Haiti / Il paese «suicida»

Senza legge: come nel Far West

Storia di ingerenze straniere e falsi messia. Il paese più povero delle Americhe è tornato nell’oblio. Un
governo che tarda ad affermarsi e lo strapotere delle bande armate
rendono la vita impossibile. Riforme radicali di polizia, sistema
giudiziario e rinnovo della classe politica sono necessari. Così come
veri programmi di sviluppo. Mentre un popolo tradito da tutti continua
la sua lenta discesa nel baratro.

Haiti:
un paese «suicida». Così gli esperti di cooperazione internazionale
classificano il piccolo stato caraibico. «Quello che si può tentare,
con gli aiuti, è frenae la lenta inesorabile discesa» confida un
esperto. Uno «stato in fallimento» secondo altri osservatori stranieri,
forse perché mancano alcuni degli elementi stessi costitutivi di uno
stato. Piccolo (poco più grande del Piemonte), ma sovraffollato (quasi
300 abitanti al km quadrato) e con una storia particolarmente
stravagante.
È qui che Cristoforo Colombo approda nel suo primo viaggio verso le
Indie e vi crea l’avamposto europeo nelle Americhe. L’intera isola
diventa spagnola  e i conquistatori ne massacrano gli indigeni
nativi. Nel 1697 la parte occidentale è ceduta alla Francia, che vi
instaura il suo sistema coloniale di sfruttamento. Vi importa centinaia
di migliaia di africani, in catene. Haiti diventa il più importante
produttore di zucchero per il mondo «civilizzato» di allora.
In una notte di agosto del 1791, con una cerimonia segreta sulle
montagne, il sacerdote vudù Boukman scatena l’impressionante rivolta
degli schiavi, che sarà guidata dal capo carismatico Toussaint
Louverture. Con la vittoria sulle truppe napoleoniche del generale
Leclerc, Haiti diventa il primo stato indipendente con popolazione nera
del mondo. È il gennaio 1804.

Ricorsi storici

Duecento anni dopo il popolo haitiano non festeggia: è di nuovo in
rivolta. Questa volta con la delusione e l’amarezza. Contro l’ex
salesiano Jean-Bertrand Aristide, che le comunità di base, soprattutto
della chiesa cattolica legata alla teologia della liberazione, avevano
portato alla presidenza con le prime elezioni democratiche (fine 1990).
Cacciato Duvalier, quattro anni prima, dopo tre decadi di feroce
dittatura, il movimento della società civile è forte e organizzato.
Haiti diventa un simbolo, anche per gli altri paesi latino americani.
Troppo per gli Usa di George Bush padre, che tramite la Cia,
organizzano il colpo di stato del generale Cédras. Altro sangue, ancora
violenza. La parola d’ordine è reprimere il movimento. Oltre 3.000 sono
i morti, molti i leader popolari. A fine ‘94 gli stessi Stati Uniti,
con Clinton, riportano Aristide al potere. L’ex prete è diventato molto
ricco, ha amici influenti tra i democratici Usa, incamera senza rendere
conto ingenti somme di aiuti inteazionali. Milioni di dollari. Quello
che resta degli intellettuali legati alla società civile haitiana
prende le distanze. Il suo entourage diventa composto da ex
duvalieristi, ex putchisti e personaggi di dubbia fama. Il paese
intanto va alla deriva, i poveri sono sempre più poveri. Le bidonville
della capitale Port-au-Prince si ingrossano di disperati. La gente,
soprattutto i contadini (oltre il 70%) sono disorientati. Si dice che
gli haitiani siano un popolo «messianico»: hanno bisogno di un leader
carismatico, un «messia». Aristide, il populista, l’imbonitore, ha
sempre incarnato questo ruolo. Riesce ancora ad alimentare un certo
sostegno con i discorsi. Ma quando questi non bastano più inizia a
distribuire armi e a organizzare bande armate a lui fedeli: nascono le
chiméres (chimere). Intanto si avvicina al narcotraffico: l’isola è
diventata uno dei corridoi preferenziali per la cocaina colombiana.

la «morte» dei diritti

È un periodo oscuro di brogli elettorali, minacce e omicidi politici.
Il 3 aprile del 2000 è assassinato Jean Dominique, decano dei
giornalisti haitiani e combattente per la democrazia. Aveva nel suo
cassetto alcuni dossier scottanti sull’ex salesiano. Il principale
indagato è il senatore Dany Toussaint, del partito di Aristide, suo ex
capo della polizia e sospettato di vari crimini. Quel che resta della
società civile ha un sussulto. La classe politica è all’impasse.
L’opposizione non ha figure di rilievo, ma chiede le dimissioni di
Aristide indicandolo come il responsabile del caos in cui versa il
paese. La comunità internazionale condiziona gli aiuti allo sblocco
della questione elettorale (le elezioni del ‘97 e del 2000 furono
contestate dall’opposizione e dagli osservatori): i rubinetti restano
chiusi.
E arriva il 2004: l’anno del bicentenario dell’indipendenza. All’inizio
di febbraio il malcontento crescente prende la forma dell’insurrezione
armata. Noti personaggi del passato, ex militari, ex golpisti e
squadristi, ma anche ex sostenitori di Aristide, tutti professionisti
della violenza non tardano a prendere la guida dei rivoltosi. Esiste
anche l’opposizione non violenta, delle organizzazioni politiche e
della società civile (riuniti nel Gruppo 184) che manifesta sotto i
tiri dei fucili mitragliatori in mano alle gang di Aristide. Gli Usa di
George W. Bush e la Francia tentano una mediazione: per evitare il
bagno di sangue fanno pressioni sul controverso presidente, affinché
lasci il paese. 
Aristide fugge il 29 febbraio e si instaura un governo di transizione
che porterà alle elezioni (rinviate ben cinque volte) a febbraio 2006.
La comunità internazionale invia un contingente di caschi blu, la
Minustah (Missione per la stabilizzazione di Haiti), inizialmente di
composizione Usa, Canada e Francia e poi sostituita da sudamericani,
sotto il comando brasiliano (circa 7.500 militari e 2.000 poliziotti
del Unpol).
Oggi il presidente è l’agronomo Réné Préval, già primo ministro di Aristide nel 1991, poi presidente dal 1996 al 2001.

Difficile guardare al domani

Secondo Gotson Pierre, giornalista haitiano del sito Alterpresse,
Préval di oggi è diverso dal fantoccio pilotato da Aristide di ieri:
«lo slancio autoritario del primo mandato sembra aver lasciato il posto
a un maggiore spirito di apertura e di consenso. A livello della sua
politica economica, però non sembra ci siano troppi cambiamenti: domina
la visione neoliberale. Il presidente ha già annunciato la
privatizzazione della compagnia telefonica». E i suoi legami con
Aristide? «Durante la campagna elettorale ha mostrato una certa
autonomia, e avrebbe manifestato in privato la sua distanza. In
pubblico, avvalendosi della costituzione che non prevede l’esilio, non
si oppone al ritorno di Aristide, ma neanche a un suo processo.
Nonostante questo, la denuncia contro l’ex presidente depositata presso
il tribunale di Miami dal governo di transizione è stata ora ritirata».

Préval è stato eletto con più del 50% dei voti, il che dimostra che ha
un certo sostegno popolare, «tuttavia la situazione potrebbe degenerare
rapidamente se il governo non otterrà dei risultati concreti nel medio
periodo a livello della sicurezza e a quello socio-economico» continua
il giornalista.
«La situazione è molto complicata – racconta un intellettuale haitiano
che vuole mantenere l’anonimato – c’è innanzitutto l’insicurezza. Ci
sono ancora molte armi in circolazione, quelle che furono distribuite
da Aristide alle bande da lui finanziate. Anche ai bambini. Il paese è
in mano alle gang armate. Alcune sono di origine politica, altre di
delinquenti comuni. Gli Usa hanno rispedito ad Haiti decine di banditi
che erano nelle loro prigioni e che avevano imparato i metodi della
gang da loro». La violenza, che da sempre caratterizza la storia del
popolo haitiano, è oggi ai suoi apici, in un teatro particolarmente
confuso.
Racconta un missionario italiano, da anni nel paese: «La gente vive
nella paura, nonostante lo spiegamento delle forze dell’ordine locali
ed inteazionali (Minustah e Unpol, ndr), anche se ci sono momenti di
tregua. Le bande di ogni tipo, rivali tra loro, hanno armi sofisticate»
.

