Quale spiritualità per un altro mondo possibile?

Forum mondiale di teologia e liberazione

In che condizioni versa oggi la teologia della liberazione? 250 teologi, professionali e non, si sono incontrati a Nairobi per tastarle il polso e valutae l’impatto che ha oggi sul mondo contemporaneo.

La teologia della liberazione è ancora capace di produrre riflessioni che puntano a sovvertire uno status quo iniquo e ingiusto per milioni di persone? Può infiammare i cuori di tanti cristiani e spingerli a lottare a colpi di parola di Dio contro questo sistema, o si è anch’essa ridotta a pura conversazione accademica, tomba di tante teologie?
È ancora capace di chiamare «amici» o «fratelli» le vittime della storia o tende ad analizzarle asetticamente, mettendole in provette da laboratorio? Si alimenta ancora del sogno di Dio? Si lascia sfidare, assumendole come proprie, dalle provocazioni che vengono dai «grassroots movements» (movimenti di base), o ha perso lo slancio delle origini? In altre parole: è ancora viva la teologia della liberazione?
Queste e altre domande sottostavano alla celebrazione del secondo «Forum mondiale di teologia e liberazione», che si è tenuto presso il Carmelite Centre di Langata,  quartiere di Nairobi che ospita un alto numero di congregazioni religiose e centri di studio teologici importanti come il Tangaza College e l’Università cattolica dell’Africa Orientale (Cuea).
Dal 16 al 19 gennaio si sono riuniti circa 250 partecipanti provenienti da tutto il mondo, pronti a ribadire la vitalità della teologia che, senza dubbio, ha rappresentato una delle più evidenti novità della chiesa post-conciliare, una chiesa che si vuole incarnare nelle sofferenze di tutte le genti che attendono, già in questo mondo, un segno di liberazione.

DA PORTO ALEGRE A NAIROBI

La prima edizione si era tenuta due anni fa a Porto Alegre (Brasile) e, come in questo caso, la riunione dei teologi aveva preceduto la celebrazione del World Social Forum. L’idea di fondo era la seguente: se il motto «un altro mondo è possibile» ispirava la riflessione e l’azione di tanti gruppi e movimenti che operano nel sociale, tanto più doveva animare coloro che, per fede, credono veramente che questa utopia possa realizzarsi.
Il titolo che il comitato organizzatore aveva scelto per l’incontro di Porto Alegre era: «Teologia per un altro mondo possibile». Lo sforzo era stato, allora,  quello di riunire insieme un panel di teologi della liberazione di prim’ordine che potessero offrire un quadro il più possibile esauriente dello stato della riflessione teologica a livello mondiale. Molte conferenze, quindi, e poco spazio era stato riservato al contributo dei partecipanti.
Quest’anno si è cercato di dedicare buona parte del tempo a seminari e gruppi di discussione e limitando così lo spazio dedicato alle esposizioni degli esperti. Il tema, inoltre, si prestava maggiormente alla condivisione delle esperienze di tutti, essendo dedicato alla individuazione di una «spiritualità per un altro mondo possibile».
Altra nota positiva è stato organizzare questo secondo Forum in Africa e in modo particolare a Nairobi. Innanzitutto per l’importanza che la capitale del Kenya riveste oggi a livello teologico, grazie alla presenza di tante istituzioni accademiche e di ricerca, non soltanto cattoliche; ma anche perché Nairobi è in grado di offrire utilissimi spunti di riflessione a una teologia che vuole far partire la sua riflessione dal basso, da quegli anfratti del mondo che rimangono inesplorati a causa della miseria e del disagio che li invade. Non vi è città al mondo, oggi, che vive il dramma di un’urbanizzazione selvaggia, forzata e rapida, come quella che riempie quotidianamente le già traboccanti baraccopoli della capitale kenyana.
TEOLOGIA AFRICANA
Un altro punto positivo è rappresentato dallo spazio che la teologia africana ha avuto all’interno del Forum. Le presentazioni degli studiosi del continente hanno seguito due cornordinate principali: l’incontro del mondo africano e della sua religiosità con le grandi religioni e il dialogo che con esse può nascere.
La seconda cornordinata era orientata al sociale e soprattutto alle domande alle quali la teologia è chiamata a dare risposta oggi in Africa. La difesa dell’ambiente, il cappio del debito estero, la pandemia Hiv/Aids, il perdurare di situazioni di grave conflitto, come in Sudan o nel Coo d’Africa, sono veri e propri «luoghi teologici» che interpellano la teologia e la sfidano sul piano della coerenza e del senso.
Come ha sostenuto il sociologo e intellettuale belga Francois Houtart, l’Africa è il continente più intrinsecamente connesso con la globalizzazione e con il modello capitalista neoliberale imperante, proprio in ragione dei benefici che tutto il mondo trae dallo sfruttamento della sua gente e della sua terra.
Come unire queste due cornordinate in un unico flusso di pensiero, fedele alle radici culturali, aperto alle sfide di un mondo in perenne cambiamento e nello stesso tempo attento alle esigenze di chi soffre?
Laurenti Magesa, sacerdote cattolico e teologo tanzaniano di fama, autore fra l’altro di un recentissimo saggio sul modo di ripensare la missione in Africa ai nostri giorni (Rethinking Mission: Evangelization in Africa in a New Era, Aamecea, Eldoret-Kenya, 2006), ha ribadito come il cristiano africano di oggi debba imparare a dissetarsi nuovamente alla fonte di una spiritualità propria. È questo il primo passo di un viaggio verso un vero e proprio esodo mentale ed emozionale, dalla situazione attuale di schiavitù spirituale, sfruttamento e miseria, verso una nuova terra promessa. Un cammino di liberazione integrale verso la giustizia, la libertà, una patente di «credibilità» anche spirituale cui l’Africa anela.

GUARDARE LA VERITÀ

Il punto centrale del Forum (e in una certa misura anche il suo nervo scoperto) è stato il tentativo di individuare punti di contatto tra ricerca e prassi. Più volte è stato ribadito uno dei principi basilari della teologia della liberazione, cioè che il punto di partenza è la realtà vista da un’angolatura particolare: il mondo degli oppressi. Lo ha rimarcato con forza uno dei suoi padri storici, il gesuita salvadoregno Jon Sobrino, ricordando come «le vittime e solo le vittime aprono gli occhi alla realtà», una realtà spesso ovattata, camuffata da chi vuole difendere privilegi usurpati.
Giovanni nel suo vangelo scrive che il maligno è assassino e bugiardo. Se si vuole costruire un mondo alternativo e se si vuole affermae davanti a tutti la sua possibilità occorre vincere questo modello di menzogna e ricorrere a chi ti può presentare un quadro della realtà veritiero e affidabile. La vittima appare per quello che è, con il suo bagaglio di povertà, crudeltà e morte, incapace di nascondere una realtà che la umilia e la ferisce.
Uno dei momenti più importanti del Forum è stato il pomeriggio dedicato alle visite di alcune realtà significative di Nairobi: gli slums di Kibera e Korogocho, alcuni ostelli per l’accoglienza dei bambini di strada e, infine, un progetto di sviluppo comunitario, iniziato e portato avanti dalla comunità della parrocchia St. Joseph the Worker. Kibera, quartiere dormitorio di Nairobi in cui vivono, ammassate come formiche circa 800 mila persone, è lo slum più grande dell’Africa. Le vittime appaiono nude ai nostri occhi, sono lì, basta avere il coraggio di guardarle.

DALLA VERITA’ ALLA CON-PASSIONE

Ma guardare non è sufficiente. Bisogna passare dalla contemplazione della verità, resa manifesta dalle vittime, a una prassi che le liberi dalle catene che le opprimono. «Se il maligno – ricorda Sobrino – non solo è bugiardo, ma anche assassino, alla verità che smaschera la menzogna deve accompagnarsi allora una prassi di compassione capace di generare vita».
Nella compassione, intesa come una condivisione nel dolore e, quindi, una forza generatrice di giustizia e liberazione, può incontrarsi, secondo il teologo latinoamericano, il terreno per costruire una spiritualità per un mondo alternativo. Una spiritualità che deve essere comune, in dialogo con fedi e culture diverse, con le teologie delle grandi religioni, come quelle delle religioni tradizionali che cercano con decisione il loro spazio anche perché espressione di culture marginalizzate o oppresse.
Il discorso vale per le teologie tradizionali africane come per la teologia afro e quella india, tutte presenti con loro rappresentanti al Forum di Nairobi.
Sebbene il tema generale del Forum verteva sull’individualizzazione di una spiritualità per il mondo «altro», che si sta cercando di costruire, ciò che alcuni hanno notato e rimarcato è stato il carattere poco «religioso» del Forum, come se invece di camminare nel dialogo rispettando le proprie differenze, si cercasse di costruire una spiritualità senza religione, a-confessionale. Uno degli appunti fatti dalla platea al Forum è stato: «Qui si sta facendo molta teologia e poca liberazione», criticando così l’incapacità di liberarsi da schemi teologici fissi, vincolanti, senza immaginazione e profezia.
In realtà, a parere di chi scrive, non si è fatta neppure tanta teologia. Si è parlato di movimenti, si è disquisito di organizzazioni, di coscienza e di lotta, di chiesa e di religione, ma si è parlato poco di Dio. E una teologia che lasci Dio ai margini non solo non può esistere, ma è una contraddizione in termini.
L’intento di dare più spazio a laboratori di gruppo e seminari, sullo stile applicato al World Social Forum, è stato lodevole, ma le conclusioni sono risultate molte volte scollate dalle riflessioni presentate nelle conferenze e, spesso, dal tema generale del Forum. Anche l’apporto dei teologi professionali si è limitato in massima parte alla presentazione di un elaborato che non teneva conto degli spunti che arrivavano dai lavori di gruppo e che avrebbero meritato una più attenta lettura teologica.
Forse, per la prossima occasione, bisognerà pensare a qualche cosa di diverso, magari a organizzare questo Forum di teologia dopo il Social Forum, in modo da attingere spunti e provocazioni provenienti dal basso, dal mondo delle organizzazioni, dei movimenti, delle chiese o, soprattutto, da coloro che soffrono sulla loro pelle una forma di oppressione che non aspetta altro che di essere rimossa e chiedersi: «Dio, a questo grido, come risponderebbe?».
Non è una domanda che prevede una facile risposta. Tanto meno un Forum, proprio per le sue caratteristiche, poteva offrie una. Ne è prova la difficoltà che si è avuta nel redigere una dichiarazione conclusiva da presentare al World Social Forum.
In realtà, un tentativo lo aveva fatto la professoressa Mary Getui, presidente del comitato di organizzazione locale, suggerendo quello che poi è diventato il motto della manifestazione: «I am somebody and I can do something» (sono qualcuno e posso fare qualche cosa).
Restano profetiche, a questo riguardo, le parole con le quali Desmond Tutu ha chiuso il Forum, ricordando la sua esperienza in Sudafrica e la lotta senza tregua di un popolo oppresso per ottenere la propria libertà. Lo ha fatto comparando quei tempi con la situazione del Sudafrica odierno e delle sue chiese, che hanno perso la freschezza, la spontaneità e la genuinità della testimonianza, frutto della persecuzione e della lotta.
Il cammino della liberazione era chiaro negli anni dell’apartheid; oggi lo è molto meno, in Sudafrica come altrove. Forse troverebbe nuovamente il suo senso, se la teologia venisse nuovamente fatta a partire da Kibera e dagli altri innumerevoli luoghi che umiliano milioni di persone in tutto il mondo.

Di Ugo Pozzoli


Intervista con Maricel Mena Lopez

UNA TEOLOGIA DAI TANTI VOLTI

Terminati gli studi teologici di base presso l’università Javeriana di Bogotà (Colombia), hai proseguito il tuo iter accademico in Brasile, dove hai conseguito il dottorato in sacra scrittura. Da un po’ di tempo sei tornata alla Javeriana, questa volta come insegnante. Sei afro-colombiana e ti dedichi con passione alla ricerca nell’ambito della teologia etnica e all’accompagnamento pastorale di comunità afro-discendenti. Ti ho presentato, adesso raccontami qualcosa di questo tuo amore per la teologia afro.
Mi interesso delle teologie afro e della liberazione dagli anni ’80; da quando,cioè, ho iniziato a lavorare più direttamente con gruppi giovanili e comunità di base. Ma l’inizio delle mie inquietudini «teologiche» è coinciso con il lavoro nel barrio San Martín, un quartiere molto povero di Cali, popolato per il 95% da persone afro-discendenti. La maggior parte della gente veniva dalle comunità negre del Pacifico, esattamente come la sottoscritta. Insieme abbiamo iniziato a pensare come recuperare canti, tradizioni delle comunità di origine. La domanda che sottostava a tutto questo lavoro era: «Sarà possibile esser negra e cristiana nel medesimo tempo?».

E che risposta vi siete dati?
È stato l’inizio di una ricerca, di un lungo processo. Nei nostri paesi dell’America Latina abbiamo assunto un cristianesimo di stampo molto europeo. Si trattava di vedere come. Noi abbiamo solo cercato di dargli un volto e un corpo più afro; siamo partiti dall’esperienza di fede, che trascende il puro discorso teologico. L’esperienza è aperta, mentre la teologia tende a chiudersi dentro un linguaggio molto dotto, per addetti ai lavori; così facendo, ha finito con il rinchiudere l’esperienza che la gente aveva di Dio dentro una determinata tradizione. In Colombia, per esempio, la maggioranza degli afro-discendenti è cristiana. Nonostante in passato il cristianesimo abbia cercato di fare piazza pulita delle religioni tradizionali africane, noi ci troviamo nei ritmi, nei canti, nel modo di celebrare degli afro discendenti della costa pacifica che tiene molte radici comuni con la Madre Africa.

Come viene recepita in ambiente accademico questa nuova sensibilità religiosa e teologica?
L’impatto sui seminaristi è buono. Vi sono quelli più aperti al dialogo, altri più radicati su posizioni conservatrici. In tutti, però, l’interesse è alto e c’è dibattito, il che è positivo. È una sfida non facile. È una ricerca che va portata avanti con serenità e senza forzature, ma chiedendosi onestamente: «Perché dopo secoli e secoli di evangelizzazione la gente afro o quella indigena vivono facendo coesistere senza nessun problema la fede in Gesù con quella nelle proprie divinità? O partecipano con ugual fede a un candomblé e a una celebrazione eucaristica?». La nostra ricerca punta a dare alla nostra fede un volto latinoamericano, con tutte le sue diverse sfumature. Chiaramente sono temi che creano dibattiti anche accesi, soprattutto con parte dell’istituzione accademica e gerarchica, che si rifiuta di ammettere che possa esistere un altro tipo di teologia. Eppure, passi in avanti possono essere fatti. Per esempio, in maggio vi sarà ad Aparecida, in Brasile, la v edizione della Conferenza dell’episcopato latinoamericano. Non che nutra molte speranze, ma una piccola aspettativa ce l’ho: che ci si interroghi seriamente sul tema del dialogo fra le religioni. A Santo Domingo ci fu un’apertura verso le culture, ad Aparecida spero che emerga invece l’aspetto più spiccatamente religioso del dialogo, soprattutto con le tradizioni religiose afro e indigene. È importante sottolineare questo aspetto, perché a volte anche tra membri della stessa cultura vi possono essere casi di chiusura o di rigetto. Per esempio, alcuni afro-discendenti appartenenti a certe frange pentecostali sono molto ostili verso un lavoro di recupero delle tradizioni proprie. Senza contare che in molti è forte la difficoltà del sentirsi nero e di riconoscerlo con orgoglio davanti agli altri, soprattutto in un paese come la Colombia, in cui il razzismo è molto più diffuso di quanto si possa pensare.

