, perché arriva la carestia. Nella casa di suo padre poteva raccogliere «tutto» ciò che non era nemmeno suo, mentre lontano da casa può incontrare solo la fame, cioè la privazione anche del necessario per vivere.
Da un punto di vista letterario, l’espressione è «una forte/potente carestia» ed è collocata al centro del versetto; sembra quasi personificata, perché domina la scena come un fantasma pauroso. Non è solo carestia, è anche «potente» ed è contrapposta alla scena tragica del giovane che ha «speso tutto». Da una parte il vuoto totale, la nullità, e dall’altra la potenza della fame che avanza e sovrasta. Il viaggio della libertà è durato poco, lo spazio di una illusione.
Giobbe sconsolato e frustrato esclama: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre (= dalla terra) e nudo vi farò ritorno» (Gb 1,21), mentre il giovane della parabola lucana, non solo non è uscito «nudo» dalla casa di suo padre, perché aveva «raccolto tutto», cioè la metà della vita del padre, ma ora si trova anche nudo e senza niente. Per chi ha preteso «tutto» è un bel successo!
Il giovane è l’opposto del patriarca Abramo, che andò in Egitto a causa di una «carestia» (Gen 12,10). Luca usa la stessa espressione greca: «egèneto limòs – accadde/avvenne una fame/carestia». Il patriarca fugge dalla carestia e va in Egitto alla ricerca di cibo; il giovane fugge dal cibo e va verso la carestia. Il patriarca guarda al futuro; il giovane lucano guarda a se stesso. Abramo lascia la sua terra perché costretto; il figlio lascia la casa di suo padre per scelta e decisione. Abramo sta seguendo il disegno di Dio, suo Padre; il figlio si allontana dal padre che considera un ostacolo ai suoi disegni. Abramo commette una indegna ingiustizia (per salvare se stesso, non esita a concedere sua moglie Sara all’harem del faraone, Gen 12,12-13), ma lo fa per paura di trovarsi in terra straniera; il figlio va volutamente in «una terra lontana» a sperperare la vita del padre.
Anche Giacobbe, il fondatore delle dodici tribù, manda i figli due volte in Egitto, allontanandoli da sé e dalla propria terra. La prima volta «perché nel paese di Canaan c’era la carestia» (Gen 42, 5) e la seconda volta perché «la carestia andava diventando potente/forte» (Gen 43,1). Giacobbe allontana i figli da sé per salvarli dalla morte, mentre il figlio della parabola si allontana dopo avere ucciso il padre per raccogliere in forma di patrimonio la stessa vita patea che ha preteso anzitempo.
Giacobbe pensa alle generazioni future, il figlio lucano semplicemente non pensa: è troppo occupato a godersi la vita per accorgersi che sta arrivando la carestia. Egli crede di essere radicato nel presente e dà sfogo al suo carpe diem: «Fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero – Fugge il tempo geloso: cogli l’attimo e confida meno possibile nel domani» (Oratio, Carmina I,11,7-8). È talmente immerso nel suo presente da non accorgersi di essere già nel passato, in quel vuoto esistenziale da cui voleva fuggire, ma da cui non può scappare, perché nessuno può fuggire da se stessi, in quanto noi non possiamo non inseguirci dovunque andiamo.
Il testo greco è puntiglioso perché non dice che la carestia piombò «in quel paese», ma usa la preposizione  «katà – giù per» con l’accusativo, nel senso di «lungo quella regione», con valore distributivo locale, col significato di dappertutto: «Avvenne/accadde una carestia forte/potente lungo tutta quanta/dappertutto in quella regione».
Nemmeno un anfratto è sicuro, non c’è un posto dove ripararsi dalla fame. Il «paese lontano» del v. 13, verso cui camminava il desiderio di liberazione dal padre, ora diventa una prigione senza scampo e senza futuro: dappertutto c’è carestia e privazione. Anticipo di morte e di tragedia.

Ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno
Il verbo greco «hysterèō» significa «manco/sono privo/escluso» ed è preceduto da un verbo ausiliare «àrchō – io comincio a», per cui si può dire che indica un’azione ingressiva, che cioè sta per iniziare e di essa ora si vede solo il principio, ma è destinata a durare nel tempo o nello spazio. Inizia una nuova storia, imprevista e non programmata.
Il bisogno come privazione di qualcosa era assolutamente impensabile e quindi bandito dai pensieri del giovane figlio. Egli aveva un solo ed esclusivo bisogno: lasciare la casa del padre per affrancarsi da ogni forma di dipendenza e di bisogno; il suo unico bisogno era affrancarsi dall’affetto del padre, che considera opprimente. Questo unico bisogno diventa il motore della sua vita futura che egli immagina roseo, spensierato e senza problemi economici: egli ha «tutto» con sé ed è sufficiente a se stesso. Non ha bisogno della dipendenza nemmeno affettiva.
Egli deve andare lontano; il suo desiderio di libertà non nasce dal suo cuore, ma si misura solo con il metro della distanza. Più si allontana dalla sorgente della vita, più s’illude di trovare la pienezza di vivere. Tutto sacrifica per questo miraggio: padre, fratello, casa, amici, terra. Anche Dio diventa superfluo, mero accessorio. Quando il bisogno s’ingigantisce, fino a diventare una esigenza irrefrenabile, anche Dio si trasforma in ostacolo; anzi, in un persecutore senza cuore, qualcuno da cui allontanarsi.
Il giovane somiglia allo stolto del vangelo che avendo avuto uno straordinario raccolto non sa come gestire l’abbondanza e sogna una vita piena di sé e di ricchezze, prevedendo un futuro ancora più ricco: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divèrtiti! Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce davanti a Dio» (Lc 12,16-21, qui 19-21). Coperti di ricchezze, hanno schiacciato la vita e con essa i bisogni e anche i sogni.
Il figlio della parabola sperimenta sulla sua pelle le parole del castigo predette dal libro del Deuteronomio e che egli avrebbe dovuto bene conoscere: «Non avendo servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici, che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame [gr. limòs], alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa; essi ti metteranno un giogo di ferro sul collo, finché ti abbiano distrutto» (Dt 28,57-48).
Nella bibbia la carestia o la fame (con la siccità) è sempre un castigo mandato da Dio, come conseguenza dell’allontanamento da lui o come segno dell’assenza della parola di Dio (Am 8,11) e quindi della mancanza di profezia. In una parola, la carestia significa che Dio ha abbandonato a se stesso Israele che ha rotto l’alleanza con il Signore (cf Ez 5,17).
Il giovane non ha servito il Signore «in mezzo all’abbondanza» nella casa del padre, ora sperimenta la logica conseguenza del suo peccato voluto e con determinazione perseguito: sarà schiavo (come vedremo commentando il v. 15) e sperimenterà ogni sorta di privazione: fame, sete, nudità e ogni altra sventura che lo soggiogheranno, riducendolo a uno stato animalesco, fino al livello più infimo oltre il quale è impossibile andare per un Ebreo: compagno e commensale dei porci. Egli non è andato solo «in un paese lontano», cioè in terra pagana, si è diretto invece nel regno dell’impurità che lo rende inabile alla preghiera e al sacrificio cultuale. Diventando impuro, egli si allontana dall’intimità e diventa estraneo a Dio e a se stesso.
Non è Dio, non è il padre a infierire sul giovane e la carestia non è un capriccio di Dio per farlo rinsavire; al contrario la fame, la sete e il bisogno improvvisi sono il risultato o, se si vuole, il segno esteriore della condizione interiore in cui l’uomo si trova. Attraverso le scelte libere e autonome, il figlio più giovane si esclude da sé dalla pateità, dalla frateità, dalla comunione (casa) per restare solo e privo di tutto. Bisogno e privazione, solitudine e fame sono le cicatrici della sua insipienza che non ha saputo pensare alla carestia in tempo di abbondanza (cf Sir 18,25).
Dopo avere speso tutto, non gli resta che il nulla totale, perché pur di mangiare qualcosa, egli vende addirittura se stesso, negando la sua stessa natura e apparendo per quello che realmente è: un morto che vive in una regione morta, devastata dalla carestia.  (continua – 11)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




L’altra faccia di Pechino

A spasso negli ultimi vicoli del gigante asiatico

La Cina ha indici di crescita da capogiro. L’immagine che si sta diffondendo è la modeità e l’efficienza. Ma non la sua millenaria cultura.  E neppure le disuguaglianze intee, che si stanno inasprendo. La capitale è il simbolo di tutto ciò. Racconto di un’osservatrice privilegiata.

Ormai quasi tutti i giorni si sente parlare della Cina. Da telegiornali, riviste e quotidiani riceviamo sempre notizie interessanti su una nuova scoperta, un ulteriore passo avanti compiuto dal gigante orientale. La Cina è continuamente descritta con aggettivi positivi e grandiosi. Ma la realtà non è sempre questa.
Studiando la lingua cinese, la sua millenaria cultura e avendo vissuto a Pechino per un breve periodo, posso dire che la Cina è anche costituita da una realtà ben più triste e poco sviluppata.
I passi da gigante compiuti negli ultimi decenni sono evidenti, ma non bisogna dimenticare che l’ingente sviluppo economico e culturale sta quasi esclusivamente coinvolgendo le grandi città. Il paese rurale, in gran parte escluso da questi grandi mutamenti, è ancora una realtà presente. Le stesse grandi città appaiono come un mix tra vecchio e nuovo, arretrato e avanzato, miseria e nuova emergente ricchezza. Pechino, Beijing significa letteralmente «Capitale del Nord». La sua municipalità ha le dimensioni del Belgio e conta 14 milioni di abitanti. Ho avuto la possibilità di scoprire questa città più da vicino. Di andare oltre quanto consigliato dalla guida turistica, inizialmente mia fedele consigliera, e di conoscere abitudini e usanze dei suoi abitanti. Aspetti non sempre piacevoli, ma che fanno parte della cultura cinese e che per questo vanno rispettati e apprezzati.

Le «tappe obbligatorie»
Prima della partenza avevo letto con scrupolosa attenzione la guida, evidenziando tutti i nomi dei luoghi che meritavano di essere visitati. Il primo mese del soggiorno è stato quindi dedicato alle cosiddette «tappe obbligatorie». Mi sono recata in piazza Tian’anmen (la più grande al mondo) per ammirare la sua maestosità, poi sono entrata nella «città proibita», dove ho trascorso diverse ore a visitare i padiglioni, i giardini e i cortili un tempo dimora dell’imperatore. Un’altra giornata è stata interamente dedicata al palazzo d’Estate, residenza estiva del «Figlio del Cielo» (l’imperatore), dove mi sono lasciata trasportare dall’atmosfera poetica del suo lago artificiale, dei ponticelli e dei salici piangenti scossi da una leggera brezza.
Ma Pechino piace ai turisti occidentali non solo per queste mete, anche per i suoi magazzini multipiani, dove si può comprare di tutto a cifre irrisorie. Così anch’io sono stata letteralmente travolta da questa febbre di «shopping estremo» visitando il famoso mercato dell’antiquariato e quello delle perle. Passeggiando per alcune delle vie più lussuose ho potuto ammirare negozi di sete con clientela esclusivamente straniera, dove venivano confezionati qipao (tipico abito cinese) su misura. Tutti questi posti avevano un non so che di affascinante, però si avvertiva chiaramente che non rappresentavano la vera cultura cinese, per lo meno non completamente. Ben presto mi sono resa conto della necessità di spingermi oltre. Incitata dalla curiosità, forte del fatto di avere una certa dimestichezza con la lingua, ho deciso di provare a uscire dai percorsi prestabiliti. E proprio allora il soggiorno è diventato molto più avvincente.
L’altra faccia di Pechino, quella estranea ai musei, alle visite guidate, alle vie lussuose e alle traduzioni in un inglese maccheronico, mi stava aspettando.

Tra i vicoli di Beijing
Un giorno mi trovavo, forse per la seconda o terza volta, ad osservare la grandiosità di piazza Tian’anmen sotto l’imponente effige dominatrice di Mao. Le mie gambe, spinte dall’interesse, mi condussero senza neanche accorgermi in una vicina via, trafficatissima di biciclette e risciò, troppo stretta per permettere il passaggio delle macchine.
L’impatto con questa «altra» realtà è stato notevole. Gente che spingeva, che mi tirava per invitarmi a entrare nel suo negozio a comprare, ragazzine che mi circondavano per farmi assaggiare il loro tè. Se mi dimostravo interessata all’acquisto di qualcosa, subito altri piccoli commercianti facevano capolino per assistere alle estenuanti trattative dei prezzi. Qua e là si vedevano gruppetti di uomini intenti a giocare a mah jong (l’equivalente della nostra dama). Purtroppo apparivano anche scene raccapriccianti di persone dal viso rovinato dall’acido, senza braccia o gambe. Dopo un’ora avevo già mal di testa. Ma ben presto mi resi conto che quella realtà mi affascinava e così, da quel momento, decisi di addentrarmi sempre più nei vicoli di Pechino.
I vicoli, sono proprio loro i veri protagonisti di questa città. A parte piccole zone create apposta per i turisti, strapiene di bancarelle e negozietti, il resto sono gli hutong, letteralmente «vicoli di case a corte». Si dice che questo termine sia apparso nel XIII secolo, dopo che la dinastia Yuan aveva stabilito la capitale a Pechino. Visto che la dinastia era di origine mongola, hutong deriva dal mongolo huto, pozzo. Infatti all’inizio la costruzione degli hutong seguiva la distribuzione dei pozzi; solo in seguito questa parola ha acquisito il significato attuale. Costruzioni basse e grigie, che a un occhio inesperto come il mio erano tutte uguali, si affacciano sulle strette viuzze. In questa distesa di casette la comunità pechinese trascorre le sue giornate, la sua quotidianità. Proprio qui vivevano (e vivono ancora) molti pechinesi, che attraverso i secoli hanno diffuso in tutti gli angoli della vecchia zona urbana questo tipo di abitazione.
Camminando senza meta sono entrata in contatto con un altro mondo, altre abitudini. La vita comunitaria è molto attiva, la privacy sembra quasi inesistente. Le porte delle case sono aperte, i bagni in comune si riconoscono dallo sgradevole odore che si avverte parecchi metri prima. Per strada si possono incontrare persone che si lavano i capelli sopra i tombini, uomini che si fanno la barba, chi mangia accucciato per terra.  Vecchi che fanno una siesta davanti alla porta di casa e bambini intenti a giocare in mezzo alla sporcizia. Lasciandosi trasportare dal fascino di questi vicoli, tutti e cinque i sensi vengono riattivati. Da certe case o da piccole botteghe provengono odori di piatti tipici e spesso la tentazione mi ha portata a comprare queste specialità, non sempre apprezzate.
Interessante è la reazione della gente. Era evidente che non sono abituati alla vista di occidentali in quelle zone. Mi guardavano come se fossi stata un’extraterrestre. Alcuni si mostravano un po’ scocciati per quell’invasione di territorio, mentre altri erano ben disposti a scambiare qualche parola, consigliare alcuni luoghi da visitare e indicare la strada per uscire da quel groviglio di viuzze. E così ho finalmente potuto constatare l’effettiva verità di un detto cinese che recita: «Se non si entra negli hutong, non si conosce Pechino».