Tra realtà e leggenda

Le gang armate sono conosciute, hanno capi storici, figure quasi
mitologiche, con storie di vendette, assassini e successioni violente.
Operano in quartieri il cui nome fa tremare. Come Amaral Duclona,
potente capo di una delle bande di Cité Soleil (enorme bidonville della
capitale Port-au-Prince): molto vicino ad Aristide, ha anche supportato
la campagna di Préval. È il successore di Tupac (soprannome ispirato da
un celebre rapper statunitense), ucciso da una banda rivale. La storia
di Tupac è già diventata un film.
Amaral, teoricamente ricercato dalla polizia, guida anche le
manifestazioni di piazza che invocano il ritorno di Aristide, e la
partenza della Minisutah, come nel 9 novembre scorso.
L’«esercito del piccolo macete», della zona Martissant – Carrefour ha
partecipato a due recenti sanguinosi massacri in agosto 2005 e luglio
2006, in scontri con la polizia o altre gang. O ancora l’«esercito
cannibale» che domina la città di Gonaives.
«C’è stata una tregua solo durante le votazioni, imposta da Préval, ma
ora le cose ritornano confuse, anche se i media non ne parlano. I morti
tra le diverse fazioni, forze dell’ordine, cittadini comuni, compresi i
bambini, davvero non si contano. Disordini e blocchi stradali, scioperi
a ripetizione, magazzini chiusi, ambulanti e dettaglianti che si danno
alla fuga, la gente nel panico». Continua il missionario. «Bel Air, nei
pressi della Cattedrale, rue Pavé, Poste-Marchand, (tutte zone centrali
della capitale, ndr) sono covi di banditi, che sparano all’impazzata e
lanciano sassi contro le macchine che si avventurano nei paraggi. Senza
parlare dei cumuli di spazzatura in decomposizione, che tappezzano le
strade di Port-au-Prince, dandone un’immagine deturpata e ributtante».

Quando non sai cosa fare …

Uno dei sistemi utilizzati dalle gang di ogni tipo per finanziarsi è il
rapimento a scopo di estorsione. Fenomeno comparso a fine 2004, conta
decine di vittime tutti i mesi, soprattutto nella capitale. Da un
minimo di 14 persone rapite al mese al picco di 115 dello scorso
agosto, secondo solo alle 241 del dicembre 2005. «Sono comprensibili i
disagi di chi è obbligato a spostarsi in città per acquisti, per
consultazioni o ricoveri in ospedale», dice il missionario.
La paura dei rapimenti, in molti casi anche per motivi politici, sta
causando la fuga di cervelli e la chiusura di esercizi commerciali.
«Molti professionisti (ingegneri, medici, bancari) sono fuggiti in Usa,
Canada, ma anche a Cuba. Molte ditte, imprese hanno chiuso i battenti».
Mentre continua la triste storia dei boat people: «A migliaia i poveri
varcano le frontiere di Haiti per la Repubblica Dominicana e spesso
sono malamente rimpatriati. Mentre altri in battelli di fortuna tentano
di raggiungere la Florida, ma solo pochi sono stati fortunati… ».
Questi fatti hanno un impatto negativo anche sull’economia, come
ricorda l’intellettuale haitiano: «Le casse sono completamente vuote.
Occorrono investimenti per rimettere il paese in piedi. Gli investitori
vedono interessante la possibilità dei bassi salari, ma senza sicurezza
e senza infrastrutture è impossibile lavorare. I rapimenti scoraggiano
ulteriormente. Occorre quindi il disarmo per poter sperare di
sviluppare il paese».
Ad Haiti la maggior parte delle strade sono disastrate (l’Unione
europea ne sta riasfaltando alcune), non ci sono i ponti e manca
l’elettricità perfinonella capitale.

Primi in corruzione

La violenza è alimentata dall’impunità, che è la regola ad Haiti. E
questa è figlia della corruzione. L’Ong Transparency Inteational,
tutti gli anni pubblica la classifica dei paesi del mondo in base alla
corruzione. La classifica del 2006, resa nota a novembre, ha visto
Haiti ultimo classificato su 163 paesi valutati (l’Italia è 45sima),
subito preceduto da Guinea, Iraq e Myanmar a pari merito.
«La corruzione ha impregnato ogni settore socio, politico ed economico
del paese. Il sistema della giustizia è totalmente corrotto. Ecco
perché c’è un ritorno delle esecuzioni sommarie: se un ladro viene
scoperto, è immediatamente ucciso. In caso contrario, se arrestato se
la caverebbe pagando la polizia o il giudice e poi toerebbe a
vendicarsi su chi lo aveva fatto catturare» racconta il nostro
interlocutore.
In un recente rapporto l’Inteational Crisis Group (Icg, ottobre 2006)
esamina la situazione della sicurezza e mette in evidenza le debolezze
dello stato, come la mancanza di autorità e controllo. Raccomanda
nell’immediato una profonda riforma della polizia, con sostituzione di
ufficiali e uomini ai diversi livelli e del sistema giudiziario, per il
quale occorre formare una nuova classe di giudici. Fondamentale è lo
smantellamento delle bande armate e anche il controllo di frontiere e
porti, precisa il rapporto. «Haiti farà un passo avanti solo quando i
cittadini sentiranno una restaurazione dell’autorità dello stato e del
regno della legge nella vita quotidiana» ha dichiarato Mark Schneider,
vice presidente dell’Icg. «Questo esige un repulisti nella polizia,
l’eliminazione della percezione dello stato come sorgente
d’arricchimento personale e la creazione di prospettive per i poveri».
Il rapporto richiama, inoltre, la comunità internazionale a impegnarsi
nel medio e lungo termine ad appoggiare Haiti con investimenti su
educazione, sviluppo rurale e infrastrutture urbane. Ma anche
riforestazione e recupero ambientale sono essenziali.

Armi, rapimenti e … coca

Il tutto si intreccia con il crimine internazionale legato ai traffici.
«C’è la questione della droga. L’entourage di Aristide ne era
largamente coinvolto. Ad esempio il capo della sua guardia
presidenziale, Oriel Jean è oggi in prigione negli Usa per
narcotraffico» ricorda l’intellettuale anonimo. «Gli ingenti proventi
di questo commercio sono il veleno per Haiti. Il paese è un importante
crocevia per la cocaina proveniente dalla Colombia in direzione di Usa
e Canada». È stato stimato che un terzo della cocaina colombiana
destinata agli Usa passi da Haiti, mentre i tre quarti di quella
sequestrata negli aeroporti di Montreal tra il 2000 e il 2004 aveva la
stessa provenienza.
Il traffico divenne importante fin dai tempi del colpo di stato di
Cédras (1991) per continuare a crescere, protetto dall’instabilità
politica, e agevolato dalla «porosità» delle frontiere. I narcos usano
piccoli aerei che dalla Colombia atterrano su piste rudimentali, con la
connivenza di autorità locali e polizia. Anche nei pressi della
capitale c’è una di queste piste. La droga non è consumata in loco,
perché gli haitiani sono troppo poveri, ma il denaro del traffico
alimenta tutto il sistema della corruzione.

