Piccoli miracoli

I camilliani in lotta contro l’Aids nella capitale peruviana

Il Perù è il primo paese dell’America Latina raggiunto dai camilliani all’inizio del 1700,
per offrire la loro assistenza ai malati più poveri.
Un bel numero di giovani stanno rispondendo all’appello del carisma camilliano.
Nel 1995, a Lima, hanno dato vita all’Hogar San Camilo, dove si prendono cura dei sieropositivi
e malati di aids e organizzano vari programmi
di prevenzione a favore di famiglie, madri sole, bambini dei rioni più disastrati e abbandonati.

Vedi Lima solo dopo aver visto la niebla (nebbia). Non la nebbia
del Nord Italia, fitta, carica di pioggia, che va e viene a seconda del
peso dell’atmosfera. Quella di Lima è qualcosa che non se ne va via
mai: rimane lassù, sospesa sulla città a 30 metri d’altezza, si
traveste da cielo plumbeo, immobile e persino un po’ triste. È chiamata
«garúa».
A Lima non piove quasi mai. Gli abitanti, soprattutto, quelli più
anziani si ricordano la data precisa delle ultime gocce d’acqua cadute
sulla città. Sembra che la niebla abbia la funzione di tappo al
rovescio: non permettendo al cielo di arrivare alla terra, alle
precipitazioni sulle case. E che case: tolte quelle solide dei
quartieri residenziali e i palazzi storici sopravvissuti all’incuria,
la gran parte sono baracche, sorte come funghi qualche decennio or sono
e tuttora onnipresenti. Dalle pareti al tetto sono fatte di fango,
paglia e qualche legnetto; visti dall’alto appaiono come dei piccoli
quadrati marroni, sembrano una miriade di dadi gettati nel vuoto.
Qui vivono decine di migliaia di persone, di cui un buon numero fuori
Lima, in quei pueblos jovenes nati dal nulla e destinati allo stesso
nulla, poiché carenti delle strutture base: acqua, luce, fogne, gas.
Lima è una metropoli di 7 milioni di abitanti, di cui quasi il 50% vive
sotto la soglia della povertà e le baracche sono l’unico bene materiale
che possiede. Ma anche questo è un bene a rischio. Circola, infatti, un
timore nelle conversazioni dei limeños, i cittadini della capitale
peruviana: se arriva un potente nubifragio, chi può negare che tutte
quelle dimore possano non reggere l’urto e sciogliersi in un fiume
marrone devastante? Per ora, nei rarissimi giorni di pioggia, la realtà
parla di qualche disagio in più, insignificante nella vita di stenti di
questa gente ridotta in miseria.

Come altrove, anche nelle baracche di Lima povertà e malattia vanno di
pari passo. Sporcizia e malnutrizione rendono la vita difficile. Ma da
qualche tempo c’è ben altro che si insinua da queste parti: si chiama
aids, e sta proliferando, soprattutto fra i giovani.
All’inizio la diffusione della malattia era rimasta un segreto che
doveva rimanere «custodito» nella baracca. Solo negli ultimi anni le
cose sono cambiate. Più assistenza e prevenzione hanno portato più
controllo e qualche piccolo miracolo.
Uno dei più significativi di questi miracoli lo si trova immergendosi
nel centro storico di Lima, in un quartiere popolare dal nome
ingannevole di Barrios Altos (quartieri alti). Qui di turisti ne
passano, ma è un mordi e fuggi; vedono le cose importanti: la chiesa di
San Francesco, con le sue enormi catacombe, Plaza Mayor, la piazza
principale in cui si trova il Parlamento.
Proprio a due passi da Plaza Mayor, dal 1995 esiste un luogo conosciuto
come Hogar San Camilo, centro di accoglienza per le persone
sieropositive.  Qui pochi uomini, con il loro intenso lavoro,
ridanno speranza a decine di famiglie che con il «sida» (versione
spagnola di aids) combattono una dura battaglia quotidiana.
Questi uomini sono preti dell’ordine di San Camillo de Lellis. La loro
prima presenza nel cuore di Lima data metà secolo xviii, quando
aprirono una casa di formazione vocazionale nella parte nord del
Convento de la buena muerte, ancora oggi attiguo all’Hogar San Camilo.
Nell’Hogar, camilliani italiani, peruviani e di altre nazioni accolgono
in particolare le madri che hanno contratto la malattia con l’obiettivo
che i loro figli nascano sani. Un miracolo? Di certo un grande
traguardo raggiunto, a livello scientifico e, quindi, umano.
Un’innovazione che permette di salvare migliaia di vite.
Lo sa bene padre Zeffirino Montin, l’anima fondatrice dell’Hogar, che,
proprio per la sua attività missionaria, è stato nominato un paio di
anni fa Cavaliere della Repubblica italiana. «Siamo partiti con pochi
mezzi, ma tanta speranza, unita alla voglia di fare – dice padre
Zeffirino -. Oggi contiamo sempre di più; lo si capisce dal crescente
numero di persone che arrivano fin qui da tutte le zone disagiate di
Lima».
I numeri la dicono tutta sull’autorevolezza che il Centro ha acquisito
negli 11 anni di attività: 400 persone ospitate, almeno 6 mila
beneficiari diretti delle cure contro la malattia e 20 mila beneficiari
indiretti. Alle medicine, i gestori dell’Hogar alternano il latte
mateizzato, il vero antidoto che salva migliaia di bambini
dall’infezione sicura. «Oltre a distribuirlo all’Hogar, con due gruppi
di medici, operatori e volontari, andiamo a portarlo direttamente nelle
case dei malati, soprattutto quelli più poveri» continua padre
Zeffirino.
E ccoci di ritorno nelle baracche, quindi. Qui, nascosti tra i vicoli e
le strutture fatiscenti di quartieri come Callao, Ventanilla e tanti
altri, si addentrano i camilliani e i loro aiutanti. Le visite sono
sempre organizzate prima. Alla gente del posto il camioncino bianco è
sempre più familiare e, dove prima c’era diffidenza, ora c’è un
sorriso, anche se malato. Come quello a tre denti di Ana, 31 anni, ma
che ne dimostra almeno il doppio per lo stato avanzato della malattia,
e i sorrisi dei suoi figli Nina e Andres, 3 e 6 anni, che giocano con
alcune scatolette nella piccola aia di terriccio.
«Io so di non avere molta vita davanti, ma ai miei figli vorrei dare
qualcosa di più – dice Ana -; ma mi ritengo già fortunata: loro non
hanno preso la malattia grazie alle cure, già questo è un piccolo
miracolo».
Come Ana, tante altre donne hanno ripreso la speranza dopo aver
conosciuto l’Hogar. Oggi anche lo stato peruviano, dopo anni di totale
assenza, riconosce il lavoro dei camilliani e collabora ai loro
progetti, soprattutto dal punto di vista economico. Dall’inizio del
2006 molti bambini del Centro hanno anche una famiglia (italiana) in
più, grazie all’adozione a distanza, sostenuta dall’organizzazione non
governativa Coopi (Cooperazione internazionale), che ha sede a Milano e
una storia di 40 anni nella cooperazione.
M a la presenza dei padri ispirati a san Camillo, patrono dei malati e
dei dottori, vive anche di altre splendide realtà. Una di queste è il
seminario, sorto nel 1980 dopo l’arrivo di padre Giuseppe Villa
dall’Italia. Dagli 8 seminaristi peruviani con i quali è iniziata la
scuola vocazionale, oggi si arriva quasi a 40, molti dei quali
provengono dalle terre amazzoniche, nel nord del paese.
Oggi a dirigere la scuola del seminario è padre Camillo Scapin,
sacerdote veneto, da più di  20 anni a Lima. «Ogni anno accogliamo
nuovi studenti, mentre altri finiscono gli studi e sono a un passo
dall’ordinazione – dice padre Camillo -. Anche qui le vocazioni sono
diminuite, ma quelli che arrivano sono convinti, raramente lasciano gli
studi durante il cammino di formazione».
Gli alunni del seminario, oltre agli studi teorici, seguono la
vocazione camilliana fin da subito, entrando come volontari nelle
strutture ospedaliere della città per portare assistenza e spiritualità
ai malati. Alcuni di loro, terminati gli anni da seminaristi, ricevono
la chiamata per lavorare in altre nazioni. Oggi i camilliani sono uno
degli ordini più presenti nel mondo: offrono il loro servizio in ben 35
paesi.
Padre Camillo, oltre all’insegnamento, passa molto tempo negli ospedali
della capitale e nelle strade. Con lui può capitarti di fare un giro
nella Lima «quotidiana»: i mercati vivacissimi e pieni di frutta
esotica mai vista in Europa, le scuole blu costruite qualche anno fa
nei quartieri poveri dal presidente-ladròn Fujimori a caccia di voti;
oppure, nella Lima storica: le catacombe, la casa di Santa Rosa da
Lima, prima santa del continente americano di cui i peruviani sono
devotissimi, il monte San Cristobal, che domina tutta la città e,
quando la niebla lo consente, permette di vedere il mare, posto alla
fine dei quartieri ricchi.
«Ma anche qui da noi c’è qualcosa di particolare» svela padre Camillo,
che apre le porte della Iglesia de la Buena Muerte, chiesa del convento
spesso chiusa al pubblico per salvaguardae i tesori storici, tra cui
una serie di quadri inediti del Veneziano. «La chiesa è comunque aperta
a chiunque voglia pregare – continua il padre -. Lasciarla sempre
aperta in questa zona della città è pericoloso».
Fuori dal convento, infatti, un vociare continuo e macchine che passano
da tutte le parti fanno capire che Barrios Altos è un quartiere molto
frenetico, dove ognuno vende quel poco che ha, e chi non ce l’ha vive
di espedienti.

I problemi sono gli stessi di altre grandi metropoli, ma qui a Lima la
forbice economica è in continuo aumento ed è sottolineato
«geograficamente»: l’indigente non incontra quasi mai il ricco e
viceversa, poiché questi vive nei quartieri lussureggianti che
finiscono sul mare come Miraflores o quelli delle grandi ville come Los
Olivos, dove le strade sono perfette e i marciapiedi sono puliti. Unico
punto di contatto, le entrate delle tangenziali. Ma è un attimo, basta
un rombo e una chiusura di finestrino, e via.
Dall’altra parte, sulla strada, la vita è ardua. Nonostante il clima
temperato, polvere e smog fanno ammalare migliaia di persone ogni
giorno. Il peruviano in condizioni di povertà, come del resto molte
altre popolazioni sudamericane, è tenace e sorride sempre alla vita,
anche quando le cose non vanno granché bene. Spesso nasconde i
problemi, ancor più spesso (e qui si parla degli uomini) si attacca
alla bottiglia, primo passo per la rovina di sé e della famiglia.
Non che manchino le istituzioni, a Lima e in Perù: dal 2001 a questa
parte, ovvero dopo gli scandali di corruzione legati al dittatore
Alberto Fujimori e al suo braccio destro Vladimiro Montesinos, la
situazione politica nel paese sembra aver cambiato rotta. Il presidente
Alejandro Toledo, seppur mai troppo indipendente dal governo degli
Stati Uniti, ha avviato nuove riforme e cercato di farsi ricordare come
una figura «pulita». Ha aperto relazioni con altri paesi sudamericani e
asiatici, pur manifestando qualche rancore, soprattutto verso i vicini
cileni, con i quali, dalla fine della guerra del Pacifico (1884), il
Perù non ha mai avuto un rapporto veramente  amichevole.
Un’altra svolta è avvenuta con le elezioni di aprile-maggio 2006, nelle
quali, a scapito di una nuova figura politica, rappresentata dal
militare nazionalista e indigeno Ollanta Humala, ha preso il potere il
socialdemocratico Alan Garcia, che dice di essere al governo per
portare il Perù ad avere più peso internazionale e ridurre
drasticamente le differenze intee.

Ma ce la farà davvero? «I detrattori sono tanti, ma un po’ di speranza
non guasta» dice padre Camillo, profondo conoscitore della politica
peruviana.
Di certo una sorta di redistribuzione delle ricchezze non farebbe male,
soprattutto considerando un altro fattore importante di sviluppo: il
turismo. Il Perù è la culla degli Inca; a Macchu Picchu e alla città
sacra di Cuzco arrivano centinaia di migliaia di visitatori ogni anno.
Al sud ci sono splendidi scenari naturali, il canyon del Colca, le
misteriose linee di Nazca, la splendida città bianca di Arequipa, la
penisola desertica di Paracas. Al nord, l’immensa foresta amazzonica.
Il potenziare questo settore e il dividere equamente gli introiti senza
affidarli a società private, che «depredano» il mercato, come accade
per il monopolio ferroviario che PeruRail ha per Macchu Picchu,
porterebbe nuova linfa vitale ai peruviani. Un turismo, naturalmente,
che si attui nel rispetto dei luoghi e delle tradizioni e alla ricerca
del Perù nascosto, non solo quello degli abbaglianti depliant delle
agenzie di viaggio.
Si potrebbe cominciare proprio dalla «brutta» Lima, che poi, sotto la
sua niebla, così brutta non è. E perché no, passare da Barrios Altos,
nei pressi del Convento de la Buena Muerte, a visitare le opere dei
camilliani. Magari fermandosi qualche settimana, qualche mese, per dare
una mano. «Abbiamo sempre bisogno di persone con tanta buona volontà»,
suggerisce con un sorriso padre Zeffirino. 