Come vedi l’impegno pastorale della chiesa latinoamericana nei confronti delle minoranze etniche (che però in alcune regioni del continente sono numericamente delle «maggioranze» assolute) come quella afro o indigena? La teologia della liberazione è ancora viva?
Manca un lavoro più profondo e continuo a livello di comunità. Direi che la teologia della liberazione è viva, ma stiamo vivendo in un tempo totalmente diverso rispetto a quando è nata. È forte l’opzione per i poveri, non tanto quella verso le culture differenti. Dobbiamo imparare a dare al povero il volto che gli compete: afro o indio che sia.

Intervista con suor Jane Muguku

Teologia… della strada

Sister Jane, ho visto parecchie suore della Consolata al Forum… Tre di voi hanno anche guidato altrettanti workshops. Complimenti.
È stata una scelta mirata, essere lì dove la gente discute, organizza e soprattutto pensa teologicamente.

Cosa ti è piaciuto di più di questo Forum?
Il metodo. I molti workshops hanno aiutato a incarnare gli spunti teologici nella vita di tutti i giorni. È stato un bell’incontro fra teologi professionisti e noi, poveri teologi jua kali, come diciamo noi in Kenya, teologi «sotto il sole», della strada.

Qual è stato il messaggio più importante di questo Forum, quello che ti porti via in valigia?
Senz’altro la necessità di creare dialogo fra le nostre religioni. Se vogliamo veramente immaginare un mondo diverso e creare una spiritualità che possa animare questo mondo, dobbiamo renderci conto che il dialogo è un’esigenza imprescindibile. Allo stesso tempo,mi ha molto colpito, durante l’ultima assemblea plenaria, quanto ha detto un partecipante dell’India, cosa ribadita anche da una donna africana, che, cioè, se vogliamo creare un mondo diverso, fondato sul dialogo interculturale e religioso, dobbiamo iniziare dalle scuole. Soprattutto a livello religioso è fondamentale avere uno studio comparato serio delle altre religioni, almeno nelle linee fondamentali, condizione indispensabile per iniziare un dialogo su basi di parità.

Qualche elemento negativo?
Uno soltanto, a livello di percezione. Mi è sembrato che nell’assemblea si tendesse troppo a fare l’inchino al «dio» della liberazione sociale, dimenticandosi che l’uomo ha bisogno di essere liberato integralmente. Forse le altre dimensioni non hanno avuto uguale spazio e attenzione. Si vuole costruire una spiritualità per un mondo alternativo, ma se il rapporto con Dio viene limitato soltanto alla dimensione orizzontale e non si esplora sufficientemente quella verticale, sarà poi molto difficile trovare dei punti che ci accomunano, che ci rendano «fratelli e sorelle».

Ugo Pozzoli




L’Abbé Pierre e altri profeti inascoltati

Lungo l’Avenida Carlos Maria Ramires, una strada che taglia in due la periferia di Montevideo, nel cuore del barrio «La Teja», là dove le case in muratura lasciano intravedere misere catapecchie di legno e lamiera, sorge la parrocchia «Sagrada Familia». Negli anni ‘70-‘80 era affidata ai missionari Fidei donum di Novara. L’edificio religioso, sorto grazie alla genialità di un architetto squattrinato e alla povertà di mezzi del quartiere, era un po’ atipico rispetto alla tradizionale architettura montevideana: pensata per avere splendide vetrate colorate, la chiesa era costretta al recupero dei più umili vetri di uso domestico. Al di là della povertà di tale struttura, la parrocchia de La Teja divenne subito il punto di riferimento per tante persone schiacciate dalla situazione politica ed economica del piccolo paese sudamericano. L’ampia piazza antistante la chiesa era il punto di partenza dei vietatissimi cortei di protesta, che, snodandosi lungo tutta l’arteria principale, arrivano al cuore della città, sfidando repressione e violenza.
Grazie anche all’opera dei preti novaresi, la parrocchia diventò in breve tempo la base per due istituzioni di risonanza mondiale, che si inserirono in maniera formidabile nel tessuto sociale di quella gente: «Paz y Justicia», fondato dal premio Nobel argentino Adolfo Pérez Esquivel, e movimento Emmaus, fondato dal compianto Abbé Pierre. In breve tempo, le due realtà raccolsero un numero sempre crescente di simpatizzanti e aderenti. Paz y Justicia, con una capillare e intensiva azione di raccordo con moltissime persone, faceva passare l’ideale di un ritorno alla democrazia attraverso la lotta non violenta: una originalità di pensiero nel contesto delle dittature latinoamericane, che portò il suo fondatore a ricevere il premio Nobel per la Pace. L’azione creata dal gruppo Emmaus trascinò un numero sempre crescente di persone a coinvolgersi sul riutilizzo di beni e strumenti da rimodeare e riattivare, al fine di elevare le condizioni di vita della gente del quartiere. Queste attività materiali si intrecciarono in maniera splendida con tutto un lavoro di impegno per il futuro e di attenzione alle persone toccate nella loro carne dalla dittatura militare; anche nei periodi più duri, nella parrocchia della Teja brillava una fiammella di speranza.

I due carismatici fondatori erano di casa alla Teja. Esquivel fece visita più volte, grazie alla vicinanza geografica con l’Argentina; mentre le visite dell’Abbé Pierre furono più centellinate. Una sera, nei lontani anni ‘70, in un freddo inverno australe, queste due figure straordinarie, impegnate  a trecentosessanta gradi per la promozione dei diritti dell’uomo, per la giustizia e la pace, credenti dalla fede cristallina, conversando con gli amici novaresi e montevideani presenti, sottolinearono come il seme della speranza, gettato anche nel solco della dittatura più nera, alla lunga porta i suoi frutti.
Non si evidenzia a sufficienza cosa ha significato non solo la figura dell’Abbé Pierre, ma anche di Perez Esquivel, dom Helder Camara e tanti altri protagonisti della missione; soprattutto non si parlerà mai abbastanza di ciò che essi hanno saputo seminare e alimentare nelle zone più depresse del terzo mondo, nei cuori delle persone che vivevano situazioni disperate. In particolare, le comunità Emmaus non si limitarono a soccorrere il ferito giacente sulla strada, come il buon samaritano della parabola, ma crearono le condizioni perché coloro che venivano a contatto con il carisma dell’Abbé Pierre e di tanti altri profeti inascoltati e osteggiati sulle frontiere missionarie, diventassero a loro volta seminatori di speranza, operatori di giustizia e costruttori di pace: un processo che ha prodotto risultati incredibili.
Aver conosciuto persone di questa statura, aver goduto della loro stima e simpatia, averli a più riprese avuti come ospiti e testimoni nelle nostre chiese ci dà una consapevolezza maggiore nel prendere la fiaccola accesa da loro, per consegnarla alle giovani generazioni. Un impegno, alla luce della recente scomparsa dell’Abbé Pierre, da onorare con quella carica d’umanità che ha saputo trasmetterci.

Di Mario Bandera

Mario Bandera




Ho visto morire Saddam (italiano/ français)

Il nostro mondo ha una visione Nord-centrica. L’Italia, gli Usa,
oggi anche un po’ l’Europa. È questo «il mondo che conta». Esistiamo,
quindi pensiamo, solo noi. L’Africa, sono le guerre, i massacri,
l’Aids, talvolta gli elefanti e le giraffe. L’America Latina ci porta
samba e merengue, spesso il calcio. L’Asia, è la Cina, soprattutto,
perché qualsiasi cosa tocchiamo è stato fabbricato lì. Poi ci sono gli
stranieri, di tutti i colori, che «invadono» la nostra vita.

Eppure in Africa esistono popoli, culture, modi di essere e di vivere.
Nel quotidiano. Gioali, radio, televisioni, siti internet. Una
società ricchissima di varietà, giovane e in cammino costante. Con i s

uoi personaggi di riferimento: politici, di chiesa, di cultura.

Con questa nuova rubrica abbiamo l’ambizione di portare nelle vostre
case almeno un po’ della visione africana del mondo e degli
accadimenti. Un piccolo segno per dire: un altro mondo è possibile, un
altro mondo già esiste. A volte basterebbe ascoltarlo.

Marco Bello

Saddam Hussein è stato impiccato il 31 dicembre scorso. Il giorno della
Tabaski (Aid-el-Kébir, festa del sacrificio di Abramo, durante la quale
si sgozza il montone, ndr). La sua esecuzione è stata largamente
mediatizzata e ha profondamente scioccato l’opinione pubblica
internazionale e, in particolare, in Africa. Lo spettacolo del Rais, in
giacca scura, la corda al collo, che parla ai suoi boia era
particolarmente toccante e rivoltante, anche se non si perdono di vista
i gravi crimini che pesavano sull’uomo. Le reazioni alla sua
impiccagione sono state varie. Qualcuno metteva in causa le condizioni
poco degne della sua esecuzione a dir poco sbrigativa, quando avrebbe
dovuto rispondere a numerosi altri crimini durante il suo regno
sanguinoso, sui quali si sperava di fare luce. Secondo altri, le
immagini insopportabili mostrate alla televisione sono giustamente la
prova che la pena di morte è una pratica di un’altra epoca e che
bisogna bandirla per sempre dal diritto penale. Naturalmente le
reazioni in Africa si sono divise su queste linee, dimostrando anche
che tutti i luoghi del mondo sono entrati in una fase d’uniformazione,
realizzando così il villaggio planetario annunciato da Mac Luhan.
Questi avvenimenti di Baghdad ci danno l’occasione di guardare
l’evoluzione della pena di morte come sanzione penale in Africa.
Prendiamo il caso del Burkina Faso.

Non c’è dubbio che, come tutte le società umane, le società africane
tradizionali considerano la vita come un valore sacro, come del resto
lo dimostra la sorte riservata alle donne, ai bambini e alle persone
anziane durante i conflitti armati tra etnie rivali. La morte non è mai
stata un fatto banale. Essa è inflitta solo in casi eccezionali. Nella
zona mossì (etnia maggioritaria in Burkina Faso, ndr), una pena
intermedia è stata prevista per evitare di giustiziare certi individui
destinati alla pena di morte. Si tratta della castrazione. Questi
uomini castrati restavano a palazzo dove si mettevano al servizio del
re. L’assassinio appariva nelle società tradizionali come il fatto più
grave. In questo caso la sanzione penale è generalmente la morte. Anche
in questo caso poteva applicarsi una pena compensatoria diversa da
quella capitale. Ad esempio tra gli anyanga del Togo, la famiglia
dell’assassino, se voleva salvargli la vita, doveva fornire sette
persone come compensazione. Questi diventano schiavi al servizio della
famiglia della vittima. Nell’ampia scelta di sanzioni in vigore tra i
mossì, le multe sono le meno pesanti, seguono le sevizie corporali
(come l’incatenamento) e la morte. Per quanto riguarda la pena
capitale, una piazza speciale, chiamata boegtoèga era riservata alle
esecuzioni a Ouagadougou, attuale capitale e sede del Moro Naba,
l’imperatore dei mossì. I giustiziati erano in generale delle persone
vicine al re che avevano avuto relazioni colpevoli con le sue spose. Il
boia si chiamava dapoéramba. Bisogna sapere che i condannati a morte
erano trattati in modo diverso a seconda se erano prìncipi o gente
comune. Questi ultimi prima di essere condotti al patibolo venivano
legati con delle corde, mentre per gli altri un pezzo di stoffa era
sufficiente. Questa differenza si spiega con il fatto che davanti alla
morte, il prìncipe a causa della sua nobiltà, deve restare degno per
accogliere la sentenza del reame. Poteva capitare che nelle contese che
opponevano capi tra di loro, l’arbitraggio del Moro Naba portasse alla
pena di morte per il colpevole. In questo caso preciso non c’era
bisogno del plotone d’esecuzione. L’imperatore invitava il colpevole ad
«andarsene», ovvero a darsi la morte. La vittima si suicidava,
piantandosi una freccia avvelenata nel petto o facendosi strangolare da
una banda di cotone bianco. Nel reame mossì di Ouagadougou, Naba Warga
(1666 – 1681) ha la reputazione di essere stato l’imperatore che meglio
ha organizzato la giustizia penale tradizionale.

La legge dei costumi (tradizionale) ha cessato di esercitare molto
prima dell’indipendenza. Il Burkina Faso ha adottato un codice penale
che all’articolo 9 prevede la pena di morte. È prevista l’esecuzione
per fucilazione in un posto designato dal ministero pubblico. Nessuna
esecuzione può essere fatta nei giorni di festa legale né la domenica.
L’esecuzione di una donna condannata a morte è subordinata al rilascio
di un certificato di non gravidanza. Notiamo tuttavia che la
giurisdizione burkinabè non sembra troppo invogliata ad applicare la
pena capitale. L’ultima esecuzione risale al 1988, quando sette
militari furono fucilati dopo essere stati condannati da un tribunale
militare rivoluzionario per aver ucciso, nel novembre di quell’anno, un
ufficiale dell’esercito e sua moglie. Il 12 giugno 1984, l’esecuzione
di cinque militari e due civili fu ordinata sempre da un tribunale
militare, per complotto contro il governo. Altre condanne ci sono
state, pronunciate dalla camera criminale della Corte d’Appello di
Ouagadougou nel 2003 in contumacia per assassinio e mutilazione. Ma il
fatto che è stato al centro della cronaca è l’assassinio nel 2004 di
due ragazze da parte di un giovane. Questi confessa di averlo fatto con
l’obiettivo di raccogliere il loro sangue  per un rito con il
marabut (sacerdote musulmano, ndr) che gli avrebbe procurato ricchezza
e prestigio sociale. Il giovane fu giudicato e condannato a morte, ma
la pena non è stata ancora eseguita. La cosa più interessante è il
dibattito che ha seguito il processo. L’opinione pubblica s’è
appassionata al caso, per la crudeltà del crimine commesso dall’uomo,
le cui vittime erano per di più due amiche.
Due campi si sono allora costituiti sulla questione della pena di
morte. I favorevoli stimano che la criminalità si sia sviluppata perché
la pena capitale non è applicata in tutto il suo rigore. Questa
opinione è condivisa da un magistrato che constata come i mezzi per
combattere il crimine siano insufficienti. Occorre dunque, stima, che
le pene siano abbastanza dissuasive per scoraggiare i malintenzionati.
Questa opinione è contraddetta da un avvocato della parte civile di
questo ultimo caso. Secondo lui la pena capitale è uno spreco umano. Se
lo scopo della giustizia è permettere a una persona di pentirsi e
correggersi, allora la pena di morte non ha senso. Il dibattito è
ancora aperto.
Su 53 stati africani, 13 hanno abolito la pena capitale e 20 la mantengono ma non la applicano.

Germain Bitiu Nama
(tradotto e adattato da Marco Bello, per la versione originale in francese si veda oltre)

Germain Nama è uno dei più noti
intellettuali del Burkina Faso. Ha 57 anni ed è padre di 4 figli.
Professore di filosofia di formazione e giornalista impegnato per i
diritti umani. Ha collaborato con Norbert Zongo, il celebre giornalista
assassinato nel 1998, fin dalla creazione dell’Indépendant nel 1993.
Settimanale di cui è diventato condirettore alla morte di Zongo fino al
2002. È membro fondatore del Movimento burkinabè dei diritti dell’uomo
e dei popoli, nel quale è stato per oltre 10 anni presidente della
commissione arbitrale (struttura di consiglio e studio che assiste il
comitato esecutivo). Nama è direttore del giornale l’Evénement dalla
sua creazione (2001). Il bimensile di attualità politica più seguito
del paese, di cui è co-fondatore. (Per la versione completa online www.evenement-bf.net)
Ha un impengo nella commissione nazionale burkinabè per l’Unesco dal
1993, nel quale è capo divisione. Nel suo paese è molto apprezzato,
dagli amici e dai nemici, per il suo equilibrio e la sua correttezza.
Bitiu significa «legno sacro» e si tratta di un albero feticcio protettore. È il soprannome di Germain Nama.