«Disarmare o morire»

Il governo di Préval e del primo ministro Jaques-Edouard Alexis tenta
di intervenire, con apparente fermezza, ma troppo timidamente nella
realtà. «Il governo attuale non è in fase con le attese della
popolazione – sostiene Gotson Pierre – riscontriamo piuttosto un certo
lassismo e lentezza. Il perdurare dell’insicurezza e della violenza,
soprattutto a Port-au-Prince, e la gestione esitante, non trasmettono
un segnale positivo». Un programma di disarmo, smobilitazione e
reinserzione (sul modello di quelli attuati nei paesi in guerra) per
gli uomini delle gang è stato lanciato e una commissione nazionale
recentemente istituita. Gli ennesimi piani di ristrutturazione della
polizia e del sistema giudiziario sono in elaborazione, ma devono
essere attuate riforme radicali.
«Usano il bastone e la carota: si danno un’aria di fermezza ma poi
invitano i capi gang al palazzo presidenziale» osserva l’intellettuale.
«Disarmare o morire» aveva lanciato Préval lo scorso agosto sulle onde
radio. In effetti questo è il punto su cui il presidente si è più
investito, coadiuvato da Minsutah e Unpol (polizia internazionale) ma,
finora, senza troppo successo.
E il movimento popolare che era riuscito a liberarsi di Duvalier?
«La società civile ha poca influenza in questo momento. I contadini
sono stati delusi profondamente da Aristide, e non osano dirlo. Allo
stesso tempo la miseria li costringe a impiegare le loro energie più
per sopravvivere, trovare da mangiare, piuttosto che per organizzarsi a
partire da zero. Qualche segnale positivo c’è» continua
l’intellettuale.
«Spero che la società civile possa rimettersi in piedi, adesso è in “ibeazione”».
«Esiste ancora qualche rete, ma gli interventi sociali si manifestano
oggi più sotto la forma di lobbing e non di mobilitazione popolare»
osserva Gotson Pierre.
La chiesa, soprattutto alla base, è rimasta «bruciata» da una scelta,
quella dell’ex sacerdote salesiano, che la storia ha rivelato
fallimentare. «La chiesa haitiana tace. La Conferenza episcopale è
divisa, ancora oggi, tra pro e contro Aristide. Non c’è stato un
pronunciamento a favore delle vittime di sequestri, violenze carnali
alle donne, torture» racconta il missionario. «Nessuna presa di
posizione ufficiale per denunciare le ingiustizie che si perpetrano
continuamente. Un intervento, isolato, da parte del vescovo della
capitale, Mons. Sérge Miot, dopo il sequestro del missionario italiano
Gianfranco Lovera (agosto 2005, ndr), che invitava le autorità a
operare per debellare la violenza, diventata sistema, e la polizia a
intervenire con decisione per fermare i banditi».

Il grande manovratore

La debolezza, o talvolta la connivenza, delle istituzioni statali,
hanno lasciato spazio alle bande armate e alla loro violenza. Molte di
queste sono legate all’ex presidente Aristide, e c’è chi sostiene che
questi riesca a controllarle dal suo esilio dorato in Sud Africa. Molti
temono un suo ritorno, altri, soprattutto le chimères lo 
invocano. L’intellettuale: «Aristide sta cercando di prepararsi il
terreno per tornare. Agisce di nascosto, sotto, sotto. Questo è molto
pericoloso». Gotson Pierre: «Nelle strutture politiche e nello stato ci
sono ancora uomini di Aristide. Il suo partito Fanmi Lavalas pur
minoritario, è rappresentato in parlamento. Penso che non possa avere
un futuro politico ad Haiti, almeno non ufficiale, ma potrebbe
manovrare nelle retrovie».
«Haiti non è uno stato in fallimento, ma uno stato in grande
difficoltà» ha recentemente dichiarato Préval. Potrebbe apparire tale
ai tecnocrati perché è obbligato «a smantellarsi per finire di essere
uno strumento d’esclusione e oppressione». 

Marco Bello

Il volontario racconta …

Ritoo ad Haiti

Dajabon, frontiera nord tra la Repubblica Dominicana e Haïti. Un
placido rivolo separa i due paesi, qualche bambino sgambetta nell’acqua
per riempire le taniche, alcune donne si bagnano, altre fanno il
bucato, e non diresti mai che quel rigagnolo si chiama «Rivière du
Massacre». Il ricordo delle aspre battaglie con cui nel XVII secolo
spagnoli e francesi si contendevano la colonia, è stato sostituito
dalle più recenti centinaia di morti ammazzati o annegati, nella triste
guerra tra poveri tra dominicani e haitiani, in cerca di un posto
migliore in cui vivere.
Carichiamo le valigie su un carretto, unico mezzo per attraversare il
piccolo ponte presidiato dai militari dominicani. Il colore della mia
pelle e il mio passaporto ci salvano da strattoni, schiaffi e pugni che
poliziotti in borghese dispensano a chiunque sia in transito, perché
oltre che pagare il visto bisogna pagare il pizzo o comunque lasciare
qualcosa.
È questa la nostra porta d’ingresso in Haiti, essendo chiuso l’altro
principale passo frontaliero del sud, Malpasse. Ostaggio di una gang
armata che vuole controllare i traffici di chi, doganiere,
contrabbandiere, piccolo commerciante, camionista o conducente di
autobus, con la frontiera sopravvive.

Rieccoci in Haiti, dove le poche ore previste per il viaggio si sono
già trasformate in una settimana di vana attesa alla frontiera chiusa,
e poi in tre giorni di autobus e jeep per percorrere trecento
chilometri. Questo peregrinare è reso meno faticoso dall’ospitalità
straordinaria di chi si fida di te, non perché ti conosce, ma perché
gli fai il nome di un amico comune. Allora ti dà da mangiare, ti mette
una camera a disposizione o ti procura un passaggio in auto.
Dopo colline a perdita d’occhio, finalmente il mare, con la sagoma
soiona della leggendaria isola della Tortuga: è l’inconfondibile baia
di Port-de-Paix. La lontananza anche fisica dalla capitale ha permesso
a questa città di essere un vero «porto di pace», senza i disordini e
le violenze dovuti alle varie crisi politiche. Tranquillità pagata
tuttavia con una totale dimenticanza e abbandono da parte delle
istituzioni centrali e dai vari programmi di sviluppo.
Fondata dai bucanieri, la città non ha perso la tradizionale vocazione
«piratesca» ed è sopravvissuta grazie al contrabbando, alla tratta dei
disperati in partenza verso le Bahamas come boat-people, e ora al
traffico della droga.
Capita così che dove c’erano soltanto vecchie case o baracche troviamo
ora villette. Un po’ ovunque: per costruire hanno mangiato la spiaggia,
scavato le colline. Hanno edificato perfino su uno stretto istmo di
sabbia che divide il mare da una palude, bonificata con
approssimazione. Ogni volta che piove un po’ di più, si intuisce quella
che sarà una strage annunciata.
La popolazione è cresciuta. Molti sono quelli che hanno preferito
ritornare a casa, abbandonando il lavoro o gli studi che avevano
trovato nella capitale Port-au-Prince, divenuta invivibile a causa
delle violenze.
Altri ancora arrivano da Gonaives, altra città del paese politicamente
molto calda e funestata due anni fa da un’inondazione che causò più di
4 mila vittime.

Il quartiere di Myriam sembra essere sempre lo stesso. Soffocata dalle
case, la stessa strada impossibile da percorrere si abbarbica su per la
collina. Dalla terra affiorano i tubi dell’acqua, vecchie scarpe,
rifiuti, copertoni. Sembrano gli stessi di due, quattro, quindici anni
fa.
Le traballanti bancarelle del mercatino, i banchetti per giocare al
lotto, le casette di legno dei piccoli spacci alimentari. La vecchia
carcassa del pullman di Sonson, ancora lì, parcheggiata sul ciglio nel
punto di pendenza massima, sempre ciondolante di bambini giocosi.
I cortili delle case, gli stessi consunti tavoli da domino all’ombra
delle piante, i galli da combattimento legati, i panni stesi sulle
aiuole di piante spinose. La stessa risata fragorosa di Emilién è il
benvenuto del quartiere, e anticipa l’abbraccio di parenti e amici.
Anche i nipotini mi sembrano sempre gli stessi, mi chiedo per un
attimo: non crescono mai? Poi mi rendo conto che non sono più venti, ma
ventiquattro, e quella che pensavo fosse Charlanda in realtà è la
sorellina più piccola… mi ci vuole qualche giorno, e recupero la
dignità di un buon zio che sa riconoscere tutti.