«Sviluppo» inarrestabile
Frequentavo un corso di cinese all’università, con sede in un campus molto grande. La prima settimana mi ero addirittura comprata una cartina per potermi orientare. All’inizio, avevo scoperto nei dintorni un minuscolo ristorante (locali che i cinesi chiamano xiao chi, ovvero spuntini) dove venivano cucinati deliziosi ravioli al vapore. La prima volta ero riluttante ad entrare, perché l’igiene del locale lasciava un po’ a desiderare, ma poi la tentazione ebbe nuovamente la meglio. Così a volte, dopo lezione, mi recavo lì e poi passavo da una signora che vendeva frutta e verdura e  cercava sempre di propormi un frutto a me sconosciuto. Infine facevo tappa dal «signore dei pesciolini». Un allegro vecchietto che preparava sul momento dei dolcetti a forma di pesciolino ripieni di cioccolato per soli 10 centesimi l’uno. Azioni semplici e banali, che però hanno contribuito a farmi scoprire un’altra faccia di Pechino, quella che purtroppo nessuna guida descrive.
Questa quotidianità lenta, fatta di gesti, odori e sguardi appare spesso nella mia mente. Rimarrà un ricordo indelebile, perché spesso sono le cose più banali a rimanere impresse. E spero di poterle trattenere nella mia mente il più a lungo possibile, visto che questa città sta subendo un cambiamento repentino.

A rischio scomparsa
Proprio a causa dell’inarrestabile sviluppo, anche il volto di Pechino è in fase di stravolgimento. Già da anni sono stati eretti molti grattacieli, tanto che alcuni quartieri ricordano molto le metropoli americane. Ma adesso, con l’avvicinarsi dei giochi olimpici del 2008, si sta assistendo a un’impennata nella costruzione di casermoni. Edifici che non hanno nulla a che vedere con la Pechino degli hutong sorgono come funghi. Molte zone costituite da fitte reti di vicoli vengono abbattute per fare spazio alle costruzioni del futuro. Sulla mappa degli antichissimi hutong compare sempre più spesso l’ideogramma chai (demolire). Un’indagine dell’Istituto pechinese di ingegneria civile ha preso in esame 1.320 vicoli, rilevando come il 15% sia stato distrutto per far spazio a nuovi edifici, il 52% abbia subito seri danni e che solo un terzo ha mantenuto il carattere originale.
Basta visitare il sito di Amnesty Inteational per leggere le denunce rivolte alla municipalità di Pechino. La gente è brutalmente sfrattata dalle sue case ed è costretta a trasferirsi in questi nuovi appartamenti. Se da un lato si può pensare che queste abitazioni permetteranno condizioni di vita e igieniche migliori, dall’altro bisogna riflettere sul modo in cui questa operazione è condotta.
Tutte queste persone non solo vengono private della loro casa, ma soprattutto della loro quotidianità e dello spirito di comunità.
Purtroppo questo è il prezzo che deve pagare la Cina per poter diventare sempre più importante a livello mondiale e per reggere la competizione con l’Occidente. La popolazione cinese non è stata adeguatamente preparata a questo sconvolgente balzo in avanti e l’impressione è che tutto stia avvenendo troppo velocemente creando enormi squilibri.
Allarmato dalla possibilità che non resti nulla della vecchia Pechino, il governo ha approvato delle linee guida per il restauro degli hutong. Ma molti conservazionisti credono che ormai il danno sia irreparabile. Forse fra qualche decennio questi aspetti unici della quotidianità pechinese saranno solo un ricordo. 

Di Francesca Bongiovanni

Francesca Bongiovanni




Soweto vede la luce

Un progetto pilota per la riabilitazione delle baraccopoli di Nairobi

Storia di una comunità che vuole trasformare lo slum in cui vive e del progetto che si incaricherà
di coronare questo sogno. Con l’aiuto della parrocchia, del Comune di Nairobi, delle Nazioni Unite e del Goveo italiano.

Mama Esther ha un’età indefinibile; la diresti giovane per l’entusiasmo che anima i suoi occhi, ma il suo volto porta inequivocabili segni di stanchezza dovuti ai 25 anni passati a Soweto, vivendo e tirando su figli in questo ammasso di stradine che chiudono il quartiere di Kahawa, a Nord di Nairobi.
Soweto-Kahawa West è uno slum, uno dei circa 200 insediamenti abusivi urbani che costellano la grande metropoli kenyana, vera e propria galassia di formicai umani. Un chilometro quadrato di terra polverosa, adagiato lungo la linea ferroviaria Nairobi-Naniuki, in cui circa 6 mila persone vivono ammassate, in una situazione di degrado ambientale e sociale ai limiti della sopravvivenza: baracche fatiscenti, costruite «a casaccio», senza un’adeguata progettazione; strade strette, quasi dei sentirneri schiacciati fra le pareti di legno e fango delle case; assenza totale di impianti igienico-sanitari e di spazi aperti, per permettere una minima socializzazione fra le persone dell’insediamento.
Niente di tutto ciò. Questa è Soweto fin dai giorni delle sue origini, immediatamente successivi all’indipendenza del Kenya (1963), la Soweto che Mama Esther ricorda, in cui ha sempre vissuto fino a oggi, anzi… fino a «ieri».
Sì perché, in effetti, oggi a Soweto sta accadendo qualcosa di diverso, di unico, di speciale, quel «qualcosa» che riempie di luce e di orgoglio gli occhi di Mama Esther e degli altri abitanti dello slum: l’area sta cambiando, rinascendo, vivendo una fase della sua storia che fino a pochi anni fa sarebbe stata assolutamente inconcepibile.
Soweto-Kahawa West si propone, oggi, come modello per il Kenya Slum Upgrading Program (Kensup), un programma per la riabilitazione e lo sviluppo degli slum della nazione che il governo del Kenya ha lanciato nell’aprile del 2006, stanziando la cifra di 880 miliardi di scellini per i prossimi 14 anni (10 miliardi di Euro).
L’opera di miglioramento ha potuto prendere il via grazie a un progetto elaborato dalle Nazioni Unite-Habitat, in collaborazione con il Comune di Nairobi e finanziato dal Goveo italiano con la cifra di 240 mila dollari.
L’intervento dell’Italia è anche frutto della campagna «WNairobiW», iniziativa promossa da un gruppo di associazioni e Ong italiane e keniane contro la demolizione degli slum e il diritto alla terra. La campagna ha inoltre insistito sulla proposta di riconversione del debito del Kenya verso l’Italia, di circa 44 milioni di Euro.
L’accordo, siglato il 27 ottobre scorso, impegna il governo del paese africano a investire, per un periodo di dieci anni, 4,4 milioni di euro in progetti di sviluppo a favore delle zone degradate, urbane e rurali, del paese.
Inoltre, Soweto rappresenta un frutto significativo dell’attività dell’organizzazione Kutoka-Exodus Network, che riunisce 15 parrocchie cattoliche presenti negli slum e che dai suoi inizi si è battuta per migliorare la qualità di vita e la difesa dei diritti fondamentali degli abitanti delle baraccopoli.
La scelta di iniziare questo programma di upgrading proprio da Soweto è stata fatta grazie all’impegno della comunità, organizzatasi per difendere il diritto di abitare nell’insediamento e di migliorare gradualmente il livello di vita al suo interno.
Già nel 1998, per proteggersi dalle pretese di alcuni speculatori che millantavano la proprietà dei terreni, gli abitanti si erano riuniti in comitato, presentando un reclamo alle autorità locali e dichiarandosi nel medesimo tempo idonei alla proprietà del territorio che, come in altri casi di insediamenti abusivi, appartiene allo stato.

Il cammino della comunità è stato accompagnato in tutti i suoi passi dalla parrocchia di Kahawa-West, amministrata dai missionari della Consolata e partner fondamentale in quest’opera di riabilitazione dello slum. Soprattutto negli ultimi due anni, la collaborazione fra parrocchia e comunità si è fatta più stretta e ha condotto  ai risultati che oggi si possono toccare con mano.
L’impegno della gente è stato fondamentale. Lo riconosce padre Franco Cellana, oggi superiore provinciale dei missionari della Consolata in Kenya. È lui la mente del progetto di riabilitazione sin dal giorno in cui è entrato alla guida della parrocchia di Kahawa West.
«Dal gennaio 2004 ad oggi si sono fatti grandi passi in avanti e tutto ciò è stato possibile grazie al coinvolgimento degli abitanti di Soweto che, attraverso i loro rappresentanti, hanno saputo coinvolgere le persone, facendo comprendere loro l’importanza di queste proposte. È da due anni  – continua padre Franco – che lavoriamo con la gente, raduniamo la popolazione, in un processo graduale, lento e faticoso, per superare le diffidenze, le rivalità e la speculazione selvaggia da parte dei proprietari delle baracche, che vivono fuori dallo slum e chiedono affitti esorbitanti anche su pezzi di lamiera vacillanti sorretti da mura di argilla».
Sammy Chomba e Peter Kamau rappresentano la voce della comunità e due diverse generazioni di abitanti di Soweto.
Il primo è, dal 2004, il presidente del Comitato per la riabilitazione dello slum. Eletto dagli stessi abitanti, è anche il responsabile per tutti gli affari interni della comunità. Quando sorge un problema o c’è una disputa fra residenti è a lui che tocca intervenire.
È un uomo silenzioso e quando inizia a raccontare la storia del progetto sembra persino intimidito. Fino a quando chiede il permesso di esprimersi in Kiswahili, lasciando a Peter il compito di tradurre in inglese. Le parole escono lentamente, ma fluide, facendo intuire a chi lo ascolta l’autorità che Sammy riveste all’interno dello slum. La memoria scava e va alla radice del problema, legato al possesso della terra.
«La grande difficoltà – dice – sta nel fatto che non esiste nessun documento legale che garantisca la proprietà del terreno su cui sorge lo slum. Il terreno appartiene al governo, mentre ci sono molti proprietari di baracche che vivono al di fuori dello slum e alle quali la gente deve pagare un affitto, talvolta molto alto. Il cammino intrapreso è stato quello di fondare una sorta di cornoperativa che rappresenti tutti gli abitanti di Soweto e a cui venga ceduta collettivamente la proprietà della terra».
Peter Kamau, è il segretario della comunità. Spetta a lui fornire i dati tecnici del lavoro che si sta portando avanti. «Attualmente siamo alla prima fase del processo di miglioramento dello standard di vita di Soweto.
Il primo grosso impulso è stato dato dall’installazione di un grande palo della luce in grado di illuminare a giorno le buie notti nello slum. Il lampione, alto 40 metri, ha di fatto cambiato la vita della comunità, rendendo le strade sicure e la comunità molto più tranquilla.
Sebbene Soweto non abbia mai avuto i problemi di criminalità che si presentano in altri slum della città, il cambio è stato radicale. Se di giorno si poteva camminare anche prima relativamente sicuri per le strade, di notte si verificavano episodi di criminalità, anche con una certa frequenza. Oggi si può vivere e dormire tranquilli, senza più paura di aggressioni, furti o accoltellamenti».

La prima fase di miglioramento dello slum prevede innanzitutto l’ampliamento di quattro strade per poter permettere di raggiungere con un veicolo il centro dell’abitato. Questo è un passo avanti fondamentale.
SL’attuale rete viaria del quartiere non consente la circolazione su quattro ruote, rendendo impossibile l’intervento di un’ambulanza o dei pompieri in caso di emergenza.
Inoltre, in questi mesi sono stati costruiti cinque complessi sanitari e tre depositi per l’immondizia, un tempo ammassata ai lati delle abitazioni e causa di malattie e infezioni fra gli abitanti. «Questi depositi devono servire anche al recupero di materiali che possono essere riciclati, dando così un’opportunità di lavoro ad alcuni abitanti dello slum. Inoltre – continua Peter – è stato costruito il Resource Centre, sede del Comitato per la ristrutturazione di Soweto e salone comunitario multifunzionale. Infine, si è anche iniziata la ristrutturazione di alcuni degli attuali spazi abitativi. La prima fase prevede la sistemazione di 130 strutture delle 304 (su 676 totali) che si prevede di mettere in ordine».
Sl lavoro di ampliamento delle strade, di messa a punto di alcune abitazioni e di costruzione delle unità sanitarie e dei depositi di immondizia non è stata un’impresa facile. Molte famiglie hanno dovuto esser ubicate altrove e alcuni proprietari delle strutture si sono inizialmente opposti all’iniziativa vedendo toccati i loro interessi.
A questo riguardo è stata fondamentale l’opera attuata dal Comitato della comunità. Alcuni incaricati si sono fatti carico di responsabilizzare gli abitanti, cercando di far loro intendere i benefici derivanti da uno sforzo collettivo per il bene comune.
«Del resto – ha aggiunto il segretario – la gente ha iniziato a vedere un cambiamento in atto. La gente si è convinta e ora è contenta perché tocca con mano il miglioramento che si vuole dare al posto dove viviamo. La speranza diventa più forte quando si vedono dei risultati e quando si incontrano delle persone che desiderano aiutarci. Vogliamo che Soweto diventi un posto differente, che non venga più equiparato ad altri slum. Anzi, cerchiamo di usare la parola «slum» il meno possibile. Quelli di fuori definiscono Soweto in questo modo, ma noi preferiamo chiamarla «villaggio» e fare di tutto per cambiare la percezione che anche gli altri hanno di noi».