Daniele Biella

Daniele Biella




Sfratto agli «spiriti»

Religione tradizionale africana e cristianesimo

Mons. Buti Tlhagale, arcivescovo di Johannesburg,
esamina l’impatto del vangelo nella religione tradizionale nell’Africa
Australe. Egli spiega come la conversione al cristianesimo produce un
cambiamento di mentalità: Dio è la sorgente ultima della forza vitale e
non gli antenati. Ma stregoni e indovini hanno ancora un ruolo guida
nella società, per cui poco è cambiato nella vita quotidiana della
gente. La trasformazione portata dal cristianesimo non è ancora
completa e deve essere portata avanti nel rispetto della cultura della
popolazione.

Nel mondo il cristianesimo è proclamato da quasi 2 mila anni; ma in
Africa conta poco più di 150 anni. Benché l’incontro tra la popolazione
indigena e i missionari sia stato difficile, anche gli africani hanno
recepito il vangelo come messaggio destinato a «tutto il mondo e a ogni
creatura» (Mc 16,15);  hanno partecipato all’effusione dello
Spirito e sperimentato il fuoco della pentecoste. I loro cuori sono
stati infiammati dalla parola di Dio, inculcata loro «in tempo e fuori
tempo» (1 Tim 4,2); Gesù Cristo è stato proclamato «via, verità e
vita», la «vera luce che illumina ogni persona» (Gv 1,9), compreso il
popolo africano.

VERITÀ LIBERANTE

L’annuncio cristiano ha prodotto negli africani un impatto
«sovversivo»: ha sconvolto le nozioni tradizionali riguardanti
l’origine e il destino umano; soprattutto, ha inciso profondamente sul
ruolo che gli antenati esercitano nella vita della gente.
Il messaggio evangelico, infatti, risponde alle aspirazioni più
profonde del cuore umano, che coincidono con il progetto di Dio,
origine e meta finale degli esseri umani. «Conoscerai la verità e la
verità ti farà libero» dice il vangelo (Gv 8,32). Nella rivelazione
cristiana Dio è padre dei vivi e dei morti, per cui gli antenati e gli
esseri umani sono tutte sue creature. Di conseguenza Dio solo diventa
il definitivo punto di riferimento, lui solo deve essere l’oggetto di
fedeltà e adorazione, non più gli antenati.
Tale verità libera la mente superstiziosa dalle paure o dalle
suggestioni provocate dagli «spiriti vagabondi». Nel contesto della
fede cristiana, i vivi non aspirano più a essere puramente incorporati,
dopo la morte, nella comunità degli antenati, ma vivono fin d’ora nella
speranza di essere riuniti con Dio, dal quale hanno ricevuto lo spirito
di vita. Inoltre, nasce una nuova consapevolezza: cioè, che gli
antenati non sono imprigionati in un mondo vagamente definito degli
spiriti, ma che anche essi sono in attesa di essere definitivamente
redenti.
La verità su Dio ha la forza di rifondare le relazioni di potere tra i
viventi e gli antenati. Questi ultimi sono inevitabilmente declassati
dallo stato di «quasi idoli». Ai viventi viene offerta la libertà dei
figli di Dio: liberi dalla paura del mondo degli antenati e degli
spiriti maligni, che vagabondano per città e villaggi.
Tutte queste verità vengono accettate in teoria. La conversione a
Cristo produce un cambiamento di mentalità e di percezione della natura
degli antenati: la loro collocazione nell’ordine delle cose non può più
essere la stessa. Nella pratica, però, l’accettazione di tali verità
sembra aver scalfito superficialmente il ruolo, l’influenza e l’impatto
degli antenati nella vita della gente. Il cambiamento non è stato così
radicale come ci si sarebbe aspettato.
Nonostante la chiarezza del messaggio cristiano e l’impegno dei
missionari, gli «spiriti vagabondi» non sono stati «sfrattati» dal loro
piedistallo di «semi-dei» e continuano ad essere consultati, invocati,
temuti.

ANTENATI E IZANGOMA

Nella religione tradizionale africana, il ruolo degli antenati è legato
in generale all’esperienza umana del bene e del male, del benessere e
della disgrazia, della salute e della malattia, della vita e della
morte. In particolare, tale ruolo riguarda il destino dei membri di
ciascun gruppo clanico.
Gli spiriti ancestrali sono descritti come esseri generalmente ben
disposti verso i membri del proprio clan; al tempo stesso, però, sono
ritenuti capaci di infliggere sofferenze ai vivi: o per puro capriccio,
o per punire determinate colpe, o per vendicarsi di essere stati
dimenticati, essi mandano sui loro discendenti ogni specie di male.
Nella visione cosmica africana gli antenati sono la sorgente ultima
delle forze primordiali: un potere misterioso che dà la vita o la
possono distruggere. Per liberarsi da eventuali disgrazie e malattie è
necessario entrare in contatto con le forze primordiali che le
causano. 
Il contatto con gli spiriti ancestrali avviene attraverso il guaritore
o divinatore che nell’Africa australe si chiama isangoma (plurale
izangoma), funzione esercitata in maggioranza da donne, ma non di raro
anche da uomini.
Si dice che l’isangoma è chiamata dagli antenati del proprio gruppo
clanico e sperimenta tale vocazione attraverso la malattia, autentico
segno che essa è posseduta (thwasa) dallo spirito ancestrale e ne
diventa il ricettacolo.
Riconosciuta e accettata tale chiamata, l’isangoma deve sottoporsi a un
lungo tirocinio presso un’altra isangoma, per apprendere l’arte della
divinazione e della guarigione. Al tempo stesso, tale iniziazione
introduce la nuova isangoma a una conoscenza esoterica, ne fa una
persona separata e le conferisce uno stato di «sacralità» che incute
timore e rispetto.
In quanto unico interprete dei desideri degli antenati, l’isangoma ha
il potere di fare scaturire da essi la forza vitale che guarisce. Una
volta diagnosticata la causa della malattia (quasi sempre attribuita
allo scontento degli stessi spiriti ancestrali), procede alla
prescrizione o cura medica, anch’essa suggerita dagli antenati. Tali
cure includono offerte di sacrifici riparatori o propiziatori, rituali
di «fortificazione» contro stregonerie e sortilegi, riti di
purificazione (esposizione a fumi e vapori, bagni in acque lustrali,
assunzione di sostante che provocano vomito, incensature, lavaggi
intestinali…) e assunzione di medicine vere e proprie.

MALATTIA,  MEDICINA E GUARIGIONE

L’indovino è uno specialista nelle malattie africane (ukufa kwabantu),
che fanno parte della visione africana del mondo. La malattia è
percepita come uno spirito, che può essere incarnato in una sostanza
(come il sejeso/idliso, veleno africano) o rimanere nella forma di
spirito; può essere diretto contro altre persone.
Sono tanti i mezzi con cui può essere causata una malattia:
direttamente dagli spiriti, da fattucchieri (gettando il malocchio su
un oggetto della vittima), da stregoni mediante le medicine, da odio e
gelosia. In questo caso la persona gelosa può richiedere i servizi del
fattucchiere per causare un malanno.
La malattia quindi è nel cuore di un sistema di credenze che comprende
da una parte antenati, maghe e stregoni, e dall’altra sentimenti di
odio e gelosia, emanati dal cuore umano. La malattia si dipana nel
tessuto di relazioni frantumate tra gli stessi viventi o tra i vivi e
gli antenati. La malattia africana non è un avvenimento accidentale, ma
è sempre causata da agenti malvagi, da qualche persona, viva o morta.
In una società come quella africana, dove le relazioni umane sono
fortemente sentite e ricercate, quando capitano eventi sfortunati e
inesplicabili, fioriscono i sospetti. Tale percezione della malattia è
caratteristica e profondamente impressa nella psiche africana. Di
fronte alla malaria, per esempio, l’africano non si accontenta di
sapere che essa è causata dalla zanzara; egli si chiede: chi ha mandato
la zanzara per pungermi?
Anche la medicina, al pari della malattia, è intesa come un «potere
misterioso». Per questo sono offerti sacrifici per placare l’ira degli
spiriti ancestrali; si esorcizzano gli spiriti maligni picchiando le
loro vittime, oppure vengono scacciati dal corpo con il vomito, bevendo
acqua mescolata al sale o cenere; si inseriscono medicine sotto la
pelle (ukugcoba) per proteggere la vittima dal male; si indossano
amuleti protettivi per contrastare il potere degli spiriti maligni. La
medicina per rinvigorire la forza vitale è ricavata da parti del corpo
umano, peli di animali selvatici, pelle di serpenti.
 Anche se malattia e cura riguardano il corpo umano, esse
appartengono al regno spirituale. Corpo e spirito costituiscono una
sola realtà. Per questo le izangoma, non si limitano a individuare le
cause delle malattie e l’eventuale mandante, a prescrivere rimedi e
medicine, ma cercano di far  scaturire dagli antenati un
contro-potere che si oppone alle forze distruttive o previene quelle
dei demoni vagabondi che spargono malanni.
Scopo dell’isangoma è sempre quello di ristabilire pacifiche relazioni
tra gli esseri viventi, tra i vivi e il regno degli spiriti. Il
processo per tale pacificazione e i riti usati denotano in lei una
discreta esperienza psicologica e sociale. Essa conosce odi e amori
interpersonali, conflitti e alleanze tra i gruppi familiari. È stato
più volte provato che proprio l’attenzione e interesse dell’isangoma
verso i suoi pazienti, la sua capacità di dipanare la matassa delle
relazioni familiari e comunitarie sono alla base di certe sorprendenti
guarigioni.
Il coinvolgimento fisico e mentale del paziente e dei familiari è
un’altra chiave di volta della guarigione, in vista dello
ristabilimento della pace e dell’armonia che devono esistere nel
paziente stesso, tra individuo, gruppo, ambiente, mondo degli antenati
e degli spiriti.
I riti stessi hanno una forte componente di suggestione simbolica e
psicologica: l’isangoma danza e canta, fa danzare e cantare; va in
trance per entrare in comunione con gli spiriti; pazienti e familiari
vedono con i loro occhi la malattia che viene «vomitata» per la
somministrazione di emetici; fumigazioni e bagni nell’acqua lustrale li
proteggono dall’assalto delle forze ostili; il capro espiatorio, a cui
viene addossato il castigo per il male, li libera dalla paura.

DISAGIO DEI CRISTIANI

Il culto degli antenati è più di una semplice «ritualizzazione di pietà
filiale»; è la «via africana» di affrontare e vivere il mistero del
male e della sofferenza; il modo con cui gli africani celebrano e
comunicano con il mistero del sacro in cui sono immersi. Si tratta di
un rituale diretto a rivitalizzare le forze naturali e celebrare la
nuova vita o assorbire il dolore della dissoluzione della vita.
Inoltre, è il riconoscimento rituale dell’esistenza di una realtà
spirituale, una intensità di potere al di là della vita e delle cose
naturali.
I cristiani sudafricani non solo capiscono perfettamente questa visione
del mondo, ma la condividono: ne fanno parte. Essi appartengono a due
mondi, quello tradizionale e quello cristiano, che non si sono ancora
armonizzati.
E questo crea non poco disagio tra i cristiani: alcuni giungono perfino
a stigmatizzare il mondo tradizionale e i suoi metodi di guarigione, ma
poi sono felici di farvi ricorso, quando sperimentano disgrazie e
sofferenze. È ormai di dominio comune l’osservazione di G. C.
Oosthuizen, professore di Scienza delle religioni all’Università di
Durban: «Durante il giorno e nelle conversazioni molti fedeli delle
chiese storiche si dissociano dalle chiese indigene, ma sono presenti
nei raduni nottui di guarigione» (Oosthuizen 1992). E durante tali
riunioni non si fa altro di diverso da ciò che fanno le izangoma nelle
cerimonie di guarigione.
Tale disagio deriva dal fatto che i cristiani continuano a far parte
della visione cosmica africana e credono nella presenza degli spiriti
ancestrali, ma sono incerti su come conciliare la credenza nella
mediazione degli spiriti con il nuovo contesto cristiano. Tale
inquietudine è sentita soprattutto in molti cattolici, quando vedono
che alcune izangoma frequentano la chiesa e desiderano ricevere
l’eucaristia. «Possono le izangoma ricevere la comunione?» si
domandano, dal momento che esse pretendono di ricevere conoscenza
esoterica, chiaroveggenza e poteri di guarigione dagli antenati e non
da Gesù Cristo. Anzi, tale potere è percepito in opposizione o in
competizione con quello di Cristo. Cristo e gli antenati sono visti
come due autorità spirituali differenti. Per questo alcuni cattolici
sostengono che non si può essere fedeli a tutti e due.