Gli stessi aquiloni ingarbugliati ai fiacchi fili della luce, spesso
inutili. Le serate a raccontarsela tra vicini, dopo l’eterno miracolo
di arrivare alla fine della giornata con poco. Perché se molto è
rimasto uguale, quello che continua a cambiare sono i prezzi,
soprattutto degli alimenti di base: riso e prodotti orticoli stanno
diventando un lusso senza alternativa, e il commercio è limitato dai
costi enormi e dalle difficoltà degli spostamenti.
Passa un funerale: la sfilata di ottoni della banda, uniformi pesanti
sotto il sole, ombrelli, vestiti a balze di organza. Anche questo non è
cambiato. Si muore, tanto, per nulla. O, meglio, non esistono diagnosi
e chi di «guaritore» ha solo il nome è ancora considerato meglio che un
medico.
Per questo molti non ci sono più. Rimane il coraggio e la forza di chi
resiste in un paese dove nulla al momento può far presagire un domani
migliore, se non il fatto di esserci, comunque.

Alessandro Demarchi*

*Volontario ad Haiti dal ‘93 al ‘96 dopo un primo viaggio nel 1991, non
ha mai cessato di seguie le vicende, anche con frequenti visite. Vive
con la moglie, originaria di Port-de-Paix, e due figli a Torino, dove
lavora per una Ong piemontese come esperto di fund raising.

Cronologia essenziale

1492 Cristoforo Colombo sbarca
nel nord ovest dell’isola, vi installa il primo insediamento europeo
del nuovo mondo. Inizia la decimazione della popolazione autoctona, i
Taino. La colonia si chiama Hispaniola.
1697 Con il trattato di Ryswick la Spagna cede alla Francia la parte occidentale dell’isola che prende il nome di Saint Domingue.
1791 Inizia la rivoluzione degli schiavi guidata da Toussaint Louverture.
1804 Proclamazione
d’indipendenza, e sconfitta dell’armata napoleonica. Durante la guerra
muoiono 100 mila ex schiavi e 20 mila francesi. Il Paese prende il nome
di Haiti. La popolazione bianca fugge all’estero.
1915-1934 Occupazione Usa.
1957-1986 Dittatura dei Duvalier: François «Papa Doc» e Jean Claude «Baby Doc» che fuggirà dal paese, a causa del sollevamento popolare.
1986-1990 Periodo di giunte militari e presidenti de facto. Tentativi, falliti, di elezioni.
1990 16 dicembre: elezioni con
osservatori Onu. Vittoria popolare del movimento Lavalas: Jean-Bertrand
Aristide presidente con il 67% dei voti.
1991 30 settembre: dopo soli 7
mesi colpo di stato militare. Il generale Cédras si autonomina
presidente. Aristide in esilio. Oltre 1.500 assassii in una settimana.
Smantellamento del movimento popolare. I militanti di Lavalas sono
costretti alla resistenza passiva e alla clandestinità.
1991-1994 Dittatura militare
capeggiata da Raul Cedras. L’Onu decreta l’embargo verso Haiti.
Aristide è riportato dai marines Usa (20 mila unità) nell’ottobre del
’94.
1995 dicembre: nuove elezioni
e vittoria del candidato del partito Lavalas, Renè Préval. Aristide non
può candidarsi  perché la costituzione non prevede due mandati
consecutivi. Préval resta in carica fino a febbraio 2002.
2001 Aristide diventa, per la seconda volta, presidente della Repubblica.
2004 29 febbraio il presidente
Aristide, a causa delle forti  pressioni intee ed inteazionali
(Francia, Usa, Canada), lascia il potere e parte in esilio, prima in
Centrafrica e poi in Sudafrica.
2004 1 marzo: il Consiglio di
Sicurezza dell’Onu approva l’invio di una forza internazionale (Usa,
Francia e Canada) che verrà rimpiazzata nei mesi successivi dai caschi
blu delle Nazioni Unite (Minustah). 
2004 17 marzo: G. Latortue (ex
ministro degli Affari esteri, 1988) diviene il Primo ministro di un
governo di transizione incaricato di organizzare le elezioni generali.
2004 30 settembre: alcuni
sostenitori dell’ex presidente Aristide reclamano il suo ritorno e
lanciano una serie d’attacchi violenti, sono più di 400 i morti fino al
gennaio 2005.
2005 31 maggio: un attacco nel
centro della capitale, attribuito a partigiani dell’ex presidente
Aristide, fa almeno 10 morti tra la popolazione civile.
2005 ottobre-dicembre: nella capitale drammatica escalation della violenza e dei rapimenti a scopo d’estorsione.
2006 7 febbraio: dopo essere
state rimandate per cinque volte, si svolge il primo tuo delle
elezioni presidenziali e parlamentari. Préval dichiarato vincitore, si
insedia il 14 maggio. A dicembre amministrative e legislative parziali.

Marco Bello




AFRICA, la mia terra

Incontrare le culture: imperativo per la convivenza e urgenza pastorale

Danze, canti, poesie e conferenze in un convegno «a tutta Africa». Incontro – confronto con il mondo africano attraverso il racconto fatto dagli immigrati presenti in mezzo a noi; per iniziare a conoscee cultura, mondo spirituale e stile di vita.

Viene da sorridere con un po’ di amarezza leggendo questi versi. Dove si nasconde quest’Africa così bella? Africa, dalla natura contaminata per i troppi scempi provocati dall’uomo: ambientali, sociali, politici. Contaminatissima Africa, donna che tutti vogliono e tanti, troppi possiedono, gente che fa  di tutto, ma proprio tutto, per poterla conquistare.
Questi versi, però, li ha scritti Osmund, un nigeriano grande e grosso, immigrato in Italia come tanti suoi connazionali e con, probabilmente, una lunga storia alle spalle da raccontare; questi versi li ha scritti per un’occasione speciale: non per parlare della nuova terra che lo ospita o del viaggio fatto per raggiungerla, bensì per raccontare qualcosa del mondo da cui viene, dell’Africa che ha lasciato, dell’amore per il suo continente.
«L’Africa si racconta» è il titolo di una giornata speciale di musica, immagini e parole dedicate al continente africano, che si è tenuta a Torino il 18 novembre scorso, presso i missionari della Consolata. Promosso dall’«Ufficio di pastorale migranti» della diocesi torinese, l’incontro è stato un’occasione di ascolto e confronto su vari aspetti del mondo africano e della sua cultura vissuti nell’esperienza di immigrati presenti in mezzo a noi. Oltre a Osmund hanno partecipato Kenneth, Marie Noelle, Restituta, Peter, Jean Nöel ed Erasto, provenienti da parti diverse del continente, ciascuno con la propria esperienza di vita e la voglia di condividerla. Tutta africana è anche stata l’organizzazione dell’evento, che ha avuto come motore trainante la comunità ecumenica nigeriana (con l’accompagnamento dei missionari e delle missionarie della Consolata) e la collaborazione di altre comunità africane presenti a Torino.  L’idea di fondo è stata quella di lasciare che, per una volta, l’Africa potesse raccontarsi facendo emergere la propria storia dalle storie  personali dei suoi protagonisti, senza servirsi, come sovente accade, delle mediazioni. Il rischio che si voleva evitare era duplice: da un lato lasciare che l’Africa venisse raccontata, come spesso accade, da non africani. Dall’altro, l’appiattirsi in attività, anche pastorali, concepite senza tener conto di una diversità che reclama attenzioni particolari alle varie identità culturali. Si è voluto evitare anche l’apporto di specialisti, privilegiando la freschezza e la spontaneità dell’approccio all’approfondimento. Quattro chiacchiere tra amici o, meglio, tra gente che vuole essere amica, su temi importanti su cui si gioca la sfida del vivere insieme. Si è voluto che l’Africa raccontasse se stessa grazie alla voce di chi, nel cuore, nella mente e sulla pelle, fa leggere agli altri con chiarezza, orgoglio e semplicità il suo essere africano.
Osmund si è imbarcato in un tema difficile: la religiosità africana nel mondo del bene e del male. Ne ha parlato con entusiasmo, non da specialista, ma da persona impegnata per anni in un gruppo ecumenico che a Torino riunisce cristiani di varie confessioni, tutti di origine africana e di lingua inglese. Il suo è stato un viaggio all’interno della religiosità tradizionale, per cercare di spiegare con parole semplici il mondo dei simboli, dei riti, del mistero che influenza la visione del cosmo e l’etica dell’uomo africano. Osmund ha fatto accenno al carattere pervasivo della religiosità africana, che coinvolge la totalità della vita della persona e della comunità: nascita, matrimonio, famiglia, posterità e morte. Ha fatto accenno al difficile rapporto fra religione ed etica, con il ruolo centrale giocato dal sacerdote tradizionale, capace di influenzare la comunità attraverso il potere che gli viene attribuito dalla sua speciale relazione con il mondo degli spiriti. Un accenno importante è stato anche fatto in merito ai cambiamenti che la modeità ha apportato e continua ad apportare nel modo in cui gli africani si relazionano oggi con il trascendente.
Il carattere fortemente impregnato di religiosità della vita africana coinvolge, come si è detto, altri aspetti dell’esistenza. Kenneth, ad esempio, anch’egli nigeriano e impegnato nel gruppo cristiano-ecumenico, ha dedicato la sua riflessione al tema «famiglia e comunità». Analizzando gli stereotipi che più frequentemente deve ascoltare su questo argomento, Kenneth ha toccato temi come la famiglia tra tradizione e modeità, la poligamia, il clan, riassumendo il forte vincolo che si viene a creare fra membri della stessa famiglia con il detto africano: «Io esisto perché gli altri esistano». Il senso della comunità è così forte che la persona finisce con il non contare in quanto singolo, ma soltanto come membro della comunità. Nella sua relazione ha evidenziato come il tentativo di affermare la propria individualità venga considerato dagli altri membri della comunità come vero e proprio desiderio di prevaricazione. Ciò che si deve perseguire non è il vantaggio personale, ma l’interesse della famiglia, sia nucleare che allargata.