Oggi, Mama Esther è la store-keeper della comunità, ovvero la persona che si incarica di ricevere il materiale che serve per i lavori di costruzione e ristrutturazione; lo immagazzina, ne tiene un registro e si incarica di farlo trasportare lì dove c’è bisogno.
Anche lei pensa che Soweto possa diventare un posto diverso, dove far crescere i bambini che adesso frequentano un affollatissimo asilo pieno di allegria e di colori e sognare per loro un altro mondo possibile. È stato il lavoro di tanti a dare a questo posto un aspetto diverso. Lo stesso padre Franco si dice stupito della sua gente.
Due anni fa aveva incontrato una comunità che iniziava a darsi un’organizzazione e, soprattutto, era desiderosa di crescere. Oggi, ha davanti una realtà in cammino.
Il lavoro da fare rimane molto; il progetto Soweto prevede una seconda fase nella quale si ultimerà la costruzione di altri cinque unità di servizi igienici, altrettanti raccoglitori di immondizia e, soprattutto, si darà il via alla costruzione di 80 nuove case in muratura, piccole abitazioni a due piani che daranno al luogo un aspetto finalmente dignitoso.
Mama Esther ci crede e lavora per questo. Vede, attraverso i suoi profondi occhi neri, le nuove possibilità che il processo di riabilitazione potrà offrire in futuro. Il suo pensiero corre soprattutto alle donne, le persone più legate al «villaggio» a causa della loro condizione di madri.
Mary, la segretaria della parrocchia che dall’inizio accompagna il processo di riabilitazione chiarisce bene il concetto: «Gli uomini, vanno e vengono, sono più liberi. La maggior parte delle donne, invece, sono sole, con più figli a carico e quindi rimangono bloccate il questo posto. Alcune di loro riescono a coltivare qualcosa da andare a vendere al mercato di Kahawa, altre raccolgono un po’ di stracci o vestiti usati, ma a volte le bocche da sfamare sono tante e le entrate molto poche. Pensare – dice con rammarico – che alcune di noi sarebbero anche preparate professionalmente, avrebbero la capacità di iniziare una propria attività se non avessero problemi di finanziamento. Invece, alcune devono vivere con il piccolo aiuto che altre donne della comunità riescono a fornire; si mette insieme qualche scellino, un po’ di farina e un mese si aiutano tre madri, il mese successivo altre tre. Sarebbe tutt’altra cosa se si potessero creare delle piccole imprese all’interno di Soweto».
Non lo dice con il tono di chi sta sognando ad occhi aperti, ma di chi vede il futuro partendo da un progetto concreto, una prospettiva completamente diversa, che apre lo spazio alla speranza. Domani, a Soweto, sarà davvero un altro giorno.

Di Ugo Pozzoli

Soweto: l’inaugurazione

UN LAVORO DI SQUADRA

I l 23 gennaio 2007, nel pieno svolgersi del World Social Forum, Soweto ha vissuto un giorno memorabile. Alla presenza della vice Ministro degli Esteri del Goveo italiano, Patrizia Sentinelli, del rappresentante dell’organismo della Nazioni Unite per l’ambiente, dottor Daniel Biau, dell’ambasciatore italiano Enrico De Maio e del sindaco di Nairobi, sig. Dick Wathika, sono state inaugurate alcune costruzioni per la riabilitazione della vita degli abitanti dello slum previste da un progetto elaborato dalle Nazioni Unite, in collaborazione con il Comune di Nairobi e finanziato dal Goveo Italiano con la cifra di 240 mila dollari.
Abbiamo chiesto alla onorevole Sentinelli e al sindaco Wathika che condividessero con noi il loro pensiero a proposito di questo avvenimento.
MC: Onorevole, che cosa significa un progetto come questo per il Goveo italiano e per il Kenya?
On. Sentinelli: È un progetto importante e significativo per la realtà di questo slum, ma penso possa essere considerato un progetto pilota anche per altre situazioni come, per esempio, il grande slum di Korogocho. Abbiamo siglato un accordo con il governo del Kenya di riconversione del debito. Nel regolamento operativo di questo accordo vorremmo chiedere alla controparte che i fondi che abbiamo messo a disposizione vengano effettivamente destinati al recupero di particolari aree degradate, sia urbane che rurali. Vogliamo essere ambiziosi, ma sapere anche che le cose si costruiscono passo dopo passo; basta farlo con coerenza, semplicità e rigore.
MC: Quindi questo potrebbe essere davvero l’inizio di un cammino di utilizzo dei soldi della riconversione per la riabilitazione degli slum di Nairobi?
On. Sentinelli: Penso che i soldi della riconversione siano un primo passo, non sufficiente. Come Goveo, potremmo essere tra coloro che attraggono finanziamento di cooperazione anche dalle regioni, per costituire un sistema virtuoso, un «sistema-paese». Mettere insieme gli sforzi di tutti, quelli del Goveo, come quelli delle Ong e della cooperazione decentrata può servire meglio allo scopo.
MC: Signor sindaco, è una grande giornata per Soweto. Che cosa ne pensa di questo processo? Può essere l’inizio di un processo continuativo che miri al miglioramento anche di altri slum di Nairobi?
Wathika: Come sindaco sono molto grato per tutto quanto il Goveo italiano ha fatto per noi e per il lavoro svolto dall’ambasciata italiana. Speriamo che la collaborazione continui, la presenza del vice ministro degli esteri italiano lo conferma. Vorrei anche invocare l’intervento di altri governi che possano appoggiare l’opera di riabilitazione di altre baraccopoli.
MC: Quali sono le difficoltà più grandi da superare per poter arrivare a ultimare l’upgrading di queste aree?
Wathika: Senz’altro quelle riguardanti la proprietà dei terreni. Molte persone che vivono in uno slum stanno occupando abusivamente delle terre non loro. La parte più difficile sta nel regolare le questioni che sorgono fra i proprietari delle abitazioni, il proprietario dei terreni, cioè lo stato, e chi ci vive. La maggior parte dei proprietari delle abitazioni non vogliono il risanamento dello slum, in quanto preferiscono percepire gli affitti di chi abita le baracche. Fortunatamente, nel caso di Soweto non si presenterà questo problema. La terra diventerà di proprietà collettiva della comunità.
MC: In questi mesi si è formata una bella équipe. Pensa che questo «lavoro di squadra» possa funzionare anche per gli altri slum di Nairobi?
Wathika: L’approccio deve essere lo stesso. La gente dello slum e l’autorità locale devono avvalersi dell’esperienza tecnica delle Nazioni Unite e anche della chiesa. L’appoggio della chiesa è molto importante perché la gente ascolta ciò che la chiesa dice e di lei si fida.

Ugo Pozzoli




GIù LE MANI DALL’AFRICA

CATTIVI RIMEDI PER UN CONTINENTE «MALATO»

Le risorse del continente africano continuano a far gola alle potenze di tutto il mondo. Wto, zone franche ed Epas sono le «armi» con cui il nuovo colonialismo economico di stampo liberista vuole impadronirsi di una ricchezza non sua. Ma anche una delle cause principali di fenomeni sociali come immigrazione e ghettizzazione nelle baraccopoli.
Una sfida per la missione di oggi.

Immigrati e bidonville sono una vetrina di povertà e miseria, frutto delle ricorrenti e aspre politiche commerciali, scritte e imposte dai potenti attori della scena internazionale.
Le città sono sempre state, per consuetudine secolare, il luogo nel quale i poveri hanno cercato rifugio perché minacciati, spesso dalla fame. E i periodi di depressione economica o post-bellici hanno avuto come effetto collaterale la fuoriuscita di milioni di persone dall’Europa alla ricerca di lavoro e speranza altrove.
L’Africa, nella sua recente storia, ha subito l’esodo dalle campagne come contraccolpo della politica dei prezzi agricoli, della deregulation, del dumping e dal protezionismo praticate negli anni ‘80 dalle discipline finanziarie imposte dagli organismi inteazionali quali il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale.
In Africa, il 70% dei lavoratori è impiegato nel settore agricolo e il 95% delle terre coltivate è gestito da imprese familiari. Coltivano prodotti destinati al commercio di prossimità, cioè a mercati e piccoli negozi dove si rifornisce la maggior parte dei consumatori africani. La struttura produttiva venne definita nel periodo coloniale: grandi monoculture di materie prime agricole destinate all’esportazione (cacao, zucchero, caffè…), a svantaggio delle coltivazioni per il consumo interno.
Quando negli anni ‘60 sempre più paesi dell’Africa cominciarono a ottenere l’indipendenza, l’esigenza di mantenere l’architettura delle monoculture, tanto funzionale al Nord del mondo, spinse le ex potenze coloniali a stipulare degli accordi con i nuovi stati africani. Si arrivò così alla Convenzione di Yaoundè (1964) e, in seguito, alle quattro Convenzioni di Lomè (dal 1975 al 2000) che stanziavano somme ingenti per gli aiuti allo sviluppo e stabilivano delle corsie preferenziali per le merci provenienti dalle ex colonie senza chiedere in cambio una reciproca apertura di mercato.
La svolta avvenne quando si passò dal riconoscimento del diritto che i paesi in via di sviluppo avevano di proteggere le proprie giovani economie a un approccio di classico stampo liberista il cui credo postulava che l’apertura dei mercati avrebbe prodotto di per sé quello sviluppo a cui anelavano i paesi più poveri.
Fu l’epoca dei grandi Piani di aggiustamento strutturale (Pas) voluti da Fmi e Banca mondiale, che imposero l’abbandono dei meccanismi di sostegno e di protezione sia doganali che sociali, a favore delle privatizzazioni di settori sempre più ampi dell’economia nazionale che, quasi ovunque, era ancora prevalentemente statale. Furono anche i tempi della cosiddetta «rivoluzione verde» che coltivava l’idea di un’agricoltura sempre più industrializzata e tecnologica per sfamare il mondo.
In cambio dei soldi ricevuti per la loro «modeizzazione» i paesi del Sud furono costretti a privatizzare o svendere risorse e servizi pubblici. A seguito della crisi del debito generato da quei prestiti, l’Africa fu costretta a rinunciare alla propria sovranità alimentare, cedendo terre su terre agli investimenti stranieri, in cambio di grandi coltivazioni di prodotti il cui prezzo è sceso di anno in anno.
Una situazione che si è protratta fino ai nostri giorni e della quale hanno approfittato le grandi imprese dell’agrobusiness presenti in Africa. Attraverso la concessione di terreni e agevolazioni e creando delle zone franche per l’esportazione, nel corso di pochi anni queste imprese hanno incentivato la produzione per l’esportazione e abbassato notevolmente il prezzo dei prodotti agricoli, costringendo numerosi piccoli produttori a vendere la loro merce a un prezzo inferiore al costo di produzione.

LE CONSEGUENZE SOCIALI
Il risultato delle liberalizzazioni previste dai Piani di aggiustamento strutturale è stato spesso rovinoso per il settore agricolo, e catastrofico sul piano sociale. Per riprendere una dichiarazione del Commissario allo sviluppo della Commissione europea, Louis Michel: «Nella prima fase delle liberalizzazioni – come si è visto nei paesi dell’Est europeo – ci sono spesso catastrofi sociali».
Gli esempi sono molteplici: in Costa d’Avorio, dopo la riduzione del 40% delle tariffe decise nel 1986, i settori tessile, chimico, dell’abbigliamento e dell’assemblaggio automobilistico collassarono, producendo un’emorragia di posti di lavoro.
In Senegal, fra il 1985 e il 1990, dopo l’applicazione di un programma di liberalizzazioni che aveva ridotto le tariffe doganali dal 165 al 90%, un terzo dei posti di lavoro andarono perduti.
Nel Ghana, 50 mila posti di lavoro nel settore manifatturiero sparirono fra il 1987 e il 1993, dopo la liberalizzazione delle importazioni di beni di consumo.
In Kenya, i settori del tessile, dello zucchero, del cemento, dell’imbottigliamento del vetro e del pollame dovettero lottare duramente per reggere la competizione delle importazioni da quando, nel 1993, venne lanciato un radicale piano di liberalizzazioni degli scambi in linea con un programma di aggiustamento strutturale targato Fmi/Banca mondiale.
Fra il 1993 e il 1997 la crescita industriale nel paese è scesa del 2,6%, tra il 1991 ed il 2000 il paese ha raddoppiato le sue esportazioni agricole e quadruplicato le sue importazioni alimentari.

POLITICHE ECONOMICHE
Alla fine degli anni ‘90, le riforme del commercio internazionale hanno ricevuto un impulso straordinario grazie alla nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) in sostituzione dell’Accordo sul commercio e sulle tariffe (Gatt). Lo scopo di questa organizzazione è quello di redigere e far rispettare delle regole uniformi per il mercato mondiale.
Come condizione per entrare nel Wto viene richiesto ai singoli paesi di eliminare ogni ostacolo al «libero scambio delle merci», principalmente gli strumenti tradizionali con i quali gli stati sostengono le proprie economie: le tariffe doganali, la scelta di sostenere alcuni settori produttivi fino al controllo dei prezzi dei generi di prima necessità.
Ogni trattamento preferenziale non è più possibile in quanto considerato «concorrenza sleale» nei confronti dei prodotti di altre nazioni. Questo livellamento del terreno di gioco, auspicabile idealmente, in pratica ha finito per favorire soltanto gli attori più forti a livello economico e le grandi industrie multinazionali che possono vendere i loro prodotti all’interno di un paese in via di sviluppo a un prezzo nettamente inferiore a quello del mercato interno. Il risultato di questa politica di dumping è che l’economia ristagna e la gente, non trovando opportunità di lavoro e profitto in casa propria, si dirige verso le grandi città ingrossando la massa delle baraccopoli oppure fugge all’estero. Mentre le multinazionali comperano a prezzi stracciati le terre abbandonate.
Tra le condizioni previste dai programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fmi e dalla Banca mondiale per accedere a nuova liquidità presso i creditori inteazionali e alla dilazione del pagamento dei servizi del debito estero, c’era l’apertura dei paesi africani agli «Investimenti diretti esteri» (Ide). Anche in questo caso, i costi ambientali e sociali sostenuti sono stati enormi. Non potendo offrire condizioni economiche ottimali (mercati, infrastrutture, stabilità), alcune nazioni africane – per attirare tali investimenti, in sintonia con la logica dei Pas – hanno fatto leva sulla deregolamentazione del settore, promuovendo la nascita di zone franche per l’esportazione, garantendo alle imprese straniere esenzioni fiscali, completa libertà di rimpatrio dei profitti ed assenza di vincoli di natura sindacale e ambientale.
Nascono così le Export Processing Zones (zone franche per l’esportazione). Le zone franche si sono rivelate delle isole di profitto per le multinazionali, di sfruttamento dei lavoratori e, soprattutto, lontane dai bisogni reali della gente. Il Kenya, un paese che non è autosufficiente a livello alimentare, ha 43 zone franche, di cui 28 operative, tra le quali quelle dedite alla coltivazione ed esportazione di fiori in Europa.
In queste zone i livelli salariali sono molto bassi, i tui di lavoro in media di dodici ore e gli standard di sicurezza insufficienti. Inoltre, non sempre hanno creato nuovi posti di lavoro. Le imprese minerarie straniere in Ghana tendono ad impiegare personale specializzato straniero piuttosto che locale. Gli investitori stranieri in Sudafrica fanno largo ricorso a contratti di lavoro flessibili con l’obiettivo di abbattere i costi di produzione.
In ogni caso, dove vengono creati nuovi impieghi, come nel tessile e nel settore dei prodotti vegetali, i lavoratori sono sfruttati, sotto pagati ed i loro diritti non rispettati.
Attoo alle zone franche i piccoli produttori vengono messi fuori dal mercato locale perché non in grado di competere con le imprese straniere. Inoltre, appena si presentano nuove opportunità per aumentare i profitti, le grandi industrie hanno la tendenza a muoversi rapidamente fuori e dentro il paese, lasciando molte persone improvvisamente senza impiego e senza dare loro il corrispettivo spettante per gli ultimi mesi di lavoro.
È in atto un nuovo tipo di colonizzazione economica neoliberista che non mira alla conquista dei paesi, bensì dei mercati, delle materie prime e delle risorse.
L’Africa sub-sahariana è la regione del mondo con il più basso tasso di sviluppo umano, indice che comprende – oltre alla ricchezza pro-capite – indicatori come l’alfabetizzazione, l’aspettativa di vita, l’accesso alle risorse essenziali quali cibo e acqua potabile.
Dei 40 paesi considerati oggi poverissimi ben 34 si trovano nell’Africa sub-sahariana; negli ultimi 20 anni secondo la Banca mondiale, il loro reddito medio è diminuito da 400 a 300 dollari l’anno; secondo la Fao dei 50 paesi che ancora oggi soffrono la fame, 30 si trovano in Africa.
La descrizione di un continente che lentamente va alla deriva sospinto dalla pandemia dell’Aids e dei conflitti e guerre «a bassa intensità», commistione di poteri locali corrotti e forti interessi inteazionali.
Si sta ridisegnando l’Africa secondo una strategia della spartizione, un apartheid tra isole ricche da proteggere con le armi e oceani di poveri da abbandonare ai massacri, agli aiuti umanitari, oppure reclusi nelle fatiscenti città ombra ai margini delle grandi città e del mondo intero.
Per tutti noi l’Africa è malata! Ha bisogno di aiuto. Ma il suo dottore, l’Occidente «benefattore» sa ben sfruttare i suoi malanni.

LA RICETTA EUROPEA
Epas è l’acronimo inglese di «Economic Partnership Agree­ments» (accordi di partenariato economico) che, dal 27 settembre 2002, l’Unione europea sta negoziando con 77 paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (i cosiddetti paesi Acp). L’obiettivo è quello di creare, a partire dal 1 gennaio 2008  un’area di libero scambio.
Ufficialmente, gli Epas si propongono come fine principale la riduzione e infine l’eliminazione della povertà, in linea con gli obiettivi di uno sviluppo durevole e della progressiva integrazione dei paesi Acp nell’economia mondiale.
In realtà il modello di liberalizzazione proposto dall’Europa rientra nella strategia di creare maggiori opportunità di esportazione per le proprie imprese. Per i paesi Acp i benefici rimangono incerti mentre sono certi gli effetti negativi.
L’Unione Europea ha spinto affinché questi accordi fossero fondati su una rigida interpretazione delle regole del Wto, prevedendo l’eliminazione di tutte le barriere commerciali su più del 90% degli scambi tra Europa e paesi Acp ed annullando di fatto, come richiesto dal Wto al massimo entro il 2008, le condizioni preferenziali e non-reciproche concesse dall’Unione Europea in favore dei paesi più poveri e vigenti da diversi decenni.
Dietro la maschera di una «cooperazione per lo sviluppo» l’Unione Europea sta di fatto riproponendo attraverso gli Epas la propria agenda liberista sostenuta in ambito Wto.
I paesi Acp che aderiranno agli Epa dovranno aprire i loro mercati domestici a quasi tutti i prodotti europei nel giro di un periodo che andrà dal 2008 al 2020.
Inoltre, il processo prevede la liberalizzazione del settore dei servizi, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale, la standardizzazione delle certificazioni e delle misure sanitarie e fitosanitarie, la definizione di regole di concorrenza e di promozione e difesa degli investimenti delle imprese estere.
Questo processo rischia di cancellare entrate fiscali fondamentali per i bilanci statali e di mettere in ginocchio le industrie di paesi fra i più poveri del pianeta.
Insomma l’Europa, dopo aver sfruttato le sue colonie, aver sottratto all’Africa materie prime e esseri umani attraverso la tratta degli schiavi, continua la via dello sfruttamento, promuovendo una partnership basata sulle proprie regole e sui propri interessi, proponendosi ipocritamente come sensibile e attenta ai loro interessi.
Gli Epas non sono strumenti di sviluppo, ma la loro filosofia è di carattere commerciale; per questa ragione la giurisdizione sui negoziati è stata affidata al Commissario europeo al Commercio e non a quello allo Sviluppo.
Tutte le analisi indicano che il peso dei cambiamenti introdotti dagli Epas sarà scaricato esclusivamente sulle spalle dei paesi di Africa, Caraibi e Pacifico. Con l’aggravante che gli Epas mettono in pericolo il fragile processo di integrazione regionale, fondamentali nelle strategie di sviluppo dei paesi Acp, esponendo i produttori di quei paesi ad un’impari concorrenza con l’Europa nei mercati interni e regionali.
In particolare, l’Unione Europea ha deciso di avviare sei negoziati: quattro con diverse regioni africane, e uno ciascuno per i paesi di Caraibi e Pacifico. Questa suddivisione dell’Africa in quattro regioni non tiene in nessuna considerazione la realtà politica e storica del continente africano e gli embrioni di alleanze economiche regionali che lì si stanno faticosamente costituendo.
Si ripete così la spartizione dell’Africa, già un tragico errore del periodo colonialista, senza nessuna considerazione per le realtà locali, questa volta però inserita in una strategia geopolitica globale: attraverso gli Epas l’Europa intende rispondere agli analoghi negoziati di libero commercio che stanno portando avanti il Giappone, tramite il Ticfad (Tokyo Inteational Con­fe­rence For African Development) e gli Usa con l’Agoa (Africa Growth Opportunity Act) e all’intromissione di un outsider: la Cina, con i suoi recenti cospicui investimenti in Africa.
La posta in gioco è sempre la stessa: l’accesso a basso costo alle enormi materie prime del continente africano, a partire dalle risorse minerarie e dai prodotti agricoli. Come sostiene Eveline Herfkens, cornordinatrice Onu per gli Obiettivi di sviluppo del millennio: «Gli Epas sono davvero un problema per i paesi poveri. Questi non hanno né il tempo né le capacità per negoziare degli accordi forti con l’Unione Europea».
Anche la saggezza di un proverbio africano esprime bene la concorrenza impari fra i Paesi Acp e l’Europa: «È come una gara fra una giraffa e un antilope per la frutta sui rami più alti. Anche se si livella il terreno, non sarà mai concorrenza leale».
Gli Epas non sono la cura giusta, ma uno scandalo truccato dalla retorica della cooperazione e un’ipoteca definitiva sulle possibilità di sviluppo dell’Africa. Che così continuerà ad essere un serbatornio di tragedie, a produrre gli slum e gli immigrati perché i contadini continueranno ad abbandonare le terre e migliaia di uomini e donne disperati lasceranno il continente per essere schiavizzati sulle strade delle metropoli di tutto il mondo.

Di Antonio Rovelli

Antonio Rovelli




Tra baracche e grattacieli

Nairobi e la sua gente

Nairobi è una città di gente in fila.  Code di macchine ai semafori, di persone davanti alle banche sempre piene e lunghe file, anche davanti ai dispensari, di gente che cammina, cammina senza sosta per chilometri e chilometri perché non può permettersi di pagare l’autobus. Una città in balia dei predicatori americani che garantiscono miracoli in cambio di soldi.  Come i gatti li trovi puntuali all’ora di pranzo, davanti agli uffici, ai parchi e ai luoghi di passaggio.  Altoparlante in mano iniziano lunghe giaculatorie, urlano per dire che c’è un solo Dio, ma quale? Una città dove puoi restare a terra ferito per ore fino alla morte se non hai denaro da dare a qualcuno che ti accompagni in ospedale. È un luogo di potere: non si contano i casi di corruzione, furto, doppie contabilità all’interno degli ospedali, così come delle scuole.
L’altro non esiste. La peggiore eredità che ha lasciato il colonialismo è questo apartheid sociale. Pochi hanno la possibilità di pensare agli altri, schiacciati come sono dai problemi personali.  Sarà un lusso che solo le società ricche possono permettersi? O, forse, è un sistema di valori di questo luogo che convenzionalmente chiamiamo Nairobi, ma che di fatto non esiste perché ciò che lo caratterizza è l’eterogeneità delle situazioni. Frammenti di spazi dove vivono nuclei omogenei per reddito e status sociale, che non vedono chi vive a pochi chilometri di distanza come se si trattasse di gente che proviene da un altro pianeta: aliens, così gli statunitensi chiamano i sudamericani che tentano di passare la frontiera. Pianeti diversi: alcuni hanno campi da golf, piscine, grattacieli altri fogne e discariche a cielo aperto, case di fango dove, per poterci restare, pagano l’affitto.
Nairobi è una città fatta di buchi: per le strade, nei bilanci, nei canali fognari e negli acquedotti, nelle mani dei donatori inteazionali e nelle vene dei malati di Aids, così come nella cultura. Nairobi è specchio di un mondo che spinge tutto verso gli eccessi, dove tutto assume forme iperboliche, esorbitanti, istericamente eccessive, dove spariscono le forme di mediazione, nulla mitiga o mòdera la situazione: non esistono compromessi, gradualità, stadi intermedi. È una continua battaglia per la morte o per la vita.
A Nairobi è come se si fosse sempre di fronte a un limite che impone delle scelte. O di qua o di là, senza vie intermedie. Ogni scelta, a  Nairobi, diventa lo specchio delle scelte di ogni abitante del pianeta, è lo status confessionis: o con l’uomo o contro.
Il «buco» più vistoso è nella storia. Si è pensato di far crescere questa città, modificare la sua cultura e le sue tradizioni un po’ come un bambino che si mette a tirare una pianta per farla crescere più in fretta. Come le donne allungano i capelli con le treccine di plastica, così hanno trasformato le case basse in grattacieli ma non si può ingannare la crescita di un bambino, così come quella di una città. Il Kenya è un paese di ricchi, ma i keniani sono poveri. Ne è conseguito un orizzonte schizofrenico dal quale emergono baracche di fango e grattacieli, antiche credenze ed internet, telefoni cellulari ed individualismo. E poi problemi su problemi che si concentrano su uomini e donne che sono il volto della Sindone che cammina.
In questa situazione di insicurezza generalizzata tutti sono poveri, tutti sono a rischio, tutti non possono aiutare perché tutti hanno bisogno di essere aiutati. Ognuno è mendicante. Queste contraddizioni sono talmente forti al punto da risultare inaccettabili al visitatore esterno, ma chi vive qui sa di non avere scelta e faticosamente cammina. Cammina. Quando non c’è l’elettricità lavora di notte, si alza alle 5 del mattino per arrivare in orario al lavoro. E sa anche essere felice, donare un sorriso e una stretta di mano, ridere e scherzare.
In questa città mancano luoghi pubblici e spazi di confronto autentico. Ogni voce è sola lungo queste strade e dentro questi autobus. I ricchi vanno dall’ufficio a casa, dal negozio alla banca sempre di giorno e in auto, senza aprire i finestrini e con le porte bloccate perché può essere pericoloso. Le loro case sono più chiuse e controllate di un carcere: guardia giurata al cancello, allarme sul comodino, rete elettrica di recinzione o muro con filo spinato, allarme elettronico in casa, finestre con inferriate. E mentre i grattacieli salgono sempre più in alto, su fino al cielo, cresce l’ansia nel domani.
Gli spazi più vitali sotto questo aspetto sembrano essere gli slum, dove per necessità o altro, la gente sta iniziando a mettersi insieme per uscire dal vicolo cieco dell’individualismo e a costruire percorsi di cittadinanza, di diritto e solidarietà.
Il grande mistero è di che cosa viva tutta questa massa di persone. Di che cosa e «come».  Infatti, uomini e donne non si trovano qui perché la città ha bisogno di loro, ma solo perché la miseria li ha scacciati dalle campagne. Sono fuggiaschi, in cerca di salvezza e di sopravvivenza.
Mangiano tutto senza lasciare una briciola, nessuno ha provviste da parte, né saprebbe dove conservarle o rinchiuderle. Si vive alla giornata. Non è realistico pensare al futuro.
Nelle bidonville non vi sono inquilini fissi. È tutto un avvicendarsi di nomadi cittadini in continuo movimento.
A prima vista una baraccopoli si presenta come un’enorme stazione ferroviaria dove però non ci sono né treni né manager e impiegati, esiste solo il corollario: gente seduta, volti anonimi, traffici vari, sporcizia, via vai frenetico, come se ognuno avesse qualcuno da cui fuggire o da inseguire. È un luogo senza alberi alla cui ombra fermarsi a discutere o ascoltare gli anziani che raccontano una storia. È un luogo fatto di persone che stanno perdendo la memoria, che sanno sempre meno da dove vengono e non sanno dove andare. È anche un luogo di creatività, dove una vecchia lamina d’alluminio diventa una valigia, un barattolo si trasforma in una lampada, tanti piccoli pezzi di lamiera diventano una parete.
Ai lati delle strade, di là dai rigagnoli, ferve la vita economica e familiare. Le donne cucinano chapati, friggono pesci, vendono frutta e verdura, biscotti, vestiti usati, lavano e asciugano la biancheria. Tutto in vista, quasi vigesse l’obbligo di uscire di casa alle sette del mattino e di riversarsi sulle strade. La ragione vera è un’altra: le abitazioni sono piccole, misere, anguste. Si soffoca, il tetto di lamiera moltiplica il calore del sole, blocca la circolazione dell’aria, manca il respiro. È nella strada che ferve la vita sociale. Si passa la giornata all’aperto in movimento tra la gente.                   