La peine de mort en Afrique

Saddam Hussein a été pendu le 31 décembre deier, le jour de la
Tabaski. Sa mise à mort fortement médiatisée a profondément choqué
l’opinion inteationale et en particulier en Afrique. Le spectacle du
Raïs, en costume sombre, la corde au cou, parlant à ses bourreaux était
particulièrement saisissant et révoltant, même quand on ne perd pas de
vue les lourdes charges qui pesaient sur l’homme.  Les réactions
consécutives à sa pendaison ont été diverses. Les uns mettaient en
cause les conditions très peu dignes de son exécution du reste
expéditive, alors qu’il devait répondre de nombreux autres crimes dont
on espérait qu’il en sorte une lumière sur les dessous de son règne
sanglant. Pour les autres, les images insupportables montrées à la
télévision sont justement la preuve que la peine de mort est une
pratique d’un autre âge qu’il faut bannir à jamais du droit
pénal.   Naturellement, les réactions en Afrique ont aussi
épousé cette ligne de partage, démontrant ainsi que toutes les contrées
du monde sont entrées dans une phase d’uniformisation, réalisant ainsi
le village planétaire annoncé par Mac Luhan. Ces événements de Bagdad
nous fouissent l’occasion de jeter un regard sur l’évolution de la
question de la peine de mort comme sanction pénale au Burkina Faso

Il n’y a pas de doute qu’à l’instar de toutes les sociétés humaines,
les sociétés africaines traditionnelles tiennent elles aussi la vie
pour une valeur sacrée, comme du reste en témoigne le sort qui est fait
aux femmes, aux enfants et aux personnes âgées pendant les conflits
armés entre tribus ou ethnies opposées. La mort n’a jamais été un fait
banal. Elle n’est prononcée que dans des circonstances exceptionnelles.
En pays mossi, une peine intermédiaire a été prévue pour éviter
d’exécuter certains individus normalement destinés à la mort. C’est le
cas de la castration. Ces hommes castrés restaient dans l’entourage du
palais où ils se mettaient au service du roi. Le meurtre apparaissait
dans les sociétés traditionnelles comme la faute la plus grave. Dans
ces cas de figure, la sanction pénale est généralement la mort. 
Même là, il arrive qu’on applique une peine compensatornire autre que la
mort. C’est ainsi que chez les Anyanga du Togo, la famille du
meurtrier, si elle tient à épargner la vie de son membre, elle doit
fouir sept personnes en guise de compensation. Ces personnes ont
vocation à être des esclaves au service de la famille de la
victime.  Dans la panoplie des sanctions en vigueur en pays mossi,
les amendes apparaissaient comme les plus douces, à côté des sévices
corporelles (dont la mise aux fers) et la mort. En ce qui concee la
peine de mort, une place spéciale appelée boegtoèga était réservée à
l’exécution de la sentence à Ouagadougou où siège le Moro Naba,
l’empereur des mossis. Les suppliciés étaient en règle générale des
proches du roi qui ont entretenu des relations coupables avec ses
épouses. Les bourreaux s’appelaient les « dapoéramba.» Il faut
savoir que les condamnés à mort étaient traités différemment selon
qu’ils sont princes ou roturiers. Ces deiers avant d’être conduits à
la potence se voient attachés les mains à l’aide de cordes, tandis que
pour les princes, un morceau de tissu suffisait. Cette différence
s’explique par le fait que devant la mort, le prince en raison de sa
noblesse, doit rester digne pour accueillir la sentence du royaume. Il
arrive que dans les litiges qui opposent les chefs entre eux,
l’arbitrage du Moro Naba conduise à la sanction de mort contre le
fautif. Dans ce cas précis, il n’est point besoin d’un peloton
d’exécution. L’empereur invite le fautif à « s’en aller »
c’est-à-dire à se donner la mort. La victime se donne elle-même la
mort, soit en se plantant une flèche empoisonnée dans le mollet, soit
en se faisant étrangler avec une bande de cotonnade blanche. Dans le
royaume mossi de Ouagadougou, Naba Warga (1666-1681) est réputé être
l’empereur qui a le mieux organisé la juridiction pénale coutumière.
Le droit modee burkinabè prévoit la peine de mort
La loi coutumière a cessé de s’exercer bien avant l’indépendance. Le
Burkina Faso a adopté un code pénal qui prévoit la peine de mort en son
article 9. Celle-ci s’exécute par fusillade en un lieu désigné par le
ministère public (art15). Aucune exécution ne peut avoir lieu les jours
de fête légale ni le dimanche (art 18). L’exécution d’une femme
condamnée à mort est subordonnée à la délivrance d’un certificat de non
grossesse.  On note cependant malgré ces dispositions que les
juridictions burkinabè ne semblent pas pressées d’appliquer la peine de
mort. Les deières exécutions en date remontent à 1988 où sept
militaires ont été fusillés après avoir été condamnés la veille par un
tribunal militaire révolutionnaire pour avoir tué en novembre de la
même année un officier de l’armée et son épouse. Le 12 juin 1984,
l’exécution de cinq militaires et deux civils fut ordonnée, également
par un tribunal militaire, pour complot contre le gouveement.
D’autres condamnations eurent lieu, cette fois prononcées par la
chambre criminelle de la Cour d’appel de Ouagadougou notamment en
2003 par contumace pour meurtre et mutilation. Mais l’affaire qui
défraya la chronique, c’est le meurtre en 2004 de deux filles par un
jeune homme. Ce deier avoua l’avoir fait dans le but de recueillir
leur sang en vue d’un rite maraboutique censé lui procurer richesses et
considération sociale. Le jeune fut jugé et condamné à mort, mais la
peine n’a pas encore été appliquée. Le plus intéressant, c’est le débat
qui a suivi ce procès. En effet, l’opinion publique se passionna pour
cette affaire, en raison de la cruauté du crime commis par un jeune
homme dont les victimes étaient de surcroît ses amies. Deux camps se
sont constitués autour de la question de la peine de mort. Ceux qui
sont favorables estiment que si la criminalité se développe, c’est
parce que la peine de mort n’est pas appliquée dans toute sa rigueur.
Cette opinion est du reste partagée par un magistrat qui constate à son
tour que la criminalité est très développée alors que les moyens
manquent pour la combattre. Il faut donc estime t-il que les peines
soient suffisamment dissuasives pour décourager les gens à commettre
les crimes graves, passibles de la peine de mort. Cette opinion se
trouve contredite par un avocat de la partie civile de cette deière
affaire en date. En effet pour lui, la peine capitale est un gâchis
humain. Si le but de la justice c’est de permettre à une personne de se
repentir et de se corriger, alors la peine de mort n’a pas sa raison
d’être.» Le débat est donc toujours ouvert.
Notons que sur les 53 Etats africains, 13 ont aboli la peine de mort
pour tous les crimes, 20 la maintiennent mais ne l’appliquent pas.

Germain Bitiu Nama

Germain Bitiu Nama




Giocare d’anticipo

Malattie dimenticate (6): parassitosi e nuove strategia

Sono in partenza programmi integrati per curare le malattie parassitarie, bloccando sul nascere l’infezione e le sue complicanze.

Intervenire prima che sia troppo tardi, giocare d’anticipo le carte che si hanno a disposizione contro una serie di malattie intestinali diffuse nei paesi poveri. Questa la nuova strategia che intende seguire l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) contro le patologie che interessano oltre un miliardo di persone nel mondo.

I farmaci come i vaccini
Oltre il 70% dei paesi a basso e medio reddito fa i conti con la presenza sul territorio di malattie tropicali dimenticate, che uccidono o rendono invalidi, lasciando segni permanenti sulla vita delle persone e delle loro famiglie, oltre che sulla società e sull’economia. Secondo i riportati dell’Oms, tutti i paesi a basso reddito si confrontano con almeno 5 fra le malattie dimenticate, e spesso gli abitanti ne hanno più di una. Sono condizioni diffuse soprattutto fra le popolazioni povere, che vivono in regioni con clima tropicale e subtropicale; i bambini sono quelli più a rischio e la diffusione delle infezioni è collegata all’utilizzo di acqua non sicura e condizioni di vita e igieniche scadenti.
Le malattie su cui in particolare  dovrebbe concentrarsi la nuova strategia annunciata dall’Oms sono: cecità del fiume (oncocerchiasi), elefantiasi (filariasi linfatica), schistosomiasi e le elmintiasi collegate a condizioni igieniche scadenti. Accanto a queste, viene sottolineata  la possibilità di uno sforzo integrato per la prevenzione e il controllo di una quinta malattia, il tracoma (vedi riquadro).
A fine ottobre l’Oms ha reso nota la scelta di adottare una nuova strategia, insieme con oltre 25 organizzazioni, nei confronti di queste infezioni che, se prese troppo tardi, portano invalidità e complicanze gravi. «La terapia farmacologica preventiva non impedisce necessariamente il verificarsi dell’infezione – chiarisce Lorenzo Savioli, direttore del Dipartimento per il controllo delle malattie tropicali dimenticate dell’Oms -. La prevenzione con farmaci migliora immediatamente la salute e previene malattie irreversibili nell’adulto. Come con le vaccinazioni proteggiamo le persone per tutta la vita da diverse malattie prevenibili, l’utilizzo regolare e cornordinato di pochi farmaci può proteggerle da quelle parassitarie, migliorare il rendimento scolastico dei bambini e la produttività economica degli adulti».

Uniti per lo stesso obiettivo
I passi da compiere sono raccolti in un manuale: Preventive Chemotherapy in Human Helmintiasis. Il primo passaggio importante prevede lo sfruttamento ottimale delle risorse disponibili. In pratica, viene sottolineata l’utilità di pensare in modo globale a queste malattie, anche se richiedono terapie differenti, per utilizzare al meglio mezzi e strategie comuni di controllo ed eliminazione.
Un secondo passaggio prevede il cornordinamento del lavoro dei diversi attori in campo (una dozzina di agenzie, organizzazioni non governative, aziende farmaceutiche, ecc.), per mettere a frutto le diverse esperienze e arrivare al raggiungimento del risultato comune. Spiega Francesco Rio, del Dipartimento per il controllo delle malattie tropicali dimenticate dell’Oms: «Si sta parlando di paesi dove queste malattie sono diffuse e dove quindi, spesso, sono già presenti e in funzione programmi specifici, ma ognuno va un po’ per conto suo. L’obiettivo che ci si prefigge è integrare i diversi programmi e farli funzionare insieme, secondo le indicazioni foite dal manuale sull’utilizzo dei farmaci a disposizione. Il tutto tenendo sempre in considerazione la prospettiva della zona in cui si opera».
Il passaggio dalla teoria alla pratica farà i conti quindi con i diversi contesti, possibilità e rischi locali: «In genere possono essere portati avanti programmi nazionali, ma in alcuni paesi il lavoro è organizzato a livello di distretto, per differenze locali legate all’estensione geografica ampia o alla presenza di ecosistemi variabili, con zone caratterizzate da gran secco e zone con foreste».

Il dottor Carlo Urbani
Su una base comune, ogni paese inserirà le sue specificità e, con gli strumenti già a disposizione, si comincerà ad affrontare le malattie parassitarie in un nuovo modo, cornordinato, ovunque sia possibile. «Naturalmente alcuni paesi cominceranno prima, perché maggiormente sensibilizzati, o con un sistema sanitario più ricettivo, o ancora perché più piccoli e con meno difficoltà operative locali» dice Rio, e sottolinea: «Il programma andrà avanti per tappe successive. La novità è soprattutto nella filosofia con cui verranno dati i farmaci: non solo per curare, ma soprattutto per prevenire, fino a portare questi interventi al pari delle vaccinazioni, che fanno parte del sistema sanitario».
Una novità nell’approccio alle malattie tropicali che fa pensare all’epidemiologo italiano Carlo Urbani e al suo lavoro, in Cambogia come in Vietnam. Urbani è morto a 46 anni, il 29 marzo del 2003, a Bangkok, di Sars (Sindrome respiratoria acuta grave), malattia che lui stesso contribuì a identificare in Vietnam (dove si trovava come esperto regionale dell’Oms per la regione del Pacifico occidentale) e sulla quale allertò gli esperti riguardo ai rischi di diffusione del contagio.

Alla radice della diffusione delle malattie
Carlo Urbani seguiva da sempre le malattie parassitarie nei diversi paesi ove erano diffuse. Alla fine degli anni ‘90 era in Cambogia come cornordinatore di un progetto della Ong Medici senza frontiere (Msf). Lì si era posto in un modo nuovo nei confronti della schistosomiasi, infezione intestinale che distruggeva la vita ai bambini, in particolare nelle zone lungo il fiume Mekong. «In molti villaggi lungo il Mekong i segni della malattia sono drammaticamente evidenti – scriveva in questa rubrica di Missioni Consolata del gennaio 1999 -. Gran parte dei bambini soffrono di dolori addominali cronici, emettono feci con sangue e muco, il loro addome si gonfia progressivamente per l’ingrossamento di milza e fegato, e a partire dagli anni dell’adolescenza sviluppano i primi sintomi della cirrosi epatica, la stessa malattia che colpisce gli alcolisti».
Urbani, con gli occhi dell’epidemiologo, si era interrogato su come intervenire prima che fosse troppo tardi, prima che la malattia causasse danni irreversibili e gravi in età adulta, fino alla morte. E aveva capito il legame tra la patologia e il gioco dei bambini lungo le rive del Mekong, il passaggio dell’infezione tramite l’acqua contaminata del fiume.
Il passo successivo era stato capire, grazie a un questionario dato ai bambini nelle diverse scuole, dove fossero gli alunni più a rischio, per concentrare gli sforzi di prevenzione, somministrando loro i farmaci con regolarità. Urbani aveva poi portato con sé lo stesso tipo di approccio su altre infezioni intestinali, per prevenire complicazioni gravi con trattamenti regolari.

Riflettori sui dimenticati
Nel 1999, come presidente della sezione italiana di Msf, nella cerimonia di conferimento del premio Nobel per la pace all’organizzazione, Carlo Urbani aveva detto: «Lasciamo che i riflettori, illuminandoci, illuminino e rendano visibili gli scenari dimenticati e le urgenze non considerate, affinché l’azione di domani (certo il Nobel non è il nostro traguardo finale) sia ancora più efficace e incisiva e i benefici del premio vadano a loro, le vittime».
Vi sono ancora molti scenari non illuminati, molte malattie ignorate, su cui molto si può fare, come sottolineato anche da David Heymann, assistente del direttore generale per le malattie trasmissibili dell’Oms, in riferimento al nuovo approccio sulle malattie tropicali dimenticate. «Abbiamo urgente bisogno di lavorare insieme per migliorare l’accesso a interventi con un effetto rapido e di qualità. La necessità di fare è incontestabile da tutte le prospettive: morale, dei diritti umani, economica e di salute pubblica globale. Il compito è realizzabile e deve essere fatto».

di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




La parabola del «figliol prodigo» (7)

Dio Padre è giiusto perché misericordioso

Con questa 7a puntata iniziamo la spiegazione, versetto per versetto, della parabola raccontata da Lc 15,11-32, a cominciare dal titolo.
Il più diffuso è: «Parabola del figliol prodigo»1. L’espressione non appartiene al testo biblico, ma è messo dagli editori come sintesi del brano. Non è un titolo sbagliato, ma è impreciso e povero, perché riduce l’immensa ricchezza della parabola a un solo aspetto, per altro marginale: la prodigalità spensierata del figlio lontano da casa.
Sono stati proposti molti titoli per questa parabola, che però non si lascia imbrigliare in una definizione sintetica. La prima edizione della Bibbia della Cei del 1971 titola: «Il figlio perduto e il figlio fedele: il “figlio prodigo”», cercando di salvare e superare al tempo stesso il titolo tradizionale, ma  travisando così la figura del figlio maggiore, che non è affatto un figlio fedele. La seconda edizione del 1997, infatti, cambia il titolo nel più comprensibile «Parabola del padre misericordioso», mettendo in evidenza il cuore del racconto, ma lasciando in ombra l’elemento della «giustizia», che è essenziale nel pensiero lucano.
Bruno Corsani e Carlo Buzzetti nella edizione bilingue (greco-italiano) del NT titolano: «Parabola del figlio ritrovato»3, che è parzialmente vera, ma non dice il cuore della parabola. Helmut Gollwitzer  titola «La gioia di Dio»4 e in questo modo sintetizza tutto il capitolo alla luce del tema della gioia (gr.: charà/chàirê) presente espressamente 6 volte in tutto il capitolo 15 (vv.5.6.7.9.10.32; cf anche v. 23). Gérard Rossé sceglie un titolo neutro, da scoprire: «La parabola del padre e dei suoi due figli»5, senza alcuna implicazione preventiva. Noi proponiamo di chiamarla: «La parabola di Dio Padre giusto perché misericordioso». È un titolo lungo, ma offre la chiave di lettura per entrare nel cuore di Dio il cui mestiere è il perdono. Sappiamo, però, che si continuerà a chiamarla per abitudine e comodità «parabola del figliol prodigo».

La sezione della «giustizia»

Prima di cominciare l’analisi dei versetti, è necessario ribadire che quando si legge questa parabola bisogna avere ben presente l’inizio e la fine della sezione in cui Lc colloca il racconto: la sezione comprende da 15,1 fino a 17,10 e tratta della «giustizia di Dio», in contrapposizione a quella degli uomini. Questi emettono sentenze e condanne secondo criteri di eguaglianza, per lo più di convenienza; Dio al contrario esercita la giustizia di Padre e di Madre per recuperare sempre i figli del suo amore.
In Lc 15,1 come abbiamo già visto più volte, si legge il contesto di riferimento: «Si avvicinavano poi a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo, mentre mormoravano [sott. contro di lui] i farisei e gli scribi, dicendo». A conclusione della sezione in Lc 17,1-10 leggiamo che bisogna perdonare il fratello che si pente (v. 3); bisogna perdonare sempre: «Anche se [tuo fratello] peccasse sette volte al giorno contro di te e per sette volte ti dicesse: Mi pento. Tu gli perdonerai» (v. 4).
Dall’inizio alla fine, l’orizzonte è dominato dai pubblicani, dai peccatori e dal perdono senza condizioni e senza misura. Perdonare è soltanto amare a perdere, senza chiedere nulla in cambio. Un perdono che pone una condizione (ti perdono, se fai questo o quello… se ti comporti così… se non lo fai più…) non è un perdono, perché manca la caratteristica della gratuità: non ti perdono perché lo meriti, ma perché io ho sperimentato la misericordia di Dio e la rendo visibile, le do un corpo offrendolo a te, realizzando così la preghiera del Padre nostro: «Padre, … perdona a noi i nostri peccati affinché anche noi possiamo perdonare a ogni nostro debitore» (Lc 11,4).
Il perdono di Dio diventa fondamento del perdono reciproco degli uomini e il perdono vicendevole degli uomini diventa il «sacramento» visibile della misericordia di Dio. A differenza di Lc, Mt userà una prospettiva diversa: «Padre, …perdona a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (6,12): impegniamo il perdono di Dio a condizione che «prima» noi abbiamo già perdonato. Le due prospettive s’integrano e si rafforzano.

Le coppie in contrasto

L’orizzonte in cui si colloca la parabola è duplice: da una parte la coscienza di essere peccatori (Lc 15,1-2) e dall’altra la certezza della misericordia (Lc 17,3-4). Gesù non fa un discorso morale né assume l’atteggiamento di giudice. Egli guarda al cuore della persona e cerca ogni mezzo perché entri nella dinamica della tenerezza di Dio, «perché nulla vada perduto di ciò che mi ha dato» (Gv 6,39).
La parabola, in quanto modello letterario, veicola un insegnamento generale, per cui il suo messaggio è valido sempre, anche per noi oggi. Sia l’inizio che la fine dell’intera sezione della «giustizia» mettono in contrapposizione due gruppi di persone con i loro atteggiamenti e sentimenti. I vv. 1-2 hanno una struttura incatenata:

1Si avvicinavano a lui    tutti i pubblicani e peccatori    per ascoltarlo,
2mentre mormoravano    i farisei e gli scribi,     dicendo…
  (sott. contro di lui)

Due vv. appena per mettere in evidenza tre contrasti: 1) pubblicani-peccatori si contrappongono a farisei-scribi;
2) i primi sono considerati lontani e impuri, ma si avvicinano a lui, mentre farisei-scribi, che dovrebbero essere vicini (almeno per professione), sono molto lontani e mormorano contro di lui, perché agisce fuori dai loro schemi: non sanno superare il loro limite; 3) i pubblicani-peccatori si dispongono ad ascoltare, cioè a entrare in sintonia di cuore e di anima; al contrario dei farisei-scribi, che parlano per condannare e disprezzare, «dicendo: Costui riceve i peccatori e mangia con loro» (v. 2).
È il capovolgimento radicale delle situazioni: chi crede di credere è ateo, chi è stato giudicato ateo e gettato fuori invece è credente, è parte della chiesa. Lo stesso atteggiamento troviamo in Mc 3,31-35, quando Gesù accredita come «sua famiglia» non quella di sangue, ma quella di «elezione»: «Giunsero sua madre e i suoi fratelli, e stando fuori, lo mandarono a chiamare… Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno [cioè dentro], disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre». Anche qui la contrapposizione è tra «fuori» e «seduti (dentro)».
Lo stesso clima si respira alla fine della sezione dove la contrapposizione è tra chi ascolta e chi deve ricevere il perdono: «Anche se [tuo fratello] peccasse sette volte al giorno contro di te e per sette volte ti dicesse: Mi pento. Tu perdonalo/gli perdonerai» (17,4). Gesù usa l’imperativo alla 2a  persona singolare, allo stesso modo di Yhwh quando trasmette i comandamenti a Mosè sul Sinai (Es 20,2-17; Dt 5,6-21).
Il perdono non è una pia pratica di pietà né un atteggiamento ascetico di purificazione in vista di una ricompensa futura, ma assume la veste solenne di un comandamento. Il perdono, infatti, non è facoltativo, ma è un imperativo che adempie l’Alleanza nuova. Il perdono è la rivelazione della vera natura di Dio, che chi crede deve rendere visibile e sperimentabile. Perdonare significa aiutare gli altri a «toccare il Verbo della vita» (cf 1Gv 1,1) perché è la vera novità dell’evento Gesù Cristo.
Solo all’interno di questo clima possiamo accostarci alla rilettura della parabola prendendo coscienza che essa è stata scritta apposta per ciascuno di noi e ora la ri-leggiamo come se fosse la prima volta. Non ci limitiamo solo a una esegesi fredda e scientifica, ma cercheremo di danzare insieme alla Parola, evocando tutto ciò che essa suscita in noi, per la nostra vita spirituale e di preghiera.

V. 11a: «E disse»

L’espressione solenne e maestosa, propria del verbo principe della narrativa, «e disse» apre la parabola come al v. 3 apriva quella del pastore e della donna. Il soggetto sottinteso di tale verbo è Gesù, che è nominato in 14,16 e poi si passa direttamente a 17,11: in tutto il capitolo 15 Gesù non è mai nominato nemmeno come «narratore».
Questa assenza letteraria mette maggiormente in evidenza la sua Presenza come «Parola» che annuncia il «vangelo della misericordia giusta» di Dio, quasi a volerci insegnare che non dobbiamo fermarci mai alle apparenze, se vogliamo cogliere il cuore dell’altro. Dio è «Assente-Presente», discreto e silenzioso, che solo nel più intimo del più profondo di noi stessi e degli altri possiamo incontrare e «vedere». Anche sulla barca in mezzo alla tempesta sembrava dormire, ma al momento opportuno, la sua «Parola» domina le acque e i venti tempestosi (cf Mc 4,35-41).

Nel segno della coerenza. L’espressione «e disse», sia nella linea narrativa principale (come è qui in Lc) sia nella linea secondaria di commento aggiuntivo, nella bibbia ebraica ricorre 2.084 volte, nella bibbia greca della Lxx 2.337 volte, nel NT 125 volte. Una cifra impressionante che mette in evidenza la centralità della «Parola» in tutta la storia della salvezza.
Le due parabole di Lc 15 sono «Parola di Dio», proclamata dal Lògos stesso per dare compimento alla profezia di Isaia, che Gesù fa sua nella sinagoga di Cafaao, quando si appropria della sua personalità di messia della nuova Alleanza: «Mi ha consacrato con l’unzione (= sono il messia) per annunziare ai poveri il vangelo e proclamare un anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19; cf Is 61,1-2). I poveri a cui va annunciato il vangelo sono i peccatori, reprobi,  assassini, ladri, immorali, impuri, gli esclusi, le prostitute e tutte le categorie di persone che il perbenismo di ogni tempo condanna come fecero gli scribi e farisei.

Dabar: parola e fatto. È Dio che parla e annuncia la salvezza del perdono, ma non come proposito od obiettivo, ma come evento che si compie nel momento stesso in cui Lui «dice». Dio, quando parla, crea e realizza quello che dice, come evidenzia il 1° capitolo della Genesi, dove per 10 volte Dio parla «facendo» la creazione: «E disse Dio: “Sia la luce”. E la luce fu» (Gen 1,3; cf vv. 6.9.11.14.20. 24.26.28.29). Dio parla agendo e agisce parlando, perché in lui la parola è fatto, fino all’incarnazione inaspettata del Figlio: «Il Lògos (Parola) carne fu fatto» (Gv 1,14).
È ciò che sperimentiamo nell’eucaristia, dove la Parola che ascoltiamo diventa il pane del nutrimento e il sangue della vita. In ebraico c’è un termine «dabar» che è verbo e sostantivo: significa contemporaneamente sia «parlare/parola» che «fatto/avvenimento». Parola efficace: «Così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritoerà a me senza effetto, senza avere operato ciò che desidero e senza avere compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11; cf Dt 32,2; Zc 1,6).
Per gli uomini spesso le parole sono suoni vacui e anche muti: si pronunciano quantità enormi di parole senza dire nulla. Si parla e si resta muti. Si parla, si parla e crolla la comunicazione: «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’anima nel silenzio» (Tagore). La chiacchiera ha preso il sopravvento. Tutti parlano al telefonino, sempre, e ognuno è sempre più solo e isolato.

La parola nasce se qualcuno ascolta. «E disse», posto all’inizio assoluto della parabola, esige un atteggiamento di ascolto profondo, perché la parabola non è un racconto edificante per suscitare pii desideri, ma è la proclamazione della volontà di Dio, che con una parabola annuncia «il vangelo del vangelo», definendo la sua natura di Dio e descrivendo la natura della sua nuova alleanza. Nel momento in cui Dio «dice» la parabola è Lui che sta davanti a noi e ci supplica, ci prega di essere presenti con l’ascolto delle orecchie del cuore.
«E disse» provoca in noi l’eco di Dt 6,4: «Ascolta, Israele!», dove è Dio stesso che «prega» il suo popolo. Ascoltare la Parola è vedere Dio che prega noi perché lo ascoltiamo. Dio che parla la parabola significa lasciarsi sedurre dalla sua «voce», come l’amante del cantico dei cantici, che cerca la «voce» dell’amato e non ha pace finché non si unisce a lui: «Una voce! Il mio diletto! Ora parla il mio diletto e mi dice… fammi sentire la tua voce perché la tua voce è soave…» (Ct 2,8.10.14). Il Targum del Cantico (2,14) mette in bocca a Dio queste parole: «Tu, assemblea d’Israele, che sei come una colomba pura… fammi vedere il tuo volto e le tue opere rette, fammi udire la tua voce! Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, è bello il tuo volto nelle opere buone».
La parabola che Gesù annuncia è un «vangelo», cioè la giorniosa notizia che Dio viene a salvare quello che poteva andare perduto. Quando Dio parla, e Dio parla in Gesù, non è per giudicare e condannare, ma sempre per salvare. Per questo ascoltare Dio è pregare lo stesso Dio che prega noi di fargli «udire» la nostra voce.

vv. 11b-12a: Un uomo aveva due figli.
        Il più giovane disse al padre

Questi due brevi vv. hanno una struttura circolare, a chiasmo, cioè a incrocio, perché la prima parola richiama l’ultima, la seconda la penultima, ecc.

Protagonisti anonimi. «Un uomo aveva due figli» (v. 11b). Il quadro è immediatamente definito dai protagonisti. Sappiamo che c’è «un uomo» anonimo, come è abituale nel vangelo, dove tutti i personaggi delle parabole o dei miracoli sono anonimi, tranne il mendicante Lazzaro (in ebr. Dio aiuta; cf Lc 16,20) e il cieco Bartimeo (in aramaico Figlio di Timeo; cf Mc 10,46). L’unica volta in cui nel vangelo di Lc si nomina qualcuno, questi è un povero, un mendicante a cui «Dio viene in aiuto» per rendergli quella «beatitudine» che gli spetta di diritto: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20). Tutti gli altri personaggi sono anonimi, come il pastore che trova la pecora o la donna che ritrova la moneta. È veramente significativo che il vangelo riporti solo il nome di poveri esclusi e ne perpetui la memoria.
L’uomo anonimo della parabola ha due figli e dunque è padre. Un altro padre e due figli troviamo in Mt 21,38, dove s’invertono apparenza e realtà: quello che dice no fa la volontà del padre, mentre quello che dice sì, non la fa. La relazione non è solo contatto, ma condivisione di volontà, di progetti, di sogni, di vita.
Quando si è padri e madri non si è più anonimi, perché i figli sono il nome della nuova identità. Presso gli ebrei quando nasce un figlio, padre e madre perdono il loro nome proprio e vengono indicati e chiamati in riferimento al figlio: «Padre e madre di…» (cf Mc 6,3). Qui è assente la madre, di cui non si fa cenno; ma forse è dietro la tenda che la nasconde come è uso in oriente.
Nella «parabola di Dio Padre giusto perché misericordioso»  l’anonimato s’incarna immediatamente in una relazione: «Il più giovane disse al padre». Nulla di straordinario se un figlio parla col padre e il padre col figlio, se non fosse per ciò che sappiamo sta per succedere. L’accenno al «più giovane», infatti, è un campanello d’allarme, quasi un anticipo che stiamo entrando in un abisso d’iniquità che cercherà la morte della pateità e distruzione della relazione.

La salvezza si fa storia. Chi è questo uomo che è anche «padre»? L’uomo innominato, come avviene in quasi tutte le parabole (Lc 10,30; 13,6; 14,16; 16,1; 19,12; 20,9), è l’immagine di Dio. Qui ha due figli come rappresentanti di tutta l’umanità: gli ebrei, simboleggiati dal figlio più grande, per ora assente, e tutti gli altri popoli, qui rappresentati dal «più giovane». La parabola ha un respiro universale perché riguarda tutta l’umanità.
Prima che scoppi il dramma e si giunga alla conclusione di salvezza, l’evangelista tiene a dirci che siamo «figli» perché quello che sta per succedere riguarda ciascuno di noi. La parabola è per noi e forse è il momento che iniziamo a prendere coscienza di cosa significhi per noi essere figli, prima di immergerci nel mistero che sta davanti a noi. L’anonimato del padre non è casuale, ma induce chiunque legga o ascolti a riempire il vuoto del nome mancante con il proprio nome e identificarsi con uno dei protagonisti, costringendoci a prendere coscienza del nostro cammino di fede: in ciascuno di noi vi sono due figli… il minore… e il maggiore.
Leggiamo nella Mishna giudaica: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore: con le due tendenze, il bene e il male» (Berakot [Benedizioni] 9,5)6.
La parabola del Padre giusto perché misericordioso è la parabola della pateità e della figliolanza che è dentro ciascuno di noi: la parabola infatti narra la storia della salvezza, o meglio annuncia il vangelo della salvezza che si fa storia nella vita di ciascuno di noi e nella storia di tutti i popoli.                          (continua – 7)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Addio vecchio «baobab»

Scomparso Ki-Zerbo, uno dei padri del continente

Joseph Ki-Zerbo è della stirpe dei grandi intellettuali africani e afro americani. Come Aimée Césaire della Martinica, Cheik Anta Diop e Léopold Sédar Senghor del Senegal, ha contribuito molto alla conoscenza dell’Africa. Accademico alla Sorbona fa conoscere al mondo la vera storia degli africani. Uomo politico, combatte per la libertà e la democrazia.  Teorizza lo «sviluppo endogeno», il contrario di quello imposto dall’Occidente. Combatte, fino all’ultimo dei suoi giorni.