Il tema della famiglia ha trovato il suo sbocco naturale nella riflessione offerta da don Jean Nöel, sacerdote del Madagascar attualmente in servizio presso la diocesi di Torino. Attraverso la virtù dell’ospitalità, la forte unione familiare africana si apre verso l’esterno, verso l’accoglienza dello «straniero». L’ospitalità è rispetto, dono, dialogo. Come il relatore ha ricordato, l’ospitalità africana tradizionale trascende il confine segnato dal focolare domestico, ma si apre a tutti gli ambienti di socializzazione. La scuola, gli ospedali, gli uffici, ma soprattutto la strada, sono ambienti dove l’ospitalità viene riconosciuta come una virtù tra le più importanti, come un vero e proprio segno di accoglienza.
Suor Restituta, missionaria della Consolata tanzaniana, ha ricordato come tutti i valori in discussione (famiglia, comunità, ospitalità, religiosità) passino attraverso il ruolo della donna.  «Una donna è un fiore in un giardino – recita un proverbio del Ghana con cui suor Restituta ha voluto iniziare il suo intervento – suo marito è la recinzione intorno a lei». Vera «pietra angolare» della famiglia, la donna è l’agente propulsore della società africana: «È attraverso la sua fantasia, il suo duro lavoro, il suo elevato senso del rispetto reciproco che, ogni giorno, viene rafforzata la vita della famiglia e della comunità». Partendo dalla figura della donna, sottolineandone gli stravolgenti ritmi di lavoro quotidiano per mantenere la propria famiglia, suor Restituta si è spinta a fare delle considerazioni importanti anche sul senso stesso del lavoro e sull’uso del tempo. Due argomenti fra loro collegati e fonte di frequenti incomprensioni fra l’africano emigrante e noi, gente del Nord. Per l’africano, il senso del tempo differisce enormemente da quello frenetico al quale ci siamo abituati. Il tempo è in funzione della persona, non viceversa. Come conciliare allora la mentalità imperante del «time is money» (il tempo è denaro), con quella alternativa dell’«African time», ovvero del tempo inteso, anche e soprattutto, come occasione per incontrarsi, ascoltarsi, osservare la realtà che ci sta intorno e che rappresenta il terreno comune su cui siamo chiamati a relazionarci? Suor Restituta non ha offerto soluzioni, ma il suo appello a continuare il confronto su questo tema non deve esser lasciato cadere.
La camerunense Marie Noelle ha invece parlato di vita, morte, malattia e antenati. Lo ha fatto con grande entusiasmo e simpatia. Come non crederle, per esempio, quando ha ribadito l’amore che gli africani hanno per la musica e la danza, oppure quando ha affermato che non esiste vita senza musica, festa, stare insieme? Bastava guardarla muoversi sul palco: nel moto perpetuo delle sue gambe e nell’oscillare ritmico delle sue braccia stava la prova vivente di quanto veniva dicendo. Marie Noelle ha parlato di «vita», presente anche nella sofferenza; vita riscoperta nella malattia, nel dolore, nel lutto grazie alla forza dello stare insieme, della famiglia, della comunità.
Peter, tanzaniano e missionario dello Spirito Santo, invitato in veste di cappellano della comunità africana anglofona di Torino, ha invece messo l’accento sulla realtà delle divisioni etniche in Africa. Nel suo intervento ha ricordato che parlare di Africa vuol dire riferirsi a un universo molto complesso e variegato (alcuni relatori hanno di fatto riconosciuto che, pur parlando di tratti specificatamente africani della cultura, stavano in realtà presentando il volto nigeriano, tanzaniano o malgascio del continente) e che il forte carattere familiare e tribale, indubbio valore della società africana, può diventare causa di divisione e conflitto quando viene esageratamente esaltato.
Erasto, missionario della Consolata tanzaniano, ha fatto gli onori di casa, introducendo e cornordinando i vari interventi e aggiungendo qui e là qualche perla di saggezza e buonumore. Il resto della serata si è perso nei colori e nei suoni del continente africano. Balli, canti e una sfilata di costumi tradizionali africani hanno movimentato il pomeriggio al di là delle parole.
«Adesso viene il bello», verrebbe da dire a conclusione di questo convegno che ha riunito insieme una platea di circa 300 persone, tra cui diversi rappresentanti delle istituzioni. Il primo passo importante è stato fatto e ha coinciso con l’affermazione di un «esserci». Ora, però, rimane il tragitto più lungo, quello dell’interculturalità. Come far sì che, dall’affermazione di un’identità –  «Siamo fatti così, prendeteci come siamo» – si possa passare ad un dialogo più profondo fra le varie comunità? Questo è il nocciolo della questione e la meta alla quale questo incontro voleva puntare.
Forse si potrebbe ipotizzare un passo successivo affinché questo bellissimo ritrovarsi non si perda nell’elenco delle occasioni mancate e venga ricordato per i suoi tratti più folcloristici: quello di privilegiare una dinamica basata sul racconto delle esperienze di vita. Il migrante africano che si racconta in quanto tale, con il bagaglio della sua esperienza e della sua cultura messa questa volta a contatto con un mondo «altro» che ha incontrato. Accenni sono stati fatti, c’è buona strada per continuare il cammino e per far sì che l’incontro culturale porti frutti abbondanti in tutti i campi del nostro vivere sociale, incluso quello pastorale ed ecclesiale.  

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Raccontare in Asia la storia di Gesù

Primo Congresso missionario asiatico

Il primo Congresso missionario asiatico, già suggerito dall’esortazione apostolica Ecclesia in Asia, è stato un evento importante per la chiesa del continente. «Raccontare la storia di Gesù in Asia: una celebrazione di vita e di fede» è stato il tema generale, suddiviso in temi specifici per  ognuno dei quattro giorni (19-22 ottobre): la storia di Gesù nei popoli, religioni, culture, vita della chiesa.
Erano presenti anche due missionari della Consolata: i padri Giorgio Marengo dalla Mongolia e Alvaro Pacheco dalla Corea del Sud.

Sì, ho partecipato al primo Congresso missionario dell’Asia, svoltosi dal 18 al 22 ottobre 2006 a Chiang Mai, una città nel nord della Thailandia, che è anche sede della diocesi.  Ero integrato nel gruppo della delegazione coreana. Ho ritrovato anche padre Giorgio Marengo, con i delegati della Mongolia.
Vorrei condividere con voi ciò che ho vissuto. Ho deciso di parlarne in forma di diario.

18 ottobre 2006
Sono arrivato nella città di Chiang Mai poco prima delle 6 di sera, insieme al gruppo dei delegati coreani in cui sono inserito. Altri arriveranno domani mattina. Purtroppo, all’appello manca l’unico vescovo coreano che doveva partecipare al Congresso: a pochi giorni dalla partenza ha cancellato la sua partecipazione. Ne rimango un po’ deluso: tale assenza è un segno evidente che lo zelo della chiesa sud-coreana verso la missione ad gentes è ancora debole. 
Per prima cosa mi metto alla ricerca del nostro padre Giorgio Marengo; ma in mezzo a tanta gente, non ci riesco. Sono stanco e affamato, per cui tramando a più tardi la ricerca.
Dopo la cena, il card. Crescenzio Sepe, vescovo di Napoli, designato dal papa Benedetto xvi come suo delegato, apre ufficialmente l’esposizione missionaria nella quale ogni paese è presentato con i propri elementi caratteristici.
Sono 1.047 i delegati al Congresso, inviati da 25 paesi dell’Asia, oltre a intellettuali chiamati a intervenire, ai giornalisti e osservatori di altri continenti, dal Libano al Canada, alle isole del Pacifico, passando per il Brasile e l’Italia, tra gli altri.
Finalmente nel padiglione della Mongolia incontro padre Giorgio e il gruppo di delegati della chiesa mongola. C’è anche tempo per fare le prime conoscenze tra i tanti partecipanti. Alla fine,  condivido la stanza con padre Jaime Palma, un prete messicano dei missionari di Guadalupe, che lavora in una parrocchia nella parte meridionale della Corea e approfitto dell’occasione per scambiarci le nostre esperienze  in terra coreana.

19 Ottobre
Il tema di questa giornata è: «La storia di Gesù nei popoli dell’Asia». Incominciamo i lavori con la celebrazione della messa, presieduta dal cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
Dopo i soliti discorsi di benvenuto e presentazione delle delegazioni, mons. Luis Antonio Tagle, giovane vescovo della diocesi di Imus, nelle Filippine,  presenta un’eccellente serie di punti fermi in base ai quali raccontare la storia di Gesù. Chiaro, conciso e incisivo, ci offre alcune linee guida molto pratiche, che faranno del suo discorso uno dei più belli e significativi di tutto il Congresso. Egli sottolinea quanto sia «importante, nella cultura asiatica, il racconto per trasmettere la conoscenza e la fede cristiana, ed esorta i missionari a essere concreti e narrare ai fedeli l’esempio personale del proprio incontro con Gesù».
Nel pomeriggio ascoltiamo le testimonianze di varie persone sul tema del giorno. Questa «condivisione della fede» sono parte integrante del programma. Quindi veniamo divisi in gruppi di 10 persone, di vari paesi e differenti esperienze. Dobbiamo rispondere alla domanda: «Come ho incontrato Dio nella mia vita?».
Purtroppo, dovuto al programma intenso del Congresso, il tempo per tale condivisione rimane molto limitato. Avrei preferito più spazio per gli incontri interpersonali, scambi di idee e di esperienze, e meno per le presentazioni e relazioni tematiche, in cui si parla dell’Asia come se fosse una realtà uniforme. Una rappresentazione che non condivido affatto:  la missione svolta in Corea è molto diversa da quella in Thailandia e in altri paesi. Nei lavori in gruppo questa diversità emerge con molta chiarezza.
Arrivata la sera, ci godiamo un bello spettacolo, presentato da studenti giovanissimi di vari collegi cattolici, praticamente tutti non-cristiani. In una scenografia stupenda viene presentata la storia della chiesa cristiana in Thailandia dagli inizi ai nostri giorni. La presentazione viene goduta immensamente da tutti gli spettatori:  in essa sfila la bellezza e diversità della cultura thailandese, espressa soprattutto in una miriade di fogge e colori dei costumi delle diverse regioni ed etnie del paese.

20 Ottobre
Il tema del giorno è: «La storia di Gesù nelle religioni dell’Asia». Si parla naturalmente di dialogo interreligioso. Il tono generale dei vari interventi riflette quello di ieri: una visione di uniformità per tutta l’Asia, mentre in tanti paesi tale dialogo è ancora al palo di partenza o quasi. La Corea ne è un esempio concreto.
Le testimonianze provengono da persone passate dal buddismo e induismo alla fede cattolica. Ha parlato anche un musulmano del Bangladesh sulla sua positiva esperienza con i cattolici.
Nel pomeriggio riprendono i lavori di gruppo; dobbiamo rispondere alla domana: «Che cosa apprezzo nei seguaci delle altre religioni?».  Al termine, prima di cena, viene presentata una sintesi teologica sul tema del giorno, in cui viene ribadito quanto è stato detto nel mattino.
Dopo cena, concludiamo la giornata con un momento di preghiera: recita del rosario missionario e adorazione.
Finalmente andiamo a riposare, dopo una giornata caratterizzata da un orario stringatissimo e un programma molto impegnativo, che non ha lasciato tempo per riposare o scambiare qualche chiacchiera. E cerchiamo di addormentarci in fretta, perché anche domani sarà una levataccia, dura anche per me: si ricomincerà alle 6 del mattino con la celebrazione della messa.

21 Ottobre
Il tema della giornata è: «La storia di Gesù nelle culture dell’Asia». Il mattino segue lo schema dei giorni precedenti: relazioni tematiche e testimonianze. Gli argomenti sono vari e numerosi:  società dei consumi, mass media, migranti, gioventù, rapporti tra le religioni… La domanda proposta per i lavori in gruppo del pomeriggio è: «Quali pratiche o tradizioni nella mia cultura esprimono meglio il vangelo di Gesù?».
Dopo cena ci godiamo un altro dei momenti più significativi del Congresso: è tempo di socializzazione, con la presentazione di canti, balli e  proiezioni power-points da parte di alcune delegazioni presenti. La Mongolia strappa l’applauso più entusiasta e fragoroso: il nostro padre Giorgio si è cimentato nel suonare il violino mongolo, accompagnato dal flauto di un giovane della stessa nazione; perfino il vescovo di Ulaanbaatar, mons. Wenceslaus Padilla, si è esibito, cantando una canzone in lingua mongola. Un vero successo!
Ad accrescere l’interesse e il godimento delle varie rappresentazioni contribuisce pure lo sfoggio di vestimenti e costumi tradizionali indossati per l’occasione, espressioni della varietà e ricchezza culturale dei paesi da cui provengono i partecipanti al Congresso.
A proposito di canti e balli, un gruppo di indiani, specializzato in danze tradizionali, formato da cattolici e un ballerino hindu, durante i giorni del Congresso ha eseguito alcune rappresentazioni del vangelo e altri temi religiosi. Tale gruppo è stato creato da un prete con lo scopo di evangelizzare mediante la danza, la musica e il canto: una forma suggestiva di trasmissione e inculturazione della fede. L’originale iniziativa è stata citata a più riprese durante  gli interventi ufficiali del Congresso, per sottolineare come le varie forme di proclamazione del vangelo devono essere creative e adatte al contesto in cui i missionari sono chiamati ad operare.
Prima di andare a dormire, mi fermo per quasi due ore a parlare con un vescovo indiano: egli mi parlava con entusiasmo della sua esperienza missionaria nel suo paese; da parte mia gli racconto ciò che sto facendo in Corea. La prolungata condivisione delle nostre esperienze mi convince sempre più sulla necessità, in congressi come questo, di dare più spazio e tempo perché la gente abbia l’opportunità di incontrarsi, scambiare idee ed esperienze, che rimarranno nella memoria più delle teorie presentate nelle relazioni ufficiali.

22 Ottobre
È l’ultimo giorno del Congresso. È pure la domenica in cui si celebra la Giornata missionaria mondiale. Abbiamo ancora una relazione: questa volta sulla chiesa in Thailandia. Ascoltiamo la testimonianza di un cristiano locale, da poco convertito e appartenente a una minoranza etnica.
Seguono la lettura del documento finale e i vari ringraziamenti. Culmine della conclusione è la celebrazione dell’eucaristia, presieduta dal card. Sepe. Per esprimere la comunione con la chiesa della Thailandia in generale e con la diocesi di Chiang Mai che ci ha ospitati, vi prendono parte molti cattolici locali, appartenenti soprattutto ai vari gruppi tribali, dando così un colore tutto speciale alla celebrazione.
Nonostante ciò, rimango un po’ deluso: il livello liturgico di questa messa, come pure nelle celebrazioni dei giorni passati, mi sembra alquanto freddo: accentuato ritualismo, mancanza di musica viva, di gioia…  mancanza di «Asia». Mi sembra di essere… in piazza San Pietro, più che in Thailandia.
Tuttavia siamo tutti soddisfatti delle esperienze vissute in questo primo Congresso missionario in Asia. Proprio perché è il primo, c’è spazio per ulteriori miglioramenti. Il Congresso è stato e rimane un evento importante per la storia della chiesa in Asia: tanta gente ha potuto prendere maggiore coscienza dell’urgenza della missione in questo continente; soprattutto ha avuto un’occasione irrepetibile, per almeno altri sette anni, di conoscerci e incoraggiarci a vicenda. 

Alvaro Pacheco

Alvaro Pacheco




Cari missionari

Alla scoperta del…
Tanzania

Cari missionari,
in questi giorni ho avuto occasione di mostrare a degli amici e conoscenti alcune fotografie del Tanzania e di parlare del viaggio… con entusiasmo.
Voglio ringraziarvi di cuore per averlo organizzato e averci accompagnati, direi quasi per mano, alla scoperta di un paese, una cultura diversa, una natura bellissima, un mondo che ci ha stupito, spesso commosso e incantato.
Come avremmo potuto diversamente venire a conoscenza, vedere con i nostri occhi, le meraviglie di Baba Camillo, la tenerezza dell’orfanotrofio di Tosamaganga, «la Svizzera» di Ikonda, con il suo complesso ospedaliero, scuola per infermieri e tecnici di laboratorio, supporto e ospitalità per le famiglie dei malati? E poi, nelle varie missioni, scuole  matee e ancora orfanotrofi, dispensari, allevamenti, laboratori per trasformare caffè, olio, mais; elettricità e acqua potabile per decine e decine di villaggi; sostegno agli anziani soli nelle loro capanne… Laboratori di falegnameria, fabbricazione artigianale di stufe, calzolerie, scuole tecniche… e quanto altro occorre per tenere in vita e far prosperare missioni con dispensari e case per bambini… Come avremmo potuto scoprire un mondo di generosità, di entusiasmo, di altruismo, vedere con i nostri occhi tanta bellezza sia naturale che spirituale?
Grazie anche da parte dei compagni di viaggio, che certamente sono pieni di gratitudine per quanto ci è stato dato di vivere in quei giorni. Un conto è leggere Missioni Consolata e altro conto è constatare di persona.
Grazie  anche a tutti i missionari che ci hanno accolto con disponibilità e gioia. Che nostalgia della messa domenicale, vissuta davvero come «la festa», così ricca di canti, danze e allegria…
Il Tanzania è un paese bellissimo, a cui ci si deve avvicinare in punta di piedi, con estremo rispetto, con cuore e occhi di bimbo, capaci di meravigliarsi e apprezzare quanto il Signore continua a disseminarvi.
Agnese Lorenzini Valleri
Torino

Iniziativa
da continuare

Cara Redazione,
a nome del gruppo missionario della parrocchia di San Giuseppe di Vicenza, ringrazio per le riviste missionarie inviateci, che ci hanno permesso di realizzare una iniziativa missionaria, che ha raggiunto tutte le famiglie credenti e non del quartiere. La distribuzione della stampa ha permesso ai componenti il gruppo missionario di contattare molte persone, orientandole a seconda della loro sensibilità e interesse. Ci auguriamo di continuare l’esperienza, per sviluppare e approfondire la coscienza missionaria nel piccolo contesto del nostro quartiere.
Annamaria Colombaro
Vicenza

Anche noi vi auguriamo di continuare e saremo felici di aiutarvi.

Il 2007 con la
Populorum Progressio

Caro Direttore,
grazie come sempre per il numero di Missioni Consolata di ottobre-novembre dedicato all’Europa.
Ma grazie soprattutto per il calendario: mi ha commosso la scelta della Populorum Progressio e il ricordo di quel grande profeta di pace che fu Paolo vi: «Voce che grida nel deserto», anticipando l’aspirazione di giustizia degli uomini e dei popoli d’oggi.
Andrea Fedeli
Roma

Che l’anno del Signore 2007 porti la pace vera a tutti i popoli e aiuti tutti noi ad essere costruttori di pace!

Un lettore… confuso

Egregio Direttore,
a seguito di un’offerta inviata per una vostra missione, avete fatto invio del n. 10-11 della rivista Missioni Consolata. Vi ringrazio, ma vi pregherei di sospendee l’invio, perché sono invaso da stampa cattolica-missionaria.
Ma l’altro motivo per cui vi scrivo la presente è l’articolo «Europa: terra di speranza millenaria» a firma di un certo Paolo Farinella. Questi è riuscito, per ben 11 pagine, a disquisire dai regimi atei alle orde di immigranti, dalla difesa della civiltà occidentale ai «riformatori» cattolici Don Milani, don Mazzolari e altri. E non poteva certo mancare il richiamo a Marx, Engels e Darwin e via dicendo, raccontando con affastellamento di argomenti, opinioni che hanno finito per creare nel lettore una confusione incredibile.
Tant’è che il lettore, infine, si è chiesto cosa volesse raccontare l’insigne biblista, dove intendeva parare, quale è stata la filosofia di vita suggerita e le conclusioni. Poiché la sua sintesi in 9 punti è, per alcuni, quantomeno discutibile, è ferma restando la via maestra dettata dal vangelo.
Luciano Girardi
S. Vito al Tagliamento (PN)

Concordo con il sig. Girardi sulla lunghezza dell’articolo in questione. Ma non penso che gli altri lettori di M.C. siano rimasti confusi: da due anni essi conoscono e apprezzano gli scritti di don Farinella; soprattutto, sanno che, per comprenderli bene e gustarli, bisogna leggerli con calma e più di una volta.
Sono anche d’accordo che la strada maestra è quella del vangelo, seguita anche da don Milani, Mazzolari e altri «riformisti». Il loro messaggio, oggi, è valido più che mai; è soprattutto scomodo; per questo i loro nomi, solo al pronunciarli, causano una specie di urticaria in certi settori della società e della stampa che si ritengono «cattolici».


Acqua sprecata… nei campi da golf

Cari missionari. Nel bel dossier sull’acqua (cfr. M.C. n. 6/2006) si parla, tra l’altro, dell’incidenza che certe nostre cattive abitudini hanno sul bilancio idrico globale. In particolare M. De Paoli stigmatizza gli eccessivi consumi domestici degli italiani (250 litri d’acqua potabile al giorno, contro 159 degli svizzeri e 119 degli svedesi…) e il fatto che appena l’1% di quest’acqua viene bevuta, mentre «il 39% se ne va in igiene personale, il 20% per il wc, il 12% per la lavatrice…».
È un tipo di approccio sul quale anche le amministrazioni locali puntano molto. Chi non ha mai sentito il proprio sindaco e gli assessori competenti raccomandare un uso più limitato, più sano e  responsabile dell’acqua? Chi non ha mai partecipato ad assemblee e dibattiti organizzati dal comune, provincia o regione, in cui il relatore di tuo supplicava di fare la doccia piuttosto che il bagno in vasca, chiudere il rubinetto mentre spalmiamo il dentifricio sullo spazzolino, dare alle piante del giardino solo l’acqua realmente necessaria, non usare il tubo quando laviamo l’auto o la moto e persino di ridurre al minimo l’uso dello sciacquone della tornilette?
Sono esortazioni e consigli ineccepibili, che però una parte considerevole della popolazione mostra di tenere in bene misera considerazione. E mi domando: se tanta gente continua a sprecare acqua, non è anche perché è venuto meno il senso di appartenenza alla comunità civile, al territorio, allo stato? Stato e amministratori locali non potrebbero essere più coerenti? Come si può pensare di incentivare il risparmio idrico, se si rinuncia a dare il buon esempio e si cede alla suggestione di un business come quello del golf? Che testimonianza di serietà e rigore danno quelle giunte che rilasciano permessi per la realizzazione di campi da golf di dimensioni enormi, pur sapendo che enorme sarà anche la quantità d’acqua che se ne andrà per mantenere queste superfici in buone condizioni?

«Nel mondo – scriveva nel 1993 Renzo Garrone, fondatore di RAM, associazione di turismo responsabile – esistono circa 24 mila campi da golf e altre migliaia in costruzione o già pianificati. In media uno di essi misura circa 100 ettari di superficie. La loro proliferazione implica severi contraccolpi per le comunità locali: perdita forestale, sottrazione dei terreni agricoli, spoliazione delle risorse idriche, contaminazione dei suoli con pesticidi e diserbanti.
Per mantenere l’erba florida e verde, un campo da golf necessita di 4-5 mila metri cubi d’acqua al giorno: l’equivalente di quanto viene usato in un villaggio thailandese di 1.200 persone per bere e lavare, eccettuando gli scopi agricoli. Un’estensione a golf consuma, per mantenersi verde, tanta acqua quanto un uguale campo di riso. È ammissibile che terre buone, spesso le migliori terre agricole, e acqua in quantità enormi debbano essere destinate così massicciamente all’industria dello svago, specie in paesi dove i problemi di sussistenza quotidiana sono lungi dall’essere risolti?
Sotto il manto erboso va scavato un complesso e ramificatissimo intrico di canaletti, che servono all’irrigazione: il territorio da trasformare in campo da golf va quindi rivoltato come un guanto e poi continuamente curato. Massiccio è l’impiego di erbicidi e pesticidi, poi dilavati nelle acque della zona.
Altri risvolti sociali vengono messi sotto accusa. Nelle aree destinate a campi da golf, esplodono i prezzi della proprietà fondiaria, mentre una  modalità aliena al vivere locale (col golf arriva il resto dello sviluppo legato al turismo d’evasione) portano sempre con sé corruzione, ulteriore disuguaglianza economica, violazione dei diritti umani, criminalità. Se autorità e governi accolgono generalmente con favore questa ondata di investimenti, solo le élites ne beneficiano davvero, mentre la gente comune viene privata della terra».

Tra il 1993 e il 2005 il numero dei campi da golf nel mondo è passato da 24 mila a 30 mila con un aumento del 25%. Il numero complessivo dei golfisti ha superato quota 50 milioni: di questi, 5 milioni sono europei e 70 mila italiani. Di questi italiani, secondo Fulvio Golob, direttore di Golf  turismo, almeno 10 mila periodicamente «migrano» in cerca «di sole e nuovi scenari con cui confrontarsi…».
«I nuovi scenari» sono proprio quelli denunciati da Garrone: paesi africani, del sud-est asiatico, dell’America Latina. Paesi poveri e indebitati, dove l’elevato Pil è un indicatore di degrado, frutto di sciagurate politiche economiche, che hanno calpestato i diritti umani più elementari (a cominciare dal diritto alla vita…) e portato gli ecosistemi al collasso.
Non mi risulta sia stata trovata una formula magica in grado di rendere i campi da golf meno esigenti in fatto di acqua. Quando  qualcuno l’avrà trovata… forse potremo cominciare a parlare di «golf etico», come parliamo di caffè etico, cacao etico, banane etiche… Per ora, se ci teniamo davvero a essere etici, equi e solidali anche su questo versante, se desideriamo che la risorsa acqua sia ovunque gestita in maniera responsabile e rispettosa dei diritti di ognuno, l’unica cosa che possiamo fare è opporci con decisione al golf, senza demoralizzarci quando ci accorgiamo di essere in minoranza e senza farci spaventare dalle solite accuse di «oscurantismo», «estremismo», «comunismo», «ecoterrorismo»…, lanciate da uomini e donne che, pur militando in partiti che sembrano acerrimi nemici, quando di mezzo ci sono certi business, riescono a raggiungere un’identità di vedute praticamente perfetta e a costruire alleanze inaffondabili.

Luciano Montenigri, Fano (PU)




La persona umana: cuore della pace

Primo gennaio 2007: 40ma Giornata mondiale della pace

F u Paolo VI, 40 anni fa, a «lanciare l’idea» di una «Giornata della
pace», da «celebrarsi alle calende di ogni nuovo anno» (1° gennaio).
Con un messaggio chiamava cristiani e «mondo civile» a riflettere e
impegnarsi nella costruzione di una «pace vera, giusta ed equilibrata,
nel riconoscimento sincero dei diritti della persona umana»; una pace
che «non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della
vita, ma proclama i più alti e universali valori della vita: la verità,
la giustizia, la libertà, l’amore».
Anno dopo anno, siamo giunti alla 40a Giornata Mondiale della Pace, che
ha come tema: Persona umana, cuore della pace. «Sono convinto – afferma
papa Benedetto xvi nel suo messaggio per tale celebrazione – che
rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si
pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale. È così che si
prepara un futuro sereno per le nuove generazioni».
Tale dignità, continua il papa, è dono di Dio, che ha creato
l’uomo  a sua immagine e somiglianza (Gen 1, 26-27), ed è compito
al tempo stesso, che chiama «l’essere umano a maturare se stesso nella
capacità d’amore e far progredire il mondo, rinnovandolo nella
giustizia e nella pace. Con un’efficace sintesi sant’Agostino insegna:
“Dio, che ci ha creati senza di noi, non ha voluto salvarci senza di
noi”». Dalla consapevolezza di tale trascendenza deriva che «anche la
pace è insieme un dono e un compito. La pace, infatti, è una
caratteristica dell’agire divino, che si manifesta sia nella creazione
di un universo ordinato e armonioso come pure nella redenzione
dell’umanità bisognosa di essere recuperata dal disordine del
peccato… La pace è anche un compito che impegna ciascuno a una
risposta personale coerente col piano divino», poiché nella coscienza
della persona umana sono scritte «l’insieme di regole dell’agire
individuale e del reciproco rapportarsi delle persone secondo giustizia
e solidarietà».
Molti i temi toccati nel documento, in cui si evidenzia la stretta
relazione tra la persona umana e la promozione della pace; temi seguiti
da relativi richiami e denunce. Prima di tutto il diritto alla vita, in
cui viene denunciato «lo scempio che di essa si fa nella nostra
società: accanto alle vittime dei conflitti armati, terrorismo e
svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate da
fame, aborto, sperimentazione sugli embrioni ed eutanasia». A riguardo
della libertà religiosa viene lamentato come in molte parti del mondo i
cristiani siano perseguitati o dileggiati.
Un seconto tema riguarda l’affermazione «dell’uguaglianza di natura di
tutte le persone», denunciando «da una parte le disuguaglianze
nell’accesso a beni essenziali, come cibo, acqua,  casa, salute;
dall’altra, le persistenti disuguaglianze tra uomo e donna
nell’esercizio dei diritti umani fondamentali».
La seconda parte introduce un concetto innovativo:  l’«ecologia
della pace». «Chi ha a cuore la pace deve tenere sempre più presenti le
connessioni tra l’ecologia naturale, ossia il rispetto della natura, e
l’ecologia umana su cui organizzare la società», afferma il papa,
facendo riferimento anche al problema dell’energia e dei rifoimenti
energetici, con uno sguardo speciale ai paesi in via di sviluppo o
sottosviluppo. 
Nel 2007 ricorre pure il 40° anniversario dell’enciclica Populorum
progressio, un documento di Paolo vi più attuale che mai. Per questo,
lo abbiamo scelto come guida del nostro calendario: «365 giorni con
l’enciclica Populorum progressio». Ogni mese troveremo una delle
affermazioni più significative, che ci stimolano a camminare sulla via
della promozione dello «sviluppo integrale di ogni persona, di tutta la
persona e di tutti i popoli», poiché, come afferma un’espressione
finale della stessa enciclica, con un motto che ha valore: «Lo sviluppo
è il nuovo nome della pace».
«Se in questi 40 anni l’insegnamento della Populorum progressio, tanto
profetico, fosse stato ascoltato, non saremmo nella situazione attuale
del mondo» afferma il cardinal Poupard.
Non perdiamo altro tempo.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi