Chi comanda in Internet?

Le mani sulla Rete (2)

Quale «governance» occorre dare a internet? Questo slogan è stato il
tema di un incontro svoltosi recentemente (novembre 2006) ad Atene,
sotto l’egida delle nazioni Unite. Esponenti della società civile e
policy makers si sono incontrati per decidere da chi debba essere
guidata l’internet del futuro.

Il mito dell’anarchia di internet
È alquanto strano pensare che internet debba essere, in qualche modo,
«governata». Per molto tempo ci è stato presentato il modello di una
rete decentrata, un insieme di nodi privi di un centro e di una
periferia. Ma l’idea di un’internet egalitaria nella struttura, capace
di sfuggire a controlli e pressioni estee, non è che un mito. In
realtà, internet è gestita in modo tutt’altro che anarchico e si sta
rivelando sempre di più il terreno di scontro di grossi interessi di
potere.
Sono ormai all’ordine del giorno gli episodi di censura di moltissimi
governi autoritari del Sud del mondo, così come le velate ingerenze di
molte democrazie occidentali. Anche in seguito a questi attacchi, è
cresciuta la voglia di costruire una forma di auto-governo della rete,
capace di eludere queste minacce. Una sorta di potere della società
civile telematica, incaricato del compito di fare della Rete uno spazio
privo di confini nazionali.
Già oggi l’articolazione mondiale di internet non è un territorio in
balia di se stesso e privo di controllo: vi sono diversi organismi che,
ciascuno con compiti distinti, ne controllano il funzionamento.
Quest’ultimo si esplica in almeno tre campi fondamentali: il possesso
delle infrastrutture, il controllo tecnico- amministrativo e quello
politico – economico. Nel caso delle infrastrutture, ormai la
distribuzione è avvenuta sull’intero territorio mondiale (anche se non
equamente, come sappiamo); mentre, nel caso del controllo
tecnico-amministrativo, le questioni in gioco non sono realmente
vitali. Diverso, e gravido di conseguenze, è il caso del controllo
politico-economico, che si realizza nella gestione dei domini sul web.
Il dominio è alla base stessa del funzionamento della Rete: si tratta
di un semplice indirizzo elettronico, che identifica un gruppo di
computer collegati in rete. Un territorio virtuale ma carico di
connotazioni proprie dei territori reali: un dominio ha la possibilità
di essere identificato con un indirizzo e di vedersi attribuito un
valore economico e politico. Non è indifferente possedere un nome di
dominio piuttosto che un altro: alcuni domini permettono di sviluppare
attività economiche e di fungere da riferimento per attività sociali,
altri invece scompaiono rapidamente nella grande massa di domini
esistenti. Da tempo i domini sul web scarseggiano e molte nuove imprese
possono rimanere escluse per l’impossibilità di sfruttare indirizzi
facilmente individuabili. Per comprendere, invece, la grande valenza
politica del nome di dominio, si pensi alle polemiche generate, qualche
anno fa, dalla decisione di assegnare il suffisso .ps, ai siti della
Palestina, assegnando così ai territori occupati un’indipendenza nel
cyberspazio che ancora non avevano ottenuto nel mondo fisico.

Tutto il potere di «Icann»
Chi gestisce la struttura di indirizzamento di internet detiene un
formidabile potere sull’economia e sulle risorse strategiche mondiali.
Icann (Inteet Corporation for Assigned Names and Numbers) è
l’istituzione che presiede alla registrazione dei domini, ed è il
custode unico della tecnologia che consente il collegamento fra un
indirizzo web e il sito ad esso appartenente. Icann può essere
paragonata a una torre di controllo virtuale, in grado di indirizzare i
computer, indicando loro la strada da percorrere per raggiungere una
determinata pagina web. Naturalmente, se smettesse di funzionare, si
precipiterebbe in una situazione simile a quella di un aeroporto la cui
torre di controllo avesse spento i radar. Chi detiene il controllo di
quei codici possiede, insomma, un potere di vita o di morte sull’intera
Rete: non è poco per un ente nato da pochi anni e di cui molti ignorano
perfino l’esistenza.
Icann, che nacque con la pretesa di essere pienamente rappresentativa
di tutti i centri di interesse e degli utenti internet, allo stato
attuale non offre garanzie di democraticità. Con sede nella Califoia,
formalmente operante per contratto con il governo americano, sottoposta
a una amministrazione burocratica e composta da membri fortemente
condizionati da poche grandi aziende, non ha finora garantito alcuna
trasparenza sulle sue decisioni, assunte quasi esclusivamente a porte
chiuse.
Nel 2000 Icann accettò di indire le prime elezioni mondiali di
internet, aperte a tutti gli utenti della Rete, con lo scopo di
eleggere i membri del proprio Consiglio direttivo. In Africa, Asia e
Sud America la vittoria spettò a tre candidati proposti dalla stessa
Icann, mentre in Europa e nell’America del Nord, dove il dibattito
attorno a quelle elezioni fu meno blindato, si affermarono due
candidati di «opposizione». La sola presenza di due consiglieri
particolarmente critici verso il gruppo dirigente di Icann fu
sufficiente perché il processo democratico venisse annullato e fossero
ufficialmente cancellati i seggi di rappresentanza concessi alla
società civile. La decisione suscitò ovviamente un vespaio di proteste
mentre le dimissioni del presidente Icann, nel giugno 2002, gettavano
l’istituzione nel caos più completo.

Nelle mani degli Stati Uniti
Oggi, dopo una lunga stasi, la comunità internazionale è tornata a
discutere del futuro di Icann, tentando di disegnare un futuro un po’
più roseo per la democrazia nella rete. Il governo statunitense,
preoccupato per il riaccendersi del dibattito, si è posto in posizione
di attacco e, per tutto il 2006, si sono moltiplicate minacce e
ammonimenti, da parte di suoi esponenti, «a togliere le mani da Icann,
parte integrante degli interessi nazionali statunitensi». Per contro,
un gruppo di paesi influenti, tra cui Brasile, Sud Africa, India e Cina
stanno premendo per assegnare le delicate competenze di Icann a un
organismo super partes, ad esempio le Nazioni Unite (in particolare
l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni). Questa soluzione,
tuttavia, non convince molti, soprattutto in Europa. Da una parte ci
sono dubbi fondati circa il fatto che un’istituzione dell’Onu possa
essere più snella e meno burocratica dell’attuale Icann. Dall’altra vi
è il timore che i governi nazionali possano prendere il sopravvento
nella gestione di una risorsa che, finora, avevano potuto controllare
soltanto parzialmente. A tutti appare più che evidente il tentativo, da
parte della Cina, di impadronirsi della stanza dei bottoni, che le
consentirebbe una censura ancor più rigida e capillare della propria
rete internet.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




La rete strappata

Le mani sulla Rete (1)

È possibile spegnere internet? Per alcuni di noi questa domanda è
semplicemente inconcepibile. Siamo troppo abituati a pensare alla
«grande rete» come al simbolo stesso della libertà e della democrazia.
Inteet è una realtà volatile e diffusa, che oltrepassa le singole
realtà geografiche o le giurisdizioni territoriali: tentare di
esercitare un effettivo controllo rappresenta uno sforzo titanico, tale
da far impallidire la mitica fatica compiuta da Ercole per abbattere
l’Idra di Lea: internet è un gigante che possiede ben più di dodici
teste e, quando ne abbiamo abbattuta una, altre mille sono pronte a
spuntare in qualunque angolo del mondo.

Dove la Rete è prigioniera
In realtà, molti governi, lontani dai riflettori dell’opinione
pubblica, hanno ormai rivolto lo sguardo verso la rete, cercando di
frenare il crescente protagonismo di uno strumento che, forse troppo
frettolosamente, era stato incaricato di aprire la strada a una
rivoluzione democratica. E così, nei pochi anni di esistenza della
Rete, hanno potuto svilupparsi metodi raffinati e variegati per
esercitare il dominio e la censura. Secondo Reporters sans frontières,
13 paesi del mondo possono essere qualificati come veri e propri
«nemici« di questo medium. Si tratta di una «lista nera» piuttosto
eterogenea, che non risparmia alcuna area geografica e che è del tutto
priva di qualsiasi pregiudiziale di natura ideologica.
Una parte di questo poco invidiabile gruppo è composta dagli stati più
autoritari, quelli che, senza troppi scrupoli, proibiscono l’accesso a
internet. La Corea del Nord, per esempio, ha scelto la strada
dell’isolamento totale, rifiutando l’installazione di provider al suo
interno. Altri paesi, come il Myanmar, pur connessi alla rete, hanno
quasi raggiunto l’obiettivo di bloccarla interamente, restringendo
l’accesso degli utenti a una manciata di siti consentiti: circa 800
siti inteazionali, più una dozzina disponibili nella rete intea del
paese. Ciò equivale a costringere gli utenti a «navigare in una
pozzanghera».
Ci sono alcuni paesi che, in forma più subdola, consentono l’accesso a
internet, ma lo limitano alle persone di fiducia, che vengono
debitamente autorizzate dopo avere subito rigorosi controlli. È il caso
di Cuba, il cui governo esercita un controllo ferreo sull’accesso. In
tutto il paese esiste un solo cybercaffè pubblico, aperto in seguito
alle necessità del turismo e il cui prezzo è di 5 dollari l’ora, la
metà del salario medio mensile dei cubani.
A frenare l’accesso concorrono certamente cause che non si possono
ricondurre direttamente ai governi: per esempio, i costi eccessivi
della tecnologia. Tuttavia, queste difficoltà vengono spesso mantenute
artificialmente dai governi, a scopo di controllo. In Kazakistan, per
esempio, gli operatori devono pagare costi di utilizzazione e di
connessione assolutamente proibitivi, che scoraggiano queste attività.
Anche la presenza di monopoli di stato nel settore delle
telecomunicazioni è un problema oggettivo: in Sudan lo stato controlla
tutte le connessioni alla rete attraverso Sudanet, l’unico rudimentale
provider statale.
Che cosa si voglia effettivamente controllare, non è difficile capirlo…
In Sierra Leone, nel contesto di una campagna di repressione nei
confronti della stampa critica, le autorità hanno attaccato anche un
giornale online e hanno arrestato due giornalisti. Uno dei casi più
clamorosi è stato quello della Bielorussia che, in vista delle elezioni
presidenziali del 2000, peraltro costellate di brogli e di
irregolarità, ha fatto chiudere tutti i siti dell’opposizione. Metterli
a tacere è stato un compito facile, visto che nel paese esiste un solo
provider, ovviamente statale.