CHIESE INDIPENDENTI

Se alla luce della fede cristiana gli antenati non hanno quel potere
straordinario accordato loro dalla tradizione africana, ne dovrebbe
derivare una riduzione radicale del loro ruolo tra gli esseri viventi.
Invece l’abbondante presenza di indovini e izangoma, quali interpreti e
mediatori degli spiriti ancestrali, dimostra che è ancora molto forte
la credenza nel potere sovrumano degli antenati e l’esistenza di demoni
e spiriti maligni in giro per il mondo.
Tale sistema di credenze tradizionali è stato adottato da varie chiese
indipendenti africane, nelle quali vengono miscelate le credenze
tradizionali africane e alcuni elementi provenienti dal cristianesimo.
Esempio significativo di tale sincretismo è rappresentato dalla chiesa
zionista, i cui «profeti» sono la versione modea degli indovini
tradizionali: si dicono chiamati da un antenato e dallo Spirito Santo;
in alcuni casi lo Spirito Santo rimpiazza lo spirito ancestrale.
Le due tradizioni non stanno comodamente assieme: è un caso di vino
vecchio in otri nuovi. I riti di guarigione celebrati nelle chiese
indipendenti sono gli stessi compiuti dalle izangoma. Se da una parte
il contesto sociale offerto da tali chiese sembrerebbe liberare i
cristiani dallo stigma legato alle credenze africane nella stregoneria
e negli spiriti maligni, dall’altra sono considerate come un «movimento
moderno fabbricatore di streghe».
Eppure alle chiese indipendenti bisogna riconoscere alcuni meriti.
Innanzitutto, a differenza delle chiese cristiane storiche (cattoliche
e riformate), esse hanno preso sul serio la visione cosmica
tradizionale africana e hanno tentato il dialogo con la religione
cristiana. In secondo luogo, sembrano sapere affrontare meglio dei
cristiani le condizioni di sofferenza della gente, offrendo loro il
senso di appartenenza alla famiglia e comunità. Infine le chiese
indipendenti permettono alle donne di giocare un ruolo significativo
nella vita sociale.
Nonostante ciò, non viene cancellato il loro grande limite:  esse
stanno perpetuando credenze superstiziose, invece di sfidarle alla luce
della nuova esperienza di fede.
Guarigione nella
tradizione cristiana
Nella tradizione della chiesa primitiva, il rituale di guarigione
consisteva nell’unzione con olio e acqua da bere. A questi elementi era
attribuito, nel nome di Gesù Cristo, il potere di guarire, «così che
ogni febbre, ogni demone e ogni malattia possa sparire con questa
bevanda e questa unzione» (Empereur 1986).
Nella tradizione cristiana, quindi, la guarigione è fatta non in nome
degli antenati, ma nel nome e con il potere di Gesù Cristo, trasmesso
dagli apostoli: «C’è tra voi un ammalato? Chiamate gli anziani della
comunità ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del
Signore» (Gc 5,13-15).
Inoltre, nella tradizione cristiana la guarigione implica la fede da
parte del malato e il perdono dei peccati. È la fede che dà al paziente
la capacità di conoscere e partecipare al potere redentivo di Cristo,
che porta la riconciliazione, non solo con la comunità e gli antenati,
ma anche con Dio e con la chiesa.
Posti questi principi si impongono alcune domande: i cristiani che
lasciano le loro chiese per attendere alle sessioni di guarigione nelle
chiese indigene o per consultare le izangoma lo fanno perché dubitano
del potere di guarigione di Cristo, oppure perché non trovano nelle
chiese storiche quel supporto sociale, psicologico, comunitario che
hanno saputo creare le chiese indipendenti?
Soprattutto, per superare il disagio dei cristiani delle chiese
storiche, non basta rispondere alla questione se questa o quella
isangoma può ricevere la comunione. Il vero problema riguarda gli
aspetti di compatibilità o incompatibilità tra il sistema di credenze
africano e il cristianesimo. È una questione di quanta strada abbia
fatto il processo di evangelizzazione e se sia stato sviluppato o meno
un atteggiamento critico nei confronti della cultura tradizionale alla
luce del messaggio cristiano.
In tale processo critico, il potere di guarigione degli antenati e le
izangoma possono essere viste in una luce differente: la guarigione
viene mediante la fede in Cristo, invocato nel contesto del rituale di
guarigione tradizionale; gli antenati possono anche essere invocati,
non però come sorgenti ultime di potere in sé stessi, ma piuttosto come
mediatori, poiché ora è Cristo la sorgente basilare del potere di
guarigione.
Una cosa sta diventando sempre più chiara: la conversazione non avviene
in un giorno e l’annuncio del vangelo non può più essere un monologo.
Il sistema di credenze o la cosmovisione in cui è predicato il vangelo
devono essere presi seriamente in considerazione, fino a instaurare un
dialogo aperto.
Non si può pretendere di cancellare (o anche ridurre) la credenza nel
potente influsso degli antenati, semplicemente retrocedendoli a un
rango inferiore nella gerarchia delle forze. Stregoneria e divinazione
non spariranno dichiarandoli semplicemente una finzione
dell’immaginazione delle società tradizionali. La presenza degli
spiriti maligni resisterà contro ogni tentativo di bandirla
sommariamente dal cosmo africani.
È in questione la maniera tradizionale africana di affrontare i poteri
soprannaturali e la realtà del male. Queste forze costituiscono il
tessuto delle relazioni umane, sono una parte integrale dell’esperienza
religiosa africana e perciò la base di una spiritualità africana. Per
cui bisogna fare attenzione quando si è troppo preoccupati del potere
degli antenati, del male della stregoneria e della dittatura dei
demoni: cercando di eliminare il mitico e il superstizioso si rischia
di gettare via il bambino con l’acqua sporca.
Non è possibile giustapporre semplicemente una nuova serie di dogmi
accanto a «verità antiche», ritenendole ormai ridondanti o inadeguate
all’incontro con la fede cristiana. Il nuovo deve coinvolgere il
vecchio con tutta la sua limitatezza, altrimenti l’anima africana sarà
lacerata e strappata dal suo centro vitale e non riuscirà ad accettare
un altro centro su cui strutturarsi.
La novità evangelica deve essere articolata in tal maniera che
l’esperienza umana non venga privata del proprio modo culturale di
esprimersi e, al tempo stesso, deve permettere la trasfigurazione e
purificazione della vecchia verità, operate dal potere vivificante del
vangelo. 

Buti Tlhagale

Buti Tlhagale




La missione nello spirito di Cristo

16 febbraio: festa del beato Allamano, fondatore dei missionri e missionarie della Consolata

Una lettura del pensiero spirituale del fondatore dei
missionari e delle missionarie della Consolata alla luce della teologia
di San Paolo. Anche oggi l’inviato alla missione è colui capace di
lasciarsi «rivestire» da Cristo e orientare le proprie scelte
di vita apostolica sull’esempio del Maestro.

Chi gode di una certa familiarità con l’insegnamento spirituale di
Giuseppe Allamano sa quanto questi insista sull’importanza della
santità nella vita missionaria. Non tutti, però, si rendono conto di
quanta importanza egli attribuisca alla centralità della persona di
Cristo in questo cammino di santità.
Un altro fattore che balza agli occhi quando ci si avvicina allo studio
della spiritualità che l’Allamano desidera comunicare ai suoi
missionari e missionarie è il fatto che egli non trasmette altra cosa
se non quanto lo spirito ha concesso a lui stesso di sperimentare; in
altre parole, l’insegnamento che l’Allamano offre nasce dalla propria
esperienza spirituale.
Come Gottardo Pasqualetti ebbe modo di rilevare nel breve studio
dedicato alla persona di Gesù Cristo nella vita dell’Allamano, uno
degli elementi fondamentali nel cammino spirituale del fondatore fu,
fin dalla sua gioventù, il costante sforzo di «rivestirsi» di Cristo.
Nella teologia paolina il «rivestirsi» di Cristo si presenta in una
duplice prospettiva. Da un lato, nel battesimo noi siamo rivestiti di
Cristo, cioè, siamo uniti in tal modo alla persona di Cristo che,
usando un linguaggio figurato, potremmo dire che la sua vita invade
tutto il nostro essere: questo lo riceviamo come dono gratuito di Dio.
D’altro lato, chi fu rivestito di Cristo nel battesimo è chiamato
costantemente a rinnovare continuamente questa «vestizione» nella sua
vita, realizzando ciò che per grazia ricevette nel battesimo. Il dono
si fa pertanto impegno esistenziale; l’azione di Dio esige la
cooperazione dell’uomo. Esiste, pertanto, qualcosa che è dato, nel
senso che è già una realtà presente, realtà che però, nello stesso
tempo, è anche aperta al suo divenire.
Davanti alla nuova realtà ontologica, data dalla nuova unione con Dio
in Cristo, diventa quindi pressante l’invito che Paolo fa a
«rivestitirsi» del Signore Gesù. È un caldo invito a impegnarsi
costantemente a imparare da Cristo, ad assimilare il suo modo di
essere, di pensare e di fare, perché ciò che il battesimo realizzò
nella nostra vita possa trasformarsi in una scelta esistenziale. Questa
coscienza appare nitidamente negli insegnamenti dell’Allamano: essere
cristiano significa soprattutto rivestirsi di Cristo. Ogni cristiano
vive una chiamata alla santità, che consiste essenzialmente nel farsi
simile a Lui.
Il 6 di gennaio del 1917, festa dell’Epifania, l’Allamano commenta ai
suoi missionari l’omelia del cardinal Richelmy, arcivescovo di Torino,
tenuta per l’occasione in cattedrale. Le parole del cardinale lasciano
trasparire preoccupazione di fronte all’indifferenza religiosa la quale
fa sì che molti cristiani vivano la loro fede al minimo, senza
dimostrare entusiasmo e convinzione. L’Allamano completa la riflessione
dell’arcivescovo sostenendo che non basta essere battezzati e
frequentare le celebrazioni domenicali per essere realmente cristiani.
La vita di fede è un’altra cosa. Per potersi dire cristiano è
necessario che l’«uomo intero» sia trasformato a immagine di Cristo.

Questo aspetto della vita di fede, comune a tutti i cristiani, egli lo
applica, con alcune sfumature particolari ai suoi missionari. Il 28
settembre 1920, nella riflessione fatta in occasione della vestizione
clericale di un gruppo dei suoi seminaristi, prende come punto di
partenza un elemento concreto della vita dei missionari della
Consolata. L’istituto da lui fondato ha ormai quasi 20 anni di
esistenza e conosce già una certa espansione: oltre alle missioni del
Kenya, la congregazione di Propaganda Fide ha conferito anche la
missione del Kaffa (in Etiopia) e di Iringa (in Tanzania). I missionari
devono ora confrontarsi con un immenso campo di lavoro e, mossi da zelo
apostolico, sentono la necessità di aumentare significativamente il
personale per rispondere alle rinnovate esigenze della missione. Nello
stesso tempo, le urgenze della missione non devono far rinunziare ad
uno dei principi fondamentali del fondatore: quello della qualità. Non
è tanto il numero che conta, ma l’essere santi, sacerdoti e missionari.

Prendendo come spunto il significato della vestizione clericale, spiega
come questa indichi una certa separazione dal mondo, ma, soprattutto,
l’esigenza di «rivestirsi» dello spirito di Cristo.
In altre occasioni, l’Allamano applica le stesse riflessioni alla vita
missionaria: «Non mi basta essere cristiano, ma missionario; e devo
avere questa intenzione, e non basta volerlo, ma devo avee lo spirito
– e aggiunge – se non abbiamo questo spirito di farci santi a questo
modo, hic non est eius. Saremo ombre, ma non veri missionari» (CS
II,16).
A varie riprese, l’Allamano riprende questa insistenza sopra
l’importanza di conformarsi a Cristo per essere missionario secondo il
modello che lui vuole per i suoi: «Così pure voi, non solo dovete avere
lo spirito di nostro Signore; ma dovete avere i pensieri, le parole, le
azioni di nostro Signore. Voi dovete essere missionari nella testa,
nella bocca e nel cuore». (CS III, 16). E ancora, motivando i giovani a
prepararsi bene per la vita sacerdotale e missionaria, dice: «È questo,
d’ora in poi, tutto il vostro dovere: rivestirsi del Signore Gesù
Cristo» (CS I, 443).
Certamente, l’Allamano vede in Paolo quello che gli piacerebbe vedere
in ciascuno dei suoi missionari. Perciò ricorda loro una frase
dell’apostolo particolarmente significativa in questo contesto: «Siate
miei imitatori, come io stesso lo sono di Cristo» (1Cor 11, 1 in CS
III, 31).