Di Fabrizio Floris

LE ORIGINI DEGLI SLUM

In tutta l’Africa sub-sahariana, nonostante le rilevanti differenze esistenti tra le varie popolazioni indigene, il possesso della terra poggiava sul concetto di proprietà comune. La terra apparteneva alla comunità e veniva amministrata, con il favore degli antenati, dagli anziani. Ogni adulto aveva diritto di usare la terra e questo diritto variava a seconda dello status, dell’età, ecc. Il capo della comunità aveva il potere e la responsabilità di destinare la terra non utilizzata, oltre che di arbitrare le dispute e i diritti di usufrutto ereditabili.
L’impatto del colonialismo su queste forme di distribuzione della terra è stato considerevole. I  modelli dell’organizzazione coloniale hanno modificato sia i rapporti esistenti tra le tribù, sia le relazioni all’interno delle tribù, con effetti progressivamente negativi. La conflittualità è così aumentata, favorendo anche l’insorgere di guerre, magari non sempre fisiologiche ma talvolta orchestrate ad hoc secondo il ben noto principio divide et impera. Ma l’impatto più radicale si è notato nelle città dove è stato instaurato il concetto europeo di proprietà terriera. Nasce il mercato della terra, le transazioni derivano dalla capacità economica dei contraenti, si sviluppa il gioco anonimo della domanda e dell’offerta che determina un incremento dei prezzi e una crescita della speculazione.

Nel periodo coloniale, agli africani fu negato il diritto di essere proprietari di terreni, così come era loro vietato costruire case. Di conseguenza, chi fra loro aveva il permesso di lavorare in città adattò il proprio concetto di utilizzo della terra all’interno della nuova realtà urbana. Del resto, gli africani alloggiati nelle città non potevano essere proprietari dell’abitazione, e questa misura serviva da garanzia del loro ritorno al villaggio una volta terminato il periodo.
Durante la loro residenza in città, questi lavoratori erano muniti di un permesso di occupazione a durata predefinita, di un permesso di abitazione revocabile in ogni momento e non trasferibile o ereditabile, di una concessione fondiaria che diventava definitiva solo quando si fossero completate varie formalità e a patto di avere rispettato tutti i regolamenti. Il governo della colonia limitava in ogni caso le possibilità degli africani di risiedere in modo permanente nelle aree urbane esclusivamente a chi possedeva un regolare contratto di lavoro e, comunque, non si poteva portare la famiglia, per la quale non erano previste strutture adeguate.
Nacquero così, e furono mantenuti, speciali «insediamenti indigeni» per gli africani, i quali, a causa dell’eccessiva espansione della città, furono successivamente trasferiti verso la periferia.

C on la fine del colonialismo, tuttavia, gli stati africani indipendenti hanno ereditato lo strabico  sistema di possesso della terra: da un lato è stato applicato il modello europeo di proprietà terriera, di cui usufruivano ovviamente gli europei, mentre dall’altro lato gli africani hanno dovuto inventare forme di adattamento loro proprie. In pratica, l’accesso alla terra risultava bloccato per gli africani. Ne è derivata, per contrappeso, la costruzione di case abusive, senza alcun tipo di servizio e in aree prive di infrastrutture.
Col tempo, il problema ha assunto dimensioni imponenti tanto che si è cercato di darvi soluzione attraverso le demolizioni. Si pensava che, in questo modo, le persone sarebbero ritornate ai villaggi di origine, ma il risultato, di certo non atteso, è stato un semplice spostamento di questi gruppi verso periferie contigue e più estee.
Successivamente, gli insediamenti si sono consolidati e per certi versi organizzati: è iniziata la commercializzazione delle abitazioni abusive, si sono diffusi i contratti di affitto, sono nate e cresciute sia le attività commerciali e sia quelle artigianali, mentre sorgevano le strutture di servizi. In pratica, i dormitori temporanei sono diventati luoghi permanenti, sono diventati «città».        

Fa. Flo.

Fabrizio Floris




Il pianeta bidonville

Le isole infelici delle grandi metropoli

Più di un miliardo di persone vive oggi nelle sovraffollate periferie urbane delle megalopoli di tutto il mondo. Un fenomeno in folle crescita, destinato a raddoppiare nei prossimi 15 anni,  rendendo totalmente insostenibile la vita delle nostre città e, di riflesso, del nostro pianeta.

Siamo di fronte a una delle principali svolte della storia dell’umanità: per la prima volta, nel 2007, la popolazione urbana del pianeta avrà superato la popolazione rurale. Di fatto, vista l’imprecisione delle statistiche che riguardano il terzo mondo, forse questa transizione storica è già avvenuta.
Il processo di urbanizzazione del globo è progredito ancor più rapidamente di quanto non avesse previsto il Club di Roma nel suo famoso rapporto: «I limiti della crescita». Nel 1950, esistevano al mondo 86 agglomerati con oltre un milione di abitanti. Oggi sono 400 e nel 2015 saranno almeno 550.
A partire dal 1950, i centri urbani hanno assorbito quasi due terzi dell’esplosione demografica mondiale e, ogni settimana, il dato aumenta di un milione di persone, tra neonati e nuovi immigrati. In questo momento la popolazione urbana (3,2 miliardi di abitanti) è più numerosa di quanto non fosse l’insieme della popolazione mondiale nel 1960.
Le previsioni indicano che il 95% di questa crescita finale dell’umanità avrà luogo nelle zone urbane dei paesi in via di sviluppo. Secondo queste stime, la popolazione di queste aree dovrebbe raddoppiare per raggiungere quasi 4 miliardi di abitanti nel corso della prossima generazione (il dato aggregato della popolazione urbana di Cina, India e Brasile oggi è quasi allo stesso livello di quello di Europa e Nord America). L’esito più spettacolare di questa evoluzione sarà il moltiplicarsi delle metropoli con oltre 8 milioni di abitanti e, più incredibile ancora, sarà l’impatto delle megalopoli con oltre 20 milioni di abitanti (dato che corrisponde all’intera popolazione urbana del pianeta all’epoca della Rivoluzione francese).
Nel 1995, solo Tokyo aveva raggiunto questi livelli. Secondo la «Far Easte Economic Review», attorno al 2025, nel solo continente asiatico saranno già presenti una decina di conurbazioni di queste dimensioni, tra cui Giacarta (24,9 milioni), Dacca (25 milioni) e Karachi (26,5 milioni).
La popolazione dell’immensa metro-regione fluviale di Shangai, la cui crescita è stata bloccata durante i decenni della politica maoista di sotto-urbanizzazione, potrebbe raggiungere 27 milioni di abitanti.
Le previsioni per Bombay indicano una popolazione di 33 milioni di abitanti, benché nessuno sia in grado di sapere se una concentrazione così colossale di povertà sia biologicamente ed ecologicamente sostenibile.
Se le megalopoli sono le stelle più brillanti del firmamento urbano, tre quarti della crescita della popolazione urbana avverrà in agglomerati più piccoli, zone urbane secondarie praticamente prive di pianificazione e servizi adeguati.
In Cina (paese ufficialmente urbanizzato per il 43% nel 1997), il numero ufficiale delle città è passato da centonovantasei a seicentoquaranta dal 1978 ad oggi.
Tuttavia, la quota relativa delle grandi metropoli, nonostante la loro straordinaria crescita, è in realtà diminuita rispetto all’insieme della popolazione urbana, e sono soprattutto le «piccole» città e i borghi recentemente diventati città ad aver assorbito la maggioranza della manodopera rurale costretta ad abbandonare le campagne dalle riforme successive al 1979.
Anche in Africa, alla crescita esplosiva di alcune megalopoli come Lagos (passata dai 300 mila abitanti del 1950 ai 10 milioni di oggi) si accompagna la trasformazione di decine di «piccole» città come Ouagadougou, Nouakchott, Douala, Antananarivo e Bamako, città ormai più popolose di San Francisco o Manchester.
In America Latina, mentre in precedenza la crescita era stata monopolizzata a lungo dalle principali metropoli, oggi l’esplosione demografica avviene a Tijuana, Curtiba, Temuco, Salvador, Belem e altre città secondarie che contano tra 100 mila e 500 mila abitanti.
Urbanizzazione non significa solo crescita delle città, ma anche trasformazione strutturale e crescente interazione di un vasto continuum urbano-rurale. Al contrario, il nuovo ordine urbano potrebbe tradursi in una crescente disuguaglianza all’interno delle città e tra città con dimensioni e funzioni diverse.
La dinamica dell’urbanizzazione del terzo mondo sintetizza e nel contempo contraddice le precedenti urbanizzazioni in Europa e Nord America nel xix e xx secolo. In Cina, paese essenzialmente rurale per millenni, la più importante rivoluzione industriale della storia si realizza con lo spostamento, di una popolazione pari a quella europea, dalle profonde campagne verso un habitat di grattacieli e smog.
Tuttavia, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, la crescita urbana non è alimentata dall’energia della potente macchina cinese dell’industria e dell’esportazione, né dal flusso costante di capitali stranieri.
In questi paesi, il processo di urbanizzazione è completamente svincolato dall’industrializzazione e da ogni forma di promozione sociale.
L’urbanizzazione
della povertà
L’esplosione delle bidonville è stata analizzata dal rapporto delle Nazioni Unite, «La sfida degli slums». Il testo, primo vero studio su scala mondiale sulla povertà urbana, comprende diverse inchieste locali, da Abidjan a Sydney, e statistiche globali che includono per la prima volta la Cina e i paesi dell’ex blocco sovietico.
Il rapporto lancia un avvertimento sulla minaccia planetaria della povertà urbana. Gli autori definiscono le bidonville come spazi caratterizzati da sovrappopolamento, abitato precario o informale, ridotto accesso all’acqua corrente e ai servizi igienici e vaga definizione dei diritti di proprietà.
Si tratta di una definizione pluridimensionale e in parte restrittiva, sulla base della quale si stima comunque che la popolazione delle bidonville ammontava nel 2001 ad almeno 921 milioni di persone. Gli abitanti delle bidonville rappresentano il 78,2% della popolazione urbana dei paesi meno sviluppati e un sesto dei cittadini del pianeta.
Se si considera la struttura demografica della maggior parte delle città del terzo mondo, almeno metà di questa popolazione ha un’età inferiore ai vent’anni.
La quota più importante di abitanti di bidonville è in Etiopia (99,4% della popolazione urbana) e in Ciad (99,4%), seguono Afghanistan (98,5%) e Nepal (92%).
Tuttavia, le popolazioni urbane più nella miseria sono certamente quelle di Maputo e Kinshasa, dove il reddito di due terzi degli abitanti è inferiore al minimo vitale giornaliero.
A Delhi, gli urbanisti deplorano l’esistenza di «bidonville all’interno di bidonville»: negli spazi periferici, alla storica classe povera della città brutalmente espulsa alla metà degli anni Settanta, si aggiungono nuovi arrivi che colonizzano gli ultimi interstizi liberi.
Al Cairo e a Phnom Penh, i nuovi arrivati occupano e affittano parti di abitazioni sui tetti, generando nuove bidonville sospese in aria.
La popolazione delle bidonville è spesso deliberatamente sottostimata, talvolta in grandi proporzioni. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, Bangkok aveva un tasso di povertà «ufficiale» solo del 5%, mentre alcuni studi dimostravano che un quarto della popolazione (1,16 milioni di persone) viveva nelle bidonville e in abitazioni di fortuna.
Esistono oltre 250 mila bidonville nel mondo. Le cinque grandi metropoli dell’Asia del Sud (Karachi, Bombay, Delhi, Calcutta e Dacca) ospitano quasi 15 mila zone urbane tipo bidonville, per una popolazione totale di oltre 20 milioni di persone.
Gli abitanti delle bidonville sono ancora più numerosi nella costa dell’Africa Occidentale, mentre immense conurbazioni di povertà si estendono verso l’Anatolia e gli altopiani dell’Etiopia, coinvolgono le zone ai piedi delle Ande e dell’Himalaya, proliferano all’ombra dei grattacieli di Città del Messico, Johannesburg, Manila, San Paolo e colonizzano le rive del Rio delle Amazzoni, del Congo e del Niger, del Nilo, del Tigri, del Gange, dell’Irrawaddy e del Mekong.
I nomi del «pianeta bidonville» sono tutti intercambiabili e allo stesso tempo unici nel loro genere: bustees a Calcutta, chawl e zopadpatti a Bombay, katchi abadi a Karachi, kampung a Giacarta, iskwater a Manila, shammasa a Karthoum, umjondolo a Durban, intra-muros a Rabat, bidonvilles a Abidjan, baladi al Cairo, gecekondou ad Ankara, conventillos a Quito, favelas in Brasile, villas miseria a Buenos Aires e colonias populares a Città del Messico.
Un recente studio pubblicato dalla «Harvard Law Review» stima che l’85% degli abitanti delle città del terzo mondo non possiede alcun titolo di proprietà legale. È all’opera una contraddizione stridente, perché il terreno dove crescono gli slums è di proprietà dei governi, mentre le case costruite sono in possesso degli structures owners, che impongono affitti salati ai poveri urbani e che non hanno la proprietà nemmeno della baracca in cui vivono.
I modi di insediamento delle bidonville sono molto variabili, dalle invasioni collettive estremamente disciplinate di Città del Messico e Lima fino ai complessi (e spesso illegali) sistemi di affitto di terreni alla periferia di Pechino, Karachi e Nairobi.
In alcune città, per esempio Nairobi, lo stato è formalmente proprietario della periferia urbana, ma la speculazione fondiaria permette al settore privato di realizzare enormi profitti a spese dei più poveri. Gli apparati politici nazionali e regionali contribuiscono generalmente a questo mercato informale (insieme alla speculazione fondiaria illegale) e riescono addirittura a controllare i vassallaggi politici degli abitanti e a sfruttare un flusso regolare di affitti e mazzette. Privi di titoli di proprietà legali, gli abitanti delle baraccopoli sono costretti ad una dipendenza quasi feudale rispetto a politici e burocrati locali. Il minimo strappo alla legalità clientelare si traduce con l’espulsione.
L’offerta d’infrastrutture, al contrario, è ben lontana dai ritmi di urbanizzazione, e le bidonville alla periferia della città non hanno spesso alcun accesso all’igiene e ai servizi del settore pubblico. Eppure, nonostante siano luoghi che si definiscono in termini di assenza (ciò che non hanno dice ciò che sono), le bidonville raggiungeranno i 2 miliardi di abitanti nel 2030 perché rappresentano l’unica soluzione abitativa per l’umanità in eccesso del xxi secolo.
Le grandi bidonville potrebbero trasformarsi in vulcani pronti ad esplodere? Gli abitanti possono trasformarsi in soggetto politico capace di «fare storia»?
Non è facile rispondere, molto dipenderà dalla capacità di sviluppare una cultura di organizzazione collettiva, anche se, come spiegava Kapuściński: «I poveri, di solito, stanno zitti. La miseria non piange, non ha voce. La miseria soffre, ma soffre in silenzio. La miseria non si ribella. Infatti, i poveri insorgono solo quando pensano di poter cambiare qualcosa».
Sapremmo noi essere parte di questo cambiamento?
Africa e città
In Africa la popolazione delle grandi città è aumentata di 10-12 volte tra il 1960 e il 2005. Questo incremento non è stato associato ad uno sviluppo economico correlato, anzi il Pil si è ridotto dello 0,66% all’anno. Nondimeno, le città in Africa giocano un ruolo cruciale nella crescita delle economie nazionali.
Oggi, più in generale, il tasso annuale medio di crescita della popolazione africana si aggira intorno al 4%, mentre quello delle grandi città raggiunge l’8%. Non sono più casi eccezionali quelli di città che crescono del 10% o più, specialmente là dove l’esodo rurale si accentua a causa di calamità naturali o fenomeni legati allo sviluppo disuguale del territorio. Il tasso di crescita degli insediamenti urbani precari e marginali, poi, è a volte superiore al 25% annuo.
In Africa, ogni anno, oltre cinque milioni di persone cercano nuovo alloggio alla periferia delle città. La grande maggioranza della nuova popolazione urbana sembra destinata a sopravvivere nella totale incertezza, nella precarietà, nella ricerca (priva di opportunità reali) di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, ai margini del «grande miraggio» costituito dalla città modea.
Una città che, in Africa, si è venuta formando e sviluppando nel tempo coloniale, con una struttura urbana pianificata su modelli non africani che hanno esposto gli abitanti a un modo di vita estraneo alla realtà e alla cultura locale.
Il resto lo hanno fatto l’incuria verso le zone rurali – assenza di investimenti e di sostegno all’economia familiare, mancanza di politiche di protezione dei suoli – e assenza di investimenti in edilizia popolare nelle città.
Il primo fattore, ovvero la mancanza di progetti tesi a proteggere le aree rurali, provoca la fuga dai villaggi, determina la scelta di cercare «un altrove» dove soddisfare la pluralità di bisogni, che la vita nei villaggi non è in grado di soddisfare. Questa ricerca si concentra nella sola alternativa possibile: la città. Così, la presenza di un sistema urbano inarticolato implica e favorisce la concentrazione di popolazione verso pochissimi centri – uno o due – che devono accogliere flussi rilevanti di popolazione.
È una «crescita urbana senza città» quella che dà origine ai famigerati «slum». Spazi auto-costruiti su terreni demaniali senza che vi sia un solo mattone, dove non è passata una sola putrella di ferro e non vi si trova un solo metro quadrato di vetro. Nei paesi cosiddetti «in via di sviluppo» la bidonville accoglie i contadini rimasti senza terra e svolge un ruolo di mediazione tra città e campagna, offrendo ai suoi abitanti un «surrogato» di vita urbana, se si vuole miserabile, ma molto intensa.
Gli effetti di queste contraddizioni sono evidenti nell’espansione delle città. Si tratta di spazi  complessi in cui sono presenti molte delle contraddizioni che caratterizzano la vita del pianeta. Si tratta di città divise da tanti confini, il cui semplice attraversamento produce il senso di passaggio da una frontiera all’altra. Ma sono frontiere non semplicemente fisiche: per entrare negli slum si passa dalla frontiera della paura, mentre per accedere ai quartieri ricchi si attraversa il confine del benessere.
Le città così frammentate, invece di essere il luogo dell’incontro e dell’integrazione tra gruppi sociali diversi per livello economico, cultura e provenienza, si trasformano in una sorta di arcipelago costituito da molte isole (island),  segnate dalla qualità delle loro costruzioni, dalla presenza (o mancanza) di infrastrutture e servizi, dalle maggiori o minori condizioni di sicurezza.
Ovviamente le isole comunicano, i loro abitanti intrecciano rapporti, e una chiave di entrata da un’isola all’altra è la convenienza economica, capace di istituire relazioni e gradi di comunicazione. Ai ricchi serve la manodopera che costa poco e i poveri hanno bisogno di lavorare. Nascono così gli scambi, i subappalti, la foitura di servizi, il commercio negli slum di prodotti industriali.
Protagonista di questo flusso è il settore informale dell’economia, capace di generare posti di lavoro, reddito e capacità di risparmio per la maggioranza degli abitanti degli insediamenti informali.
Le island vivono fianco a fianco e nella quotidianità a volte si confondono, ma presentano aspetti fortemente contrastanti: ci sono island cities ricche del primo mondo ed altre povere del terzo mondo. Da un punto di vista estetico, il moderno grattacielo e la baracca sono i simboli di città-arcipelago come Nairobi, Johannesburg o, in America Latina, Rio de Janeiro.
Le island cities vivono su due livelli diversi, sia in senso stretto e sia in senso figurato. Una parte «sta in alto», legata economicamente con il resto del mondo, perché la tecnologia che sostiene la rete globale permette di lavorare e comunicare via etere. Questa parte dell’arcipelago sta al di sopra dell’altra, e spesso comunica di più in senso orizzontale, ovvero con le lontane città di pari grado, che non verticalmente con il resto della città stessa.
La parte povera dell’arcipelago invece è fortemente attaccata alla terra, perché lotta ogni giorno per appartenere a essa, sia occupando le strade con i lavori informali, sia cosruendo la propria casa, generalmente piccola per poter essere edificata nel minor tempo possibile.

Di Fabrizio Floris

Fabrizio Floris




Senza lavoro e senza casa

Introduzione

Kibera è una delle più estese e popolate bidonville africane. Alle 6 del mattino chi si piazza alle entrate della baraccopoli può assistere alla versione keniana dell’esodo biblico. Un oceano di formiche umane si scrolla di dosso la notte africana e inizia la lunga marcia verso le strade caotiche della capitale. Alle 7 di sera è nuovamente in fila per compiere il percorso inverso, carico delle frustrazioni accumulate in 12 ore di «scuola di sopravvivenza» nella grande città. Succede così, giorno dopo giorno, fintanto che il sole continua a sorgere e filtrare fra i tetti di lamiera delle baracche fatiscenti in cui vivono, compresse come sardine, quasi 800 mila persone. Migliaia di storie diverse, tutte apparentemente insignificanti, ma tutte indice di un dato tanto inquietante quanto incontrovertibile: la popolazione urbana sta crescendo a dismisura e presto, molto presto, supererà per numero quella rurale.

La migrazione dalle campagne alle città è un fenomeno che ha accompagnato la storia dell’uomo nel corso dei secoli: carestie, guerre, epidemie hanno sempre provocato movimenti di persone dalle zone rurali a quelle urbane, ma mai, come in questo ultimo secolo, il fenomeno ha assunto proporzioni così consistenti. Viene da chiedersi seriamente se il flusso così imponente di persone verso le città sarà sostenibile da un punto di vista sociale e ambientale o se questa realtà sarà destinata a implodere con conseguenze che vanno al di là delle possibili previsioni. Ciò che già sembra certo è che il convergere così velocemente e in forma tanto massiccia negli spazi urbani sta cambiando radicalmente il volto delle città. Insediamenti urbani di medie dimensioni stanno diventando autentiche metropoli, mentre le metropoli di un tempo si stanno trasformando in megalopoli con valori demografici superiori a quelli di tanti stati del pianeta.

Slum, baraccopoli, bidonville, insediamento informale sono alcuni dei nomi, ormai tutti entrati nell’uso corrente, per definire un’unica realtà: il posto infame dove, in città, vanno a vivere o dove cercano di sopravvivere i più poveri della terra. Oggi, un sesto degli abitanti della terra vive in uno slum; ciò significa che circa un miliardo di persone vive in ambienti sovrappopolati e malsani, con un abitato che i documenti definiscono eufemisticamente «informale», ma che dovrebbe essere etichettato invece come «indegno di qualsiasi essere umano».

Nel suo recente saggio «Città Ombra: viaggio nelle periferie del mondo», Robert Neuwirth scrive: «Ho cominciato a interrogarmi sulla moralità di un mondo che nega alle persone un posto di lavoro nella zona dove abitano, e poi gli nega un’abitazione nella zona dove sono arrivati per ottenere un lavoro. E ho cominciato a riflettere sulla mia responsabilità». La «mia» responsabilità. Questo appello alla moralità e alla responsabilità dovrebbe toccare un po’ tutti, ma soprattutto coloro che, per scelta o vocazione, dedicano la loro vita ai poveri, primi fra tutti i missionari. È importante continuare ad essere inseriti nelle comunità che abitano le baraccopoli per condividere il desiderio che le persone hanno di uscire dal fango e dare alla loro vita una dignità perduta e un futuro diverso. È importante insistere nell’appoggiare progetti di sostegno, solidarietà e promozione umana. È però anche importante «dar voce» a chi non ce l’ha, facendo rete e protestando contro quelle politiche economiche inique dei paesi sviluppati che continuano a considerare i paesi in via di sviluppo come terre da conquistare, colonizzare e spolpare, incuranti dei danni umani e sociali che tali politiche provocano. Una responsabilità verso le periferie del mondo che soprattutto chi vive al centro e vive bene può e deve in coscienza assumere.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Tra petrolio e povertà

Intervista a Desiré Ename, giornalista gabonese

Ricco di petrolio e legname pregiato, il Gabon ha poco più di un milione di abitanti, ma non riesce a sconfiggere la povertà. Tra automobili da centomila euro e ristoranti di lusso non mancano baracche
in lamiera e gravi violazioni delle libertà personali. Intervista a un gabonese contro: il giornalista Desiré Ename
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Una quantità di petrolio da far impallidire l’Arabia Saudita, giacimenti di gas apparentemente senza fine, diamanti, oro, uranio e ferro da mettere in ginocchio le grandi miniere del mondo e il legname pregiato della foresta pluviale a totale disposizione delle segherie e delle industrie. Il Gabon ha tutte le carte in regola per essere uno dei paesi più ricchi dell’Africa e, in assoluto, il più stabile. Mai una sola guerra nella storia e un solo tentativo di colpo di stato, peraltro fallito. Un record assoluto per il continente nero.
Ma dietro gli edifici modei che ospitano i ministeri e i palazzi lussuosi della capitale gabonese Libreville, lungo la splendida costa oceanica, appaiono, dimenticate, le baracche di lamiera, dove vive circa metà della popolazione, quella che non ha accesso alla ricchezza e che non può godere dei frutti del petrolio e delle miniere.
Le auto da centomila euro che attraversano le quattro corsie del Boulevard Triomphal Omar Bongo, dedicato all’attuale presidente gabonese, stonano al passaggio della gente a piedi, che torna nei quartieri poveri dove spesso mancano luce e acqua. E anche se i gabonesi ricchi sembrano girarsi dall’altra parte, qualcuno ancora vede le ingiustizie.
Il Gabon è «un’enorme contraddizione e un regno dell’ipocrisia» dice Desiré Ename, direttore di Les Echos du Nord, l’unico giornale d’opposizione del paese. E per questo lo abbiamo intervistato.

Il Gabon era ed è uno dei paesi più ricchi dell’Africa e indubbiamente uno dei più stabili, ma non è riuscito a sconfiggere la povertà e nemmeno a garantire i diritti più basilari a quasi metà della sua popolazione. Quali sono i problemi del Gabon?
«Il Gabon è un vero e proprio scandalo geologico. Nella foresta pluviale intorno al bacino del fiume Congo si trovano i materiali necessari ai complessi industriali di mezzo mondo e fonti energetiche di primaria importanza. La miopia della classe dirigente, però, ha impedito che si impiegassero le ricchezze in modo lungimirante. Le ricchezze del Gabon non sono adeguatamente sfruttate e il governo si è accontentato dei guadagni immediati, senza pensare al futuro e senza investire in infrastrutture o in industrie di trasformazione.
Il presidente Omar Ondimba Bongo è al potere dal 1967 e nei suoi 40 anni di governo ha eliminato tutte le forme di opposizione, spartendosi le ricchezze con le famiglie più influenti del paese. Per capire la situazione del Gabon basta pensare alla storia di un vostro connazionale: un italiano che venne a investire qui qualche anno fa. Lui non voleva accettare il sistema di corruzione che vige nel paese, non so se per onestà o perché gli avevano chiesto troppi soldi. Però una cosa è certa: si è rifiutato di pagare e, nel giro di pochi mesi, l’amministrazione statale ha iniziato a creare problemi con i permessi, ha moltiplicato i vincoli burocratici, fino a che la polizia ha sequestrato l’hotel che l’impresa italiana stava costruendo. Alla fine l’impresa se ne è andata dal paese, lasciando anche i macchinari e i computer negli uffici».

Che le amministrazioni africane siano corrotte non è una novità. Spesso sono eredità del periodo coloniale: i governi occidentali hanno più o meno direttamente appoggiato governi corrotti in tutto il continente per avere dei tornaconti economici. Chi c’è dietro Bongo?
«Il fatto che la sicurezza nazionale del Gabon sia garantita dall’esercito francese dovrebbe dare qualche suggerimento. Nel 1964, l’unico caso di tentativo di colpo di stato, ai danni del presidente Leon Mba, predecessore di Bongo, fu sventato dall’armata francese. Nonostante ciò, la presenza occidentale è determinante fino a un certo punto: anche altri paesi hanno subito il colonialismo, ma poi si sono sviluppati e non hanno condizioni di povertà così gravi.
Il colonialismo e le influenze dall’estero sono spesso una scusa: il problema del Gabon sono i suoi governanti, non i governanti degli altri. L’attuale governo manca di intelligenza e visione del futuro. Basta guardarsi intorno: nel primo periodo dell’indipendenza sono stati distrutti i simboli del colonialismo, le case e i palazzi costruiti dai coloni. Ma questo non è servito a far rinascere una cultura africana; è servito solo a cancellare la storia e far crescere l’ignoranza dei gabonesi.
E questo ha anche creato dei problemi a livello internazionale: la mancanza della conoscenza del passato ha provocato delle tensioni con la Guinea Equatoriale a proposito delle acque territoriali. In pratica, è stato scoperto un giacimento di petrolio nei pressi di un isolotto, giusto al confine tra i mari dei due paesi, e nessuno è in grado di ricostruire a chi appartenga storicamente quella zona».

I confini africani sono delle linee rette disegnate dai governi delle potenze coloniali durante il Congresso di Berlino nel 1884. Ci sta dicendo che nessuno ha i documenti che provino le reali linee di confine?
«Non posso parlare per l’intero continente. Io conosco il Gabon, come immagino che voi italiani conosciate bene l’Italia, ma non siate contemporaneamente esperti di Germania, Francia o Gran Bretagna. Il caso dell’isolotto di Mbane è un po’ particolare: nessuno si era interessato ai confini, fino a quando non si è scoperto che la zona è ricca di petrolio. L’isolotto storicamente appartiene al Gabon. La Guinea Equatoriale lo ha ceduto al nostro paese circa 60 anni fa, durante il periodo delle indipendenze. La miopia del governo, però, è tale che la nostra amministrazione non è in grado di produrre il contratto originale, perché pare che si sia perso nei meandri della burocrazia.
Il mio giornale, Les Echos du Nord, ha dedicato una prima pagina a questo problema, anche perché sono anni che le Nazioni Unite fanno pressioni per risolvere la controversia. Ma il risultato che ho ottenuto è stata la chiusura del giornale per attività antipatriottica».

La stampa gabonese sembra libera, ma da quello che dice lei, anche questa è un’illusione. Qual è la situazione delle libertà di espressione?  
«Nonostante la nostra capitale si chiami Libreville, le libertà sono limitate a quello che non infastidisce il governo di Omar Bongo. I giornali sono controllati dallo stato e le intimidazioni sui giornalisti sono continue. La maggior parte delle pressioni non sono di carattere violento: sono anni che Bongo compra i suoi oppositori. Ogni anno i giornalisti che si comportano bene verso il governo vengono in qualche modo premiati e a ogni elezione ci sono brogli elettorali, fino a che uno dei partiti dell’opposizione non passa con il governo. Quest’anno siamo arrivati a 53 ministeri.
Bongo è ricco e usa i suoi soldi per comprare gli avversari. L’unica cosa che non divide mai è il potere. E infatti, quando il mio giornale ha pubblicato un articolo critico nei confronti della politica estera del Gabon a proposito dell’isolotto di Mbane, siamo tutti stati sospesi. Il giornale è stato riaperto quasi un mese dopo, solo in seguito a un mio sciopero della fame, ma su di noi le pressioni sono continue, al punto che anche il deputato dell’opposizione a cui facevamo riferimento ha gettato la spugna. Oggi è uno dei vicepresidenti del governo e non conta quasi nulla a livello decisionale. È solo molto più ricco di prima».

Sembra di ascoltare la descrizione di un sistema di poteri mafiosi. Chi è dentro ci guadagna e chi è fuori ha paura di protestare. Ma è possibile che nessuno di quelli che vivono nelle baracche insorga nei confronti dei gabonesi ricchissimi?
«Il lassismo è diventato un tratto del carattere dei gabonesi. La storia e le libertà politiche sono state soppresse per così tanto tempo che non ricordiamo più quali sono i nostri diritti e i nostri doveri. Siamo passivi: non troviamo il senso in quello che facciamo e ci siamo affacciati alla politica da troppo poco tempo per supplire con l’esperienza. Le libertà non sono limitate solo dalla politica del governo, ma soprattutto dall’ignoranza. Anche in Europa o negli Usa c’è ancora tanta ignoranza; ma se si pensa che a un gabonese povero l’istruzione costa tre-quattro volte tanto che a un europeo o a un americano povero, si capisce che la situazione qui da noi è decisamente più difficile. Basta pensare al fatto che in Gabon non ci sono trasporti pubblici e chi abita lontano dalla scuola o si paga un taxi o non ci va proprio. In una situazione come questa è facile capire che non può crescere una coscienza politica e tutti pensano al tornaconto personale. E in Gabon, negli ultimi 30 anni, non ci sono stati cambiamenti. Anzi».

La situazione del Gabon potrebbe essere senza dubbio migliore, ma a vedere questo paese, non sembra che le condizioni siano tanto peggio di quelle in cui vivono gli europei o gli americani. Anche in Occidente c’è degrado. In Italia meridionale ci sono quartieri popolari dove non arrivano la luce e l’acqua; nella periferia di Milano sono comparse le baracche. Sicuramente il Gabon sta meglio rispetto alla media dei paesi africani. Cosa ne pensa?
«È normale che la prima impressione sia quella di un paese che va a gonfie vele. Nei ristoranti di lusso che sorgono sul Bord de Mer  (la strada costiera di Libreville) i neri e i bianchi sembrano mescolati. Sembra che tutti abbiano la loro fetta di ricchezza. Purtroppo però nella realtà non è così. Tutto questo è uno spettacolo voluto dal presidente Bongo. L’intera capitale è una facciata di carta, a uso e consumo dei clienti dell’Hotel Atlantic o dell’Intercontinental che vengono a stringere accordi o a firmare contratti.
La stabilità di questo paese si fonda sulla paura. Contrasti e idee non sono stati armonizzati. Sono stati soffocati. Faccio un esempio: nel 1994 il governo ha firmato un accordo con alcuni paesi occidentali per lo smaltimento dei rifiuti tossici. Bongo non ha informato né il parlamento né tanto meno la cittadinanza. I rifiuti nucleari sono stati trasportati di notte nella foresta e seppelliti da qualche parte verso il nord-est del paese. Recentemente si è constatato che nella zona sono morti tutti gli animali e, quel che è peggio, la gente dei villaggi ha iniziato ad ammalarsi, perché le scorie radioattive hanno contaminato le falde idriche. Se il Gabon fosse un paese libero come si dice, di fronte a una situazione simile dovrebbe scoppiare uno scandalo. E invece si è sparsa la voce che c’era una epidemia di ebola per tenere lontano dalla foresta pluviale i giornalisti e gli osservatori inteazionali. Anche questa volta non si riesce a capire cosa è vero e cosa è falso. Nessuno infatti ha avuto il coraggio di andare a vedere di cosa si trattasse veramente».

Anche se questa storia è orribile, purtroppo non sarebbe la prima volta che viene data dai governi una visione distorta della realtà. Questo succede anche nei paesi a cosiddetta alternanza democratica. Può fare altri esempi?
«Parliamo allora delle elezioni e del peso della religione tradizionale nella vita politica di questo paese: ogni volta che ci si affaccia al periodo elettorale aumentano gli omicidi di ragazzini a scopo rituale. Gli uomini di potere sono spesso superstiziosi e ci sono forti sospetti che abbiano fatto sacrificare delle persone con la speranza di aumentare la loro ricchezza e le loro probabilità di vittoria. Generalmente si tratta di dicerie e di cose su cui è difficile fare chiarezza; ma poco tempo fa, qui a Libreville, è stata fermata una coppia di anziani che uccideva dei ragazzini per poi fae essiccare il corpo in posizione fetale. Quando i due furono arrestati, dissero solo che stavano portando il feticcio, questo corpo essiccato tenuto in un sacco, a un ricco cliente. Poi non si è saputo più nulla, perché le autorità preferiscono sempre negare.
Detto questo, ci tengo a sottolineare, che la religione tradizionale è praticata da quasi l’80% dei gabonesi e nella maggior parte dei casi non si tratta di riti cruenti. Rimane il fatto che, chi ricorre alle pratiche di omicidio, lo fa per aumentare il suo prestigio sociale e questo è quello che hanno imparato i gabonesi guardando il loro presidente. Le nuove generazioni capiscono solo il potere fine a se stesso».

Insomma, il problema del Gabon è sostanzialmente la sua classe dirigente. A sentire lei la situazione internazionale non c’entra quasi nulla. Eppure il Social forum tenuto a Nairobi incolpa l’Occidente dei problemi dell’Africa. Sono manie di protagonismo dei paesi occidentali anche queste? Ci sentiamo così determinanti nel bene e nel male, che abbiamo fatto un’analisi sbagliata?
«L’Africa ha tutte le risorse che servono per svilupparsi senza bisogno di aiuti estei. Molti africani lavorano o hanno lavorato nei grandi organismi inteazionali o hanno studiato negli Stati Uniti o in Europa. Io ho studiato in America e in Francia; altri miei colleghi adesso lavorano per grandi multinazionali e sono stati in Giappone, Russia e Cina. Molti di noi sanno cosa sarebbe necessario fare, ma il mondo politico è chiuso e il potere è gestito da due o tre famiglie che prendono le decisioni per tutti. Anche le industrie cinesi e malesi che stanno disboscando la foresta pluviale, per rifornire di legname le industrie asiatiche, e che adesso occupano le pagine dei vostri giornali, si muovono in Africa grazie agli appoggi dei governi locali. Il problema, in generale, non sono gli “altri”, quanto la mancanza di coraggio e di visione del futuro dei nostri governanti». 

A cura di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




SAMBA VIOLENTA

Le metropoli brasiliane nella morsa del crimine organizzato

Statistiche e sondaggi d’opinione rivelano come la gente in Brasile si senta ogni giorno meno sicura. Narcotraffico, miseria e corruzione sono il cocktail esplosivo che impensierisce la vita quotidiana degli abitanti del colosso sudamericano.

I l problema della violenza è una realtà con cui individui e società hanno sempre dovuto fare i conti nel corso dei secoli. Anche in Brasile l’opinione pubblica rimane ripetutamente scioccata di fronte a episodi violenti compiuti da organizzazioni criminali, a cui rispondono le forze dell’ordine con azioni altrettanto violente. Per non parlare di chi, come gli squadroni della morte, si arroga il diritto di «fare un po’ di pulizia» per proprio conto (o per conto terzi), contribuendo così a fare impennare le statistiche degli omicidi e a riempire le pagine di cronaca nera.
Nella società contemporanea, grazie soprattutto al potere dei media, la violenza viene trasformata in spettacolo e, attraverso questo processo, viene giorno dopo giorno banalizzata. È impressionante vedere la forma con la quale alimenta le pagine dei giornali e guadagna spazi televisivi.
Crimine, paura, violenza, sofferenza, dolore e morte sono elementi imprescindibili dell’esperienza umana, che vorremmo veder rimossi, cancellati, ma che non riusciamo a eliminare totalmente. Servirebbe una cultura della pace, la quale dipende dalla promozione di valori positivi e dalla vigilanza che persone e istituzioni riescono a mantenere sulla dimensione contraria, ugualmente presente, fatta di rivalità, egoismo, esclusione.
Senza un equilibrio stabile nella coesistenza dei due opposti sarà sempre impossibile costruire una società che possa garantire una convivenza minimamente accettabile fra gli esseri umani. Se le istituzioni sono assenti, le organizzazioni criminali hanno buon gioco a conquistare il vuoto lasciato da esse.

CIFRE INQUIETANTI
Il Brasile non fa eccezione. In questi ultimi tempi sono stati diffusi nel paese svariati sondaggi, aventi come tema la violenza. L’ultimo di essi in ordine di tempo, realizzato dalle Agenzie CNT e Sensus e divulgato lo scorso 10 aprile, indica come il 90,9% degli intervistati noti un aumento significativo della violenza nel paese. Soltanto il 5,2% ha affermato di non avvertire nessun incremento in materia di violenza, mentre il 4% non ha saputo esprimere la propria opinione.
La povertà e la miseria sono indicate dal 24,1% delle persone intervistate come le cause principali della criminalità; il 19,1% la attribuisce alla cronica mancanza di giustizia; un altro 19% ritiene che il narcotraffico sia la causa principale; il 15% ha colpevolizzato un sistema legislativo ritenuto troppo garantista; l’11% ha puntato il dito contro l’endemica corruzione della polizia; il 7,6% dà la colpa alla debolezza e disorganizzazione delle forze dell’ordine. La percentuale mancante, infine, non ha saputo che cosa rispondere.
Il sondaggio, realizzato in 24 stati della federazione e fondato su più di duemila interviste, ha anche riportato ciò che la popolazione pensa essere la causa principale dell’insicurezza in cui vive il cittadino brasiliano. Il risultato è inquietante, in quanto se il 71,7% ha attribuito la responsabilità della violenza nel paese ai criminali, ben il 20% ha indicato come colpevole della situazione l’azione violenta della polizia.
I cittadini intervistati hanno indicato nella violenza urbana la causa numero uno di insicurezza, invocando un’azione congiunta di tutti gli organi preposti a difendere il vivere comune e la tranquillità della popolazione, partendo dal governo centrale, per scendere a quello federale e via via toccando più capillarmente la società con azioni che partano dalle stesse amministrazioni comunali.
La grande copertura mediatica che i fatti criminali hanno nel paese ha contribuito a creare nella gente una sensazione diffusa di insicurezza, che si unisce alla rabbia che scatta di fronte ai tanti casi di impunità goduta da chi delinque. Questa sensazione fa sì che l’opinione pubblica esiga pene sempre più severe per tutti coloro che infrangono la legge.
Oggi, più della metà dei brasiliani è favorevole alla pena di morte, nonostante venga riconosciuto il rischio di possibili errori giudiziari. A tanto portano la frustrazione e il senso di impotenza avvertito dalla maggior parte della popolazione.
Nella valutazione del sondaggio presentata dal direttore dell’agenzia Sensus, Ricardo Guedes, la percezione che la gente ha della violenza in genere è maggiore della violenza reale. Questo dato è rafforzato dal fatto che, sebbene il 90,9% della popolazione riconosce un aumento significativo della violenza, solo il 16,8%, in realtà, ritiene di vivere in una città violenta. Infatti, un individuo può vivere degli anni o tutta una vita in città come Rio de Janeiro o San Paolo senza vedere o subire personalmente nessun tipo di violenza. I mezzi di comunicazione si incaricano di creare uno scenario di violenza più grande, dando ampia copertura ai fatti delittuosi.
Visto dal di fuori, si ha l’impressione che basti che il turista metta il piede in una città per essere attaccato da qualche bandito.