A metà degli anni Cinquanta, quando l’Europa si rialzava faticosamente dalla seconda guerra mondiale, il professor Joseph Ki-Zerbo entrava alla Sorbona, per sostenere con brio un dottorato di storia. Era la prima volta che un nero africano accedeva a una tale distinzione universitaria. E inoltre non era un istituto qualsiasi. In quegli anni di dopo guerra, le tesi più folli sulla superiorità razziale dei bianchi sui neri circolavano abbondantemente. Gli studiosi erano categorici: i neri non hanno avuto storia.
Nelle colonie francesi, in particolare, i transalpini sono diventati gli antenati degli africani. È evidente che quando non si ha avuto storia non si hanno avuti antenati, e la colonizzazione li aveva allora foiti ai colonizzati, per sostituzione.

Le origini

Joseph Ki-Zerbo, nato nel 1922 a Toma in Burkina Faso, ha avuto un’infanzia totalmente impregnata di queste ideologie. Figlio del primo cristiano burkinabè, il catechista Alfred Diban Ki-Zerbo, è cresciuto nella cerchia privilegiata dei missionari cattolici. Ha avuto quindi maggiori possibilità, rispetto ai coetanei, di andare alla scuola occidentale.
Ki-Zerbo, come lui stesso amava qualificarsi, è un «negro d’eccezione». Proprio perché grazie alla posizione del padre ha potuto beneficiare a pieno del sistema coloniale. In seguito, riuscendo a fare studi brillanti, ha un posto da alto funzionario dell’amministrazione francese. Con il suo diploma di docente ordinario di storia, diventa professore all’università. Una situazione che gli porta molti vantaggi. Ma Joseph Ki-Zerbo non si è mai sentito a suo agio nel lusso dell’amministrazione coloniale. Ha sempre pensato che la sorte di un nero non era quella di trovare un modo di salire nell’alta gerarchia dell’amministrazione, ma di sapere esattamente chi è e da dove viene. A questo proposito pronunciò una frase diventata celebre: «Quando non si sa cosa si cerca, non si può capire ciò che si trova».

Ricerca d’identità

Molto presto, quindi, Ki-Zerbo dedica la sua vita alla ricerca «dell’identità del nero». Ha pensato che il primo mezzo per iniziare questa ricerca sarebbe stato il conoscere la storia e la storiografia. Va quindi a iscriversi alla Sorbona, nella migliore delle università francesi per ottenere il più importante dei diplomi, il che gli permette di fare delle ricerche con tutta l’autorità necessaria. Integra la cerchia, molto rispettata, dei professori universitari. Da allora può quindi impegnarsi negli studi per riesumare la «storia dei negri» e dar loro un’identità. Sarà il primo africano a scrivere un voluminoso libro di storia, intitolato: «L’Histornire de l’Afrique noire». È la prima opera sull’Africa scritta da un intellettuale del continente. Resta sempre un riferimento per l’insegnamento della storia nelle scuole e nelle università in Africa.
Sempre in questa ricerca indispensabile dell’identità, sarà designato dall’Unesco (Organizzazione culturale, scientifica e educativa delle Nazioni Unite) per scrivere e dirigere la redazione di diversi volumi di «L’Histornire général de l’Afrique».

«Baobab» della politica

Ma Ki-Zerbo è anche un uomo politico molto impegnato. Nel 1958, quando è ancora funzionario francese, milita attivamente per l’indipendenza e per l’unità dell’Africa. È tra gli organizzatori della campagna per il «no» al referendum proposto dal generale Charles De Gaulle (1958), che chiedeva agli africani delle colonie francesi di scegliere tra il restare in federazione con la Francia o l’indipendenza.
Con il suo partito, il Movimento di liberazione nazionale (Mln), che raggruppava personalità come Abdoullaye Wade, attuale presidente del Senegal, si mobilita per chiedere l’indipendenza immediata. Il suo movimento perde. Per essere coerente con se stesso, dimissiona dalla funzione pubblica francese. Assieme ai suoi compagni di partito, va in soccorso alla Guinea Conakry, che era l’unico paese ad aver votato per l’indipendenza.
Per punire la Guinea, dopo il voto De Gaulle aveva richiamato tutti gli assistenti tecnici francesi. Peggio: i francesi partirono portandosi via tutto, anche le prese elettriche degli uffici. Il paese si trova privato di risorse e competenze. Ki-Zerbo e i suoi compagni portano insegnanti, professori, e tecnici indispensabili per far funzionare l’amministrazione statale.

Politico per la democrazia

Dopo questa esperienza guineana, il professore torna in Burkina Faso e rilancia il suo partito. L’Mln è considerato il partito degli intellettuali. I suoi militanti sono insegnanti della scuola elementare, infermieri, medici e professori dei licei.
Il professore si rivela un grande intellettuale e politico temibile. Sarà lui il principale responsabile della caduta del regime di Maurice Yameogo, primo presidente del paese. Da allora diventa una personalità imprescindibile per la scena politica nazionale. Il suo partito resta per molto tempo la seconda forza del paese.

Professore di «sviluppo»

Ma la cosa più importante che ci lascia il professor Ki-Zerbo è la sua riflessione politica. Ha teorizzato quello che lui stesso ha chiamato: «lo sviluppo endogeno». Non è una teoria che punta all’autarchia e neanche un ritorno ai valori ancestrali, ma piuttosto un approccio aperto al mondo.
Approccio per il quale gli africani sanno da dove vengono e dove vogliono andare. Il professore si è sempre ribellato al modo in cui lo sviluppo è teorizzato per l’Africa. Lui pensa che questa maniera di aiutare l’Africa si focalizza troppo sui «mezzi» piuttosto che sulle «condizioni». Secondo lui si possono versare tutti i miliardi che si vogliono sul continente, ma non si provocherà mai lo sviluppo: piuttosto la perversione dell’élite politica e intellettuale, che si perde nella corruzione. Al contrario, sostiene Ki-Zerbo, se le «condizioni» sono riunite, gli africani stessi troveranno le risorse necessarie al loro sviluppo. Cita a esempio il decollo economico dell’Europa e del Nord America nel XIX secolo.
Tra le condizioni necessarie allo sviluppo, la prima è l’educazione. Se il tasso di scolarizzazione non raggiunge la soglia del 70% della popolazione, lo sviluppo è impossibile. Se la conoscenza tecnica della produzione non permette di ottenere del valore aggiunto, lo sviluppo è impossibile. Ma oggi l’economia africana è basata sull’esportazione di materie prime grezze (caffè, cacao, cotone, tè, legno, ecc.). Ki-Zerbo pensa che nessun paese al mondo si sia sviluppato in questo modo.
Un’altra delle condizioni per lo sviluppo è la democrazia e l’emancipazione della donna. Tutte queste teorie le presenta nella sua ultima opera «A quando l’Africa?» (tradotto in italiano dalla Emi, ndr).

«Se ci sdraiamo …

Ki-Zerbo è un vero «baobab» africano. Il baobab è l’albero più maestoso della savana, come lo è la quercia per i paesi occidentali. È questo il personaggio che è scomparso il 4 dicembre scorso. Intellettuale e uomo politico impegnato, ha lottato fino alla morte per la libertà e la democrazia. Dopo l’assassinio del popolare giornalista burkinabè Norbert  Zongo, nel dicembre 1998, il professore, malgrado l’età, è una delle figure della contestazione del regime e della battaglia per portare in giudizio gli assassini.

… siamo già morti»

È lui che inventa lo slogan del movimento di lotta contro l’impunità in Burkina Faso: «ni an lara an sara», ovvero «se ci sdraiamo, siamo già morti». È con questa frase che i militanti della lotta contro l’impunità lo hanno accompagnato alla sua ultima dimora, nel piccolo villaggio natale di Toma, a un centinaio di chilometri da Ouagadougou. Il professore voleva riposare in mezzo ai suoi. Coloro che lo hanno regolarmente eletto deputato a partire dal 1970, malgrado i rischi che questa scelta comportava. È per questo motivo, d’altronde, che la regione di Toma è una delle ultime a non avere una buona strada. Ma la popolazione, nonostante tutto, è rimasta fedele al professore. 

Di Newton Ahmed Barry

* Newton Ahmed Barry è uno dei più noti giornalisti del Burkina Faso. Attualmente è redattore capo dell’«Evénement», bimensile di attualità politica di cui è uno dei fondatori.

Newton Ahmed Barry




La Russia, i russi e il «crepaccio del tempo»

Nuovi ricchi, nuovi poveri. Corruzione. Denaro. Il dispotismo di Putin e della sua corte. Riflessioni tra passato e presente, in attesa di un’alba che tarda.

Il monastero Donskoj è caro alla memoria dei moscoviti perché vi era vissuto Tikhon, il dodicesimo patriarca di tutte le Russie. Fu alle cinque del pomeriggio del 10 aprile del 1925 che lo videro per l’ultima volta, disteso nella piccola bara di legno di quercia sistemata nella cappella dedicata a san Sergio di Radonez, a destra entrando nella Cattedrale Grande del monastero. Dentro c’era una folla di fedeli, l’ultima isola del vecchio mondo che la tempesta della rivoluzione d’ottobre aveva sconvolto e che le persecuzioni che si stavano succedendo rischiavano di cancellare.
Era una tribù disperata e silenziosa, unita dalla dignità di chi sapeva di appartenere a un mondo diverso e che all’improvviso si  sentiva perduto. Perché in un Paese in cui era stato capovolto ogni principio di potestà statale, politica e ideologica, Tikhon rappresentava l’unica forma di autorità riconosciuta da sempre come legittima nelle Russie: quella morale. Sicché, quando s’era sparsa la notizia della sua morte, i fedeli si erano messi in cammino e, sfidando i controlli polizieschi erano arrivati fino al monastero, dove il patriarca accusato di «attività controrivoluzionaria» vi era stato inteato nel 1922.
Chi passa, 82 anni dopo la morte del patriarca Tikhon, sotto l’arco dove un tempo c’erano le porte Kaluzskie varcando le quali si entrava nella città di Mosca, e imbocca la via Donskaja cioè la strada che costeggia le mura del monastero, prima di giungere al portone su cui sbalza un’icona della Madonna di Kazan, incontra i mendicanti che oscillano ritmicamente la testa nel vento chiedendo l’elemosina in cambio di un santino. Appena varcato il portone ci sono due chioschi nei quali si vendono i libri di devozione, i calendari, le spille e ovviamente ritratti del santo patriarca Tikhon che nel maggio del 1992 era stato innalzato agli onori degli altari. Intoo, sullo spiazzo che porta alla Cattedrale Grande c’è sempre un via-vai di gente, poiché qui si concentra dai quattro punti cardinali di Mosca, qui s’impasta, si rimescola, nel grumo immobile – eppure si muove – d’una società che dopo l’implosione dell’Urss ambiva alla democrazia e oggi si ritrova sotto un regime che, per governare, usa la paura.  

Naturalmente nel mistero russo di una storia che sopravvive alle sue mutilazioni lo scenario del Donskoj si ripropone  come un’ alternativa, una sorta di identità permanente: la radice spirituale del paese, la sua memoria storica autentica che si riassume nel cimitero che stringe la Cattedrale Piccola e si stende fin sotto le mura. Con le ringhiere di ferro battuto, le croci, i bronzei catafalchi che raccolgono le spoglie dei nobili, dei ricchi mercanti, dell’intellighentja moscovita prerivoluzionaria. Le sculture annerite e le lapidi ammuffite all’ombra dei tigli e dei castagni selvatici. La copia dell’icona della Madonna poi detta Donskaja (del Don) che il  grande principe di Mosca Dmitri Ivanovich baciò prima di affrontare i Tatari a Kulikovo Pole nei pressi del fiume Don appunto dove vinse la prima grande battaglia per la liberazione della terra russa. Era l’anno 1380.
Ci sono sempre i fiori freschi sulla lapide di Jkov Sergheevic Polosov il segretario-cameriere di Tikhon, che la notte del 9 dicembre del 1923 si gettò sui due sicari che erano penetrati negli appartamenti patriarcali per assassinare il presule. Jkov gli fece scudo con il suo corpo e la pallottola sacrilega gli trapassò l’aorta fulminandolo. Fu sepolto vicino alla Cattedrale Piccola in modo tale che solo un muro lo separasse dalla tomba che il Patriarca aveva previsto per sé. Così volle Tikhon. «Lui resterà qui», rispose quando gli riferirono che il ministro Tuchov voleva trasferire la salma in un cimitero della periferia. Insomma nel monastero Donskoj tutto scorre come nelle  velate sequenze del cinema muto. La sensazione è di uno stato d’immobilità surreale, come se un intero popolo sia rimasto intrappolato in un «crepaccio del tempo», fra l’interminabile tramonto del socialismo reale e il chiarore dell’alba di una giornata politica che nessuno riesce ancora a configurare. Che il compito fosse arduo era chiaro a tutti, russi e non russi. Bisognava agire su vari versanti allo stesso tempo: frantumare il vecchio, costruire il nuovo e mostrarsi credibili agli occhi dell’Occidente.