Negli insegnamenti dei maestri di spiritualità di tutti i tempi
incontriamo un uso abbondante del linguaggio simbolico o allegorico. Lo
stesso succede con l’Allamano. Nella conferenza tenuta alle missionarie
il 21 febbraio 1920, traccia una bozza del suo cammino formativo.
L’ideale che propone è la santità, attraverso l’assimilazione dello
spirito di Cristo; che questo spirito: «Subito s’impossessi di tutta
l’anima nostra. Pervada: vuol dire che entri nelle nostre vene; faccia
come il pane, che si mangia, si digerisce, poi passa nel sangue e
questo va nelle vene (…). In modo che siamo noi, ma non siamo più noi,
come disse S. Paolo: “Vivo io, non più io, vive in me Gesù Cristo”»
(CSS III, 39). L’Allamano legge questa frase di S. Paolo ai Galati (Gl
2, 20) come espressione di un’unione esistenziale con Cristo tale che
l’apostolo sente la sua vita permeata dal Signore. Grazie alla sua
presenza nella vita di Paolo, Cristo è per l’apostolo un nuovo
principio di azione, parte intrinseca della sua identità e parte
costitutiva del dinamismo della sua personalità. Realtà, questa, che
l’Allamano esprime con la frase: «Farsi una sola cosa – con Cristo»
(CSS II, 304).

Altra frase di particolare interesse fu pronunciata dall’Allamano nella
conferenza alle suore del 1 dicembre 1918: «Affetti. È lì il punto…
Il nostro cuore se vive di fede fa le cose diversamente. S. Paolo era
tutto di Gesù, viveva di Gesù… Vivo, ma non sono io che vivo, è
Cristo che vive in me… Io vivo solamente nel Signore» (CSS II, 432).
In primo luogo, la frase ci mostra che per il fondatore gli affetti
hanno una dimensione particolarmente importante nella vita spirituale.
L’espressione: «Ecco il punto» richiama l’attenzione su un elemento
centrale, di particolare importanza. In secondo luogo, ed è quello che
più ci interessa, con questa frase l’Allamano continua a spiegare la
relazione di Paolo con Cristo. Dato che l’apostolo è visto per Allamano
come un modello speciale che egli invita i suoi discepoli a imitare,
possiamo dire che, in verità, egli si serva di Paolo per parlare della
relazione di ogni cristiano con il Signore. A livello di contenuto, la
frase fa riferimento a una relazione molto intima al punto da poter far
dire a Paolo: «Il Signore vive in me». Così come il cristiano partecipa
di tal forma della vita di Cristo, al punto da poter dire: «Io vivo nel
Signore».

Considerando entrambi questi elementi, così come li cogliamo nei testi
dell’Allamano, potremmo dire che l’esperienza di fede coinvolge la
persona nella sua totalità.  «La nostra fede se non si dimostra
nelle opere è fede morta (…) La fede dev’essere il principio e la
regola dei nostri sentimenti, delle azioni e di tutta la nostra vita»
(CS III, 264). Il che consiste, in primo luogo, in una esperienza di
amore alla persona di Cristo e nell’unione esistenziale con lui; questo
è l’elemento fondamentale dal quale nascono gli altri. Tale elemento
appare di forma particolarmente chiara nella sua conferenza alle suore
del 29 giugno 1917. Punto di riferimento è nuovamente Paolo, l’apostolo
delle nazioni, nel quale individua particolarmente accentuate due
virtù: «Insomma tutte le virtù le aveva, ma le due principali furono:
l’amore verso Gesù Cristo e le anime. Tutti i momenti nelle epistole
nomina Nostro Signore. Lo nominava con gusto, si vedeva che per lui era
tutto… Diceva: “Non sono mica io che vivo, io sono un fantasma, è
Gesù Cristo che vive in me”» (CSS II, 104).
L’Allamano, pertanto, riconosce in Paolo un cuore che vibra per il suo
Signore e questo amore costituisce un motivo fondamentale della sua
adesione a lui. Il suo è un amore totale e viscerale, per Cristo e per
l’umanità (CS III, 115). L’Allamano coglie la centralità di Cristo
nella vita di Paolo, il fondamento, a partire dal quale l’apostolo
organizza tutta la sua esistenza. Da questa relazione, come normale
conseguenza, nascono le opere. Quando Cristo vive in noi in forma
permanente, la sua presenza viene automaticamente resa esplicita dal
nostro agire (CSS II, 105). Ciò significa che, vivendo in noi, Cristo
agisce in noi e attraverso di noi (CSS I, 420).
Dentro questa prospettiva del «rivestirsi di Cristo», ci sono alcuni
elementi verso i quali Allamano orienta in modo particolare
l’attenzione dei suoi missionari.
Innanzitutto, nota come Cristo viveva in forma armoniosa un’intensa
attività apostolica e un’intensa intimità con il Padre, manifestata in
modo particolare nel silenzio e nella orazione (CSS I, 265).
In secondo luogo ricorda che lo stesso Gesù chiese di essere imitato
nell’umiltà e nella mansuetudine: «Imparate da me che sono mite e umile
di cuore». Sottolinea come  la mansuetudine abbia caratterizzato
costantemente tutto il ministero apostolico di Cristo e vuole che
diventi un’attitudine che marchi vita e attività dei suoi missionari:
sa, l’Allamano, che qualsiasi tipo di violenza costituisce un ostacolo
per l’evangelizzazione.
Terzo, il fondatore si associa alla meraviglia delle tante persone che
presenziando quanto Gesù realizzava nelle sue opere, pieni di
ammirazione esclamavano: «Ha fatto bene ogni cosa» (Mc 7,37).
Nell’esegesi attuale si identifica questa frase dell’evangelista Marco
come un’allusione al libro della Genesi (Gen 1,31), attraverso la quale
l’autore vuole presentare l’opera di Gesù come una nuova creazione. Le
parole dell’Allamano non puntano verso questa interpretazione. Al
contrario, mettono in evidenza il fatto che, dall’incarnazione al
Calvario, Gesù vede tutta la sua vita in perfetta sintonia con la
volontà del Padre. Per questa ragione, il fondatore insiste che «non
basta fare il bene, ma farlo bene; cioè che ogni nostra cosa anche
buona sia fatta nel retto fine e con tutte le circostanze volute da
Dio» (CS II, 669).
Questa frase fa riferimento a due elementi fondamentali: la retta
intenzione e la sintonia con la volontà di Dio. Fare il bene ben fatto
implica un’attitudine spirituale eucaristica: tutte le nostre azioni se
vogliamo farle bene dobbiamo farle per lui, con lui e in lui (CSS II,
305).
«Far bene il bene» si riferisce anche alla dimensione materiale delle
opere. Un accumulo eccessivo di lavoro, per esempio, può impedire di
fare questo lavoro bene. A questo riguardo, l’Allamano si mostra
contrario ad assumere territori di missione sproporzionatamente estesi.
Vuole, invece, che i suoi si limitino a prendersi cura di territori a
cui possano poi offrire adeguata assistenza. Non gli importa che siano
fatte molte cose, ma che quello che si fa sia fatto bene.
Quando l’Allamano parla di «imitazione di Cristo», non intende una
copia materiale del suo comportamento o una mera ripetizione delle sue
azioni. Questa espressione indica, al contrario, un’intima
partecipazione del cristiano alla vita di Cristo e, nello stesso tempo,
di Cristo nella vita del cristiano.
Molte volte, suggerisce ai suoi che si chiedano: «Che cosa farebbe
Cristo se si trovasse al mio posto?». Questa domanda, nella sua estrema
semplicità, riconosce che la vita cristiana esige un costante
discernimento. Spinge a conoscere il cuore di Cristo, il suo modo di
sentire e di relazionarsi con la vita, con gli altri e con il Padre,
facendo proprie le sue attitudini fondamentali. Saranno poi esse a
determinare il nostro comportamento nel contesto in cui viviamo,
inevitabilmente diverso da quello in cui visse Gesù e, quindi,
bisognoso di un approccio differente.
In altre parole potremmo dire che vivere di forma adeguata
all’esperienza di rivestirsi di Cristo comporta, in primo luogo,
l’assumere pienamente la dimensione storica della propria esistenza.
Ciò vuol dire che il cristiano vive inserito nel suo tempo, nel suo
mondo ma, nello stesso tempo, in costante riferimento alla persona di
Gesù. Questo lo porta a vivere come lui, ma nel proprio contesto
socio-culturale e storico. Un continuo discernimento diventa, quindi,
condizione essenziale per la realizzazione di una vita cristiana.
Questa infatti, per potersi considerare tale, deve essere vissuta non
al margine, ma inserita nelle tensioni e difficoltà caratteristiche
della storia: «Voi siete il sale della terra e la luce del mondo» (Mt
5,13).
Gesù, Dio e uomo, non rifiutò nulla di quello che è pienamente umano.
L’incarnazione mostra che non esiste opposizione fra il mondo di Dio e
il mondo degli uomini e qualsiasi tipo di dualismo che tenda ad opporsi
a queste due realtà non è autenticamente cristiano. Senza perdere di
vista che il tempo ancora deve raggiungere la sua pienezza e solo
allora la configurazione con Cristo risuscitato sarà pienamente
raggiunta. 

Luiz Balsan

Luiz Balsan è un missionario della Consolata brasiliano; dottore
in teologia, professore di spiritualità, attualmente è rettore del
seminario filosofico della Consolata di Curitiba. Collabora alla
rivista Missoes.

Abbreviazioni:
CS: Conferenze Spirituali
CSS: Conferenze Spirituali alle Suore

Luiz Balsan




Cari missionari

Continuiamo… la buona «battaglia»

Caro don Farinella,
grazie per i suoi interventi, dei suoi appelli e le sue «battaglie» (mi
perdoni il termine così brutto) di questi mesi. La prego: continui ad
essere voce profetica di una chiesa di comunione, capace di abbracciare
e amare il mondo, senza inchinarsi davanti ai potenti, né vagheggiare
nostalgicamente un passato così lontano dal cuore dell’evangelo.
Continui a insegnarci che la chiesa del Concilio, di papa Giovanni non
è una parentesi, ma il popolo di Dio in comunione con il resto
dell’umanità.
Un caro augurio, cui si associano mia moglie e il piccolo Lorenzo.
Affidandoci alle sue preghiere, l’abbracciamo con affetto. Shalom!
Andrea Fedeli
Roma

Rev.do Paolo Farinella,
tempo fa mi sono imbattutto in un suo articolo su Missioni Consolata
titolato «Nel giardino di Eden» (settembre 2005): è un’autentica pietra
miliare!
Dopo averlo letto ho avuto un pensiero di scriverle; tale pensiero si è
fatto decisione anche a seguito delle recenti affermazioni del nostro
Santo Padre in materia ambientale. Sino ad allora osservavo con
dispiacere quanto il tema ambientale fosse trascurato dalla chiesa o
per lo meno non valutato nella sua assoluta priorità epocale.
Dopo una vita dedicata alla scienza, ho capito che una scienza non
illuminata dalla fede può solo accelerare la devastazione del mondo; è
agli uomini di fede che ora tocca rifiutare le lusinghe di una scienza
tanto evoluta quanto cieca e di una politica senza alcun rispetto per
il mondo. Finalmente l’attuale Papa ci sta provando, non senza enormi
difficoltà.
Credo che la violenza umana sia «maligna», ma anche usata in ultima
analisi da Dio per punire violenze ancora peggiori; è forse il caso del
fondamentalismo islamico e delle derive sataniste di tanti giovani.
Può non apparire lecita o comunque veniale la violenza in un contesto
nel quale l’ipocrisia dei potenti soffoca l’intera creazione in un
abbraccio mortale? Lei è lucido, appassionato, usa la conoscenza delle
scritture per leggere la situazione attuale non per astrarsene.
Io ho accumulato esperienze in più rami della scienza, scrivo, tengo
conferenze e presiedo una piccola associazione ambientalista: mi
coinvolga e sarò lieto di usare le mie armi culturali per un attento
comune, con l’aiuto di Dio.
Con stima
Prof. Vincenzo Caprioli
S. Martino Sicc. (PV)

Le due lettere a don Farinella sono una
testimonianza dei numerosi riscontri che giungono in redazione, a voce
e per telefono, sul gradimento della rubrica biblica da lui tenuta.
Anche per noi sono uno stimolo per continuare a «lottare», alla luce
della parola di Dio, per la giustizia, la pace, la salvaguardia del
creato, parti integranti della missione e dell’evangelizzazione.
Chi volesse avere notizie sull’impegno sociale e culturale del prof. Caprioli può consultare il suo sito: www.iperlogica.it.

Bhopal… in rete

Gentile Redazione,
ho sfogliato la vostra rivista e devo dire con molto interesse, in
particolare mi ha colpito profondamente l’articolo: «Bhopal (India).
Delitto senza castigo» (M.C. dicembre 2006).
Vorrei chiedere il permesso di pubblicare l’articolo sul mio sito
(«www.javascriptenonsolo.org), previa informazione dell’autore e del
vostro sito. In attesa di un vostro riscontro porgo i miei più cordiali
saluti e faccio i migliori auguri affinché la vostra rivista venga
sempre più divulgata.
Vacca Silvano
via e-mail

Naturalmente abbiamo dato il permesso richiesto e
siamo ben felici che i nostri articoli abbiano la maggiore diffusione
possibile.