Dal filtraggio dei contenuti ai «dissidenti telematici»
Ad un livello di maggiore sofisticazione, si sfruttano le possibilità
offerte dalla tecnologia. Il filtraggio dei contenuti è una di queste
e, come è facile immaginare, è operato in base a motivazioni
squisitamente politiche. Ma non si deve sottovalutare il fatto che, in
molte aree del mondo, prevalgono le componenti culturali. Il pericolo
rappresentato da internet per i precetti della religione di Allah è il
pretesto usato da molti paesi del Medio Oriente per giustificare la
censura. Nell’Iran i provider sono costretti a bloccare i siti
«immorali» o quelli che «minano» la sicurezza dello stato, cosicché gli
studenti iraniani di medicina, tanto per fare un esempio, non possono
collegarsi a pagine web che parlino di anatomia. Nella ricca Arabia
Saudita tutto il traffico transita nei server di un gigantesco sistema
di filtraggio chiamato «Djeddah»: esso impedisce completamente
l’accesso ai siti che propongano «informazioni contrarie ai valori
islamici». È appena il caso di osservare che una tale «salvaguardia«
dei valori islamici è operata servendosi quasi esclusivamente di
tecnologia coercitiva proveniente dall’Occidente.
Sebbene sia evidente la pretestuosità di certi argomenti, è indubbio
che alcuni paesi, soprattutto quelli del continente asiatico, siano
caratterizzati da una notevole diversità culturale e da sistemi di
valori distanti da quelli occidentali, ritenuti una minaccia. In Cina
il governo ha vietato l’installazione di Inteet caffè a meno di 200
metri dalle scuole, e questo la dice lunga sul timore di una
contaminazione culturale occidentale.
Proprio la Cina è il paese in cui le restrizioni poste a internet
toccano il vertice. In questo paese vige un rigoroso monitoraggio degli
utenti, costantemente vigilati da corpi politici speciali appositamente
incaricati. Le chiusure di Inteet caffè sono all’ordine del giorno,
con il pretesto della scarsa sicurezza dei locali: del resto, è vero
che porte e finestre vengono frequentemente bloccati dall’interno
proprio per evitare i controlli improvvisi degli agenti governativi. In
Cina esiste una vera e propria «cyberpolizia», formata da tecnici
specializzati incaricati di vigilare sul software in dotazione negli
Inteet caffè e sul comportamento degli utenti, non esitando a violare
la confidenzialità della posta elettronica.
Come non bastasse il rigido controllo poliziesco, la Cina utilizza a
pieno regime anche gli strumenti giudiziari. Ai «dissidenti telematici»
vengono comminate pene durissime. Dal gennaio 2001 l’invio di materiale
clandestino o «reazionario» attraverso la Rete viene punito perfino con
la pena capitale.

GianMario Schiesaro

GianMarco Schiesaro




L’informaizone? Oligopoli e nuove povertà

Tra lusso e bisogno

L’affermazione delle nuove tecnologie di
comunicazione non ha ridotto il divario tra Nord e Sud. Anzi, ha spesso
prodotto una sorta di nuova «colonizzazione». Chi fa arrivare le
notizie del Sud ai maggiori organi informativi del Nord? Un pugno di
agenzie e di network televisivi del Nord. Con l’arrivo della
globalizzazione, l’informazione si è concentrata nelle mani di grandi
gruppi transnazionali, che guardano soltanto ai profitti, alla Borsa o
a precisi interessi di potere. Un fenomeno che accomuna Nord e Sud del
mondo, ma che mostra le conseguenze più negative nei paesi più poveri.
 

In tempi recenti la Banca mondiale ha ampliato la propria definizione
di povertà. Oltre ai componenti purtroppo diventati classici
(un’alimentazione inadeguata, la mancanza di istruzione, un reddito
basso e via dicendo…) sono stati inclusi anche i seguenti elementi:
«senso di impotenza, mancanza di una voce, vulnerabilità e paura».
Ormai anche un’istituzione del rango della Banca mondiale (notoriamente
più in sintonia con le politiche di crescita economica che con quelle
di sviluppo umano) ha riconosciuto che si può essere poveri anche per
la mancanza di informazione o per l’incapacità di comunicare.
Eppure, nella consapevolezza comune, questa urgenza non è ancora
abbastanza radicata, né tra gli addetti ai lavori (pensiamo ad esempio
alle Organizzazioni non governative, Ong) né tra i professionisti
dell’informazione (giornalisti o altro). Prevale ancora, purtroppo,
l’idea che i bisogni primari (i cosiddetti basic needs) siano soltanto
quelli alimentari o sanitari, mentre l’informazione costituisca un
lusso di cui si possa fare a meno nelle fasi iniziali dello sviluppo.
Forse è per questo che non desta alcuno stupore l’esistenza di uno
squilibrio nello stato dell’informazione tra Nord e Sud: a una
crescente e dominante affermazione delle tecnologie, e quindi del
potere informativo, si contrappone un impoverimento della capacità di
«farsi ascoltare» da parte dei soggetti (paesi, popoli, comunità) meno
dotati di mezzi. Qualcuno ha parlato di una nuova forma di sfruttamento
in cui, alle risorse naturali e alle materie prime, si sono sostituite
le informazioni che provengono dai paesi più poveri. I più audaci si
sono spinti perfino a parlare di «colonizzazione mediatica».

I CIRCUITI INFORMATIVI E GLI OLIGOPOLI
Oggi le quattro maggiori agenzie stampa del mondo gestiscono da sole
l’80% del flusso di notizie: si tratta delle statunitensi Associated
Press e United Press Inteational, della britannica Reuters e della
francese France Press. La quasi totalità delle informazioni provenienti
dal Sud del mondo passa attraverso queste grandi agenzie di stampa
prima di raggiungere i nostri giornali e i nostri telegiornali. Lo
spazio che esse dedicano ai paesi più poveri è stimato intorno al 10 –
30% delle notizie complessive.
L’esclusione di larga parte del Sud dai circuiti informativi è soltanto
una parte del problema. In realtà, l’aspetto più preoccupante è il
crescente predominio e la frequente manipolazione, da parte dei paesi
più ricchi, dell’informazione proveniente dal Sud. Il genere di notizie
di provenienza dal Sud che trovano ospitalità nei nostri mass media
sono generalmente quelle che le grandi centrali di comunicazione (le
poche agenzie inteazionali e i potenti network televisivi) decidono
di trasmettere, secondo una scelta che rispecchia la cultura e gli
interessi occidentali. Inoltre, la distribuzione delle informazioni che
dal Sud riescono a raggiungere il Nord segue ancora criteri che
rispecchiano gli antichi legami coloniali, di fatto ancora operanti: le
notizie provenienti dall’Africa Orientale hanno accesso prevalentemente
ai media inglesi; quelle dell’Africa Occidentale ai media francesi, e
così via.
Gli Stati Uniti sono i primi esportatori di informazione e di programmi
nel mondo; ma occorre ricordare che sono statunitensi anche i sistemi
di controllo, il management, le norme di regolamentazione dei sistemi
televisivi. Sono compagnie statunitensi quelle che hanno assistito, con
la loro consulenza tecnico – organizzativa, la creazione dei sistemi e
degli impianti televisivi di molta parte dei paesi in via di sviluppo.
E questo non ha potuto non incidere anche in termini di influenza
culturale: il fatto di usare una tecnologia concepita in Occidente, con
codici e regole lì predisposte, condiziona il modo di far televisione,
le scelte di linguaggio, la strutturazione dei palinsesti,
l’orientamento verso un determinato pubblico. È quella che Massimo
Ghirelli, nel suo libro L’antenna e il baobab, ha definito la
«vischiosità culturale» dei mass media.

IL MITO (OCCIDENTALE) DELLA «MODERNIZZAZIONE»
Negli anni ‘50, agli albori del concetto di sviluppo, veniva attribuita
un’enorme importanza ai mezzi di comunicazione di massa, identificati
come strumenti straordinariamente efficaci per trasformare una comunità
«tradizionale» in una società «modea». L’approccio adottato era
quello, quanto mai ingenuo, della «modeizzazione»: ai mass media,
cioè, veniva affidato il compito di preparare gli individui a un rapido
cambiamento sociale, a imitazione delle società occidentali.
Oggi risulta difficile comprendere quanto fosse radicata l’idea che
un’adeguata esposizione ai mass media potesse modificare le strutture
cosiddette «arretrate» di vita, di valori e di comportamento esistenti
nelle società tradizionali. Basti pensare che i media furono utilizzati
non solo come agenti, ma anche come indici di modeizzazione nei paesi
in via di sviluppo. L’Unesco (www.unesco.org) giunse addirittura a
stabilire uno standard minimo necessario di disponibilità di mass media
nei paesi in via di sviluppo, più precisamente: 10 quotidiani, 5 radio,
2 televisioni e 2 posti cinema ogni 100 persone.
Negli anni ’60 e ’70 l’enfasi posta sulle capacità, da parte dei
singoli individui, di rinunciare alla tradizione venne sostituita da
una sottolineatura marcata delle barriere sociali, economiche e
culturali. Cominciò a diffondersi la coscienza di quanto fossero
ineguali i meccanismi di scambio, anche relativamente alla risorsa
informazione. Si prese coscienza del controllo pressoché totale del
mondo dell’informazione da parte dell’Occidente. Nell’ottobre 1970,
alla conferenza Unesco di Parigi, per la prima volta si parlò di
«squilibrio dell’informazione», evidenziando la necessità di un «nuovo
Ordine mondiale della comunicazione». Nel 1973, alla conferenza di
Algeri, venne avanzata la proposta di dare vita a un’agenzia stampa dei
paesi non allineati.

LE SCOMODE VERITÀ DEL «RAPPORTO MACBRIDE»
Nel 1980 il processo raggiunse il suo culmine con il Rapporto MacBride
(presentato all’assemblea Unesco di Belgrado), ancora oggi un punto di
riferimento indispensabile per tutti coloro che si occupano di
informazione nei paesi poveri. Esso indicava come obiettivo primario
l’«eliminazione di squilibri e disparità negli strumenti della
comunicazione» e definiva il nuovo Ordine mondiale della comunicazione
come «lo stabilirsi di nuove relazioni derivanti dai progressi
annunziati dalle nuove tecnologie e di cui dovrebbero beneficiare tutti
i popoli».
È importante la caratterizzazione dell’informazione che il rapporto
offriva: «strumento di potere», «arma rivoluzionaria», «mezzo
educativo», «strumento di liberazione o di oppressione»… Dai termini
usati è evidente la sottolineatura del problema del controllo
dell’informazione e dell’influenza da questa esercitata sull’azione
sociale, e sulle diseguaglianze che essa finisce per alimentare e
ratificare, confermando il predominio di chi è più potente e meglio
attrezzato. Un nuovo Ordine mondiale può fondarsi soltanto
sull’uguaglianza dei diritti, sull’indipendenza, sullo sviluppo libero
e autonomo di paesi e popoli.
Il documento suscitò, com’è facile immaginare, polemiche e proteste. Lo
scontro si protrasse per tutti gli anni Ottanta, soprattutto in sede
Unesco, fino a mettere seriamente in crisi l’organizzazione: dapprima
gli Stati Uniti e in seguito la Gran Bretagna decisero di abbandonarla,
con l’accusa di aver trasformato i propri programmi sociali in veicoli
di azione politica, sotto lo sguardo complice dell’Unione Sovietica e
dei suoi satelliti.

«NUOVO» ORDINE O «VECCHIO» DIRITTO?
A partire dagli anni ‘90, il dibattito comincia a perdere le
connotazioni più ideologiche e ad acquistare un certo pragmatismo. La
richiesta di un «nuovo Ordine mondiale della comunicazione» viene
progressivamente accantonata, così come l’obiettivo di giungere a una
completa emancipazione dei media esistenti nei paesi più poveri. La
causa è da ricercarsi nella progressiva degenerazione delle nuove
democrazie, nate con la decolonizzazione, verso sistemi di governo
autocratici e illiberali. Diventa evidente che, all’interno di molti
paesi del Sud, i media rimangono monopolio di regimi autoritari e
l’informazione viene manipolata a scopo di potere.
A conti fatti, si sono rivelate effimere entrambe le illusioni: quella
della modeizzazione (diffusa nel dopoguerra) e quella di
un’automatica funzione di emancipazione, in senso democratico, dei
media (diffusa negli anni ‘70): si sono dimostrati decisivi fattori
fino a quel momento trascurati, perché relativi alla sfera micro
anziché quella macro: chi produce l’informazione, chi sono i formatori
del consenso, quali strumenti di valutazione critica sono disponibili
ai cittadini; e soprattutto, quanti sono i cittadini in grado di
acquistare un apparecchio televisivo, o saper leggere un giornale.
Quando, alla fine degli anni ’90, comincia a porsi con forza il
problema della democratizzazione della comunicazione e del controllo
dell’informazione, è ormai troppo tardi. Il processo di globalizzazione
e le forze del mercato concorrono a sganciare i media dai singoli
governi nazionali e a consegnarli nelle mani dei grandi gruppi di
potere.
La possibilità, da parte di governi e istituzioni, di elaborare
politiche adeguate e di indirizzare i processi in corso si fa sempre
più esigua, anche perché l’informazione perde gradualmente il suo ruolo
di «bene pubblico» e viene progressivamente privatizzata. Domina una
sola legge, quella del rendimento, e i media sono ormai diretti da
manager spesso interessati solo ai profitti e alle quotazioni in borsa
dei titoli.
Esiste poi una preoccupante tendenza verso la concentrazione dei media,
legata alla diffusione di economie neo-liberiste e allo sviluppo
tecnologico. L’enfasi su un contenuto orientato al profitto, e
alimentato dalla pubblicità, ha già portato a una diminuzione del
ventaglio delle possibilità di scelta e a una perdita di spazio per il
dibattito informativo. Anche lo spettro audiovisivo, che è di dominio
pubblico, è sotto l’assedio degli interessi commerciali. Alle persone
comuni è reso sempre più difficile l’accesso a canali mediatici
indipendenti e a visioni alternative del futuro.
Per i paesi del Sud si apre una nuova sfida: non più soltanto
l’obiettivo di un’informazione più equilibrata e più rispondente ai
loro bisogni, ma la difesa del «diritto all’informazione», ovvero la
possibilità di accedere liberamente a questa preziosa risorsa. •

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Le idee, prigioniere dei «brevetti»

La mercificazione della conoscenza

Che ci piaccia o no, la conoscenza è ormai diventata una merce. Ha
perso il carattere di bene pubblico, liberamente condivisibile, per
assumere i tratti di un bene privato, cui associare un valore monetario.
Le idee, una volta trasformate in merce, diventano proprietà di chi
riesce ad accaparrarsele per primo, anche quando gli «inventori» sono
altri: ed ecco che, con una sbalorditiva disinvoltura, grandi
multinazionali si impadroniscono di musiche di strada, suonate da
secoli dalla gente comune, oppure brevettano spudoratamente piante
medicinali esotiche, frutto di millenni di evoluzione. Un bene
vendibile poi, secondo meccanismi ben noti agli economisti, diventa più
prezioso se è anche scarso, dunque è bene che le idee rimangano ben
chiuse e sigillate, protette da eventuali malintenzionati.

Le trappole dei software proprietari
Qualcosa del genere sta accadendo con il software, uno dei prodotti più
puri e più complessi dell’ingegno umano. Nonostante la Convenzione di
Monaco, nel 1973, abbia stabilito che il software non si possa
brevettare, oggi, con una serie impressionante di provvedimenti
legislativi, si è riusciti a rendere legale il brevetto su una grande
quantità di programmi informatici. Il risultato è stato una crescente
diffusione dei «software proprietari», programmi chiusi non
modificabili dall’utente per essere adattati ai propri interessi e ai
propri bisogni. Parallelamente, si sono moltiplicati i divieti: per
esempio quello di accedere liberamente ad archivi digitali, dati di
biblioteche pubbliche e via dicendo.
Si comprende quanto questa tendenza sia dannosa, in modo particolare
per i paesi del Sud. Innanzitutto vengono vanificate le loro
possibilità di rilancio economico, legate proprio al software. Produrre
software, infatti, non richiede grosse infrastrutture e, soprattutto, è
legato ad investimenti in risorse umane, un elemento che è del tutto
abbondante nei paesi in via di sviluppo.
Inoltre per i più poveri, che dispongono soprattutto di computer
obsoleti, è diventato sempre più oneroso utilizzare software
proprietari, così come localizzare autonomamente i propri programmi
informatici, per adattarli alla propria lingua e alla propria cultura.
Non è più possibile accedere a pubblicazioni scientifiche online,
mentre quelle cartacee continuano a rimanere inaccessibili per motivi
di costo. Insomma, la conoscenza in formato digitale, che coincide
ormai con la quasi totalità della conoscenza disponibile al mondo, sarà
sempre meno accessibile. Le ragioni di tipo economico, come si vede, si
fondono con le esigenze di giustizia sociale: quando la proprietà
intellettuale viene estesa all’informazione, in gioco c’è un diritto
fondamentale come l’accesso all’informazione e la libertà di
espressione.

Le alternative del software libero
In queste condizioni lo sviluppo di standard tecnologici diversi è
ormai diventato un tema non più rinviabile. Negli ultimi anni è fiorito
un vero e proprio movimento alternativo: quello che si batte in favore
degli «standard aperti» (open source) e del «software libero» (free
software). Questo movimento è nato con un carattere del tutto
particolare, dato che è formato per lo più da tecnici e informatici, ma
ha assunto cifre talmente cospicue da non potersi più considerare un
semplice gruppo d’interesse settoriale: si tratta di circa 300.000
sviluppatori di software sparsi in non meno di 70 paesi. Il suo cavallo
di battaglia è costituito dall’idea che le risorse informatiche debbano
avere la massima circolarità e la massima accessibilità. Questa
singolare comunità di «programmatori idealisti» è animata da un’etica
nuova (ribattezzata «etica hacker»), un’etica di libertà, di altruismo
e di cooperazione. È la stessa etica che, in tempi passati, ha
consentito a internet (un tipico prodotto «open source») di svilupparsi
così rapidamente e di raggiungere la vastità delle dimensioni attuali.
Eppure il World intellectual property organization, l’organismo delle
Nazioni Unite che si occupa di proprietà intellettuale (www.wipo.int),
condizionato com’è dalle grandi corporations tecnologiche, si rifiuta
di riconoscere l’importanza del software libero (il software realizzato
secondo gli standard aperti) e di promuoverlo presso i paesi più
poveri. Al contrario, non fa che restringere ulteriormente, con
innumerevoli strumenti legali, la circolazione delle conoscenze
informatiche e la possibilità di accesso all’informazione digitale: per
questo motivo, è stato pesantemente criticato da un gruppo di paesi del
Sud (tra cui Brasile, Argentina e Sud Africa) che lo hanno richiamato a
perseguire gli obiettivi di sviluppo umano per i quali è stato fondato.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Dal «computer a manovella» al «simputer»

Tecnologia e cultura

Durante il «Vertice mondiale sulla Società dell’informazione», svoltosi
a Ginevra nel dicembre 2003, una novità del tutto particolare catturò
l’attenzione degli addetti ai lavori, facendo non poco sogghignare i
giornalisti presenti. Era quello che venne prontamente battezzato
«computer a manovella», in realtà un ambizioso progetto di computer a
basso costo. Completamente rivestito da gomma a prova di urto (per
resistere a condizioni ambientali avverse) includeva anche una
manovella per fornire energia in quegli angoli del globo dove la
corrente elettrica è ancora un’utopia. Ogni minuto di manovella
equivale a dieci minuti di funzionamento. Tale computer, secondo i suoi
ideatori, avrebbe dovuto costituire una speranza di inclusione
tecnologica per molte persone povere del Sud.
Molto più significativo, in quanto maggiormente attento alla dimensione
culturale, si era rivelato il progetto «Simputer», un piccolo portatile
a basso consumo in grado di «leggere» il testo trovato sulle pagine web
in un certo numero di lingue native indiane e dunque particolarmente
adatto al gran numero di utenti analfabeti presenti in quell’area
geografica. Il segreto risiede in un apposito software, che consente al
Simputer di riprodurre ben 1200 suoni elementari, adeguati alla maggior
parte delle lingue indiane.
La differenza qualitativa tra il «computer a manovella» e il «Simputer»
risulta lampante se si pensa che il primo è stato concepito nei
laboratori del Media Lab di Boston, mentre il secondo è stato creato da
un nutrito gruppo di scienziati e ingegneri indiani di Bangalore. La
dimensione culturale appare imprescindibile in ogni creazione
proveniente dall’India, crogiolo di lingue e di culture. Ed è ancora
più rilevante nel caso del software che, ben lungi dall’essere un
prodotto tecnologico, è soprattutto il frutto di un lavoro culturale,
di un lungo processo artigianale messo in moto dall’ingegno dei
programmatori.

Il software: lingue, icone, colori
Chi non fosse convinto dell’importanza della dimensione culturale del
software, può provare il seguente esperimento. Apra il proprio browser
(un software), si colleghi a internet e utilizzi un motore di ricerca
(un altro software), magari Google, di gran lunga il più comune. Sarà
sorpreso nel notare che è possibile effettuare ricerche in una lingua
come l’estone, parlata da nemmeno un milione di individui, mentre non è
possibile ottenere risultati nella lingua hindi, che conta circa 400
milioni di parlanti. Come è possibile? La causa è da ricercarsi nella
mancanza di uno standard univoco nella codifica della lingua hindi, a
sua volta frutto di una disattenzione tecnologica nei confronti di
quest’area culturale.
Pressoché tutti i linguaggi di programmazione, i sistemi operativi e le
applicazioni maggiormente diffusi a livello mondiale sono scritti,
almeno in origine, nella lingua inglese. L’uso di tali programmi da
parte di persone che non parlano la lingua inglese richiede un processo
di adattamento del tutto particolare, chiamato «localizzazione».
La localizzazione è ben più che una semplice traduzione dalla lingua di
origine a quella di destinazione. Essa richiede una profonda capacità,
da parte dei programmatori, di adattare le proprie creazioni alla
cultura dell’utilizzatore, di cui la lingua non è che una delle
espressioni. Pensiamo, per fare qualche esempio, a quanta attenzione
debba essere prestata alle icone grafiche, ormai componente
irrinunciabile dei modei sistemi operativi. Uno stesso simbolo può
assumere significati completamente diversi in un’altra cultura. Oppure
si pensi al linguaggio dei colori: mentre il rosso indica «stop» o
«pericolo» nei paesi occidentali, esso può significare «vita» o
«speranza» in altre culture.

Gli errori di Microsoft
Un altro esempio è dato dalla tipologia di scrittura di una lingua: i
caratteri utilizzati dall’alfabeto, la particolare modalità di
scorrimento del testo. Ugualmente importanti sono il modo in cui
vengono scritte le date, il calendario adottato, le modalità di ricerca
utilizzate dai dizionari incorporati nei programmi di videoscrittura.
Questi aspetti sfociano facilmente nella dimensione politica: i bambini
delle regioni andine del Perù dovrebbero usare programmi localizzati in
quechua o in spagnolo? Le scuole e gli uffici di Calcutta dovrebbero
adottare software in bengali, in hindi o in inglese?
Nel 1992 Microsoft introdusse in Cina programmi software localizzati in
lingua cinese. Questi però, piuttosto maldestramente, erano stati
impostati con un insieme di caratteri utilizzato nella Cina
pre-rivoluzionaria, oggi non più in vigore se non a Taiwan. I
rappresentanti della Cina Popolare si ritennero offesi dal fatto che
una decisione così importante fosse stata presa negli Stati Uniti,
senza il coinvolgimento di agenti locali. I rapporti tra l’azienda
informatica e le autorità cinesi diventarono così problematici e si
deteriorarono rapidamente negli anni successivi.
Questo esempio dimostra come una decisione tecnica in apparenza banale
abbia assunto un significato politico e culturale che non si era saputo
prevedere e che ha condotto in seguito a pesanti ripercussioni di
carattere economico: l’azienda leader mondiale nel campo del software è
stata di fatto esclusa dal più grande mercato del mondo.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Per una tecnologia dal volto umano

Le nuove tecnologie: vanno sempre bene?

Inteet e le nuove tecnologie rappresentano una
rivoluzione, ma non hanno una valenza salvifica. A volte, nel Sud del
mondo (con l’Africa in testa) sono più utili una radio ed un telefono
mobile. Senza dimenticare che le grandi multinazionali tecnologiche non
sono associazioni benefiche. Semplicemente vogliono trasformare i
«poveri» in «clienti». Soltanto mettendo da parte la retorica e
ragionando con senso critico, le nuove tecnologie potranno essere
d’aiuto ai paesi poveri.

Gli indios ashaninka vivono in una regione remota dello stato di Acre
(Brasile), ai confini con il Perù. Per loro è il canto a scandire
l’esistenza, accompagnato da strumenti rudimentali come flauti di canna
e tamburi di pelle. La loro vita quotidiana si snoda lontano dai
riflettori della modeità e scorre sui binari tranquilli della
tradizione: pochi sarebbero disposti a scommettere che questo popolo
sperduto possa nutrire il benché minimo interesse nei confronti delle
nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La realtà,
tuttavia, non cessa di riservare sorprese: gli ashaninka hanno inciso
un Cd e hanno diffuso la loro musica proprio su internet, vendendo
online la loro realizzazione. E così un altro popolo, tra quelli fino a
questo momento relegati ai margini della cosiddetta civiltà, ha fatto
il proprio ingresso nella società dell’informazione.
Questa commistione di tradizione e modeità non deve stupire: internet
sembra rappresentare un luogo di incontro privilegiato tra gli indios e
le associazioni che tutelano le culture indigene. Per rendersene conto
è sufficiente visitare il portale «Native Web» (www.nativeweb.org), un
ricco canale di accesso alle risorse in rete dedicate alle culture
indigene.
Se l’episodio degli indios ashaninka è tutto sommato marginale,
circoscritto com’è a un ambito un po’ atipico e a una fascia di
popolazione limitata, altrettanto non si può dire del progetto Global
Forest Watch (www.globalforestwatch.org), che si ripromette addirittura
di monitorare le risorse forestali del mondo intero.
Global Forest Watch, creato dal «World Resources Institute», è una rete
mondiale di gruppi forestali locali, in contatto tra di loro grazie ad
internet ed equipaggiati con strumenti software avanzati. La grafica
satellitare si unisce a una raccolta dettagliata di dati sul campo, con
l’obiettivo di confrontare le attuali pratiche forestali con gli
standard stabiliti dalle organizzazioni inteazionali.
Questi ed altri sistemi di telerilevamento, via satellite e via
internet, consentono di fare l’inventario delle risorse terrestri, di
prevedere i raccolti e di migliorare l’utilizzo dei terreni nei paesi
in via di sviluppo, magari anticipando i segni premonitori di
cataclismi naturali.

SE LA SALUTE  VIAGGIA SU INTERNET
È confortante sapere che le tecnologie possano influire sui processi di
inclusione sociale o fronteggiare i guasti ecologici sempre in agguato.
Lo sviluppo umano è però una realtà più vasta e complessa. Per
cominciare, si potrebbe obiettare che esistono bisogni ben più urgenti:
la salute, per esempio.
Per la maggior parte degli operatori sanitari dei paesi del Sud
l’accesso all’informazione è un problema: i testi per la formazione
sono spesso antiquati e l’informazione sui farmaci più recenti o sui
trattamenti preventivi è limitata. I medici si sentono isolati perché
non hanno la possibilità di chiedere un consulto nell’emettere la loro
diagnosi.
La rete satellitare HealthNet (www.healthnet.org), creata nel 1989,
offre servizi e strumenti a circa 4.000 operatori sanitari in più di 30
paesi del mondo. Un esempio ci può aiutare a comprendere di quali
servizi si tratta.
In un remoto villaggio dell’Africa equatoriale alcune infermiere
adoperano una telecamera digitale per acquisire le immagini di alcuni
alimenti, scaricarle su un computer portatile e portarle da un medico
affinché le esamini. Nel caso in cui questi debba valutarle
ulteriormente, può spedirle via internet in Gran Bretagna, dove vengono
sottoposte allo studio di specialisti di tutto il mondo. Oggi un
software di compressione permette di ridurre enormemente un’immagine a
raggi X senza perdita di informazione, e di spedirla senza difficoltà
attraverso qualsiasi rete esistente di telecomunicazioni.
Qualche interrogativo comincia timidamente ad affacciarsi. È saggio
spendere tante risorse per una struttura vasta e imponente quale
HealthNet? «L’Africa non ha bisogno di tecnologie sofisticate» sostiene
Maria Musoke, esperta di informazione medica in un progetto ugandese.
Maria ha ottenuto ottimi risultati, nella prevenzione della mortalità
infantile, grazie all’uso di semplici walkie-talkie. La telemedicina –
sostiene Maria – è un’applicazione dal grande potenziale, ma i costi
attuali ne fanno uno strumento irrealistico. Per spezzare l’isolamento
dei medici africani, il vero problema di questo continente, basterebbe
un semplice computer, dotato di una connessione internet e collocato
nella maggior parte dei centri sanitari.

LA «GRAAMEN PHONE»:  PICCOLO È BELLO
I progetti faraonici di grandi reti continentali, le immagini patinate
di giovani africani intenti a navigare in internet compiacciono
certamente i governi, i diplomatici e gli editori di riviste di massa.
Sono però di dubbia utilità per la popolazione locale. L’autentico
successo arride più frequentemente ai progetti di piccole dimensioni,
fondati su tecnologie accessibili e facilmente replicabili. «Piccolo è
bello», scriveva Schumacher qualche decennio fa, ma la sua lezione è
valida ancora oggi.
Dopo l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2006 a Muhammed Yunus,
inventore del microcredito, tutti conoscono la sua creatura: la Graamen
Bank, la «banca dei poveri». Meno conosciuta, probabilmente, è la
sorella Graamen Phone, la «compagnia telefonica dei poveri», che ha
esteso il modello del microcredito alla telefonia rurale del
Bangladesh. Beneficiario, in questo caso, è un imprenditore locale,
solitamente una donna, cui viene prestato il denaro per acquistare un
telefono cellulare, destinato ad essere utilizzato dai suoi compaesani.
La domanda di questo servizio di comunicazione è davvero elevata.
Sappiamo che, a causa della debolezza del mercato del lavoro locale,
molti sono costretti a emigrare e i telefoni costituiscono un prezioso
canale per mantenere legami sociali e familiari, oltre che per
garantire il flusso delle rimesse verso le famiglie.
Non è tutto: per comprare e vendere i beni prodotti sono necessari
frequenti viaggi verso i mercati delle località centrali di una
regione. Il servizio telefonico permette a molti di consultare i propri
contatti nelle città e di ottenere da loro le informazioni relative ai
prezzi di mercato, rompendo il monopolio dell’informazione che
appartiene ai mediatori e riducendo i rischi di sfruttamento. Le
chiamate telefoniche possono sostituire un viaggio in città, che ai
contadini costerebbe dieci volte più di una chiamata, e li aiutano a
ottenere prezzi più equi per i loro raccolti.
L’esempio ci insegna che non sempre le tecnologie migliori sono le più
avanzate o quelle di ultima generazione. Saper integrare antico e
moderno, facendo coesistere vecchie e nuove tecnologie, è uno degli
ingredienti fondamentali di una iniziativa di successo.

CARA, VECCHIA RADIO
Nella comunità di Kothmale, un’area di ben 350.000 persone dello Sri
Lanka, si è realizzata un’originale fusione del mezzo radiofonico con
quello telematico. La «Kothmale Community Radio» (www.kothmale.org)
trasmette quotidianamente un programma di un’ora, basato sulle semplici
domande degli ascoltatori, cui si provvede a dare risposta con l’aiuto
di internet. A questo scopo, è stato anche implementato un database
contenente le informazioni più richieste; mentre alcuni punti di
accesso internet comunitari vengono utilizzati come portali per
effettuare trasmissioni dal vivo dall’interno della comunità.
La «radio comunitaria» ha una storia molto lunga: essa è stata
impiegata per raggiungere fasce di popolazione ampie, soprattutto
quelle non alfabetizzate o quelle che vivono in aree con scarse
infrastrutture. Il vantaggio delle radio è quello di avere un costo
alquanto basso e di essere disponibili anche quando manca l’energia
elettrica, per esempio alimentate da batterie solari.
È un peccato che esperienze simili a quella di Kothmale non si siano
replicate in gran numero nel continente africano, dove la radio è lo
strumento di gran lunga più utilizzato e la telefonia mobile è ben più
che una promessa, grazie a una configurazione geografica favorevole (i
cellulari privilegiano i territori pianeggianti) e al carattere di
oralità della cultura africana.
Questi esempi gettano una luce nuova sul rapporto controverso tra nuove
tecnologie e paesi in via di sviluppo. Troppo spesso il nostro
immaginario si è nutrito di immagini deformate: pensiamo alle
raffigurazioni di villaggi in cui un personal computer, che spunta nel
mezzo delle capanne, viene venerato da un gruppo di indigeni straniti,
che non ne capisce la funzione. Si potrebbero aggiungere molti altri
stereotipi simili a questo: essi hanno purtroppo grande peso nella
pubblicistica, ma scarso riscontro nella realtà.

«VENDO CAPRE»:  SU INTERNET
Qualche anno fa, un esperto della Banca mondiale si è recato in Etiopia
per parlare di e-business e ha esordito dicendo: «Immagino che nessuno
di voi sappia che cosa sia un sito internet». Un tale ha alzato la mano
e a sorpresa ha replicato: «Io lo so. Vendo capre su internet… Ci
sono molti tassisti etiopi a Chicago, New York e Washington. La
tradizione vuole che regalino delle capre alle loro famiglie rimaste in
Etiopia e così io gliele vendo da un cybercaffè…».
Questo aneddoto, tratto da un gustoso libro di Sergio Carbone e
Maurizio Guandalini (intitolato appunto Vendo capre su Inteet) serve
a smentire un luogo comune tra i più radicati: che le comunità povere
delle aree rurali abbiano bisogni «primitivi» e che le loro società
siano autosufficienti e chiuse. Al contrario, nella maggioranza dei
casi, sono popolate di piccoli imprenditori e di cornoperative locali,
che hanno bisogno di informazioni sullo stato del mercato, sui prezzi
correnti e sulla previsione di domanda per i loro prodotti e servizi:
dai prodotti agricoli all’artigianato, dalle risorse naturali al
turismo. C’è bisogno di frequentare i mercati per accaparrarsi
potenziali clienti, di comunicare con altri partner per concludere
accordi, organizzare i trasporti, ecc… Senza dimenticare che, affinché
delle imprese concorrenziali si possano sviluppare nelle zone rurali, è
necessario accedere ai servizi governativi e disporre di informazioni
in merito alle imposte e alle sovvenzioni. Privi di conoscenze
rilevanti e della capacità di comunicazione necessaria per analizzarle
e condividerle, i piccoli produttori rischiano di rimanere alla mercé
del mercato mondiale.
Se volessimo ricavare una lezione, potremmo sintetizzarla così: i
poveri non hanno strettamente bisogno di computer, ma di informazione.
Un’informazione che abbia senso per la loro vita quotidiana e che,
grazie anche a tecnologie semplici e accessibili, li renda capaci di
gestire autonomamente i propri processi di sviluppo. Sapranno
ricordarsene i tecnocrati dello sviluppo?

MENO GIGANTISMO, PIÙ FIDUCIA E CONTATTO
Contare sullo sviluppo umano comporta avere fiducia nelle capacità
delle comunità. Richiede tempo e pazienza, spesso in contrasto con
l’immediatezza e il «bruciare le tappe» tipiche della società
dell’informazione; richiede analisi e comprensione, che si acquisiscono
con l’esperienza e il contatto diretto, più che quello mediato dallo
strumento tecnologico.
Purtroppo questa consapevolezza non è per nulla diffusa nella comunità
internazionale che, con una disinvoltura ormai eccessiva, si rivolge a
internet e alle tecnologie dell’informazione nel tentativo di caricare
di significato progetti di sviluppo altrimenti poco significativi, in
una qualsiasi realtà del Sud del mondo.
Dalle «cittadelle digitali» pianificate nei ghetti di Soweto e
nell’isola di Mauritius ai «villaggi solari» (così chiamati perché
dotati di computer alimentati da energia solare) realizzati in
Honduras, la visione dominante nella comunità internazionale è affetta
da gigantismo. Si ritiene che un programma tecnologico debba
necessariamente funzionare su larga scala, raggiungendo decine di
migliaia di comunità rurali, superando l’orbita limitata dei programmi
di sviluppo convenzionali. E naturalmente, protagoniste di tali
programmi sono quasi sempre le grandi multinazionali tecnologiche, le
uniche che dispongano dei mezzi per erogare servizi a migliaia di
utenti contemporaneamente. Perché – è la domanda ricorrente – non
incoraggiarle a fornire esse stesse i beni di consumo e i servizi di
base, secondo i bisogni e il budget delle comunità povere?
Il ragionamento spiana la strada all’ingresso in massa del mondo del
business, invitato a percorrere una nuova eccitante missione: quella di
trasformare gradualmente (a volte in maniera diretta e a volte in
partnership con i governi o le reti di Ong) i poveri in «clienti»,
destinati come tali a pagare servizi finalizzati (almeno teoricamente)
a migliorare la qualità della loro vita e ad aumentare la produttività
delle loro attività.
Questo tipo di interventi è di solito condito da una fastidiosa dose di
retorica e da un’assoluta mancanza di senso critico, frequente ogni
volta che ci si riferisce a internet. Il senso di ottimismo, uno
sviluppo fatto piovere dall’alto e la convinzione di neutralità della
tecnologia non sono certo le premesse migliori per sviluppare una
riflessione matura. In un’epoca in cui alle nuove tecnologie
dell’informazione e della comunicazione si è giunti ad attribuire un
valore quasi salvifico, ci si chiede se abbia ancora senso discutere le
finalità che dovrebbero guidare il loro impiego e l’impatto prodotto
sulle fasce più deboli della popolazione.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro




Internet, ma non per tutti

Lavoro da diversi anni per una Organizzazione non governativa (Ong).
Siccome mi occupo di informatica, molti sono convinti che il mio lavoro
consista nel portare le nuove tecnologie nei paesi più poveri. Qualcuno
ne ricava motivi di entusiasmo, qualcun altro di sospetto.
I primi sono abbastanza facili da identificare: i loro discorsi
contengono immancabilmente elogi sperticati a quella grande
«rivoluzione tecnologica» che il Nord ha già sperimentato e che il Sud,
presto o tardi, potrà godere. Agli apprezzamenti seguono, quasi sempre,
proposte di pacchetti tecnologici «chiavi in mano», pronti per essere
esportati nel Sud. A costoro rispondo che i poveri non sanno che
farsene di tecnologie di punta, soprattutto se sono state ideate e
prodotte nei laboratori occidentali. Cercherò di spiegae il motivo
nella prima parte (Per una tecnologia dal volto umano) di questo
dossier, percorso da una domanda di fondo: come coniugare i supposti
benefici della società dell’informazione con quelli di un autentico
sviluppo umano?
I critici del mio lavoro, invece, sono più sfuggenti, ma non meno
categorici: la mia attività consisterebbe nel colonizzare i paesi del
Sud e nel soddisfare bisogni inesistenti: il Sud del mondo avrebbe
bisogno di medicine, di acqua e di scuole piuttosto che di informatica.
A costoro rispondo che hanno perfettamente ragione, ma che hanno
dimenticato due bisogni vitali: l’informazione e la comunicazione.
Nella seconda parte (L’informazione? Oligopoli e nuove povertà), grazie
a una rapida carrellata storica, cercherò di mostrare il faticoso
processo con cui la comunità internazionale ha preso coscienza dello
squilibrio mondiale nell’informazione e nella comunicazione,
presentando le svariate proposte – a volte brillanti, molto più spesso
fallimentari – che sono state poste in atto per arginare lo squilibrio.
Tuttavia, ci sono domande a cui è più complicato rispondere. Provengono
talvolta dagli stessi abitanti dei paesi poveri, che chiedono a gran
voce di non rimanere esclusi da quegli spazi di comunicazione, di
crescita umana e di democrazia che la rete per eccellenza, internet,
sta rendendo possibile. Per loro è già stato coniato il termine
«infopoveri» e si profila una minaccia del tutto inedita, indicata con
il nome di «divario digitale». Quali ne sono le caratteristiche? Come
riconoscere le forme di esclusione nella Rete? A coloro che non si
stancano di porre domande come queste, è rivolta la terza parte (Se New
York vale l’Africa) di questo dossier.

GianMarco Schiesaro

Il Glossario

Banda (larghezza di banda) – È la capacità
di trasmettere le informazioni: maggiore è la «larghezza di banda», più
veloce è la trasmissione. La cosiddetta «banda larga» permette l’invio
di segnali complessi, come quelli multimediali.

Browser – Programma di visualizzazione di contenuti, utilizzato per navigare nel web.

Codice sorgente – È un insieme di istruzioni scritte in un linguaggio di programmazione, in grado di far funzionare un programma.

Cyberspazio – Termine coniato dallo
scrittore di fantascienza William Gibson: è usato per fare riferimento
allo spazio formato dalla totalità dei documenti e dei servizi resi
disponibili in Rete.

Database – Raccolte di dati strutturati in modo da compiere ricerche logiche al loro interno e svolgere elaborazioni automatiche.

Dominio (nome di) – Nome utilizzato per identificare la posizione
elettronica e talvolta geografica di un computer. I nomi di dominio
hanno sempre due o più parti, separate da punti: quella a sinistra è la
più specifica e la parte a destra la più generale (i suffissi
statunitensi come .com, .org, .edu, .net, eccetera, o dei paesi come
.it).

E-commerce (e-business) – Si tratta di transazioni commerciali condotte a distanza attraverso la Rete.

Filtro – Software che permette di
effettuare, per esempio tramite parole chiave, una scelta dei contenuti
internet accessibili all’utente.

Hacker – Termine di uso comune per
identificare una persona con competenze tecniche tali da poter
penetrare nei sistemi informatici protetti. Coloro che si definiscono
«hacker», in realtà, operano in base a un rigoroso codice etico, il cui
principio fondamentale è quello di liberare il flusso della
comunicazione informatica e abbattee le barriere, differenziandosi
così dai pirati informatici, che vengono definiti «crackers».

Hardware – In un computer indica la
macchina, la componentistica fisica in opposizione al software (che
indica i programmi, la parte logica).

Inteauta (cybeauta) – Utente che naviga nei «mari» di internet.

Inteet Caffè (Cybercaffè) – Locale pubblico dotato di computer che consentono agli avventori di navigare in internet.

Modem – Dispositivo hardware che converte i dati informatici per la trasmissione degli stessi sulle linee telefoniche.

Motore di ricerca – Programma
raggiungibile attraverso la Rete e in grado di indicizzare e fornire su
richiesta dell’utente informazioni presenti su internet; strumento
indispensabile per effettuare una corretta e rapida navigazione.

Multimediale – Indica l’integrazione, su uno stesso supporto, di dati di diversa natura: testi, suoni, immagini.

Nodo – Singolo computer direttamente connesso alla Rete.

Provider (Inteet Access Provider) – Foitore di accesso a internet, società che fornisce collegamenti con internet.

Rete (la) – Sinonimo di internet.

Sistema operativo – Programma che controlla la maggior parte delle funzioni base di un computer.

Standard – Insieme di regole o di
specifiche che riguardano la progettazione di dispositivi informatici.
Possono essere di due tipi: gli «standard proprietari» sono quelli
proposti dalle società a pagamento, gli «standard aperti» sono quelli
resi pubblici e messi a disposizione di chiunque.

Telematica – Fusione delle parole
informatica e telecomunicazioni; indica l’insieme delle trasmissioni di
dati tra computer attraverso linee telefoniche o reti.

Word processor – Programma di scrittura che permette la composizione di testi.

GianMarco Schiesaro

Laureato in ingegneria elettronica presso l’Università di Padova, ha
poi conseguito il Master in Cooperazione allo sviluppo presso la
European School of Advanced Studies dell’Università di Pavia.
Successivamente, ha approfondito il tema del rapporto tra tecnologie e
formazione conseguendo il Master in Computer Mediated Communication
presso l’Institute of Education dell’Università di Londra.
Lavora da alcuni anni nel mondo della cooperazione internazionale,
occupandosi presso il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo)
dei progetti di e-leaing nei paesi in via di sviluppo, in particolare
in Albania, Kosovo e Libano.  È inoltre direttore del «Centro di
formazione per lo Sviluppo umano» del Vis, attivo nella formazione
online sui temi della cooperazione, della globalizzazione e dei diritti
umani.
Da alcuni anni si interessa della divulgazione delle tematiche relative
al «digital divide». Nel corso del 2003 è stato rappresentante della
società civile presso il ministero degli Esteri in vista della
partecipazione al Vertice mondiale delle Nazioni Unite sulla Società
dell’Informazione. Ha collaborato con il secondo canale della Radio
svizzera italiana per la realizzazione di alcuni servizi radiofonici
sul tema del divario digitale.
Cura infine il modulo di «Cooperazione allo sviluppo» presso il Master
in Educazione alla pace dell’Università di Roma Tre ed è docente del
corso: «Mass media e paesi del Sud del mondo». Ha pubblicato:
• La sindrome del computer arrugginito,  Nuove tecnologie nel Sud
del mondo tra sviluppo umano e globalizzazione, SEI, Torino 2003
• Formazione online e mondialità, all’interno del volume Tecnologie per
la didattica (a cura di Davide Parmigiani), Franco Angeli Editore,
Milano 2004.

Introduzione e cornordinamento di Paolo Moiola.

GianMarco Schiesaro




Opportunità e pericoli per l’«homo technologicus»

Introduzione

Qualche settimana fa, ho ricevuto dall’Angola, via posta elettronica,
un video del dottor Nando Campanella, il medico che a suo tempo vinse
il nostro «Premio Carlo Urbani» e che oggi lavora in Africa per
l’Organizzazione mondiale della sanità (http://www.afro.who.int/).
Nando è un esperto di telemedicina e, ovunque vada a lavorare, cerca di
coniugare le sue conoscenze mediche con quelle tecnologiche. L’e-mail è
uno strumento che ha rivoluzionato il modo di comunicare, abbattendo le
distanze e il tempo (ma quasi sempre anche la poesia). Personalmente,
non riesco più a fare a meno, anche perché la posta elettronica è ormai
diventata indispensabile per il mio lavoro. Tuttavia, vivo senza
telefonino. Una cosa, questa, talmente inusuale che, quando lo
confesso, nessuno mi crede.
Verso le nuove tecnologie ho un rapporto di accettazione, ma allo
stesso tempo di sospetto. Ad esempio, in quanto ambientalista
(convinto), mi infastidisce molto vedere i prodotti tecnologici durare
sempre meno, non tanto perché non funzionino più quanto perché vengono
superati da altri più aggioati e di cui – come ci fanno credere
pubblicità martellanti ed invadenti – sembra non si possa fare a meno.
Purtroppo, computer, telefonini, videoregistratori, televisori,
stampanti e quant’altro si trasformano in rifiuti altamente inquinanti
e di difficile smaltimento. In media, in Europa ogni cittadino produce
20 (venti!) chilogrammi di spazzatura elettronica all’anno. La
direttiva europea (http://europa.eu/) sui «Rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche» (Raee), in inglese Waste from electrical
and electronic equipment (Weee), non sembra essere adeguata all’entità
del problema. Gli europei (con gli italiani nelle primissime posizioni)
cambiano il proprio cellulare in media ogni 15 mesi. Quanti di essi
sanno che i telefonini contengono cassiterite e tantalio (coltan) e
che, per avere questi metalli, nella martoriata Repubblica del Congo si
combatte, si sfrutta, si commette ogni genere di violenza?  

Quando si viaggia nel Sud del mondo si incontrano sempre più spesso
internet cafè. Dunque, la tecnologia arriva veramente ovunque? Lascio
la risposta a Geneviève Makaping, antropologa del Camerun, che al
Convegno di Mani Tese (http://www.manitese.it) ha tristemente
sintetizzato la situazione: «In Africa i miei nipotini hanno il
telefonino ma nessuno li chiama. Hanno la parabola satellitare ma la
usano per scegliere il paese in cui emigrare. Le ragazze vanno nei
tanti internet cafè per contattare uomini che le portino in Europa,
dove finiscono sulle strade a prostituirsi». Quella della professoressa
Makaping è una provocazione, anche se non troppo lontana dalla realtà.
Vale la pena di ricordare che l’analisi svolta da The Economist
(http://www.economist.com), la bibbia del capitalismo mondiale, sulle
nuove tecnologie informatiche e della comunicazione nei paesi poveri
arrivava a questa conclusione: «Un computer non serve se non hai cibo,
non hai elettricità e non sai leggere. (…) La telefonia mobile è la
tecnologia con il più grande impatto sullo sviluppo» (10 marzo 2005).
Altro problema delle nuove tecnologie è la loro invasività. Oggi si
diffondono i microchip polifunzionali che si  impiantano sotto
pelle (come il Rfid, Radio frequency identification, che identifica
automaticamente e a distanza persone, animali e oggetti). E domani che
sarà? Ecco perché sono d’accordo con le preoccupazioni espresse dal
professor Umberto Galimberti («Psiche e techne. L’uomo nell’età della
tecnica», Feltrinelli 2000): «Non c’è più nessuno che sia in grado di
controllare la tecnica, ma è la tecnica a divorare gli uomini, compresi
quelli che hanno il potere di immettere nel circuito le informazioni.
Essi infatti devono tener conto dei gusti degli utenti e questi gusti a
loro volta sono indotti dal mezzo. Insomma nel conflitto tra uomo e
macchina perde sempre l’uomo».
Un altro filosofo, il francese Jean Baudrillard, non vede affatto bene
questa invasione della tecnologia: «La peculiarità dell’essere vivente
è di non arrivare al limite delle sue possibilità, mentre l’oggetto
tecnico fa il contrario: esaurisce le sue possibilità e le dispiega a
dispetto di tutto, anche dell’uomo, determinando più o meno a lungo
termine la sua scomparsa. (…) Non c’è analogia più bella, per
illustrare questo passaggio all’egemonico, della fotografia diventata
digitale, liberata nello stesso tempo dal negativo e dal mondo reale. I
due passaggi, naturalmente su scale diverse, hanno conseguenze
incalcolabili. Significano la fine di una presenza singolare
dell’oggetto, visto che può essere costruito digitalmente. Fine del
momento singolare dell’atto fotografico, perché l’immagine può essere
immediatamente cancellata o ricomposta. Fine della testimonianza
irrefutabile del negativo».

Ogni fine anno Time, il noto settimanale Usa (http://www.time.com),
sceglie il personaggio che, a suo dire, più ha segnato l’anno appena
concluso.
La copertina dell’ultimo numero del 2006 raffigurava un computer a
schermo piatto su cui si riflette l’immagine del lettore, perché
«L’uomo dell’anno sei tu. Sì, sei proprio tu. Tu controlli l’era
dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo». Insomma, l’anonimo utente
di internet sarebbe il cuore della «nuova democrazia digitale».
L’enfasi di Time arrivava a tal punto da titolare un articolo: Power To
The People, Potere al popolo. Ironia della sorte, proprio nei giorni
dell’uscita di questo numero si scopriva che i servizi segreti degli
Stati Uniti potranno mettere il naso nelle e-mail e nelle transazioni
delle carte di credito dei passeggeri europei che vanno negli Stati
Uniti. Ad ulteriore conferma dell’ambiguità delle nuove tecnologie e
della pericolosità di una loro adozione acritica.
Non è certo, infine, se la scelta del settimanale Time sia stata
completamente autonoma o piuttosto influenzata da interessi
commerciali. Questo è forse il punto centrale della questione: dove
finisce l’utilità di una nuova tecnologia e dove inizia il consumismo
ingiustificabile e insostenibile?

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Honduras/ La violenza della modernità

È uno dei tanti paesi latinoamericani dove indigeno è sinonimo di povertà
e ingiustizia. Come ci racconta una leader dell’organizzazione Copinh,
Berta Caceres, donna indigena cui non manca né il coraggio né la forza
di volontà.

Se pensavate che in Centroamerica la violazione dei diritti umani, come
la tortura, i sequestri e gli assassini politici, fossero cose degli
anni ’80, l’Honduras di oggi vi farà ricredere.
Il paese si trova al centro di un moderno campo di battaglia, che si
crea quando due elementi attuali come un paese povero e la
globalizzazione si incontrano. Come risultato, l’Honduras si trova da
un lato minacciato dalle trasnazionali (con concessioni minerarie in 17
dei suoi 18 dipartimenti e con royalties che toccano addirittura l’1%),
dall’altro, dove le risorse minerarie non ci sono, prigioniero degli
ingranaggi della modea schiavitù, con la diffusione delle maquilas,
delle piantagioni di banane e di presunti progetti di ecoturismo. E,
per chiudere questo «circolo virtuoso dello sfruttamento», la
contaminazione ambientale, l’invasione trasgenica e il saccheggio della
biodiversità (fenomeno conosciuto come biopirateria).
Al centro di questa scena, si trovano gli indigeni honduregni (il 15%
della popolazione), che in questo paese sono il settore della società
più emarginato. Essi affrontano la discriminazione razziale della
maggioranza e l’espropriazione delle loro terre, che reclamano come
proprie da generazioni in dispute infinite con latifondisti e più
recentemente con imprese di legname, nazionali e multinazionali, che
sfruttano e saccheggiano le foreste nazionali, che (ancora) coprono
l’80% del territorio.
Berta Caceres, indigena di etnia lenca, leader del «Consiglio civico
delle organizzazioni popolari dell’Honduras»
(www.laneta.apc.org/copinh/), ci racconta un po’ di questa
organizzazione e della situazione attuale dei popoli indigeni
honduregni: «El Copinh è una organizzazione che ha 13 anni di lotta a
fianco delle comunità indigene per la difesa della nostra terra. Con
l’aiuto del trattato Oil n.169 sui popoli indigeni, siamo riusciti ad
ottenere la titolarità di circa 1.500 ettari di terra, ma attualmente è
in sospeso un’altra titolarità per 2.000 ettari. La titolarità è uno
dei motivi della nostra lotta di resistenza, perché l’incertezza sulla
proprietà di questa terra sta alimentando la cupidigia di molti
latifondisti – che in precedenza erano militari, poliziotti o parte del
potere politico -, i quali vogliono espellere le comunità indigene
dalle terre per poi poter saccheggiare le foreste e vendere tutto il
vendibile del nostro patrimonio».
«La realtà honduregna – continua Berta – è una realtà multietnica con 7
popoli indigeni: lencas, tolupanes, tawacas, garifunas, miskitos, mayas
choltis e, inoltre, i neri di lingua inglese. In questo momento stiamo
affrontando delle politiche neoliberiste  che in Honduras si
concretizzano nella spogliazione dei nostri territori di
proprietà  comune, della nostra cultura e delle conoscenze
ancestrali. Questa spogliazione viene attuata attraverso i grandi
progetti come il Piano Puebla-Panamà che punta al saccheggio delle
nostre risorse forestali, biogenetiche ed acquatiche. Questi progetti
sono accompagnati da una sistematica violazione dei diritti umani dei
popoli indigeni. In Honduras esiste un elenco di più di 50 leaders
indigeni e neri assassinati negli ultimi 2 decenni, cosa che è rimasta
semplicemente impunita. Infatti, attualmente nessuno si trova in
carcere per l’assassinio di indigeni».
«La nostra è una realtà sconosciuta – continua Berta Caceres -. Noi
abbiamo dozzine di compagni incarcerati in maniera illegale,
violentati, resi storpi per la vita, uomini che hanno perso gli occhi
per le torture, compagne che hanno abortito a causa della violenza di
poliziotti e militari. Nel 2006 sono stati assassinati 2 giovani
garifunas per ordine di multimilionari honduregni che sono coinvolti
nel megaprogetto di Bahia de Tela, nel quale tra l’altro ci sono anche
interessi italiani ed europei. Ma pure questo assassinio è rimasto
impunito».
«Anche se viviamo controllati, con il nostro telefono intercettato,
continueremo a chiedere il rispetto dei nostri diritti e non importa se
ciò ci costerà la vita. Noi sappiamo perfettamente che stiamo
affrontando dei poteri forti, ma questo non significa che rimarremo con
le braccia conserte, aspettando che finiscano di ucciderci».

José Carlos Bonino

Il Glossario di «Radio di carta»

Piano Puebla-Panamà: è il progetto che
prevede l’integrazione tra 9 stati messicani (Puebla) e gli stati
dell’America centrale fino a Panamà; lanciato nel 2001 dall’ex
presidente messicano Vicente Fox, su istanza di Washington.

Royalty / regalia: è il pagamento (di entità variabile) dovuto dall’utilizzatore al proprietario (titolare) di un diritto.

Trattato Oil/Oit n.169: è il Trattato
sui popoli indigeni e tribali dell’«Organizzazione internazionale del
lavoro»  (Oil/Oit); sottoscritto nel 1989, costituisce una
fondamentale evoluzione del trattato n.107 del 1957. 

José Carlos Bonino




Mosaico «esplosivo»

Potere, petrolio e milizie: dove sta andando il gigante africano

La grande diversità è la sua ricchezza. Ma, gestita
male, diventa la sua rovina. Così il paese più popoloso dell’Africa, e
attuale sesto produttore di petrolio al mondo, è attraversato da
movimenti identitari. La scadenza elettorale di aprile scatena voraci
appetiti nella classe politica, e stimola la galassia di milizie
armate. Tutti in cerca di una fetta di torta.

Il clima politico e sociale si sta surriscaldando in Nigeria ed è
destinato a peggiorare con l’avvicinarsi delle elezioni politiche di
aprile. Il presidente Olusegun Obasanjo, eletto nel 1999 e rieletto nel
2003, ha rappresentato una svolta democratica per il paese, che dei
suoi 46 anni d’indipendenza ne ha vissuti 28 di dittatura militare.
Obasanjo ha tentato di lottare contro la corruzione con pochi risultati
tangibili. Il suo maggior successo è stato invece rilanciare il paese a
livello internazionale, facendolo uscire dall’isolamento causato dai
governi militari. Non è riuscito tuttavia sul piano interno dove ha
continuato a svilupparsi il fenomeno delle milizie etniche e si sono
inaspriti gli scontri tra gruppi di interesse economici e politici.
Lo scorso maggio, Obasanjo ha tentato, senza successo, di far
modificare la costituzione, che impone il limite di due mandati
consecutivi, per poter prolungare la sua opera al vertice dello stato.
La vera questione è che la gestione del potere nel gigante africano fa
gola a molti.

Una potenza africana

Sesto produttore di petrolio a livello mondiale e primo in Africa con
2,5 milioni di barili al giorno (35.255 milioni di barili di riserve),
la Nigeria si contende la leadership continentale solo con il
Sudafrica.
Repubblica federale di 36 stati, 130 milioni di abitanti e oltre 250
popoli, il paese definito «mosaico» per le sue grandi diversità
etniche, culturali, religiose e linguistiche ha una certa difficoltà a
mantenersi unito. Divisioni tra gli stati musulmani del nord (dodici
dei quali hanno adottato la legge islamica, sharia) e quelli cristiani
del sud, ma anche tra potere centrale e  singoli stati federati.
Le tensioni tra cristiani e musulmani, ma anche tra allevatori e
coltivatori che spesso sfociano in massacri con centinaia di vittime,
sono oggi in lieve diminuzione, ma sempre latenti.
Il sistema federale che doveva garantire la partecipazione di tutte le
etnie, ma ancora prima l’impostazione coloniale, hanno in realtà
favorito i tre principali gruppi: haussa, yoruba e igbo. Questo ha
creato spesso un senso di emarginazione e alienazione rispetto allo
stato nigeriano delle altre centinaia di etnie.
Dalla metà degli anni ’90 questi sentimenti di identità etnica e
politica, esacerbati dai sistemi oppressivi delle dittature militari,
sono sfociati nella nascita di una moltitudine di milizie
etniche.  Gruppi armati attivi nelle diverse zone del paese con
origine simile ma anime molto diverse. Dalle rivendicazioni politiche
degli yoruba, al movimento per l’indipendenza del Biafra, alle milizie
islamiche nel nord, ai movimenti per la ripartizione delle risorse nel
delta del Niger.

Cambio ai  vertici

Lo scorso dicembre, il partito del presidente, Partito democratico del
popolo (Pdp), ha eletto il suo candidato per le presidenziali. Si
tratta di Umaru Yar’Adua, governatore, musulmano, di uno stato del nord
(Katsina). Uomo schivo, ma soprattutto uno dei rari governatori
«integri», secondo la Commissione per i crimini economici e finanziari
(Efcc), istituita dall’attuale presidente. La commissione ha aperto
inchieste su 31 dei 36 governatori. In effetti la Nigeria, secondo la
classifica annuale in base alla corruzione, stilata dall’Ong
Transparency Inteational, resta uno dei paesi più corrotti del mondo,
occupando il 142simo posto su 163 recensiti.
Secondo un tacito accordo tra gruppi di potere, dopo gli 8 anni di
governo federale a un uomo del sud, cristiano, sarebbe stato un uomo
del nord ad avere la presidenza. Con la riforma della costituzione il
presidente ha tentato di venire meno ai patti, senza peraltro riuscirci.
Allora Obasanjo ha preferito mandare avanti un uomo di secondo piano
del partito, ma musulmano del nord, e con una buona immagine a livello
nazionale. È riuscito così, allo stesso tempo a soddisfare l’accordo,
ma anche a scartare alcuni avversari «musulmani» diretti. Come
l’attuale vicepresidente, Atiku Abubakar, uomo potente del Pdp ma in
rotta con Obasanjo (è anche stato uno dei fautori del «no» alla riforma
costituzionale) che ora si candiderà sotto un’altra bandiera politica.
Oppure Ibrahim Badatasi Babangida, già presidente dittatore dall’85 al
’93 intenzionato di nuovo a correre per la presidenza.
È molto probabile che i giochi si definiranno all’interno del Pdp, che
oggi controlla 28 dei 36 governatorati e ha la maggioranza al
parlamento federale. Con una possibile vittoria di Yar’Adua, il partito
dovrebbe poi accontentare gli stati del sud con la vice presidenza.
Ma anche gli Igbo (Ibo) dell’est, etnia maggioritaria (40 milioni) e
che non hanno un presidente da 40 anni vorrebbero dire la loro.
Questa successione sarebbe il primo passaggio di poteri tra civili nella storia del paese.

Molte risorse,  ma per pochi

La Nigeria è dunque un paese molto ricco di risorse, che non vanno però a beneficio della sua numerosa popolazione.
Secondo gli analisti dell’Inteational Crisis Group (Icg), Ong
internazionale per la prevenzione dei conflitti, il sistema federale
non funziona e contribuisce all’aumento della violenza che destabilizza
il paese. Incoraggia lotte feroci tra gruppi d’interesse per
appropriarsi del potere. In questo contesto sono nate le milizie
etniche e politiche, ma è anche fiorito il crimine organizzato. Le tre
componenti si intrecciano in modo inestricabile. Lo stato, sempre
secondo l’Icg, vuole reprimere i sintomi, inviando più poliziotti e
militari, piuttosto che cercare di debellare le cause: controllo delle
risorse, uguaglianza dei diritti, condivisione del potere e della
responsabilità.
Questa situazione sta portando all’aumento dei conflitti interni, con
conseguente peggioramento della situazione di sicurezza e
un’instabilità crescente. Alcuni analisti parlano di possibile
«collasso» o «esplosione» del gigante.

Petrolio chiama sangue

Il caso emblematico è il sud dove si concentrano i giacimenti di
petrolio nel delta del fiume Niger e in mare. Da queste zone il paese
ricava il 95% delle sue entrate all’esportazione. Ma si stima che il
70-75% della popolazione del delta (oltre 20 milioni) vive con meno di
un dollaro al giorno.  Questa situazione costituisce un substrato
ideale per milizie armate, come il Mend (Movimento per l’emancipazione
del delta) sorto a inizio 2006 e molte altre, che rivendicano il
controllo locale delle risorse. I loro metodi sono attacchi al governo
federale e alle compagnie petrolifere, come rapimenti degli impiegati
(come il recente sequestro dei tre italiani e il libanese dipendenti
dell’Agip), ma anche attentati con auto bomba.  Vogliono
paralizzare l’industria del petrolio alla quale hanno già fatto ridurre
del 25% la produzione nel 2006.
Motivi di militanza spesso etnica o politica (come anche richieste
d’indipendenza), contrabbando e criminalità comune si intrecciano nella
galassia dei movimenti del delta, rendendo molto difficile districarsi,
e facili le strumentalizzazioni.  Le milizie riescono facilmente a
far crescere l’odio verso il governo centrale e garantirsi un supporto
popolare molto utile in questo tipo di guerriglia. Il governo risponde
con la forza, inviando esercito e polizia.  Azione poco efficace
in una zona i cui centinaia di fiumi sono impossibili da controllare.

Chi ci guadagna

Mentre nel 1960 era retrocesso ai singoli stati il 50% dei proventi del
petrolio estratto sul loro territorio, questa percentuale è scesa al
13% dopo il 1999 (toccando il minimo di 1,5% durante il governo del
generale Sani Abachi). Una delle rivendicazioni delle milizie del delta
è che questa ripartizione delle risorse sia più equa. Questo non sempre
risolverebbe i problemi della popolazione, perché sono spesso i
governatori corrotti che riescono ad approfittare di queste
retrocessioni.
Tra le altre rivendicazioni c’è spesso la questione ecologica, a causa
dell’impatto negativo dell’estrazione e trasporto del petrolio in
questo fragile ecosistema.  Secondo l’Icg per i disastri
ambientali le responsabilità sono condivise, oltre che dalle compagnie,
anche dai ladri di greggio che danneggiano le tubature causando
fuoriuscita di petrolio. Oltre ai danni ambientali questo fenomeno
provoca spesso incidenti devastanti come la recente esplosione a Lagos
(dicembre 2006) che ha causato la morte di oltre 280 persone.
Nonostante la grande instabilità che questi fenomeni di lotta armata
stanno creando, sembra lontano il pericolo di una vera insurrezione
organizzata, anche se questo spettro compare ogni volta si avvicini una
scadenza per il potere.

Marco Bello

Chirurgia «mini» per un paese «maxi»

Tutto è cominciato quando un amico mi propose un’esperienza in Nigeria,
presso la Nnewi University nello stato di Anambra, dove nessuno aveva
mai fatto chirurgia laparoscopica (1). Si trattava di partecipare al
primo congresso di chirurgia mini invasiva, durante il quale avrei
dovuto eseguire la prima operazione di quel tipo mai eseguita. La cosa
mi ha entusiasmato moltissimo e senza pensarci su, ho accettato
immediatamente. Io, abituato dal 1987 a missioni in Kenya, Burundi e
soprattutto in Sud Sudan, in condizioni estreme, avrei avuto la
possibilità di agire in un ambiente medico più consono al nostro. Avrei
potuto apportare con questa nuova tecnica chirurgica, già ampiamente e
lungamente utilizzata da noi, una ventata di attualità a tutto
vantaggio dei pazienti.
Arrivato in Nigeria, con tutte le paure, le tensioni emozionali (tutto
sommato fisiologiche), l’orgoglio, la speranza, la felicità, sono
subito entrato in sintonia con la gente e i luoghi,  che
sembravano a me già visti e vissuti. È infatti molta la somiglianza con
diverse città e villaggi di altri paesi africani, con le strade
polverose, rossicce e piene di gente e attività.
In ospedale siamo stati accolti molto bene e quasi coccolati.
L’interesse è stato molto alto e durante la mia relazione le domande
non si sono risparmiate. Talvolta con fare polemico, soprattutto dai
ginecologi, che già utilizzano la laparoscopia diagnostica ma non
quella operativa. Si sono visti forse minati nell’esclusività di tale
metodica, con il timore di essere surclassati dai chirurghi generali.
Sono state delle giornate interessanti di scambio di vedute e con
propositi positivi. Abbiamo realizzato delle sessioni di training
simulato, che hanno coinvolto a tuo tutti i partecipanti al
congresso, dimostrando il vivo interesse dei medici locali. Si è infine
passati alla sessione della chirurgia in diretta con dei casi
all’inizio semplici come un caso di colecistectomia laparoscopica
(asportazione della colecisti) e un’appendicectomia laparoscopica
(asportazione dell’appendice). D’altronde in tutto il mondo si è
iniziato con questi due tipi di interventi prima di passare a quelli
più complicati. La sala operatoria era gremita di medici, infermieri e
studenti interessati a questo grande evento (all’inaugurazione ha
partecipato il ministro della sanità). Nonostante questo non sentivo il
peso di tutti quegli sguardi, ma la leggerezza della voglia di essere
lì. Avevo sì dei timori all’inizio, perché in Nigeria nessuno aveva mai
preparato ferri chirurgici di quel tipo specifico, nessun aiuto
chirurgo aveva mai fatto esperienza su questi interventi. Ma
l’entusiasmo di avere vicino molte persone motivate, mi ha fatto subito
superare ogni difficoltà. Alla fine di tutto però ero stanco. Ma con
una stanchezza «carica» dovuta al fatto che tutto era andato
perfettamente bene e aveva creato immensa gioia e soddisfazione a
pazienti e ambiente medico.
È bello vedere l’entusiasmo e la voglia di andare avanti, anche quando
sussistono problemi sociali e politici come in questo paese. E questo,
secondo me, vale comunque a tutte le latitudini del mondo.

Dario Andreone

(1) Chirurgia laparoscopica o chirurgia mini invasiva è la tecnica
chirurgica che prevede l’esecuzione di un intervento chirurgico
addominale senza apertura della parete. Ciò avviene attraverso piccoli
strumenti che passano in fori nel ventre e l’intervento viene
visualizzato attraverso un monitor.

Marco Bello e Dario Andreone