Vladimir Putin, l’ex spia della Guerra fredda, ha basato la sua politica sul gas e sul petrolio mettendo fine al passaggio sotto controllo straniero delle risorse naturali russe. Lo sfruttamento del petrolio e il Gazprom hanno riempito le casse del Tesoro, ma la rinazionalizzazione è stata fatta nell’arbitrio più assoluto con i metodi del passato regime comunista, piegando la stampa e i suoi oppositori. Eliminati gli oligarchi in odore di tradimenti ne sono subentrati degli altri di provata fede, pronti a seguire sempre la volontà di Putin, ma lo scenario non muta. I nuovi ricchi sono una categoria sempre più evidente, mentre aumenta la massa dei nuovi poveri. La corruzione imperversa e con essa la criminalità. Il «danaro» s’impone come valore preminente. E così, dopo tante pagine intense e angosciose di sconvolgimenti politici, di guerre per bande, la popolazione si ritrova di fronte all’abisso del nulla, piegata da un dispotismo così poco illuminato che non ha aperto alcun spazio alle istituzioni democratiche.
Poiché manca quasi tutto – ancora – di quel che serve al funzionamento di una democrazia: le leggi, i partiti, i sindacati, per non parlare dei «valori»  che nessuno osa rivendicare dopo tutti quei giornalisti morti ammazzati, quelle spie polonizzate. Prevale la prudenza, significa che si sta radicando il pessimismo in quella parte illuminata della società civile  di un paese che da sempre affronta le vicende della Storia con la disperazione tragica, il furore degli estremi e la violazione dei limiti che rientrano nella sua tradizione.
Così meglio di ogni altro luogo, il monastero Donskoj può fare da fondale a questa tormentata, abbagliante, vertigine collettiva. Tra quelle mura aggredite dal tempo e dai vandali i credenti vi avevano cercato riparo con tenacia, con forza, con disperazione, sempre arretrando, sempre  allontanandosi di un passo dall’ombra dei persecutori, a volte fino a inabissarsi pur di far sopravvivere la speranza. Che i loro figli ora vorrebbero ritrovare.

di Vincenzo Maddaloni

Vincenzo Maddaloni




Tira proprio una brutta aria

Gli inquinanti atmosferici assediano le città

Benzene, polveri sottili, ozono. Si tratta di nomi ormai entrati nel linguaggio comune, ma senza che la loro conoscenza producesse effetti positivi. Sono soltanto aumentate le diatribe e lo scaricabarile delle responsabilità. Qual è il peso del traffico automobilistico nell’inquinamento? Le marmitte catalitiche servono? La benzina «verde» è efficace? Un’analisi competente che evidenzia la gravità
di un problema la cui soluzione pare lontana. E non soltanto per colpa delle istituzioni pubbliche…

La qualità dell’aria è certamente uno dei requisiti essenziali per la nostra salute e per il nostro benessere. Purtroppo gli inquinanti atmosferici, soprattutto nei grandi centri urbani, rappresentano una grave minaccia alla salute.
Secondo una recente valutazione della «Organizzazione mondiale della sanità» (World Health Organization, Who), il peso delle patologie correlate agli inquinanti atmosferici è di circa di 2.000.000 di morti premature per anno, a livello mondiale.
Questa valutazione tiene conto sia dell’inquinamento degli spazi aperti, che di quello degli ambienti confinati, dove ha un peso rilevante l’utilizzo di combustibili solidi, come il carbone ed il legname.
L’Oms ha perciò predisposto delle linee guida, per ridurre l’impatto sulla salute da parte degli inquinanti atmosferici.
Sulla base di queste indicazioni, in Italia, il Decreto ministeriale (Dm) n° 60 del 2 aprile 2002 ha recepito le direttive comunitarie (1999/30/CE e 2000/69/CE) conceenti i valori limite di qualità dell’aria ambiente per il biossido di zolfo, il biossido di azoto, gli ossidi di azoto, il materiale particolato (PM10), il piombo, il benzene ed il monossido di carbonio.

Dalla «super» alla «verde»: dal piombo al benzene

Bisogna fare una breve digressione sugli scarichi dei motori a combustione intea e sulle marmitte catalitiche.
In passato la benzina «super» conteneva un additivo antidetonante (la cui funzione è quella di rallentare la velocità di esplosione della benzina migliorando l’efficienza del motore) a base di piombo tetraetile, il quale, avendo effetti negativi sul sistema nervoso, è stato tolto e sostituito da altri composti tra cui il benzene.
La nuova benzina senza piombo è stata definita «verde» (i manifesti pubblicitari rappresentavano un passeggino vicino ad un’automobile), dimenticando o trascurando gli effetti del benzene in essa contenuto, noto per i gravissimi danni emato-midollari, con un meccanismo di azione molto simile a quello delle radiazioni ionizzanti, tanto che viene anche definito tossico radiomimetico.
Il benzene (detto anche benzolo) è stato spesso impiegato nell’industria, per le sue proprietà di solvente, nel periodo antecedente alla legge 5 marzo1963, che ne ha vietato l’uso.
L’entrata in vigore del Dm n. 60 del 2002 ha stabilito il valore limite per la protezione della salute umana di 5 µg/m3 (microgrammi al metro cubo), valore da raggiungere entro il primo gennaio 2010. Il Dm n. 60 prevede anche un margine di tolleranza di 5 µg/m3 (che riporta il valore limite a 10 µg/m3) fino al 31 dicembre 2005. Dal primo gennaio 2006, e successivamente ogni 12 mesi, il valore è ridotto secondo una percentuale costante per raggiungere lo 0% di tolleranza al primo gennaio 2010.
Se la benzina rossa aveva il difetto di contenere alte percentuali di piombo, la benzina cosiddetta verde ha il limite di contenere percentuali non indifferenti di benzene: dalla tossicità del piombo si è passati alla cancerogenicità del benzene.
Secondo recenti stime dell’Organizzazione mondiale della sanità e dell’U.S. Environmental Protection Agency, l’esposizione «a vita» di una popolazione a concentrazioni di 1 µg/m3 di benzene provoca 4-10 casi aggiuntivi di leucemia ogni milione di persone.
Ma quanto benzene c’è nella benzina «verde»? Appena è entrata in commercio si diceva che il benzene era presente nella concentrazione del 5%, tale percentuale è stata successivamente ridotta.
In Italia, la legge n. 413/1997 ha stabilito che il contenuto di benzene nelle benzine non deve superare l’1% in volume; ciò significa che facendo un pieno di 50 litri si carica circa mezzo litro di benzene!
Il benzene è un liquido incolore dal caratteristico odore aromatico pungente che diventa irritante a concentrazioni elevate. La soglia di concentrazione per la percezione olfattiva è di 5 mg/m3 (Air Quality Guidelines for Europe, Who 1987).
L’odore del benzene ricorda quello della vernice fresca e quello dello smalto per le unghie: quando un veicolo catalizzato parte si sente chiaramente tale odore, che permane fino a quando il sistema (catalizzatore, motore) non ha raggiunto le temperature di esercizio (per la marmitta è di circa 800°C). Ne deriva che le emissioni inquinanti, per i primi 4/5 km e con una temperatura estea di 20°C, sono paragonabili a quelle di una vettura non catalizzata. Con temperature estee inferiori a 20°C e con ingorghi di traffico l’inquinamento è ancora maggiore.

Le auto catalitiche: è questa la soluzione?

Uno studio della Stazione sperimentale combustibili di Milano ha dimostrato che una vettura non catalizzata, che procede in condizioni di scorrevolezza di traffico a velocità costante, emette una quantità di inquinanti inferiore ad una vettura catalitica costretta a procedere con marce ridotte e con continue soste e partenze, come avviene regolarmente in molte città italiane.
Quando in città si sente l’odore caratteristico del benzene, vuol dire che la sua concentrazione è superiore a 5 mg/m3, mentre la soglia di pericolo è di 5 µg/m3, cioè un valore inferiore di 1.000 volte.
Già a questo punto è chiaro che i blocchi alla circolazione attuati in varie città italiane serviranno a ben poco per tutelare la salute delle persone, perché tutte le vetture a benzina, in situazioni di traffico intenso e per tratti di pochi chilometri, emettono grandi quantità di inquinanti.
Un altro inquinante, che è oggetto di attenzione, è il biossido di azoto, che fa parte dei cosiddetti gas nitrosi, che si formano per combinazione dell’azoto con l’ossigeno.
Il traffico veicolare è responsabile di circa la metà degli ossidi di azoto presenti, l’altra metà è dovuta alle combustioni di tutti i tipi, dai riscaldamenti domestici alle industrie, tenendo presente che, in genere, più è alta la temperatura di combustione e maggiore è l’emissione di ossidi di azoto.
Il biossido di azoto ha un importante ruolo nel processo di formazione dell’ozono. Anche il biossido di zolfo o anidride solforosa è irritante per le vie respiratorie e può essere causa di bronchiti croniche anche invalidanti.
L’emissione di biossido di zolfo deriva dal riscaldamento domestico a gasolio, dai motori Diesel, dagli impianti per la produzione di energia e, in generale, dalla combustione di carbone, gasolio ed oli combustibili contenenti zolfo.
Il biossido di zolfo può anche dare origine ad acido solforico ed è responsabile della formazione delle piogge acide che hanno effetti negativi sull’ecosistema, sui monumenti e, non dimentichiamolo, sui manufatti di cemento amianto, corrodendo la matrice cementizia e liberando le fibre di amianto.
Negli ultimi anni l’emissione di biossido di zolfo nelle aree urbane è stata ridotta grazie al miglioramento della qualità dei combustibili, riducendo la concentrazione di zolfo.
Il terzo componente nocivo per l’apparato respiratorio è l’ozono, che può essere di origine naturale, ma è anche legato alle attività produttive. Quando le percentuali presenti nell’aria che respiriamo aumentano, l’ozono diventa un inquinante pericoloso per la nostra salute. L’ozono è un gas tossico e l’esercizio fisico svolto all’aperto in coincidenza con elevate concentrazioni di ozono nell’atmosfera può essere veramente dannoso.
Due parole sul monossido di carbonio, che è dovuto alla combustione incompleta dei carburanti utilizzati per il movimento degli autoveicoli.
Il monossido di carbonio è pericoloso perché non ha odore. L’inalazione di monossido di carbonio provoca vari disturbi (mal di testa, affanno, vertigini, nausea, disturbi visivi), che spesso non vengono correlati a tale composto proprio per la sua insidiosa assenza di odore.
Non dimentichiamo che, in ambienti chiusi, il monossido di carbonio può provocare la morte.

Le polveri sottili: un aumento irrefrenabile?

Ci sono poi le polveri sottili (PM10) definite anche «particolato», che includono tutte quelle particelle solide o liquide, che possono trovarsi disperse nell’aria, come la fuliggine, il piombo, il nichel, i solfati, la polvere, la cenere e anche sostanze naturali come il polline. Le polveri più inquinanti sono quelle emesse da sorgenti quali: industrie, centrali termoelettriche, cantieri e autoveicoli. Il particolato si può anche formare tramite la condensazione in microgocce di inquinanti quali l’anidride solforosa, gli ossidi di azoto ed alcuni composti organici volatili come gli idrocarburi policiclici aromatici. La loro pericolosità è quindi dovuta alle sostanze di cui sono composte e a ciò che trasportano.
Con la sigla PM10 si definisce il particolato caratterizzato da una dimensione inferiore ai 10µm, che ha la caratteristica di poter raggiungere direttamente gli alveoli polmonari.
Esistono particelle ancora più fini, le PM2,5, che sono gli inquinanti più dannosi per la salute dell’uomo; posizionandosi direttamente sulla mucosa dell’albero respiratorio e sugli alveoli, infatti, queste piccolissime polveri possono causare disturbi dell’apparato respiratorio, dalle semplici irritazioni alle più gravi patologie, cancro compreso.
Nel caso del particolato, il pericolo non è solo dovuto alla dimensione delle particelle, ma anche e soprattutto al tipo di sostanze in esse contenute.
A Milano, per esempio, le polveri sono molto più ricche di amianto rispetto a Roma (in media, 10 volte di più) e ciò le rende molto più pericolose rispetto ad altre di pari dimensioni, ma contenenti una minor percentuale di questo minerale. L’amianto, infatti, è una delle sostanze più pericolose presenti nelle città industrializzate.

Quando un guaio tira l’altro

A tal proposito, tornando all’effetto delle piogge acide, queste corrodono la matrice cementizia dei manufatti di eternit (cemento-amianto), liberando le fibre di amianto, che possono raggiungere i nostri polmoni.
La quantità di tetti di eternit presenti sul territorio è ancora notevole ed il rischio per i cittadini di contrarre tumori da amianto è tutt’altro che trascurabile.
Con buona approssimazione, si può affermare che soltanto un terzo dei mesoteliomi (tumori da amianto) è correlabile con attività lavorative a contatto con l’amianto; tutti gli altri casi sono dovuti ad esposizioni a rischio di tipo extra-lavorativo.
Un’altra sostanza dannosa, presente sotto forma di polvere fine, è il carbone, che ha la capacità di legarsi ad altre sostanze chimiche veicolandole fino nei nostri polmoni.
Va detto che i veicoli a benzina emettono quantità trascurabili di polveri sottili e non esistono per loro limiti riguardanti le emissioni di PM10.
I veicoli a benzina emettono però altri inquinanti: in primo luogo il benzene, del quale abbiamo parlato in precedenza.
I veicoli meno inquinanti in assoluto sono quelli alimentati a gas (metano o gpl) e quelli elettrici, anche se l’elettricità è prodotta con il petrolio e quindi il problema viene solo spostato.
Altre sostanze che si presentano sotto forma di polveri sottili sono dovute ai lavori nei cantieri, all’usura del manto stradale, delle gomme, dei freni e delle frizioni.
Le polveri sottili, in quanto tali, si depositano al suolo e vengono sollevate dal vento e dal passaggio dei veicoli: si giunge al paradosso che anche se fosse consentita solo la circolazione delle carrozze trainate da cavalli, verrebbero comunque sollevate polveri sottili.
Che fare? Per quanto riguarda la benzina ed il gasolio, alcuni studiosi sostengono che la cosa più stupida che si può fare è bruciare il petrolio, dato che esso è una fonte esauribile e non rinnovabile. Il petrolio viene però utilizzato anche per la produzione di moltissimi manufatti, che pertanto in sua mancanza dovranno essere realizzati con altri materiali.
Bisognerebbe trovare altri sistemi di produzione di energia; in Brasile, per esempio, molti veicoli, anche prodotti da industrie italiane, viaggiano ad alcornol (che è un ottimo propellente non inquinante).
Per le polveri sottili, ha dato ottimi risultati il lavaggio delle strade che, se praticato in modo costante, consente di abbattere in modo sensibile la percentuale di inquinanti dispersi nell’aria. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

SUV? NO, GRAZIE!

«La moda dei Suv sta prepotentemente affermandosi anche in Italia. Già diffusi negli Usa da molti anni sono noti per essere autovetture gigantesche, pesanti, voraci di energia e in genere specchio di un atteggiamento arrogante ed aggressivo verso il prossimo e l’ambiente. Essi non hanno nulla a che vedere con le vere e più spartane auto fuoristrada utili a chi lavora su terreni accidentati: si tratta invece di auto di gran lusso, il più delle volte sempre lucide e che non vedranno mai uno schizzo di fango o l’ammaccatura di un sassetto, usate semmai per salire sui marciapiedi di città e pavoneggiarsi davanti a bar e discoteche. In genere pesano 2,5 tonnellate (oltre il doppio di un’auto normale), sono più lunghe e più larghe, occupano quindi più spazio richiedendo parcheggi e strade più grandi. Consumano circa il doppio di un’utilitaria».

Fonte: Luca Mercalli – Chiara Sas­so, Le mucche non mangiano cemento, Edizioni Socie­tà Mete­o­ro­logica Subalpina, To­rino 2004; pagina 180.

SOLO CONOSCENDO POSSIAMO AGIRE

Un vecchio detto ammonisce che non abbiamo ricevuto la terra in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri figli. Dovremmo quindi riuscire a mantenerla vivibile per le generazioni future, non contaminata da sostanze capaci di mettere in serio pericolo la salute e la vita nostre e di chi verrà dopo di noi. Per fare questo è però necessario innanzitutto prendere coscienza di quali sono i problemi, che affliggono l’ambiente in cui viviamo, cioè le varie forme d’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, che spesso sono il risultato di svariate attività industriali, ma anche delle nostre abitudini di vita, non sempre corrette, o di forme di gestione della cosa pubblica poco oculate e non lungimiranti. Solo così, con la conoscenza di ciò che può minacciare la nostra salute, si può pensare alle possibili soluzioni per risolvere i problemi ambientali ed acquisire la convinzione che ciascuno di noi, modificando un poco le proprie abitudini, può contribuire al miglioramento dell’ambiente in cui vive, e più in generale del nostro pianeta.

In questa rubrica, ben conosciuta dai lettori di MC, verranno di volta in volta trattate le problematiche ambientali che ci riguardano più da vicino, con una particolare attenzione alle patologie che da loro possono derivare.