RIO: UNA LUNGA STORIA
DI VIOLENZA
Paura e violenza a Rio de Janeiro hanno percorso insieme un lungo cammino nella storia della città, attraversato secoli, guadagnando nuovi scenari e scatenando vecchie reazioni. Ciò non deve stupire: la violenza è alle radici del processo di formazione nazionale del Brasile. Pensiamo, ad esempio, all’epoca del commercio illegale del pau-brasil (un legname pregiato destinato al mercato europeo), quando si è dato inizio alla decimazione dei popoli indigeni nativi; oppure alla corsa all’oro, causa di avidità e violenza anche in Brasile. Per non tacere del traffico di schiavi. Tutto entrava, partiva e veniva trafficato nel porto di Rio.
Il senso di insicurezza nella città di Rio de Janeiro pervase tutto il periodo coloniale, cominciando proprio dagli inizi. Nella seconda metà del 16° secolo, la regione era stata invasa dai francesi, occupazione destinata a durare poco tempo, visto che già nel 1565 i portoghesi riuscirono a scacciarli dalla colonia.
Costante era, soprattutto, il timore del pericolo «esterno»: paura delle malattie portate dal traffico degli schiavi, delle invasioni straniere, di essere attaccati dai nativi. Questa angoscia, presente nella popolazione «carioca», scatenava reazioni di panico e paura anche in situazioni apparentemente innocue, come il semplice avvicinarsi di imbarcazioni sconosciute alla baia di Rio.
Anni più tardi, i francesi pianificarono nuovi attacchi contro la città e nel 1711 riuscirono a sconfiggere i portoghesi. Durante questi avvenimenti, grande parte della popolazione urbana si rifugiò in altre regioni, mentre le autorità, non potendo resistere, si arresero agli attacchi nemici.
Anche il traffico degli schiavi contribuì a creare grande preoccupazione alla popolazione urbana di Rio. Molti schiavi rimanevano esposti in vetrine per essere venduti; ma coloro che non avevano acquirenti potevano rimanere in città per giorni, settimane e anche mesi.
Gli abitanti, che già dovevano convivere con il disordine e l’insicurezza causati dalla mancanza di ordine pubblico, avevano anche paura di essere contaminati da malattie provenienti dalla povertà di igiene, che accompagnava il commercio degli schiavi venduti in città. Delinquenti comuni, schiavi, schiavi liberati, schiavi fuggitivi, zingari… tutto rappresentava una minaccia agli occhi degli abitanti di Rio, soprattutto della componente bianca.
Infine, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, con la crescita rapida e disordinata della popolazione urbana, si iniziarono a formarsi le favelas, quartieri di insediamento spontaneo, talvolta forzato, quasi sempre abusivo. In alcune di queste aree le istituzioni dello stato non si sono mai rese presenti, facendo di conseguenza mancare all’immensa popolazione di questi settori i servizi più elementari.
Vista l’assenza dello stato sul territorio, con l’andare del tempo gruppi mafiosi, legati al traffico degli stupefacenti, hanno occupato lo spazio lasciato vacante dallo stato, istituendo un vero e proprio «governo-ombra» a base criminale. I trafficanti stessi si sono da sempre incaricati di mantenere l’ordine all’interno delle favelas, facendo di tutto per non attirare l’attenzione della polizia.
Non sono però mancate vere e proprie guerre fra gruppi rivali per il controllo delle aree strategiche come i morros, le cime delle colline, le parti più alte delle favelas, da cui è facile tenere tutto e tutti «sotto mira».
La polizia e l’esercito entrano periodicamente in queste aree per tentare di non perdere completamente il controllo della situazione e «far vedere i muscoli». Queste guerre tra bande di narcos, la polizia e in alcuni casi le milizie di vigilanti, terminano quasi sempre con la morte di qualcuno: siano essi criminali, poliziotti o civili innocenti.
Il numero di giovani morti nelle favelas a causa della violenza urbana supera quello offerto dai bollettini di molte zone di guerra. Secondo il B’tselem, un gruppo israeliano impegnato nella difesa dei diritti umani, nel periodo compreso fra il 2002 e il 2006, sono morti 729 minorenni israeliani e palestinesi a causa della violenza in Israele e nei territori occupati. Durante lo stesso periodo, secondo i dati foiti dall’Istituto di sicurezza pubblica brasiliano, nella sola Rio de Janeiro sono stati assassinati ben1.857 minorenni.
Recentemente, il governatore dello stato di Rio de Janeiro, Sergio Cabral, ha chiesto al presidente Lula «l’uso delle forze armate per il periodo di un anno, al fine di garantire la legge e l’ordine nello stato, nella regione metropolitana e nella città di Rio de Janeiro». Nella dichiarazione pubblica resa dal governatore, si rileva come, «nonostante i ripetuti sforzi svolti in quest’area dal servizio pubblico, sia stato finora molto difficile, con le risorse disponibili, far fronte all’avanzata della criminalità che minaccia l’ordine pubblico e l’incolumità delle persone e del loro patrimonio».
L’appello è più che mai urgente in questo periodo in cui Rio si prepara ad essere la sede dei giochi panamericani, che avranno luogo nella metropoli «carioca» dal 13 al 29 luglio prossimo. L’avvenimento, che avrà per giunta un’attenzione speciale da parte dei media, esigirà un rinforzo significativo della pubblica sicurezza.
Si può dire che la Rio di oggi sia una miscela paradossale. Se da un lato fa sfoggio di bellissimi paesaggi e spiagge che portano in città milioni di turisti ogni anno, dall’altro assiste all’aumento esponenziale delle favelas, ubicate soprattutto sulle colline che circondano la città. La più famosa di esse è la Favela de Rocinha, la più grande e popolosa del paese. La gioia e il colore della samba, presenti ogni anno nella sfilata del carnevale, si armonizzano con le storiche partite di calcio nello stadio del Maracaná, con la statua del Cristo Redentore, ma si scontrano con le tragiche conseguenze prodotte dalle attività della criminalità organizzata.
Soprannominata la «città meravigliosa», Rio convive oggi con la sfrontatezza di un’organizzazione mafiosa comandata da fazioni criminali come quella del «Terceiro comando» o del «Comando vermelho», organizzazioni criminali responsabili di delitti efferati e dello stato di permanente insicurezza della popolazione.

DALLE CARCERI
DI SAN PAOLO
In Brasile, il crimine organizzato si infiltra fra le maglie della società civile, approfittando della poca intesa politica fra i governanti e della corruzione diffusa, che ammorba e indebolisce le istituzioni che dovrebbero combattere il crimine. Se a Rio sono attive le milizie criminali, a San Paolo agiscono pressoché indisturbati (e quasi sempre con la connivenza della polizia) gli squadroni della morte.
Secondo l’avvocato Ariel de Castro Alves, cornordinatore del Movimento nazionale dei dirittti umani, per capire meglio i conflitti a Rio e la violenza quotidiana che colpisce oggi il paese, è importante ricordare quanto è capitato a San Paolo negli ultimi anni con l’avvento del gruppo criminale «Primeiro comando da capital» (Pcc), nato nel 1993 nei pressi della Casa circondariale di Taubaté.
L’idea originaria dei fondatori del gruppo era quella di organizzare i detenuti attraverso un partito o movimento politico, avente il fine di lottare contro gli episodi di ingiustizia e violenza che avvenivano quotidianamente all’interno delle prigioni brasiliane: torture, umiliazioni e assenza di diritti elementari nel sistema carcerario. Il Pcc chiedeva anche che venisse resa giustizia ai 111 prigionieri uccisi dalle forze speciali della polizia militare nell’episodio conosciuto come il «Massacro del Carandiru», del 1992.
Con il tempo, l’organizzazione si è fatta più complessa e ha deviato dalle finalità originarie postulate dai suoi fondatori, rafforzandosi rapidamente a causa della precarietà che caratterizza il sistema carcerario brasiliano e dalla mancanza di volontà politica di voler affrontare di petto il problema. Nello stesso periodo, le autorità hanno limitato la presenza delle organizzazioni umanitarie nelle strutture carcerarie, impedendo l’ingresso di molti loro rappresentanti all’interno delle prigioni.
Senza più controllo e monitoraggio di alcun tipo e facendosi forza della corruzione vigente a tutti i livelli del sistema carcerario, il Pcc si è presto trasformato in una potente organizzazione criminale. Il suo dominio si è venuto via via affermando grazie a crimini compiuti dentro e fuori le mura carcerarie, sfruttando e ricattando altri prigionieri e loro familiari, accumulando ricchezza grazie al traffico di droga, imponendo terrore e morte a coloro che li avversavano o che tradivano. Non è neppure mancato l’aiuto benevolo di avvocati, funzionari dello stato, membri delle forze dell’ordine e altre figure «utili» arruolate in svariati settori della società.
Invece di agire con fermezza, lo stato ha preferito procedere al riconoscimento di leader e portavoce del movimento, mantenendo aperto con il Pcc un dialogo fatto di negoziati e accordi reciproci. Era sembrata una buona strategia quella di negoziare con pochi esponenti del gruppo, in grado di esercitare un controllo sugli altri membri dell’organizzazione.
Questo sistema ha funzionato soltanto per qualche anno. Il crimine organizzato nelle prigioni è cresciuto rapidamente, sfuggendo totalmente al controllo delle istituzioni. La prova di forza più importante del gruppo criminale si è avuta con la ribellione del febbraio 2001, che ha coinvolto 29 stabilimenti carcerari nello stato di San Paolo. Il trasferimento di prigionieri dallo stato paulista in altri istituti di pena del Brasile ha contribuito a far sì che l’organizzazione creasse ramificazioni e avesse appoggi in tutto il paese.
Nel corso degli anni 2001-2003, svariati attacchi contro poliziotti e tribunali sono stati attribuiti al Pcc. Tuttavia, il fatto di cronaca più eclatante risale al 12 maggio dell’anno scorso, quando il crimine organizzato ha dato inizio alle esecuzioni sommarie di agenti dello stato. Tra maggio e agosto, l’organizzazione avrebbe ucciso ben 59 persone in 3 ondate di attentati (poliziotti, guardie civili, agenti di custodia e civili) e si sono contate ribellioni e sommosse in gran parte degli istituti di pena, inclusi vari carceri minorili.
Sebbene lo stato di San Paolo sia stato quello maggiormente colpito da questi avvenimenti di violenza e panico, si sono contati disordini anche in altri stati del paese, come Espírito Santo, Paraná e Mato Grosso.
Dopo l’ondata di attacchi del 12 maggio, si è assistito alla «ritorsione» orchestrata dalle forze dell’ordine e degli squadroni della morte, in un insieme di violenze che ha portato a vere e proprie esecuzioni sommarie e massacri. Secondo i risultati delle autorità, tra il 12 e il 20 maggio 2006 sarebbero morte in totale ben 492 persone.
Altri dati foiti dalla «Segreteria di pubblica sicurezza» hanno dimostrato che nel secondo trimestre del 2006 sono state assassinate a San Paolo 1.888 persone: una cifra che corrisponde a più del doppio delle vittime avutesi in Iraq nello stesso periodo. Il terrore ha invaso la più grande metropoli dell’America Latina. La polizia ritiene che, in almeno 82 episodi, gli squadroni della morte si siano resi responsabili di omicidi e sparizioni, ma nessuno di questi casi è stato ufficialmente chiarito da polizia o magistratura. Le notizie sono negate dalle autorità e il Pubblico ministero ha finora avuto grandi difficoltà a reperire dati ufficiali e informazioni.
I testimoni temono ritorsioni e non credono nelle istituzioni, ragione che favorisce l’impunità di chi delinque. Oggi, un anno dopo gli attacchi da parte del crimine organizzato e la reazione sconsiderata di forze dell’ordine e squadroni della morte, la situazione è ancora propizia per nuovi scontri e altri massacri. Il sistema carcerario continua ad essere fuori controllo, la polizia non riesce a far fronte all’emergenza, la maggioranza delle famiglie degli agenti uccisi durante gli scontri non sono ancora stati indennizzati.

BABY CRIMINALI
Negli ultimi tre mesi, si sono verificati crimini che hanno generato un dibattito nazionale su violenza e realtà minorile. Il Congresso brasiliano sta pensando di applicare sentenze più dure per crimini che coinvolgono bambini e possibilmente ridurre l’età minima per poter giudicare i criminali adolescenti. Attualmente più di 300 progetti di legge sono stati presentati al Congresso nazionale, con proposte tendenti a ridurre la maggior età penale da 18 a 16 anni. Altri due progetti arrivano a proporre la riduzione dell’età rispettivamente a 14 e addirittura a 12 anni.
Enti come la Conferenza episcopale brasiliana e l’Ordine degli avvocati del Brasile (Oab) si oppongono duramente a queste proposte, che non vengono viste come soluzioni adeguate al problema della criminalità minorile. Anche due avversari politici come il governatore dello stato di San Paolo, José Serra, e il presidente Lula sono d’accordo che la diminuzione dell’età perseguibile non risolverebbe il problema della violenza causata da ragazzini e adolescenti.
La questione è annosa e controversa, perché una qualsiasi soluzione deve tenere in conto i parenti delle vittime della violenza minorile che esigono giustizia e, con indignazione, rifiutano tutto ciò che tutela i giovani che si macchiano di crimini anche orrendi. Alcuni casi in particolare suscitano vivaci dibattiti in seno all’opinione pubblica. Uno di questi, particolarmente odioso, si è verificato di recente a Rio de Janeiro e ha riguardato la morte del bambino João Helio, di appena 6 anni, rimasto impigliato nella cintura di sicurezza dell’automobile di sua madre, alla quale alcuni banditi stavano rubando la vettura. Tutti gli occupanti del veicolo erano riusciti a scendere, mentre il piccolo João non ce l’aveva fatta ed era stato trascinato per 7 chilometri.
Uno dei banditi aveva 18 anni al momento dell’aggressione: la pena detentiva che lo attende può variare da 20 a 30 anni di reclusione; il suo complice sedicenne, invece, potrà rimanere detenuto al massimo per 3 anni, secondo quanto prevede l’attuale legislazione.
Movimenti per i diritti civili e Ong continuano a fare pressione, esigendo che alle misure repressive in ambito di ordine pubblico, vengano associate misure preventive in ambito sociale. Il 10 aprile scorso si è realizzata una mobilitazione nazionale che ha attirato l’attenzione della società brasiliana e dei mezzi di comunicazione sulla necessità di migliorare il «Sistema nazionale di promozione socio-educativa» (Sinase) e di procedere a investimenti immediati e urgenti di politica pubblica.
La violenza, in Brasile come altrove, è un problema complesso, che presenta molte sfaccettature e dipende da innumerevoli cause. Una di queste è la proliferazione delle armi da fuoco, che si possono ottenere con esagerata facilità nel paese.
In Brasile, come in altre parti del mondo, regna una cultura della violenza e contro questo fenomeno c’è l’assoluto bisogno di educare le persone. Nel mese di ottobre 2005, per esempio, non è stato approvato un referendum che puntava all’esercizio di un controllo più capillare ed efficace del commercio delle armi.
Tuttavia il nuovo «statuto del disarmo», entrato in vigore nello stesso anno, è considerato rigoroso e moderno. Secondo la nuova legge, oggi dovrebbe risultare più difficile acquistare o avere accesso a un’arma. Peccato che alle buone intenzioni non si accompagnino sempre fatti concreti. Infatti, si continua a sapere di imprese che hanno aumentato la loro fabbricazione e vendita di armi sul mercato brasiliano. Ciò che rimane da stabilire è se queste armi vengono vendute legalmente…
Toccherebbe allo stato fare i controlli del caso, e applicare in modo severo una legge per altro già esistente. Ma si sà: i poteri sono molto deboli e la corruzione si tocca con mano in ambito giudiziario, legislativo, nelle forze dell’ordine e nelle istituzioni in genere. Come conseguenza si hanno indici molto bassi di controllo dei crimini e punizione dei colpevoli. La popolazione vive sfiduciata e insicura, cercando i mezzi di difendersi per conto proprio, con quello che trova.
Si può anche capire lo stato di confusione in cui il Brasile, oggi, sta vivendo. Non esistono facili vie di uscita, ma recuperare l’autorità dello stato di diritto e aumentare le politiche sociali sono misure indispensabili. 

Di Jaime Patias

Jaime Patias