Russia:  «tempo perso?»

Gentile Direttore,
dopo aver letto il dossier sulla Russia, pubblicato dalla vostra
rivista nel numero di marzo 2001, in cui è riportata l’intervista a
padre Aleksey, parroco della SS. Trinità a Khokhly nel centro di Mosca,
mi sono permesso di scrivere a padre Aleksey  e moglie Masha, ma
le lettere sono tornate indietro per ben due volte.
Non potete dialogare con chi ha sentimenti non solo non-cattolici, ma
anticattolici. È tempo perso. Pensate piuttosto ai fedeli di rito
bizantino russo per far risorgere la chiesa dell’esarca beato Fedorov.
Con l’amicizia ci sarà sempre qualcuno che accetterà di venerare questo
beato. Questa è la propaganda da farsi.
Saluti e ringraziamenti.
don Vito Tedeschi
Carife  (AV)

Grazie, don Vito, per la sua lettera,
accompagnata da due articoli: l’uno sulla persecuzione religiosa in
Russia dal 1920 al 1960; l’altro, scritto dal metropolita cattolico di
Mosca nel 2002, dal titolo eloquente: «Per i cattolici non è cambiato
nulla».
Grazie anche per averci ricordato la figura di Leonid Fedorov
(1879-1935), pioniere dell’ecumenismo con i fratelli ortodossi (con i
quali condivise la dura prigionia), martire della fede, beatificato nel
2001. Siamo convinti che proprio il suo esempio testimoni come
ascoltare la voce dell’altro, anche quando dice cose spiacevoli, non
sia «tempo perso». Altrimenti che dialogo è?  
In questi ultimissimi anni sembra che le acque si siano calmate e si
stia timidamente riprendendo il dialogo con la chiesa ortodossa russa,
come sta avvenendo con quella greco-ortodossa. Ci auguriamo che
continui!

A proposito del «prete-compagno»

Sig. Direttore,
mi ha rattristato molto leggere nella pagina delle lettere, nel numero
di dicembre 2006, la risposta sul «prete-compagno»: non è costruttiva.
Non mi ha rasserenato. Volevo che lo sapesse.
Cordiali saluti.
Sac. Renzo Cortese
Sarzana (SP)

Cari missionari,
ho ricevuto il numero di dicembre di Missioni Consolata, ma purtroppo
non ancora il numero monografico di ottobre-novembre. È possibile che
sia in ritardo?
Nel ringraziare, vorrei approfittare nel congratularmi con il direttore
per la risposta «Il solito prete-compagno», condividendone in pieno il
contenuto. Bravo!
Grazie, cordiali saluti e i migliori auguri per il nuovo anno.
Paolo Zanella
 Malé (TN)


Le frecce tricolori … inquinanti

Cari missionari, sono rimasto esterrefatto, alcuni mesi fa, dalla
disinvoltura con cui gli uomini del centrosinistra, d’intesa con i loro
colleghi del centro destra, hanno silurato la senatrice Lidia Menapace,
«rea» di dichiarazioni «antipatriottiche» per aver criticato la
«pattuglia acrobatica nazionale» (Pan). Lungi da me la pretesa di fare
l’avvocato difensore della senatrice; se questa è la ragione della
mancata nomina alla guida della Commissione difesa del Senato, ebbene
consentitemi di dire che questa critica mi trova molto d’accordo. Non
sono per niente convinto che gli MB 339A/Pan rappresentino il meglio
del made in Italy.
Sicuramente c’è chi è affascinato dalla bravura dei piloti e dallo
spettacolo del cielo striato di verde, bianco e rosso; ma c’è anche
chi, da questo tipo di eventi, trae lo spunto per fare altre
considerazioni.
Innanzitutto, come precisano le stesse fonti dell’Aeronautica militare,
gli MB 339A/Pan sono stati concepiti per svolgere, oltre all’attività
acrobatica, anche missioni operative nel ruolo di cacciabombardieri
leggeri: sono in grado di trasportare cospicui carichi di armamenti e,
grazie alla loro manovrabilità, possono essere impiegati sia nei
cosiddetti «conflitti a bassa intensità» sia in operazioni belliche che
su più vasta scala.
In secondo luogo, gli aerei sono il mezzo di trasporto più inquinante
e, in particolare i bombardieri, consumano kerosene in quantità
allucinanti: tra i 10 e i 20 mila litri per ogni ora di volo.
Dunque è più estremista la Menapace o chi continua a parlare e agire
come se non fosse vero che l’ambiente è sempre più degradato anche per
colpa dei troppi aerei (civili e soprattutto da guerra) e delle troppe
agevolazioni di cui godono coloro che li costruiscono, li acquistano e
li usano: basti dire che, mentre tutti i tipi di combustibile, a
cominciare da quelli per il riscaldamento delle abitazioni, sono
supertassati, il kerosene per gli aerei resta esentasse, anche quando
il prezzo del petrolio sale alle stelle.
È più irrispettosa la Menapace, quando dice che di certe risorse
bisogna fare un uso meno ludico e più responsabile, o è più
irrispettoso l’ufficiale del Pan, quando, «sorvolando» (è proprio il
caso di dirlo) la questione del kerosene e del petrolio, crede di poter
tranquillizzare tutti, affermando che gli MB 339 non inquinano, perché
il bianco del tricolore altro non è che glicerina, mentre il rosso e il
verde sono pigmenti assolutamente in regola con la normativa Ue?
T rovo esagerato l’uso che si sta facendo dei cacciabombardieri a scopo
ricreativo: non sono giocattoli; non possono essere impiegati per
divertirsi o far divertire. Chi pensa il contrario, prima o poi, espone
se stesso e gli altri a rischi enormi. Non mi riferisco solo ai tragici
airshow di Ramstein 1988 e di Leopoli 2002 (155 morti e centinaia di
feriti), ma anche all’incidente della funivia del Cermis e a due
collisioni, avvenute non molto tempo fa, nei cieli del mare Egeo, tra
un top gun greco e uno turco, e nei cieli del mare di Sardegna, tra due
top gun italiani. Ho la sensazione che, in parecchi piloti, sia venuto
meno il senso del limite: quel limite che né l’uomo né la macchina
possono varcare.
Anche le esibizioni delle pattuglie acrobatiche stanno proliferando a
dismisura e i media riservano loro sempre più spazio: ormai anche tra i
tifosi più sfegatati c’è chi ammette che, con gli airshow, è ora di
darsi una calmata. «Se andiamo avanti così, tra un po’ le frecce
tricolori le chiameremo per festeggiare compleanni, cresime, matrimoni»
mi diceva uno di questi tifosi, riferendosi, tra l’altro, all’eccessiva
indulgenza che i vertici di un certo mondo ecclesiale hanno verso
l’elicotteromania, di certi novelli sposi e altre forme di
consumismo… «aeronautico».
Credo che un po’ di circospezione da parte dei cristiani, sia
necessaria anche in questo campo. Penso in particolare ai cristiani
della mia regione, le Marche, dove sorge il santuario della Vergine
Lauretana, la protettrice degli aviatori; penso ai bollettini diocesani
marchigiani, che sono sempre in prima fila quando si tratta di
magnificare le gesta della Pan.
È vero che le frecce tricolori non girano l’Italia e il mondo per fare
la guerra e che il cielo spruzzato di rosso, bianco e verde è sempre un
bellissimo spettacolo: ma è questo che il Signore vuole da noi? Siamo
sicuri che le evoluzioni acrobatiche degli MB 339 stiano favorendo il
compimento delle profezie di Isaia e Michea: «Forgeranno le spade in
falci e le lance in vomeri»? Profezie che i nostri pastori hanno
riproposto in tanti documenti e noi abbiamo tante volte meditato nei
tempi forti dell’anno liturgico e nelle veglie di preghiera per la pace.
Siamo sicuri che Raul Follereau non si riferisse anche alle pattuglie
acrobatiche, quando invitava a riflettere sul fatto che, se si
investisse in medicina e sanità ciò che si spende per un solo
cacciabombardiere, si potrebbe infliggere un colpo decisivo a una
malattia come la lebbra?

Domenico Di Roberto  – Ancona




Occhio ai poli

A partire da questo mese fino al marzo 2008, Artide e Antartide saranno
«osservati speciali». Le Nazioni Unite hanno infatti dichiarato il
2007-2008 «Anno internazionale dei poli» (Inteational Polar Year,
Ipy). L’obiettivo principale è quello di coinvolgere organizzazioni di
tutto il mondo in programmi di ricerca nelle regioni polari, iniziative
scientifiche, campagne ambientali ed eventi di ogni tipo. Da quando fu
tenuto il primo Ipy, ne lontano 1882-83, numerose iniziative di
carattere scientifico, intraprese da singole nazione e a livello
internazionale, hanno fornito un’infinità di dati che permettono di
comprendere la formazione e la storia del nostro pianeta e hanno
sviluppato varie discipline scientifiche che favoriscono la conoscenza
dei vari fenomeni globali.
All’interesse scientifico l’anno polare aggiunge lo scopo di promuovere
attività educative, per sollecitare e aumentare il pubblico interesse
circa l’impatto che le remote regioni polari esercitano sui sistemi
climatici dell’intero pianeta e, di conseguenza, sensibilizzare
l’opinione pubblica sui gravi problemi che minacciano le regioni polari
e si ripercuotono sugli altri continenti. Nessuno dubita
dell’interdipendenza tra le masse glaciali dell’Artide e Antartide e il
resto del globo terracqueo. I cambiamenti climatici che avvengono ai
poli provocano cambiamenti nel resto del del pianeta e viceversa.

Il confronto tra i dati foiti dai satelliti e quelli raccolti dalla
rete di stazioni permanenti stabilite nelle regioni polari indicano che
i ghiacciai artici stanno diminuendo in spessore e si accorciano
mediamente di 50 metri l’anno; gli stessi dati satellitari affermano
che dal 1979 al 2005 la fascia climatica subtropicale si è allargata di
1° di latitudine, pari a 120 km sia a nord che a sud. Causa di tali
cambiamenti è il surriscaldamento globale, provocato dalle emissioni
del cosiddetto gas serra.
Fino a pochi decenni fa, afferma lo scienziato americano Barry
Commoner, un guru nel campo dell’ecologia, «tale riscaldamento era
graduale e regolare. Ora, invece, ci troviamo di fronte ad
accelerazioni improvvise, sterzate brusche, imprevedibili nella loro
esatta dinamica, che portano al moltiplicarsi delle ondate violente di
calore e degli uragani». Ne è una prova l’anno 2006: è stato il 6° anno
più caldo dell’epoca modea. La temperatura media della superficie
terrestre è stata di 0,42°C superiore alla media del periodo 1961-1990.

Continuando di questo passo, se cioè non si pone rimedio al fenomeno
del riscaldamento globale, afferma uno studio voluto dalla Unione
europea e pubblicato lo scorso gennaio, entro la fine di questo secolo
esso potrebbe aumentare di 3°C, con conseguenze catastrofiche per
l’intero pianeta e in particolare per molte regioni europee:
desertificazione delle zone del Mediterraneo (Italia, Spagna e Grecia),
tropicalizzazione dei mari, modificazioni della flora e della fauna,
innalzamento del livello del mare di circa mezzo metro nei prossimi
decenni e quasi un metro alla fine  secolo. Ciò significa la
scomparsa di città lagunari e costiere, sommersione di pianure
fluviali, compresa buona parte della pianura padana.

La diagnosi è chiara – afferma Barry Commoner – e non ci sono
alternative: per salvare la nostra società e le loro economie bisogna
uscire dalla dipendenza dal petrolio e dai combustibili fossili.
Bisogna lanciare il fotovoltaico e risorse rinnovabili, aumentare
l’efficienza energetica e trasferire il traffico dalla gomma al ferro».
È quanto propone la Commissione europea, per riducendone l’aumento al
2°C: diminuire del 20% le importazioni europee di gas e petrolio entro
il 2030, tagliando così il 30% dei gas serra entro il 2020 e il 50%
entro il 2050, e promuovere l’incremento delle le tecnologie pulite.
Tale impegno chiede la collaborazione non solo di stati e rispettivi
governi, ma anche del singolo cittadino. Da anni parliamo della
necessità di cambiare i nostri stili di vita, che si concretizza anche
nel risparmio energetico e adozione di fonti non inquinanti. È in gioco
il futuro del pianeta, che il Creatore ci ha affidato per «lavorarlo e
custodirlo» (Genesi 2,15).
L’anno polare offre uno stimolo in più per prendere coscienza dei
problemi che minacciano il nostro pianeta e per impegnarci nella
salvaguardia del creato. 

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Malawi – Strade africane  (seconda puntata)  

Seconda puntata

 


 


Un aspetto importante da considerare, quando ne hai la possibilità, è la scelta del posto in cui sedersi. Generalmente è preferibile qualsiasi sedile sul lato destro del mezzo, perché a sinistra si trova la porta scorrevole di ingresso e uscita e spesso tutti quelli che si trovano sul passaggio devono uscire per far scendere quelli che dai sedili posteriori fanno richiesta di fermata. Ah, dimenticavo: la chiamata della fermata consiste in un urlo al conducente o al controllore.


Un’altra componente che accompagna questi scatoloni mobili è la musica, il più delle volte tenuta a volumi insopportabili, se non altro perché gracchiante come un gessetto sulla lavagna, oltre che eccessivamente affezionata alle sdolcinerie di Celin Dion.


La visuale sul mondo esterno è il più delle volte parziale; tra una massa di corpi, teste, ombrelli, contenitori, verdure, vedi sfrecciare il paesaggio, e sopratutto lo senti scorrere sotto di te, tra scrolloni e sterzate poco morbide.


Spesso le schiene delle donne cominciano a muoversi come deformate, per scoprire che ci sono dei bambini che ricordano la loro presenza e l’esigenza di respirare. Io non riesco a raggiungere il portafogli, mentre queste donne, con un paio di ancate e colpi di reni, riescono a far slittare i loro bambini verso l’agognata poppata.


La tappa a Chirazulu è quella che presenta più dubbi sulla prosecuzione del viaggio. Minibus che proseguono verso la tappa successiva, Milepa, una ventina di chilometri, non ce ne sono piu’. Bisogna attendere un camion di passaggio, o un track (pik-up col cassone posteriore adibito a trasporto persone). Questi ultimi sono di passaggio solo quando ormai pieni di gente (in Africa gli spostamenti dei mezzi cercano il più delle volte di ottimizzare aspettando di partire solo quando completi di passeggeri). Il luogo dove attendere questi mezzi è in corrispondenza di una lunga curva, alla fine della quale termina la strada asfaltata e comincia quella sterrata.


L’attesa può durare quindici minuti oppure un’ora e mezza. Il tempo scorre facendo due passi tra le bancarelle improvvisate (spesso consistenti in semplici teli stesi a terra) dove puoi trovare una bibita, delle patatine fritte, pannocchie arrostite, qualche biscotto e saponetta, manghi e banane, a seconda della stagione. Non mancano poi le chiacchierate con il poliziotto di passaggio, il responsabile dell’ufficio servizi sociali, adiacente alla curva, o qualsiasi altra persona desiderosa di scambiare due chiacchiere e curiosa di sapere cosa fa il musungu (uomo bianco) a piedi da quelle parti.


(fine seconda puntata – continua)


Dario Devale

Dario Devale




CATTOLICESIMO

 

La pace: riposo di dio nell’uomo

Nelle parole di Gesù raccolte dai vangeli, la pace assume un significato particolare: esprime un’integrità dell’uomo, effetto della grazia di Dio.
È la sua forma intatta, così come il Signore la concede: per questo «pace» non appare tanto come antitesi di «guerra» (in senso militare), quanto di «peccato» (lo stato di inimicizia interiore dell’uomo).
Del resto, «in pace» è l’espressione ebraica tipica di chi esce incolume da un incidente che avrebbe potuto causargli seri danni fisici.
Anche nel Primo Testamento era assente il riferimento alla pace come interruzione di un conflitto armato: Dio è anche il «Dio degli eserciti» del popolo di Israele.
Anche nella massima «vita militia est», che sintetizza l’impegno del cristiano nel mondo, il combattimento è certo spirituale, ma non per questo perde le sue caratteristiche di battaglia.
Il cristianesimo delle origini non sceglie la pace come opzione culturale o esistenziale, piuttosto la chiede come dono ricevuto gratuitamente da Dio. Le parole di Gesù erano chiare al proposito: «Vi do la mia pace… non come la dà il mondo».
La pace cristiana non è dunque la classica eirené, il rilassamento del saggio, bensì una tensione dell’inquieto cuore alla meta, poiché essa sola è pacifica. Consiste nella carità, cioè nell’amore di Dio: nel doppio senso di amore che il credente prova per Dio e che Dio manifesta al credente.
La storia della spiritualità cattolica successiva è anche la storia delle forme che la pace assume nella vita degli uomini e delle società, dopo che le comunità si sono espanse nell’ecumene romana.
In pieno medioevo, il padre della chiesa san Beardo di Chiaravalle era «doctor mellifluus», cantore estasiato di Maria Vergine e delle dolcezze della vita contemplativa, ciò non gli impediva di farsi anche predicatore della crociata.
Prima di lui, da sant’Agostino («il mio cuore è inquieto finché non riposa in te») a sant’Ambrogio («Dio trova riposo nell’uomo»), la pace è stata vista e vissuta come dono di Dio all’uomo, che vive nelle vicissitudini terrene, ma rientra nell’alveo della fiducia (preghiera, lode, sacrificio…).
Sempre in tempi medievali, la pace è pace dell’anima e appartiene all’altra vita: qui gli esempi maggiori, e più noti, sono il Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi e la sua preghiera «O Signore, fa’ di me un istrumento della tua pace». Se ne ricorderà Dante, raffigurando l’inferno come assenza di pace, in quanto assenza di Dio dall’anima dell’uomo (dannato), e il paradiso come luogo di coloro che hanno fatto già in vita spazio al Creatore: «e ‘n la sua volontade è nostra pace» (Piccarda, Par. III,85).
Petrarca è invece il prototipo dell’ambivalenza umanistica e poi modea, nel suo sonetto «Pace non trovo et non ò da far guerra».
Nel Cinquecento spagnolo, il grande mistico carmelitano san Giovanni della Croce, nel Cantico Spirituale, pone il quesito all’anima modea: si va al Dio della pace attraverso la «notte oscura» della tribolazione.
La pace cattolica dopo le rivoluzioni scientifica e illuminista è rappresentata dal Manzoni nella «notte dell’Innominato» e anche nel viaggio di Renzo verso l’Adda, in fuga dalla Milano appestata: è una pace temporanea, ma radicata nel mistero della vita dopo la morte.
Un romanziere contemporaneo, Eugenio Corti, rappresenta la condizione dell’uomo in guerra ne «Gli ultimi soldati del re»: la pace è l’amore per Dio e i fratelli, anche in circostanze estreme, anche in guerra, non odiare mai! La pace cattolica si condensa nell’amore verso il prossimo, che è specchio e sostanza purissima dell’amore per Dio; dicono i padri: «Hai visto il tuo fratello, hai visto il tuo Dio».

Andrea Sciffo


Il papa: risorsa formidabile per la pace

Oggi sono invitato a parlare come «testimone». Ruolo inedito per un prete, che sempre rischia di scadere a fare il predicatore! Ma noi cristiani siamo chiamati «a rendere ragione della speranza che è in noi», a essere proprio e solo questo: testimoni! Anch’io, «prima di essere prete per voi, sono cristiano con voi» (s. Agostino). E ho accettato, prima come cristiano e poi come cattolico! Non per tradire la mia identità, ma per valorizzarla!
La chiesa cattolica (nel senso di universale) nasce con la controriforma nel xvi secolo, in contrapposizione a Lutero: quindi per differenza, per guerra!
Gesù l’aveva detto: «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada, a mettere figli contro padri, uomo contro donna…». La pace non è quieto vivere e non è cristiana, se confusa con il buonismo.
Il cattolicesimo immediatamente richiama papato e Vaticano: formidabili risorse. Disporre di un’unica autorità ci conferisce, all’interno, unitarietà nella fede, garanzia di messaggio e di verità, perché il pericolo della dispersione è tremendo. All’esterno ci rafforza «politicamente» (in senso alto, non partitico) nella società internazionale, e ci libera dai poteri forti, economici e politici.
I veri padroni del mondo, 200 famiglie ricche quanto 2 miliardi di uomini, fanno molta paura agli Usa e agli arabi, ma non intimoriscono la chiesa cattolica!
Il rappresentante vaticano all’Onu subisce le stesse pressioni di tutte le altre religioni, eppure è libero di parlare nell’interesse di tutta l’umanità senza timori reverenziali verso alcuno. Giovanni Paolo ii, pur inascoltato, ha detto chiaro a Bush: «Non fare questa guerra». La pace che la chiesa cattolica porta si fonda sulla forza della pulizia e della libertà… non sulle armi.
Potere esprimere questa autorevolezza col volto del papa è una fortuna mediatica, che le altre religioni non hanno.
Osama Bin Laden è il volto degli islamici, ma non ne rappresenta che il 2%. Il buddismo ha il Dalai Lama, ma non tutti quelli del passato avevano la stessa comunicativa dell’attuale.
Il papato ha anche evitato ai cattolici di avere chiese nazionali come, purtroppo, hanno gli ortodossi. Le loro chiese: greca, russa, rumena… sono distinte fra loro e tutte rischiano pericolose identificazioni politiche ed etniche con i propri stati.
Quanto a quelle protestanti, alcune (specie le più americane: battisti, mormoni e altri) spesso si piegano agli interessi delle multinazionali. Nessuno ha l’autorevolezza del papato nel porsi come primo ostacolo alle guerre «per la democrazia» o «del sottosviluppo».

Passando dalla diplomazia alla nostra realtà quotidiana, io ringrazio gli immigrati! Venendo da noi e portando con sé le proprie convinzioni, stanno sconquassando la nostra società svuotata di valori e passioni. Risvegliano nei cattolici incolori l’esigenza di una più consapevole e sana identità, di scelte coerenti, e la capacità di argomentare le ragioni della propria fede: la pace non va confusa con l’inerzia! E favoriscono il dialogo interreligioso che definisco come: confronto e arricchimento reciproco. È bello quando mi parla di Dio, col secchio in mano, il muratore musulmano che lavora nella mia chiesa!
Quanto alla reciprocità dobbiamo rivendicare la nostra libertà di non averla. È giusto che la chiedano i politici e governanti… Ma i cristiani no! Gesù ci ha insegnato a porgere l’altra guancia ed è morto per tutti, lui solo!
Nella chiesa i laici devono contare di più, ma essere più sanamente laici, consapevoli delle proprie ricchezze culturali, orgogliosi di un maestro come Cristo, ma non «più papisti del papa» e integralisti, ovvero pericolosamente ignoranti…

 Don Armando Cattaneo


DOMANDA

Pace come riposo in Dio, bello… ma se uno non crede? E non chiedere reciprocità non è vergognarsi di Dio?
Il riposo del cuore non deve arrivare troppo presto: la fede è ricerca e fatica; spesso è difficile da trovare. La pace cristiana è una ricerca esistenziale, non intellettuale, ma non è mai disperata. Ad Auschwitz si chiedeva: «Dov’è Dio adesso?». «È là, impiccato con le altre vittime» fu la risposta. Nelle difficoltà il mio prete di paese mi raccontava sempre questa storia: «Quanto è alta la burrasca? Anche la burrasca più alta non supera i 40-50 metri; ma il mare è profondo migliaia di metri… e sotto la burrasca c’è la pace».
Vergogna? No, solo chi accetta il dialogo ha forza e la dimostra; più si è insicuri e più ci si irrigidisce. L’incontro interreligioso di Assisi nel 1986 è stato un segno di grande forza di papa Wojtyla.
Don Cattaneo

Andrea Sciffo, insegnante di lettere, giornalista e scrittore, studioso di letteratura e costume, ha frequentato la scuola di teologia per laici del decanato di Monza e la facoltà di teologia al Pontificio ateneo della Santa Croce in Roma. Collaboratore del centro culturale Talamoni di Monza, ha pubblicato saggi e prose e scrive per vari mensili (Studi cattolici, Fogli, Il Testimone).
Armando Cattaneo, parroco a Cinisello Balsamo (MI), giornalista e scrittore, fondatore e direttore per vari anni del Circuito Marconi (network radiofonico di 25 radio private cattoliche in tutta Italia), ha di recente fondato il sito www.jesus1.it, di cui è direttore. Collabora con la rivista Famiglia Cristiana.

Andrea Sciffo e Armando Cattaneo




PROTESTANTI E ORTODOSSI

Troppa religione  crea conflitti

Per affrontare correttamente il tema proposto è indispensabile distinguere fra fede e religione che, pur strettamente implicate l’una all’altra, restano distinte e non sovrapponibili.
La religione rimanda a una dottrina, a un itinerario etico e ascetico da percorrere per raggiungere una meta: è un movimento dal basso verso l’alto, che ha come protagonista l’homo religiosus.
La fede implica invece l’annuncio di un evento da accogliere, un’iniziativa divina che ci precede e che suscita una risposta: è un movimento dall’alto verso il basso, di un Dio che viene.
Religione sono le opere messe in atto da un’istituzione ecclesiale. Fede è ascolto di una verità donata per grazia da Dio.
Questo significa che la religione è deputata alla gestione terrena di una verità trascendente. Come tale crea istituzioni, comportamenti, appartenenze. Dona identità individuale e collettiva: ci dice chi siamo noi, come credenti, rispetto ai non credenti o a chi crede in altro.
La fede, invece, come totale accoglimento di una Parola divina non in nostro possesso, può arrivare a cancellare la nostra identità, per farci donne e uomini nuovi, guidati dallo Spirito di Dio.
Oggi le religioni sono entrate come attori primari nel teatro di un mondo segnato dal pluralismo che, proprio in quanto incrocio di culture diverse, mette in crisi le identità acquisite. In assenza di ideologie laiche forti, oggi le religioni diventano veicoli di identità collettiva: foiscono simboli e categorie di pensiero per rappresentare se stessi, per differenziarsi dagli altri e dominarli.
Fondate sulla convinzione di detenere verità assolute, le religioni diventano fattori di identificazione culturale per grandi collettività umane; di conseguenza possono legittimare conflitti, contrapposizioni politiche e guerre.
In tutto il racconto biblico si ritrovano i guasti della religione e una sua forte critica condotta sulla base della fede (Cfr Michea 6,6-8). Nessuna religione è immune da questa deriva.

Le chiese protestanti storiche sono consapevoli dei problemi che possono derivare da un eccesso di religione. In Italia sono fautrici di una netta distinzione fra chiese e stato e critiche verso le nuove ideologie (atei devoti), che rivendicano un’identità cristiana europea e un’identità cattolica italiana come radice e fondamento di un’appartenenza collettiva in contrapposizione ad altre civiltà.
Negli Usa, al contrario, la destra religiosa (protestante ndr) costituisce un fronte politico e teologico conservatore, centrato su valori tradizionali che attribuiscono all’America cristiana un ruolo di guida nel mondo in campo etico, politico e militare.
Quanto alle chiese ortodosse, proprio per il fatto di essere autocefale (indipendenti per vita e organizzazione intea), sono storicamente divenute «etniche» e quindi deputate a preservare e difendere l’identità collettiva di un popolo. In quanto (letteralmente) «custodi della vera fede» sono anche tradizionaliste e critiche nei confronti di una netta separazione fra chiesa e stato.
In definitiva, dunque, l’intreccio fra religione e fede è inestricabile. Nelle attuali condizioni storiche non si può mirare a una fede pura che faccia a meno della religione. Ma è sempre possibile attuare una forte critica delle religioni a partire dalla fede. Non si può pretendere di essere gli unici custodi dell’unica fede vera, relegando tutti gli altri nell’errore. L’unica via che le religioni possono percorrere verso la pace è quella di un dialogo ecumenico e interreligioso, condividendo la consapevolezza che l’eccesso di religione è fonte di conflitti.

Giampiero Comolli

La fede…non è mai troppa

Il cristianesimo deve mantenere distinte fede e religione. In tutti i vangeli Gesù polemizza duramente con coloro che ne mescolano i piani. Con Karl Barth, andrei oltre la distinzione arrivando a contrapporle. Nella visione, assai «protestante», di questo importante teologo del xx secolo, «l’uomo religioso» diventa il peccatore per antonomasia. «Peccato» è proprio il «tentativo religioso» di raggiungere Dio: che Gesù denunzia come illusione e «giogo», al quale la religione (di scribi e farisei) vuole sottoporre la gente del suo tempo.
Una denunzia radicale da comprendere con intelligenza. Anche nella bibbia è sempre estremamente difficile, direi impossibile, distinguere fra la rivelazione di Dio e il modo in cui gli esseri umani l’hanno ricevuta.
Come cristiani dobbiamo vigilare sulle possibili confusioni tra fede e religione, pericolosissime e foriere di tragedie: le crociate, il colonialismo perpetrato nel nome di Dio, il «Dio è con noi» riportato sulle fibbie dei cinturoni dei soldati nazisti… Bisogna mantenere una netta discontinuità fra Dio e l’uomo, affinché neppure l’autorità della chiesa si sostituisca a quella del vangelo.
La fede, invece, non è mai «troppa», poiché è la condizione di chi è afferrato da Dio; non è mai una virtù, né un privilegio di qualcuno. È piuttosto una vocazione.

Oggi si assiste a una sindrome da ripiegamento identitario pericolosissima, in gran parte veicolata dalle religioni. In nome della distinzione fra religione e fede non dobbiamo lasciarci strumentalizzare da chi vuole terrorizzare gli altri evocando lo scontro fra cristianesimo ed islam.
Io non credo sia in atto uno scontro fra civiltà. A scontrarsi sono teocrazia e fondamentalismo da una parte; tolleranza e dialogo dall’altra. La posizione integralista e quella del dialogo sono presenti in tutte le religioni, bisogna lavorare perché si diffonda e affermi la seconda.
Mi pare inaccettabile, per esempio, la convinzione di chi, in Italia, pone il discorso dei diritti e della libertà (di coscienza, di fede, di espressione) sul piano della reciprocità. Concedere questi diritti solo nella misura in cui anche gli altri stati (Arabia Saudita, Sudan…) li concederanno, significa declassare il vangelo, che è gratuito, a merce di scambio. Dobbiamo invece favorire la convivenza pacifica di culture e religioni diverse, iniziando dal nostro paese e seguendo l’esempio di Gesù nel suo incontro con la samaritana (Giovanni 4).
Un incontro vietato: giudei e samaritani non si parlavano da generazioni; il disprezzo dei giudei per i samaritani era assoluto; e la donna, avendo avuto molti mariti e compagni, aveva una pessima reputazione. Ma Gesù parla e fa parlare. Questo dovrebbero essere le chiese «cristiane»: luoghi di un dialogo possibile con chi è diverso. Chiedendole poi da bere Gesù si pone in una condizione di dipendenza dalla donna. Ci dice che ognuno di noi ha bisogno degli altri. Viviamo tutti in una situazione di interdipendenza reciproca, che troppo spesso dimentichiamo. Il dialogo, la mutua comprensione e la convivenza sono possibili solo su queste basi.
Infine, Gesù pronunzia le famose parole: «L’ora viene che né su questo monte, né a Gerusalemme, adorerete il Padre. I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità». Non vi sono più luoghi sacri o templi, semplicemente una relazione diretta con Dio, che prescinde dalle istituzioni, dalle tradizioni, dalle norme religiose. È il superamento della religione, che porta con sé l’espressione di una fede libera e liberante.

 Giovanni Genre

DOMANDA

Quella che avete presentato non è un’eccessiva demonizzazione della religione?
Ho enfatizzato la distinzione fra religione e fede, perché oggi la religione è troppo forte e la fede troppo debole; è necessario un maggior riequilibrio ma religione e identità non sono valori da abolire.
Comolli

L’appartenenza alla chiesa aiuta; la chiesa è necessariamente comunitaria. Ho bisogno di confrontarmi con gli altri, di pregare assieme. Non può esistere un mondo a-religioso. D’altra parte è vero che in occasione dei conflitti le religioni sono strumentalizzate, ma sono anche convinto che le chiese hanno un po’ lasciato fare e non hanno denunciato a sufficienza i genocidi.
Genre

Giampiero Comolli, studioso dei mutamenti religiosi nel mondo contemporaneo, giornalista, saggista e scrittore, collabora con diverse testate per le quali scrive resoconti di viaggio e ha pubblicato diversi saggi, tra i quali: Buddisti d’Italia, viaggio tra i nuovi movimenti spirituali; I pellegrini dell’Assoluto, storie di fede e spiritualità raccolte tra Oriente e Occidente.
Giovanni Genre, originario del Piemonte, laureato presso la Facoltà valdese di Roma, con studi in Scozia e Germania, nel 1984 è stato consacrato pastore della chiesa valdese e ha esercitato il suo ministero a Torino, in Calabria, Ivrea, Biella, Val Pellice. Eletto moderatore della Tavola nel 2000, dal settembre 2005 è pastore della chiesa valdese di Milano.

Giampiero Comolli e Giovanni Genre




EBRAISMO

Il sentirnero di Isaia

Negli anni ‘50, Giorgio La Pira (sindaco di Firenze tra gli anni ‘60 e ‘70) girava il mondo avvertendo che tutte le guerre erano vecchi aesi, perché il terzo millennio sarebbe stato il millennio dei bambini, dei monaci, dei poeti, dei poveri, degli artigiani… Lo diceva a tutti i potenti dell’epoca e proponeva la profezia del «sentirnero di Isaia» (Is. 2,2-5). In essa Israele, per diritto e per grazia, ha il ruolo di guida dei popoli verso il monte del Signore: perché tutti imparino la Torah e disimparino l’arte della guerra, convertendosi a relazioni di pace.
In realtà tutto sembra andare al contrario. La guerra contro il terrorismo lo alimenta e ingrassa. Le elezioni, che avrebbero dovuto condurre i palestinesi alla democrazia, portano un estremista a essee il capo. Si vuole la pace in Medio Oriente e Hamas ha nei suoi programmi la distruzione dello stato d’Israele che, per difendersi dagli attacchi, finisce per costruire un muro. Crescono violenza, illegalità e ingiustizia. La paura domina i giorni e le notti. Ma è solo la polvere che copre la superficie. Scendendo a un livello più intimo ci accorgeremo che i «segni dei tempi», i tempi di Dio che parla e ci chiede di essere segno visibile della sua immagine e somiglianza nel mondo, sono nell’ordine della profezia. Per capire come coglierli occorre intendersi sul significato delle parole che usiamo.
Il termine oggi più abusato e malinteso è «religione». La religione nasce dalla paura del limite umano, della morte: sentimento profondamente umano, che accomuna tutte le religioni. La divinità è percepita contemporaneamente come causa del proprio limite e come meta del proprio desiderio.
Spazi (templi/chiese) e tempi (sacrifici/liturgie) sacri sono il pedaggio che l’uomo paga in cambio della protezione divina. L’uomo religioso crede in un Dio, reale o immaginario, con cui viene a patti, pur di avere protezione, assistenza, sicurezza, garanzia. La forza della religione risiede nella tradizione, per sua natura ripetitiva, immobile, immodificabile e per questo rassicurante.
Fede è il contrario di religione. Nasce da un incontro personale e fisico con qualcuno con cui si instaura un rapporto di conoscenza e di sentimenti, che diventano comunione e scambio di vita. Non espressione di paura, ma atto di amore, la fede non è legata al tempo e allo spazio; quindi non ha bisogno di liturgie o di tradizioni e può essere vissuta ovunque, perché si fonda sull’esperienza personale. L’orizzonte dell’incontro non è più il cielo da scalare, ma la terra/umanità.

In questo senso ebraismo e cristianesimo si differenziano da ogni altra religione, perché presuppongono una fede in un Dio incarnato nella storia d’Israele e nella carne del Figlio di Maria.
Infatti, sul Monte Sinai Israele riceve non la legge, ma la Torah, cioè la persona stessa di Dio, che non si esaurisce nelle norme. Israele non riceve semplicemente una rivelazione, ma dialoga con Dio e la sua unicità consiste nell’identificazione del popolo con la propria religione. Risposero gli ebrei a una sola voce: «Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo». In questo sta la grandezza di Israele: si fida ciecamente di Dio; ed è questo Dio che deve annunciare al mondo, se questo mondo deve salvare.
Nel giorno dello Yom Kippur (giorno dell’espiazione), il sommo sacerdote entrava nel santo dei santi del tempio di Gerusalemme con gli abiti sacerdotali della solennità: sulla fronte portava la vite d’oro, simbolo dell’unità del popolo d’Israele; sul petto teneva l’efod, una stoffa rigida a forma di rettangolo su cui brillavano 12 pietre preziose, simbolo delle 12 tribù d’Israele; sulle spalle un mantello nel cui orlo inferiore erano cuciti 72 campanelli, simbolo dei popoli che abitavano la terra.
La liturgia nel tempio di Gerusalemme aveva queste tre caratteristiche: richiamava l’unità (vite d’oro), esprimeva la diversità (efod) e assumeva l’universalità, includendo anche i popoli pagani (campanelli). È tempo di riprendere questi temi e viverli nel nostro oggi.

Don Paolo Farinella

Più vicini a dio, più luce ci sarà

L’ebraismo ha così tanti precetti, positivi e negativi, rivolti a Dio e al prossimo, che essere ebrei non è solamente una concezione religiosa, bensì un modo di vivere molto difficile. Suo fondamento è la Torah, già in sé un paradosso. È particolare, perché vi è scritta la storia del popolo ebraico, da Abramo fino alla morte di Mosè, e contiene i precetti; ma è universale, perché riguarda tutte le creature del mondo. Se Dio avesse voluto dare la bibbia solo a Israele, l’avrebbe iniziata con la sua storia e non con la creazione! Noè non era ebreo, eppure è scritto che un uomo giusto era nella sua generazione. Non è necessario essere ebrei per essere giusti e degni di entrare in paradiso vicino a Dio benedetto, ma bisogna essere persone rette.
I comandamenti che Dio ha dato all’umanità fondano la morale del mondo in cui ci riconosciamo. La morale ebraica viene dalla Torah, perciò è divina e immutabile. Dio sa dove l’uomo sbaglia, perché l’ha fatto lui, perciò gli ha posto degli argini. Esiste però anche la morale del mondo contemporaneo che cambia con le esigenze delle generazioni e dei popoli. Se fossimo veramente religiosi, cioè capaci di percepire la santità di Dio in ogni azione e creatura vicino a noi, il nostro rapporto con Dio e col prossimo sarebbe totalmente diverso. La pace sarebbe una conseguenza scontata.
Si guardano spesso i punti in comune tra le varie religioni, ed è davvero importante. Ma bisogna anche guardare le differenze, conoscendole si abbattono i pregiudizi. Sono la paura e la non conoscenza che ci fanno fare cose non giuste; quindi bisogna ampliare la conoscenza: è fondamentale.
A Milano abbiamo appena fondato il Forum delle religioni. Un traguardo enorme, con tutti i rappresentanti delle religioni: cristiani, ebrei, musulmani, buddisti, scintornisti. Ma è solo l’inizio di una reciproca conoscenza, da estendere alla base e non limitare ai vertici.
I l popolo di Israele è chiamato a essere popolo «eletto». Traduzione imprecisa. La radice della parola ebraica vuol dire «capace»… di distinguersi dagli altri popoli per l’osservanza dei precetti divini della Torah ed essere d’esempio.
Però siamo esseri umani e sbagliamo. In Israele si dice: la vita non è un pic-nic! Sarebbe bello se lo fosse, invece è spesso sofferenza. Che fa crescere e capire certe cose. Ci rendiamo conto dell’importanza di un bene o di una persona solo quando le perdiamo.
È così anche per la pace: dovremmo apprezzarla di più quando l’abbiamo, quando viviamo in un momento di pace. La pace biblica è una pace «completa». In ebraico le parole saluto, essere completi e Gerusalemme hanno la stessa radice, quindi c’è un legame fra di esse. Quando si incontra qualcuno in Israele il saluto, shalom, è augurio di poter essere completo, di non avere nessuna mancanza.
Tra gli esseri umani, quando due persone fanno pace, uno dei due ci rimette sempre. Nella bibbia non è così: nello shalom biblico entrambe sono complete e soddisfatte. Quindi l’augurio che bisogna farsi è quello di arrivare veramente a questo.
Riuscirci dipende da noi. Dio ha creato il mondo e poi ce l’ha dato, con le qualità per fare o distruggere. Il problema è che siamo sulla terra solo di passaggio, ma spesso ce ne dimentichiamo, pensando di essere eterni. Anche per chi vive a lungo la vita vola in un batter d’occhio. Non sta a noi finire il lavoro, sta a noi iniziarlo!
Il Talmud dice che chi salva una vita salva un mondo intero. È importante il contributo individuale: se accendiamo una luce, ciascuno ne accenderà altre e più vicini a Dio saremo, più luce ci sarà!

Rabbino David Sciunnach

DOMANDA

Dio è unico, le religioni sono tante, cosa sono ed a cosa servono?
La diversità fa anche la qualità, esistono tante vie per arrivare a Dio quante sono le persone.
Le religioni sono aspetti della realtà umana, tradizioni che Dio ha dato. Un racconto descrive le relazioni fra gli uomini, significativo anche per le religioni: «Se tutti stanno sulla tolda della nave non c’è problema; non è così se qualcuno viene lasciato senz’acqua da bere nella stiva. Per liberarsi non si preoccuperà di forare lo scafo, facendo affondare anche chi, sul ponte, si sente sicuro e vuole proteggere i propri privilegi».
Rabbino Sciunnach

Paolo Farinella, biblista, giornalista e scrittore, ben noto ai lettori di Missioni Consolata per la rubrica biblica «Così sta scritto» da lui curata e per altri articoli di attualità, ha grande esperienza dei rapporti fra le tre grandi religioni monoteiste e della realtà socio politica nella quale sono inserite per aver vissuto a Gerusalemme dal 1998 al 2003.
Rabbino David Sciunnach, nato a Roma, si è trasferito in Israele, dove ha frequentato la scuola rabbinica. Nel 2000 è arrivato a Milano dove opera presso l’Ufficio rabbinico. Attualmente è assistente per il Tribunale rabbinico e per l’Assemblea Rabbinica Italiana. Ha pubblicato articoli e testi di preghiere ed è assistente dell’attuale rabbino capo di Milano, Arbib.

Paolo Farinella e David Sciunnach




ISLAM

Il dialogo tra esperti non basta

All’islam fanno riferimento 1 miliardo e 200 milioni di persone: un quinto della popolazione mondiale.
Islam deriva da una radice linguistica araba che indica sottomissione all’unico Dio (in arabo Allah): è il messaggio annunciato da tutti i profeti, da Abramo a Maometto. Al suo tempo (vi sec. d. C.), la penisola arabica era pagana e politeista e la Mecca ne era la capitale.
Il Corano, voce di Dio, raccoglie, non cronologicamente, i 24 anni della predicazione di Maometto. Per toni e contenuti, riferendosi a tempi e realtà diverse, le sure meccane sono decisamente contrapposte rispetto alle sure medinesi.
Nel primo periodo, predicando la giustizia sociale, Maometto forzatamente si scontra con la borghesia della Mecca, che lo perseguita. Quindi cerca alleati fra la «gente del libro», ebrei e cristiani, che lusinga con versetti del Corano pacifici e tolleranti sulla libertà religiosa.
Dopo l’Egira, la migrazione a Medina, città del Profeta, da perseguitato Maometto diventa potente guida politica e militare. Versetti a carattere giuridico e contradditori rispetto ai precedenti rispecchiano la nuova situazione di guerra ed espansione politica.
Poiché per un musulmano è peccato non citarlo alla lettera, qual è dunque il vero Corano? Quello spirituale o quello che è legge, sharia, e codifica tutte le sfere della vita? Problema di rilievo per gli stretti legami fra religione, stato e società nel mondo islamico: realtà ben diversa da quella del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».

Politicamente, fino al 1924, quando fu abrogato dal turco Kemal Ataturk, l’islam aveva il califfato (il califfo era il successore di Maometto), istituzione corrispondente al papato per i cattolici. Così oggi, in ogni stato, sono il grande mufti o l’ayatollah a emanare fatwa giuridiche sulle questioni poste dalla modeità: ad esempio, per chiarire se i kamikaze siano martiri o suicidi (l’islam vieta il suicidio). Mancando un’autorità centrale, la loro autorevolezza dipende dal seguito che raccolgono.
Negli ultimi 50 anni, i musulmani in Europa sono cresciuti da 800 mila a 19 milioni e pongono nuovi problemi. Se in Occidente un musulmano vede solo i vizi della società, pretende di imporvi l’islam, nato proprio per riportare l’umanità sulla retta via, dalla quale ebrei e cristiani si erano allontanati. Ecco perché la pace è possibile solo quando le identità sono chiare.
Le differenze dottrinali sembrano sottigliezze, ma non si può sottovalutarle. Teologicamente mai Maometto potrà essere un profeta per i cristiani. Lo è invece Gesù per i musulmani, che però non lo credono Figlio di Dio. Recedere da questa posizione sarebbe un tradimento, un’apostasia.
Poiché un musulmano fa parte della umma, la comunità islamica, il tradimento non riguarda un solo individuo, ma il gruppo e di conseguenza viene contrastato in modo molto forte.
Dunque l’Europa è un campo di addestramento alla convivenza. Il dialogo tra esperti, però, non porta da nessuna parte, se non è esteso a tutti i credenti.
Oggi non esiste un pericolo dell’islam, ma un pericolo nell’islam. La domanda che dobbiamo porci è quale sia la differenza tra religione e fondamentalismo.
Il mondo islamico è suddiviso in un 5% di moderati, un altro 5% di estremisti e un 80% di persone a metà fra queste due posizioni. Purtroppo è più facile si aggreghino al 5% di violenti!
Sono i musulmani che devono risolvere il problema. Possono riuscirci mantenendo distinte religione e politica e introducendo nelle loro società un maggiore rispetto dei diritti umani. È questo che dobbiamo chiedere loro.

Camille Eid

Diffondere l’islam moderato

In Europa i musulmani dovrebbero trovare ciò che l’Europa ha di positivo. Non è solo un problema d’identità e purezza, ma anche di spiritualità e cultura, che mancano sia in Occidente sia dove l’islam è dominante. Un tempo si costruivano con l’anima le cattedrali, ma anche le case. Si metteva l’anima in tutto quel che si faceva. In ogni ambito della vita si era in contatto con la dimensione cosmica, con Dio.
Oggi i musulmani immigrati in Occidente non vi trovano l’anima e allora… anche loro chiedono diritti. È più diffusa la cultura del diritto che quella del dovere.
Negli stati governati dall’islam, come anche in Europa, consideriamo più importante avere il cimitero separato, ma abbiamo perso il significato spirituale della nostra religione. La continua ripetizione: io, noi… è deleteria. Dimentichiamo che anche gli altri hanno gli stessi desideri.
Però quando si parla di scontro fra Oriente ed Occidente, mi chiedo: qual è l’Occidente? Dove comincia? Anche il cristianesimo è arrivato dall’Oriente ed è molto simile all’islam.
Nel Corano Gesù è osannato e definito «segno di Dio». È superiore a Maometto ed agli altri profeti, semplici mortali. L’islam non crede alla sua morte, e quindi neppure alla sua resurrezione, però lo crede asceso al cielo. Nel Corano si parla della seconda venuta di Gesù, che regnerà per 40 anni e guiderà contro l’Anticristo un esercito di musulmani, nel senso di sottomessi a Dio. Poi ci sarà il giudizio.
Gesù faceva miracoli: ridonava la salute, la vita… Maometto no: il suo vero miracolo è il Corano, visto che non sapeva né leggere né scrivere! Il Corano dice: trattatevi bene, non attaccate chiese, monasteri, scuole… Nella vita di Maometto diversi episodi testimoniano l’amicizia con i cristiani. Come il permesso di pregare nella sua moschea accordato dal profeta a ebrei e cristiani. Anche Giovanni Paolo ii vi ha pregato a Damasco.
Nei testi c’è questo; poi nei fatti i comportamenti degli uomini purtroppo sono diversi e non sempre rispettano i precetti delle scritture.
La vera differenza col cattolicesimo è che l’islam non ha nulla di corrispondente al Vaticano. I mufti emettono verdetti giuridici (le fatwa) il cui valore dipende dal consenso che raccolgono e dal gruppo che le sostiene. Alla fine prevale l’opinione più diffusa, ma nessuno può mai dire che la propria è l’interpretazione giusta; e resta solo il Corano. Esistono quindi tanti diversi musulmani: arabi, turchi, marocchini, indonesiani… Anche in Italia ci si chiede: «Di quale moschea sei?».
Ed è vero che abbiamo problemi storico-politici. Le violente manifestazioni nei paesi islamici, in risposta all’offesa delle vignette su Maometto pubblicate in Danimarca, sono state evidentemente consentite, e volute, dai governi.
In Nigeria ci sono masse frustrate e ignoranti che non sanno neppure dove sia la Danimarca. In Siria non si può neppure parlare con un taxista senza che il governo lo sappia. È comunque un problema il fatto che i contrasti irrisolti interni agli stati trovino sfogo in questioni interreligiose. Si tratta di strumentalizzazioni politiche, finalizzate alla ricerca del consenso. È stato così anche a Timor Est e in Sudan.
Forse è proprio un vantaggio il fatto che non esista un solo islam, paradossalmente potrebbe essere un nemico pericoloso, soprattutto per la sua renitenza alle riforme!
Per chiudere devo però segnalare anche il disinteresse dei media a diffondere una cultura islamica moderata. Emarginato dall’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche d’Italia) perché critico sul terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre, quindi non fondamentalista, anche ai media non interesso più!

 Ali Schuetz

DOMANDA

Come si pone l’islam nei confronti di atei, agnostici, non praticanti? E cosa accadrebbe se in Europa i musulmani arrivassero al 51% della popolazione?
Il Corano dice che non c’è costrizione nella fede e la libertà deve essere garantita. Kafir, il termine che indica i miscredenti da combattere, ha un significato attivo. Si riferisce a coloro che operano per occultare la fede, mistificandola, e che attivamente contrastano chi la professa. Loro prototipo è l’Anticristo.
Non c’è una maggioranza musulmana che vuole governare in Europa in senso islamico. Una buona percentuale ne parla, ma è una posizione che sta cambiando, e su questi temi è in atto uno scontro durissimo nelle comunità islamiche.
Schuetz

Camille Eid, giornalista e scrittore libanese, da anni in Italia, è un grande conoscitore del mondo arabo e islamico, particolarmente dei rapporti fra cristianesimo e islam. Collabora con varie testate cattoliche; è autore o co-autore di: Osama e i suoi fratelli, atlante mondiale dell’islam politico; Libano e Siria; Cento domande sull’islam; I cristiani venuti dall’islam.
Ali Schuetz, italo-svizzero, da tempo residente in Italia, di padre protestante, educato nel cattolicesimo, nel 1979 si è convertito all’islam. Per anni attivo nei centri islamici di Milano, già vicepresidente Ucoii, è responsabile dei rapporti col mondo cattolico, attivo nel dialogo interreligioso, pubblicista e consulente culturale.

Camille Eid e Ali Schuetz