Roberto Topino
Rosanna Novara

IL GLOSSARIO DI «NOSTRA MADRE TERRA»

L’ABC DEL PROBLEMA

Amianto (o asbesto) – È il nome che si dà a molti silicati, che si presentano in fibre più o meno flessibili, che possono essere tessute. I più importanti tipi sono l’amianto crisotilo o asbesto vero e proprio, costituito da serpentino a fibre lunghe biancastre o verde-grigiastro; l’amianto anfibolo, costituito da actinoto, anfibolite e tremolite; l’amianto azzurro o crocidolite, contenente anche sodio e ferro. È insolubile, inodore, resistente al calore, alle azioni meccaniche e chimiche, per cui in passato ha trovato largo impiego nell’industria e nell’edilizia. Purtroppo esso ha un elevato potere cancerogeno, riconosciuto dall’Oms negli anni ‘80, per cui in Italia, a partire dal 1994, la legge ne vieta l’estrazione, la lavorazione e la commercializzazione. L’amianto è responsabile dell’insorgenza di asbestosi e di gravi forme di tumore come il mesotelioma pleurico e peritoneale ed il carcinoma polmonare.

Benzene (o benzolo) – È un liquido incolore, facilmente infiammabile, presente nella benzina verde. Si tratta di una sostanza tossica, di cui è accertato il potere cancerogeno. La prolungata permanenza in ambienti contenenti benzene provoca nausea, anemia ed, in alcuni casi, leucemia. È un idrocarburo ciclico, cioè è formato da un anello formato da 6 atomi di carbonio legati tra loro (oltre che con l’idrogeno), per mezzo di legami alternatamente singoli e doppi. È in pratica il capostipite degli idrocarburi aromatici. Nell’ambiente viene rilasciato, oltre che dalla combustione e dall’evaporazione delle benzine, anche dalle perdite di prodotti petroliferi nello stoccaggio e nel trasporto; inoltre, viene liberato con l’impiego di determinate pitture, nel lavaggio a secco e nella produzione di polietilene. Oltre agli effetti patologici sull’uomo e sugli animali, sono stati osservati danni alle piantagioni di cotone ed alle colture di fiori, in particolare di azalee e di orchidee.

Biossido d’azoto (NO2) – Questo, come altri ossidi di azoto, deriva dalla combustione ad elevata temperatura di gasolio, carbone o gas naturale nelle centrali elettriche. Inoltre gli ossidi di azoto, tra cui il biossido, derivano anche dalla produzione di fertilizzanti chimici. I loro effetti principali sono i disturbi respiratori, le piogge acide, la corrosione di metalli, l’effetto serra, la diminuzione dello strato d’ozono.

Biossido di zolfo (anidride solforosa, SO2): così come il triossido di zolfo SO3 è prodotto durante la raffinazione del petrolio,  le lavorazioni metallurgiche del rame e del piombo e la  produzione dell’acido solforico. La loro presenza nell’aria determina un aumento delle infezioni per via respiratoria, delle malattie cardiache e la corrosione di materiali a seguito della formazione di piogge acide.

GPL – È l’acronimo di «gas petrolifero liquefatto».

Leucemie – Si tratta di un gruppo di tumori maligni del sangue derivanti dai precursori dei leucociti (globuli bianchi) circolanti e tissutali. Esse rappresentano circa il 3% del totale dell’incidenza mondiale del cancro e sono, di solito, distinte sia in base al tipo cellulare d’origine (linfociti, mielociti, monociti), sia dal loro andamento clinico-patologico (forma acuta, subacuta, cronica). Nei bambini al di sotto dei 15 anni d’età, la leucemia è la forma di cancro più comune.

Linfomi – Si tratta di un gruppo piuttosto eterogeneo di tumori, tra cui i più noti sono quello di Hodgkin, i non-Hodgkin ed il linfoma di Burkitt. L’incidenza di queste forme di tumore è aumentata nei paesi occidentali a partire dal 1960, soprattutto tra le popolazioni con elevato livello socio-economico. Anche le leucemie appartengono a questa famiglia, mentre non tutti i linfomi sono leucemie, essendo molti di loro dei tumori solidi.

Materiale particolato (PM10 e PM2,5) – La definizione più corretta per queste forme d’inquinamento è quella di «particelle totali sospese» o PTS. Tali particelle vengono distinte in polveri inalabili o PM10, cioè con diametro inferiore a 10 µm, capaci di penetrare tutto il tratto superiore dell’apparato respiratorio fino ai bronchi e in polveri respirabili o PM2,5, cioè con un diametro inferiore a 2,5 µm, che possono penetrare tutto l’albero respiratorio fino agli alveoli polmonari. La loro liberazione nell’ambiente è dovuta a molteplici attività quali la combustione nelle centrali termiche, negli inceneritori dei rifiuti e negli impianti di riscaldamento domestici, l’attività dei cementifici, delle acciaierie, delle industrie vetraria e tessile e delle raffinerie di petrolio. I loro effetti principali sono le irritazioni polmonari, l’insorgenza di bronchiti, di enfisemi e di tumori maligni.

Mesotelioma pleurico e peritoneale – Questa forma di tumore maligno colpisce quasi esclusivamente la pleura ed il peritoneo ed è noto che si tratta della conseguenza di un’esposizione  ambientale o professionale all’asbesto. Queste forme tumorali hanno un lunghissimo periodo di latenza (circa 30 anni) ed un esito quasi sempre mortale. L’incidenza di questi tumori è in aumento in modo preoccupante, soprattutto nei paesi occidentali. Si può, tuttavia, attendere un aumento di questi casi anche nei paesi in via di sviluppo, dove purtroppo trovano tuttora largo impiego manufatti contenenti amianto, come l’eternit, già banditi nei paesi più sviluppati.

Micron – È la millesima parte del millimetro, cioè 0,001 mm. Viene identificato con la lettera greca µ, la quale viene utilizzata anche davanti ad altre unità di misura (per esempio: 1µg = 0,001 grammi).

Monossido di carbonio (CO) ed anidride carbonica (CO2) – Derivano dalla combustione incompleta della benzina, dalle emissioni dell’industria chimica e dall’incenerimento dei rifiuti solidi. Come effetti, il primo riduce la capacità del sangue di trasportare ossigeno, mentre l’anidride carbonica è la principale responsabile dell’effetto serra.

Ozono (O3) – È un gas bluastro dal caratteristico odore pungente, instabile anche a temperatura ordinaria, per cui tende a trasformarsi in ossigeno. Nell’atmosfera si trova solo in piccola quantità. Si forma dall’ossigeno per azione delle scariche elettriche e, per mezzo di reazioni fotochimiche, dagli ossidi d’azoto provenienti dagli scarichi dei motori a combustione intea e delle centrali termoelettriche. L’ozono danneggia i vegetali e molti materiali, tra cui gomme e tessuti; nell’uomo e negli animali provoca bronchiti ed attacchi d’asma. Esso contribuisce inoltre alla formazione della piogge acide e delle cappe di smog.

Piogge acide – Sono precipitazioni atmosferiche caratterizzate da un elevato tenore di acidità, a causa dell’aumento del consumo dei combustibili. Normalmente la pioggia è leggermente acida, con pH 5,6 circa, poiché reagisce con l’anidride carbonica e contiene acido carbonico. Attualmente, in molte zone del mondo e soprattutto nei paesi industrializzati, i dati relativi al pH delle precipitazioni sono molto inferiori alla norma; ad esempio nell’Europa continentale essi sono scesi a pH 4,1. Piogge con pH così basso danneggiano fortemente le foreste ed avvelenano le acque dei laghi e dei fiumi, con gravi conseguenze per la fauna. Tra i principali responsabili della formazione delle piogge acide c’è il biossido di zolfo o anidride solforosa, che reagisce con l’aria umida, ossidandosi e trasformandosi poi in acido solforico. Il meccanismo di formazione delle piogge acide è accelerato dall’inquinamento atmosferico globale, perché le particelle metalliche presenti nell’atmosfera (soprattutto ferro e manganese) catalizzano la reazione di acidificazione, così come l’ozono, il perossido d’idrogeno, l’ammoniaca e gli ossidi di azoto, questi ultimi emessi dalle centrali termoelettriche e dagli scarichi delle automobili.

Radiomimetico – Composto o sostanza con effetti sugli esseri viventi analoghi a quelli di una sostanza radioattiva, cioè effetti mutageni (che provocano mutazioni nel DNA), cancerogeni (che provocano il cancro)  e teratogeni (che provocano malformazioni fetali).

(a cura di R.Topino e R.Novara)

(*) Dott. Roberto Topino
Laureato in medicina e chirurgia, specialista in medicina del lavoro, si occupa di patologie legate all’attività lavorativa da circa trent’anni.
È stato cornordinatore della sezione tutela della salute dei lavoratori dell’Asl di Rivoli (Torino).
Dal 1992 esegue accertamenti e revisioni di malattie professionali presso l’Inail di Torino.

Dr.ssa Rosanna Novara
Ha una laurea in scienze biologiche e un dottorato di ricerca in oncologia.
Ha svolto attività di ricerca presso il dipartimento di scienze biomediche ed oncologia umana – sezione di anatomia ed istologia patologica dell’Università di Torino.
Attualmente è docente di anatomia e di fisiologia in una scuola di formazione professionale.

Roberto Topino e Rosanna Novara




Tristi le  mille colline

Esperienza estiva di un gruppo di giovani di Reggio Emilia

Da oltre 40 anni la diocesi di Reggio Emilia è legata alla chiesa rwandese. Tra le varie iniziative figura anche l’invio di gruppi giovanili desiderosi di fare esperienze di missione. Quello guidato dal padre Moreschi ha animato oltre 700 giovani di ogni etnia, gettando un seme di speranza in un  paese che non è ancora riuscito a liberarsi dall’incubo.

«Paese dalle mille colline», come è spesso definito, il Rwanda si trova a un grado e mezzo sotto l’Equatore, schiacciato tra Tanzania e Congo, Uganda e Burundi, con cui costituiva un territorio unico durante il periodo coloniale.  Grande come la Sicilia, è popolato da quasi 9 milioni di abitanti. La scorsa estate vi ho trascorso tre settimane, insieme a un gruppo di giovani della diocesi di Reggio Emilia per un campo di esperienza missionaria. 
Il legame tra la diocesi di Reggio e il Rwanda risale al 1969, quando vi approdò padre Tiziano Guglielmi, missionario reggiano della congregazione dei Padri Bianchi. Tale legame è diventato sempre più forte, anche dopo la morte del missionario, avvenuta il 19 maggio 1980 in un incidente aereo alle pendici del vulcano Bisoke, nel nord del Rwanda. Anzi, proprio tale disgrazia ha portato alla costituzione del gruppo «Amici del Rwanda. Padre Tiziano», per continuare le opere avviate dal missionario reggiano nella missione di Rwamagana, realizzando la costruzione di una scuola, un centro ospedaliero, la casa per le suore e un’altra per i volontari.
La guerra civile dell’aprile-luglio 1994 e conseguente genocidio ha costretto il gruppo e la diocesi a interrogarsi sul loro ruolo nel futuro del paese martoriato. Don Luigi Guglielmi, fratello di padre Tiziano e all’epoca direttore della Caritas diocesana, volle avviare un progetto che coinvolgesse più direttamente la diocesi reggina e fosse segno di speranza e di solidarietà con la popolazione e la chiesa rwandese.
Nasceva così, nel 1995, il primo progetto Amahoro (pace, in lingua rwandese) a Munyanga, nella diocesi di Kibungo: una casa-famiglia per accogliere i bambini rimasti senza genitori. Tale progetto non si limita a fornire le strutture materiali, si traduce soprattutto in una esperienza di comunità tra volontari italiani e rwandesi, condividendo insieme la vita quotidiana, orientamenti e scelte per l’avanzamento del progetto.
Oltre un centinaio di volontari italiani si sono avvicendati per assicurare il servizio della casa Amahoro e per aprie di nuove in altri luoghi, come a Kabarondo e Bare. A questi volontari si sono presto uniti anche gruppi giovanili, desiderosi di fare esperienze missionarie e realizzare progetti minori attraverso campi estivi di qualche settimana.

Anche il 2006 ha visto partire da Reggio Emilia due delegazioni di volontari. La prima, all’inizio dell’anno, aveva il compito di aggiustare delle pompe che si erano bloccate; la seconda, ad agosto, era il nostro gruppo di giovani, che ha trascorso una ventina di giorni nella missione di Munyaga. Abbiamo animato una marea di ragazzi, fino a 700 in alcune giornate dedicate a un campo estivo. Altri giorni sono stati impegnati nella costruzione di case di fango per i poveri, sotto la direzione di suor Bea, una religiosa belga in Rwanda da una vita.
Naturalmente abbiamo avuto anche il tempo per conoscere la situazione del paese. Il Rwanda è un paese con una storia gloriosa e splendide tradizioni; geograficamente bello e godibile per il clima e fertilità del suolo; non ha pascoli in abbondanza, ma sufficienti a sfamare molte mandrie di mucche dalle coa spropositatamente grandi.
Un’eterna primavera sembra regnare nel paese dalle mille colline, irrorate da piogge regolari, incastonate da molti laghi, piccoli e grandi (Kivu, Bulera, Ruhongo, Rweru, Muhazi e l’immenso Vittoria) e solcato da numerosi fiumi, due dei quali, che alimentano il lago Vittoria, sono ritenuti come le vere sorgenti del Nilo.
La gente è buona e laboriosa. L’intero territorio è coltivato come un giardino, tutto a mano, anche le colline più scoscese, con un ingegnoso sistema di terrazze.
Sulla brillantezza del paesaggio, però, incombe la tristezza infinita della gente. Le ferite aperte dall’eccidio, a più di 10 anni di distanza, non sono ancora rimarginate. La gente sembra avere ancora stampate negli occhi scene orrende di cui è stata testimone. Tutti gli adulti che abbiamo incontrato in quei 20 giorni ci hanno raccontato storie tristi, perché tutti hanno avuto la pertita di uno o più familiari. Una signora rwandese, sposata a un italiano, ha perso i genitori e un fratello con tutta la sua famiglia. Questo fratello, per non finire sotto i colpi di macete, si è gettato nel fiume insieme alla moglie e ai figli.
Le iniziative per ricostruire la convivenza civile e la riconciliazione sono molte. Il tribunale internazionale con sede ad Arusha (Tanzania) ha già emesso sentenze esemplari contro chi si è macchiato di delitti contro l’umanità e continua il suo lavoro fra tante difficoltà finanziarie e logistiche; i tribunali tradizionali, chiamati «gachaca», cercano di promuovere la riconciliazione; il governo vuole imporre la pace e l’unità nazionale usando il pugno di ferro e violando i diritti umani più elementari.

Visitando i «luoghi della memoria» sparsi su tutto il territorio, questo momento nero della storia rwandese risulta anche più tragico e indimenticabile.
Nella chiesa di Ntarama, per esempio, dove furono uccise oltre10 mila persone, si respira ancora l’odore della morte. I teschi delle vittime sono raccolti negli scaffali; sul pavimento ci sono vestiti e scarpe e contenitori di plastica lasciati dalle vittime. Sulle pareti della chiesa si è cominciato a scrivere la lunga lista di 10 nomi. Non difficile immaginare l’atmosfera di tristezza che pervade la gente del villaggio.
Di luoghi della memoria come questi è piena la nazione. Altra meta d’obbligo è Nyamata. Durante la guerra civile vi operava padre Joaquim Vallmajo, spagnolo, assassinato perché parlava troppo dei soprusi dei soldati del Fronte patriottico rwandese. Vicino al cippo che ricorda il missionario spagnolo c’è la tomba della volontaria italiana Antonia Locatelli, anche lei uccisa con una pallottola in bocca, nel 1992, per aver telefonato all’ambasciata del Belgio e a emittenti radio inteazionali (Bbc e  Rfi) dando l’allarme di quanto stava succedendo sotto i suoi occhi: il massacro di 300-400 tutsi. Il giorno seguente a tale appello fu uccisa davanti a casa da un gruppo di interahamwe (milizie speciali hutu) venuto appositamente da Kigali. Grazie a lei, però, il mondo fu informato e la polizia fu costretta a intervenire e a porre fine alla carneficina.
Anche con una breve permanenza nel paese ci si accorge che il Rwanda non è ancora uscito da una esperienza così tragica; il demone dell’odio e della divisione ha radici antiche. La popolazione è laboriosa, intelligente e pacifica, ma nel suo interno rimangono frange di estremisti che spingono allo scontro frontale. Per questo si incontrano dappertutto posti di blocco molto noiosi. Suor Bea e suor Mary Amè ci dicono che sono gli stranieri a essere sotto stretto controllo, ma in generale è tutta la popolazione rwandese a vivere sotto stretta sorveglianza.
A parte questo, tutto sembra rientrato in una discreta normalità. La gente cammina per le strade a piedi come un fiume perenne, dato che il traffico automobilistico nella zona rurale è  molto limitato. Kigali, la capitale, brulica di gente indaffarata, i negozi sono pieni di prodotti di ogni genere, anche quelli occidentali.

Kibeho non è solo un luogo della memoria, ma è diventato il simbolo del dolore assoluto, nel cuore dell’Africa dei massacri. Vi abbiamo incontrato una delle veggenti alle quali la Madonna, sarebbe apparsa più di una volta a partire dal 28 novembre 1981.
I protagonisti sarebbero sette. Ma la chiesa ha riconosciuto solo le apparizioni alle prime tre veggenti, studentesse delle scuole magistrali in un collegio cattolico. I messaggi consegnati alle tre giovani non si discostano da quelli di altre apparizioni mariane: invito alla preghiera, alla conversione e alla penitenza salvifica. Ma ciò che fa di Kibeho un evento particolarmente impressionante è che, il 19 agosto 1982, i tre veggenti ebbero la visione dei massacri che ci sarebbero stati di lì a pochi anni in Rwanda. «Abbiamo visto gente che si uccideva, corpi decapitati, fiumi di sangue lungo le strade» raccontavano i veggenti.
Inizialmente le apparizioni furono accolte con sospetto e scetticismo; i più benevoli pensavano che gli orrori annunciati riguardassero il Burundi. Poi, dopo 7 anni di indagini e il lavoro di una commissione medica internazionale, il vescovo approvò il culto della Vergine e la costruzione di una chiesa dedicata alla Madonna dei dolori.
E proprio in quella chiesa, il 7 aprile 1994, si rifugiarono circa 20 mila tutsi e hutu moderati. I tutsi che  si trovavano in chiesa vennero fatti uscire e massacrati ad uno ad uno a  colpi di machete. Quelli che non uscirono vennero uccisi con le granate in chiesa. Tra le vittime ci furono anche due delle tre veggenti.
Quando il Fronte patriottico rwandese giunse al potere, a Kibeho si rifugiarono decine di migliaia di hutu, per sfuggire alla vendetta dei tutsi, formando un enorme campo profughi, sotto l’assistenza di organizzazioni inteazionali. Ma il 18 aprile 1995 l’Esercito patriottico rwandese cinse d’assedio il campo, con lo scopo di controllare i rifugiati, arrestando i sospetti di genocidio e rimandando il resto alle proprie case.
La gente, presa dal panico, cercò di rompere il cordone militare e scappare a perdifiato, sotto i colpi dei soldati. Le strade furono cosparse di sangue,  come nella visione proposta ai veggenti 14 anni prima. Si parla di oltre 8 mila vittime, colpite alle spalle; 4 mila secondo le autorità rwandesi. 
Ma per Kibeho non era ancora finita. Le autorità rwandesi, in maggioranza tutsi, volevano confiscare il santuario e trasformarlo in mausoleo del genocidio del 1994. Il vescovo locale, mons. Augustin Misago si oppose, così pure la Santa Sede, spiegando che la chiesa non poteva diventare simbolo della memoria solo per una parte del popolo, ma doveva essere luogo di riconciliazione.
Proprio da Kibeho, il presidente del Rwanda lanciò contro mons. Misago l’accusa di genocidio nel 1999. Arrestato e condannato a morte, dopo un processo farsa durato tutto l’anno del giubileo, il vescovo fu poi assolto da un giudice di buon senso.
Oggi il santuario di Kibeho, con le sue travi e capriate di legno affumicate, rimane un monito contro ogni ideologia razzista di purezza etnica e continua ad accogliere migliaia di pellegrini di ogni etnia desiderosi di pace e riconciliazione.

A Munyaga, luogo della nostra esperienza, 700 ragazzi di tutte le etnie hanno giocato e cantato e ballato spensieratamente. Abbiamo gettato un piccolissimo seme di speranza, nell’attesa che cresca e maturi con frutti di pacifica convivenza, cancellando il velo di tristezza che ancora avvolge le mille colline del Rwanda martoriato. 

di Alessandro Moreschi

Alessandro Moreschi




Se New York vale l’Africa

La «frattura digitale» (digital divide)

Non molto tempo fa tutti parlavano di «villaggio
globale». Oggi, dopo il successo delle nuove tecnologie, si discute di
«digital divide». Per capire, è sufficiente un semplice dato: soltanto
lo 0,3% degli utenti internet (i cosiddetti «navigatori») vive nel Sud
del mondo. Perché esiste la «frattura digitale»? Essa rappresenta una
priorità come altri bisogni? Ovvero: vale la pena colmarla?

Una delle questioni più invocate nell’agenda del recente Summit
dell’Onu sulla «Società dell’informazione» (World Summit on the
Information Society, Ginevra 2003 – Tunisi 2005) è stata quella
relativa al «digital divide» (divario digitale), un termine con cui ci
si riferisce alle disparità nella possibilità di accedere alle
tecnologie e alle risorse dell’informazione e della comunicazione, in
particolare internet. È anch’esso uno dei frutti perversi della
globalizzazione, in particolare del processo di digitalizzazione
dell’economia e della società che, ben lungi dal trasformare il mondo
in un villaggio globale, ha contribuito a differenziare e allontanare
individui e strati sociali, aree rurali e zone urbane, paesi ricchi e
paesi poveri.
È di queste settimane la notizia che gli utenti internet nel mondo
avrebbero raggiunto il miliardo di persone, e già sono partiti
innumerevoli piani per connettere «il secondo miliardo». Tuttavia, non
sarebbe male astenersi qualche momento dal fantasticare, per osservare,
invece, come si distribuisce, nel mondo, il primo miliardo di
navigatori. Secondo i dati di Nua Inteet Surveys, un’agenzia che si
occupa di monitorare a livello mondiale lo sviluppo della rete internet
e l’utilizzo che ne viene fatto, la grande maggioranza della
popolazione del mondo è ancora priva del tutto dell’accesso a internet.
L’88% degli utenti vive nei paesi industrializzati, contro il solo 0,3%
che abita nei paesi poveri. Per riflettere sull’enormità delle
disuguaglianze esistenti, si ripete spesso che vi sono più connessioni
internet nella sola città di New York che in tutto il continente
africano, mentre vi sono più nodi di accesso (host) in un paese poco
popolato come la Finlandia che in tutto il Sud America messo insieme.

INTERNET O ACQUA E MEDICINE?
Se osserviamo la distribuzione geografica, scopriamo che Stati Uniti e
Canada insieme (Nord America) assommano un terzo degli utenti di tutto
il mondo, pur rappresentando solamente il 5% della popolazione
mondiale; l’Africa sub-sahariana, per contro, possiede l’1,1% degli
utenti internet, nonostante nel continente viva l’11% della popolazione
mondiale. Occorre poi prendere queste cifre, di per sé comunque
esplicite, con estrema cautela: i già pochi utenti internet africani,
infatti, sono concentrati quasi interamente (il 58%) nel solo
Sudafrica, che non è certo un paese in via di sviluppo, mentre gli
utenti asiatici sono quasi tutti circoscritti al Giappone e alle ricche
«enclave» di Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud, tagliando
fuori la quasi totalità degli abitanti della popolosa Cina continentale.
La frattura risultante è certamente una sfida più complessa di quanto
appaia da queste cifre, altrimenti non si spiegherebbe il grande
fiorire di iniziative, finalizzate a «colmare» il divario digitale.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un impegno intensificato, da
parte dei colossi delle tecnologie dell’informazione e delle grandi
compagnie mondiali delle telecomunicazioni, in favore di una rapida
diffusione delle nuove tecnologie nei paesi in via di sviluppo. Ad esso
si sono affiancate le rumorose proteste di coloro che, in occasione dei
vari vertici inteazionali, bruciano sulla piazza i computer
portatili, sostenendo che «il Terzo Mondo ha bisogno di acqua e di
medicine, più che di nuove tecnologie».
Ciascuna delle due opposte reazioni pecca di eccessiva superficialità:
le grandi multinazionali tecnologiche faticano a comprendere che il
problema reale non è quello di incentivare l’utilizzo delle tecnologie,
bensì quello di subordinarle agli obiettivi di sviluppo umano; i
contestatori di piazza, invece, non sanno valutare appieno il ruolo
dell’informatica nei processi di sviluppo e la dimensione sempre meno
collaterale che questa sta assumendo. Oggi il cosiddetto «cyberspazio»,
lo spazio elettronico generato dalle reti informatiche, non è più uno
spazio autonomo, con dinamiche di funzionamento proprie, ma riflette i
valori e le prerogative della realtà concreta, con gli stessi rischi di
vedersi affermare modelli di sviluppo insostenibile.

LE BARRIERE DEL «DIGITAL DIVIDE»
Le barriere cui oggi assistiamo in materia di accesso alle informazioni
e alle risorse informatiche non si sono prodotte per caso, ma sono il
risultato di alcuni precisi fattori di tipo tecnologico, culturale, ed
economico. Vediamo dunque di che cosa si tratta.

• Le barriere dell’analfabetismo e delle risorse energetiche
Molti saranno forse sorpresi nell’apprendere che il primo grande
ostacolo per l’accesso alle tecnologie dell’informazione non ha nulla a
che vedere con la tecnologia: si tratta dell’analfabetismo, che
colpisce la quasi totalità delle persone che vivono al di sotto della
soglia di povertà, privandole degli strumenti linguistici per scrivere,
leggere e comunicare le proprie esperienze.
Il secondo ostacolo è rappresentato dalla distribuzione delle risorse
energetiche. Nel mondo ci sono più di due miliardi di persone che non
possono accedere all’energia elettrica e altrettante che la possono
utilizzare solo sporadicamente. Anche per queste persone, come è ovvio,
le cosiddette «autostrade dell’informazione» risultano inaccessibili.

• Le barriere infrastrutturali
Il fatto di possedere un’istruzione di base e di trovarsi vicino a una
presa di corrente non è però sufficiente per «entrare in rete»: sono
necessarie anche delle adeguate infrastrutture telefoniche e almeno un
computer. Anche per quanto riguarda tali indicatori, le disuguaglianze
sono evidenti. Per dirla con una celebre battuta dell’attuale
presidente del Sudafrica: «la metà della popolazione mondiale non ha
ancora fatto la prima telefonata».
Molti sono ingenuamente convinti che queste siano le uniche barriere
rilevanti. Anche le organizzazioni inteazionali si servono
abitualmente del termine «e-readiness» (prontezza digitale) per
alludere alla dotazione infrastrutturale di un paese, intendendo
implicitamente che, una volta recuperati i ritardi infrastrutturali, un
paese possa dirsi «pronto« a fare il suo ingresso nel mondo digitale.
• La barriera dei costi
In Italia, perlomeno da qualche anno, non si pensa più al costo
dell’accesso a internet come a una barriera; tuttavia, nel Sud del
mondo, la bassa densità di utenti non consente di sfruttare, come al
Nord, collegamenti specializzati a costi forfetari e rende assai
costosa una connessione internet. Questo, aggiunto ai costi per gli
spazi web su cui ospitare le pagine ipertestuali, ai costi delle
periferiche e ai tassi delle tariffe doganali sui prodotti delle
tecnologie dell’informazione, costituisce una grave forma di
emarginazione dalle strutture di comunicazione.

• Le barriere economiche
Oggi il settore delle telecomunicazioni nei paesi del Sud del mondo si
trova stretto in una morsa. Da una parte c’è il settore pubblico, che
procede arrancando. Dall’altra parte ci sono invece le imprese,
assetate di nuovi profitti. I paesi in via di sviluppo costituiscono,
in questo momento, il più grande mercato per l’investimento in
telecomunicazioni e di certo quello che sta crescendo in maniera più
vistosa. Da qualche tempo, in risposta a queste spinte, è stato avviato
un brutale processo di liberalizzazione, che ha portato a cospicui
investimenti nelle aree più redditizie del Sud (i centri urbani e la
clientela più ricca) e ha progressivamente emarginato le aree rurali e
le popolazioni più povere.

• La barriera dei contenuti
I paesi poveri, nonostante i massicci tentativi di creare punti di
accesso all’informazione («edicole multimediali», «Inteet caffè»,
etc…) continuano a rimanere consumatori passivi di informazioni
provenienti dal Nord del mondo. Anche il fattore linguistico accentua
questa frattura, dal momento che più dell’80% delle pagine web sono in
inglese, contro il 10% o meno della popolazione globale che parla
l’inglese come lingua madre.

• La barriera della censura
Forse non tutti sanno che il Patto Internazionale delle Nazioni Unite
relativo ai diritti civili e politici possiede un articolo, l’art. 19,
che enuncia un vero e proprio «diritto a comunicare». Tale diritto
resta largamente disatteso e l’ostacolo più appariscente è
rappresentato dalle restrizioni e dalle censure che sono state imposte
da diversi stati. L’organizzazione Reporters sans Frontières ha
elaborato una lista nera di paesi dichiarati «nemici di internet». Essi
si sono macchiati di gravi violazioni, per esempio stabilendo un
monopolio di stato sulla foitura di accesso alla rete, controllando i
provider privati, filtrando siti web ospitati da server stranieri,
violando la confidenzialità degli scambi privati su internet, infine
lanciando procedimenti penali contro utenti della rete.
• La barriera della multimedialità
L’ultima delle barriere è probabilmente la meno considerata e la più
insidiosa: si tratta della multimedialità. Oggi, le pagine web a cui
accediamo normalmente sono sempre più cariche di multimedialità,
rendendo le pagine internet praticamente illeggibili per molte persone,
anche nel Nord: innanzitutto per le migliaia di persone disabili, che
possono utilizzare il computer nella sola modalità testuale e che sono
costrette a interagire attraverso tastiere braille o dispositivi di
sintesi vocale. In secondo luogo per gli abitanti del Sud, che
dispongono di collegamenti internet lenti e realizzati su linee
telefoniche fatiscenti. Ricordiamo che multimedialità è sinonimo di
collegamenti veloci e costosi e che in tali paesi la velocità di
trasmissione dei dati via modem è ancora troppo bassa per utilizzare
l’audio e il video nella stessa modalità intensiva dei paesi del Nord.

PER UNA NUOVA SOBRIETÀ
Il nodo della questione non è quello di aumentare
indefinitamente la capacità delle reti di trasmissione («banda larga»)
che, essendo di proprietà dei grandi colossi multimediali, rimarranno
estremamente costose e la cui accessibilità già oggi pone seri dubbi a
coloro che si occupano di «libertà in rete». Una risposta più adeguata
dovrebbe portarci a recuperare la dimensione etica, riscoprendo una
nuova sobrietà nella comunicazione, che ci permetta di esprimere i
contenuti informativi che desideriamo senza eccedere nel traffico di
dati.
Forse la sfida tecnologica più grande è, paradossalmente, quella di
fare «marcia indietro», impegnandoci a inseguire un modello di
formazione online veramente sostenibile, caratterizzato non da un
eccesso di informazione multimediale ad alto consumo di risorse, ma da
una nuova sobrietà nella comunicazione e nell’utilizzo degli strumenti
che abbiamo a disposizione.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro