Che sia la volta buona?

Conferenza internazionale per la regione dei Grandi laghi

Burundi, ottobre 1993. Poi Rwanda e ancora le guerre del Congo. Conflitti che hanno coinvolto decine di stati e fatto milioni di vittime. Crocevia di interessi minerari, traffico di armi e milizie mercenarie. Area di frizione tra influenze (straniere) linguistiche. L’instabilità nella regione era diventata endemica. Oggi con un patto a 360° i capi di stato africani cercano di voltare pagina.

Un importante patto sulla sicurezza, stabilità e sviluppo della regione dei Grandi laghi, firmato da otto capi di stato e di governo. È il risultato del secondo summit della Conferenza internazionale per la regione dei Grandi laghi, svoltasi a Nairobi dal 13 al 16 di dicembre scorso.  Anche l’Unione Africana ha partecipato con il presidente della Commissione, Alpha Omar Konaré, mentre era presente il rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la regione dei Grandi laghi, Ibrahima Fall e quello dell’Unione europea.
È il secondo vertice ai massimi livelli organizzato per questo scopo. I responsabili sono finalmente giunti ad un accordo che, se messo in pratica, può portare ad una convivenza politica, sociale, economica e un completo accordo sul come raggiungere la meta prefissa. 

Un po’ di storia

Con due risoluzioni nel 2000 le Nazioni Unite avevano chiesto una Conferenza internazionale su pace, sicurezza, democrazia e sviluppo nei Grandi laghi. Regione, dal 1993, devastata dai conflitti (Burundi, Rwanda e infine Congo). I paesi chiamati a partecipare furono undici, a causa delle implicazioni inteazionali che avevano assunto le guerre in questa regione: oltre a Burundi, Rwanda, Congo, Uganda, Kenya e Tanzania, anche Angola, Sudan, Repubblica del Congo e Repubblica Centroafricana e Zambia. Altri sette i paesi «co-optati»: Botswana, Egitto, Etiopia, Malawi, Mozambico, Namibia e Zimbabwe. I primi incontri si erano svolti nel 2003 e il primo summit a Dar es Salaam, capitale della Tanzania, nel novembre 2004, dopo 4 anni di lavoro diplomatico.

Incidenti collaterali

Purtroppo il giorno prima della firma dei capi di governo per l’approvazione del documento finale, in Kenya si è verificata nel distretto dei Turkana un’ invasione di banditi provenienti dal distretto West Pokot, sul confine con l’ Uganda, in cui sono state massacrate 19 persone, oltre 6.500 capi di bestiame rubati, case e capanne distrutte. I banditi si sono divisi in due gruppi: uno per rubare il bestiame e condurlo nel distretto West Pokot, e l’altro difendeva i ladri a colpi di Kalashnikov. Più di venti abitanti del villaggio di Lorengipi sono in cura in diversi ospedali del distretto dei Turkana, alcuni in serie condizioni. Per un momento è sembrato che tutto dovesse crollare, che questo attentato brutale dovesse porre termine alla Conferenza, senza plausibili conclusioni, ma il presidente del Kenya, Mwai Kibaki, ha detto che se i banditi credono di fermare il progresso della Conferenza con le loro razzie e uccisioni, hanno fatto i conti sbagliati. «Nulla  – ha affermato Kibaki – fermerà questo processo di sicurezza, di pace, di progresso».
Oltre al presidente del Kenya gli altri capi di stato presenti erano: Jakaya Mrisko Kilwestern della Tanzania, Levy Mwanawasa dello Zambia, Yoweri Museveni dell’Uganda, Pierre Nkurunzia del Burundi, Joseph Kabila della Repubblica democratica del Congo, Beard Makuza,  primo Ministro del Rwanda. Il rappresentante delle Nazioni Unite, a nome del Segretario Generale  uscente Kofi Annan, ha aperto la conferenza dicendo che «la Regione dei Grandi laghi è stata vittima delle più brutali guerre civili del continente», e si è augurato che «tutti gli stati sentano questo problema come il proprio problema. Voi avete definito le priorità di questo impegno, e voi dovete trovare vie e mezzi per lavorare assieme e risolverlo». Nel messaggio Kofi Annan ha detto: «Questo accordo non è solo una visione, è un programma. Milioni di persone – donne, giovani, rifugiati, sfollati – stanno guardandovi e guardandoci e aspettano benefici concreti. Richiamo i paesi della regione a continuare a mostrare padronanza del processo».

Di cosa si è parlato

L’interesse dei capi di stato era rivolto a quattro aree di vita dei loro paesi e delle relazioni con i paesi confinanti. Si è discusso di pace e sicurezza, democrazia e buongoverno, sviluppo economico e integrazione regionale, questioni umanitarie e sociali. Nella discussione su queste quattro aree c’è stata molta correttezza e anche molta onestà. Nonostante qualche momento critico come quando i presidenti Museveni e Kabila si sono scambiati forti accuse e condanne per il loro operato nel Congo. Museveni ha accusato alcuni governi,  soprattutto quello di Kabila, di dare ospitalità e di difendere «gruppi ribelli». «Il problema di nazioni che danno ospitalità e si schierano con le milizie, deve essere discusso ora nel modo più categorico». Ha proposto un emendamento al testo del decreto finale, in cui si dichiara che «qualsiasi stato che dà ospitalità a ribelli, sia trattato come tale».

Servono soldi

Un altro punto di divergenza è stato il sostegno finanziario necessario per tutto ciò che si approva. Alcuni hanno chiesto che gli stati stessi siano totalmente obbligati a finanziare tutte le iniziative approvate, altri invece sostengono che questo sarebbe impossibile senza aiuti estei. Il presidente della Tanzania è riuscito ad armonizzare le due parti dicendo: «Il fondo monetario richiede una enorme quantità di capitali. Nutro la speranza che noi saremo i primi a contribuire sostanzialmente al fondo, anche come segno di determinazione politica. Ma, riconoscendo i nostri limiti finanziari, dobbiamo anche chiedere aiuti alle nazioni e agenzie che considerano importante questo passo, determinante per la pace e il progresso nella nostra regione».
Gli stati dei Grandi laghi s’impegnano a dar vita a un centro che promuova la democrazia nella regione e ristori la legge dell’ordine. Dovrà pure controllare che il patto approvato dai capi di stato, sia eseguito da tutti gli stati e in tutti i suoi particolari. Dovrà preparare programmi di educazione alla democrazia e alla partecipazione alla vita democratica dei loro paesi. Un’altra responsabilità del centro è quella di aiutare i governi a risolvere pacificamente le loro divergenze.
Un fondo monetario di 225 milioni di dollari è stato approvato. Lo scopo è di promuovere lo sviluppo, l’integrazione economica e ricostruire le istituzioni distrutte da anni di guerre, specialmente nel Burundi, Rwanda e Repubblica Democratica del Congo.
Tutti gli stati presenti s’impegnano a disarmare e ad espellere i gruppi di ribelli che ancora si nascondono in certe zone, e operano contro altri stati limitrofi. Il testo è molto forte e impegnativo. Dice: «Gli stati membri sono d’accordo che qualsiasi attacco contro uno o più di loro dovrebbe essere considerato come un attacco contro tutti loro. Se questo succede, ogni membro, nell’ambito della difesa individuale e collettiva, assisterà gli stati attaccati».
Gli stati del Kenya, Uganda e Sudan s’impegnano a disarmare i gruppi di pastori e nomadi delle loro aree semi-deserte.
Altri temi considerati anche se brevemente, sono stati la situazione delle donne e delle ingiustizie generalizzate e l’epidemia di Aids.
I capi di stato sono determinati a rispondere in modo responsabile per proteggere le popolazioni da genocidi, crimini di guerra, la decimazione di etnie, crimini contro l’umanità e severe violazioni dei diritti umani commessi da, o entro uno degli stati che hanno approvato l’accordo.
«La regione dei Grandi laghi ha problemi di sfollati, violenza sessuale, aids, e altre malattie sociali» ha ricordato il presidente Kibaki. Un protocollo del patto rende obbligatorio agli stati di proteggere, aiutare e cercare soluzione per gli sfollati, stimati a 9,5 milioni nella regione.
I rappresentanti della chiesa cattolica, presenti alla Conferenza, sono stati molto soddisfatti del patto approvato per la sicurezza, stabilità e sviluppo nella regione dei Grandi laghi. Secondo i vescovi presenti, l’iniziativa presa dai capi di Stato «offre una possibilità di iniziare un processo di riconciliazione che la chiesa pienamente approva». I vescovi hanno anche fatto appello alle popolazioni che nel passato hanno sperimentato guerre, ingiustizie, razzie, a  «perdonare e riconciliarsi gli uni con gli altri, nell’interesse di una pacifica convivenza».

Dopo la firma la parte più difficile

Al termine del summit, tutti i capi di stato si sono ritrovati unanimi nell’ammettere che il patto è stato un passo decisivo per la pace, il benessere e la cooperazione nella regione dei Grandi laghi. Tutto vero sulla carta ma le sfide restano enormi. Quella della messa in opera del patto, il Kenya lo sta già violando, negando l’entrata dei rifugiati somali; la sfida del contributo delle nazioni ricche al fondo per le realizzazioni; la sfida della «moralità» nella gestione di quei fondi.
«Penso sia possibile chiudere questo triste capitolo della storia della nostra regione – ha dichiarato il presidente Kikwestern – un capitolo caratterizzato da conflitti, insicurezza, instabilità politica e perdita di opportunità economiche».

di Antonio Bellagamba

Antonio Bellagamba




Caccia allo straniero

Il dramma degli «allogeni»

Tollerati durante il periodo d’oro dell’economia avoriana come manodopera nelle piantagioni di cacao, migliaia di immigrati burkinabé, maliani, togolesi, senegalesi e guineani, che da 50 anni vivono in Costa d’Avorio, oggi sono diventati «les allogènes», gli stranieri naturalizzati, e sono considerati una minaccia per le ricchezze della ormai non più ricca Costa d’Avorio.

La strada ombrosa che attraversa palmeti e piantagioni di cacao tra la città di Gagnoua e il villaggio di Sago è fatta di fango. Ogni giorno le enormi ruote dei camion che la percorrono scavano la terra, creando buche profonde che si riempiono d’acqua anche durante la stagione secca, diventando piscine infestate di zanzare. Il fango rosso è appiccicoso e non si stacca più di dosso. Ne sono pieni i pneumatici dei camioncini, delle vecchie automobili e delle biciclette che ci passano sopra, i sandali di quelli che camminano e i risvolti dei pantaloni degli uomini.
È sporco di fango anche il militare che presidia l’entrata del villaggio di Gueyo. I suoi stivali però sono nuovi e lucidi, segno questo che le coltivazioni di cacao che lo circondano portano ricchezza a tutti. Ferma i pochi turisti di passaggio per scambiare due chiacchiere e consiglia di non proseguire dopo il tramonto. «Ci sono i coupeurs de route – dice -, banditi che approfittano della cattiva condizione della strada per intrappolare e assalire chi passa».
Anche questo è un segnale di ricchezza: i commercianti che vengono a comprare il cacao girano per la foresta con in tasca moneta contante. Parecchia. «Un chilo di cacao – spiega padre Silvio Gullino con un accento ligure, rimasto intatto nonostante 20 anni di Africa – vale sui 350-400 cfa, mezzo euro. E visto che gli acquisti vengono fatti sull’ordine della tonnellata non è difficile capire quanto denaro circola in questa zona».

Ma il cacao non richiama solo i ricchi commercianti avoriani. Negli anni ha attirato decine di migliaia di lavoratori stranieri che si sono tuffati a testa bassa nelle operazioni di raccolta. Durante il periodo dello splendore economico, la Costa d’Avorio ha conosciuto un tasso di immigrazione che superava il 25% (a fronte di quello italiano del circa 3%) e, in 40 anni, è passata da 3 milioni di abitanti ai 20 milioni di oggi.
«Oltre tre quarti dei fedeli nelle cappelle intorno a Sago sono di origine burkinabé – chiarisce padre Jean Benedetti – sono venuti qui a lavorare nelle piantagioni e la foresta si è popolata di villaggi. Molti di loro lavorano per qualche anno in Costa d’Avorio e poi tornano nelle loro case d’origine, altri sono qui da molto più tempo».
Nessuno si è mai preoccupato della presenza di questi immigrati. Anzi. Finché hanno lavorato nelle piantagioni di cacao e hanno permesso all’economia avoriana di crescere a ritmi costanti erano tollerati. «Oggi le cose sono cambiate – spiega Maurizio Crivellaro di Inteational Rescue Committee -. Con la recessione economica degli anni ‘90, molti avoriani che si erano trasferiti in città per lavorare come impiegati o funzionari sono restati senza lavoro e sono tornati nei loro villaggi d’origine, trovando le terre che erano dei loro padri occupate da altre persone».
A 400 km da Sago, nel villaggio di Duékoué gli abidjanesi di ritorno hanno assalito con le armi i lavoratori di origine burkinabé che lavoravano nelle piantagioni. Il risultato è stato disastroso: a causa delle scarse conoscenze agricole gli ex impiegati hanno danneggiato le fave di cacao, facendo precipitare la produzione della zona da 3 mila tonnellate a meno di 500 l’anno.
D i fronte alla crisi politica e alla recessione, molti avoriani hanno trovato un capro espiatorio proprio in quei burkinabé e in quei maliani che prima avevano fornito parte della manodopera su cui si basava l’architettura economica del paese. «Siamo diventati les étrangers, gli stranieri – dice Idrissa Zungurane, un vecchio dioula di origine burkinabé, che ha passato più anni in Costa d’Avorio che nella sua madrepatria – perché i gueré (una delle etnie avoriane di maggioranza) sono gelosi di quello che abbiamo guadagnato onestamente con il nostro lavoro e usano le milizie per cacciarci dalle case che ci siamo costruiti. Sono razzisti».
Ma le accuse di razzismo non sembrano toccare i giovani avoriani. «Sono xenofobo: e allora?» è lo slogan che si sono fatti stampare gli studenti di Abidjan sulle magliette, quando due anni fa hanno sfilato per le strade della metropoli per la prima volta, al seguito dei Jeunes Patriotes di Charles Blé Goudé, leader delle milizie ultranazionaliste e capo indiscusso del movimento studentesco.
«La presenza straniera – grida continuamente ai suoi studenti il trentenne Blé Goudé, che sfoggia anche in piazza impeccabili completi gessati, impreziositi da cravatte colorate – è una minaccia per la purezza della razza avoriana e per tutto il paese. Cacciamo gli stranieri!». Il più citato da Blé Goudé nelle sue agorà improvvisate è il presidente «de l’Afrique digne», il rwandese Paul Kagame, l’uomo che ha saputo cacciare i francesi e gli stranieri.
«Da qualche tempo durante le riunioni dei Jeunes Patriotes – aggiunge Ehouman Kassy, corrispondente da Abidjan di Afrique Magazine – viene proiettato il documentario Touez-les tous! (ammazzateli tutti), in cui scorrono le immagini del genocidio rwandese. Secondo i leader degli studenti, tutto ciò serve per sensibilizzare la gente alle mostruosità della guerra civile, secondo altri per dimostrare ai nuovi adepti che si può compiere un massacro sotto gli occhi della comunità internazionale e delle Nazioni Unite senza preoccuparsi delle conseguenze».

A rafforzare la tesi di Kassy, il totale disorientamento dei caschi blu della Onuci (Missione Onu in Costa d’Avorio) all’inizio di gennaio, quando un gruppo non identificato di combattenti ha fatto razzia nel villaggio di Kahin, uccidendo quasi 40 persone sotto gli occhi di alcuni peacekeepers, nel bel mezzo della zona cosiddetta de confiance. «Si è trattato di un gruppo armato di burkinabé esasperati dalla situazione – dice James Copnall della Bbc – che hanno deciso di vendicarsi delle violenze subite recentemente dai militari avoriani. Da 7 anni in Costa d’Avorio si sta ripetendo la storia di Yopougon», il quartiere di Abidjan dove si è verificato il primo massacro.
Nel 2000 un gruppo di poliziotti irruppe nel quartiere di Yopougon e uccise oltre 50 dioula, i cittadini avoriani di origine burkinabé o maliana, accusati dalla radio e da tutti i giornali di essere i colpevoli della recessione economica. «Fu orribile – raccontavano i testimoni dell’ecatombe -. Per salvarci ci siamo dovuti nascondere sotto i cadaveri dei nostri familiari mentre i poliziotti continuavano a sparare».
La vendetta non tardò ad arrivare: due anni dopo, durante la guerra civile, una sessantina di gendarmi e le loro famiglie furono catturati da un gruppo di dioula ribelli e furono passati per le armi al grido di «ricordatevi di Yopougon: adesso tocca a voi».

Nella zona di Sago non si sono verificati massacri ma la situazione è molto tesa. «Nelle nostre parrocchie – dice padre Silvio – non ci sono state violenze di massa, ma ogni volta che uno dei nostri catechisti di origine burkinabé si deve spostare tra un villaggio e l’altro nella foresta, la polizia e i militari gli rendono la vita difficile: lo minacciano e gli estorcono soldi».
Sulla costa gli allogènes di etnia dioula, mossi, krumen e fante, che in passato vivevano nei villaggi della foresta nelle piantagioni di cacao, si sono riuniti in un’enorme baraccopoli alla periferia  di San Pedro «e da quando è iniziata questa guerra – dice Maurice, le cui cicatrici rituali sul volto rivelano una provenienza burkinabé – non siamo più né avoriani né stranieri. Siamo dei disoccupati».

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Si erano tanto amati

La Francia nel pantano avoriano

I francesi in Costa d’Avorio come gli americani in Iraq. Questo il senso dei titoli di alcuni siti internet, di alcuni giornali italiani e di molti giornali avoriani. In realtà il ruolo della Francia va ridimensionato: anche se la vecchia potenza coloniale ha dimostrato limiti enormi nella gestione del conflitto e le società francesi hanno cercato di difendere i loro interessi, il problema è molto più complesso.

Una piscina vuota, un tappeto spelacchiato, un’orchestra jazz che suona per pochi clienti annoiati, volti anonimi che si aggirano per il giardino d’inverno senza guardarsi attorno e un alone di tristezza che vela di grigio anche le stoffe sgargianti dei negozi di souvenir. Difficile immaginare che proprio in questo scenario, per tutti gli anni ‘80 e ‘90, sfilassero francesi eleganti e sorridenti, che si godevano le vacanze nella perla dell’Africa occidentale al culmine del suo splendore e ricchezza, racchiusa in migliaia di tonnellate di fave di cacao.
Eppure l’Hotel Ivoire, il più grande albergo dell’Africa occidentale, l’unico dei tantissimi grattacieli di Abidjan a ergersi fuori dal quartiere chic del Plateau, è stato l’emblema dell’idillio tra la Francia di Charles de Gaulle e François Mitterand e la Costa d’Avorio del presidente e padre della nazione Houphouët-Boigny.

MEMORIA RANCOROSA

Oggi, di quell’idillio da rivista patinata non rimane neppure un’immagine ingiallita e consunta: la visione dell’esercito francese che spara su una folla disarmata di manifestanti, all’indomani dello scontro tra l’aviazione avoriana e la missione francese Licoe del novembre del 2004, ha cancellato dalla memoria nazionale ogni ricordo degli anni d’oro.
Nella Costa d’Avorio del 2007, il rapporto tra avoriani e francesi è riassunto nella fotografia di un bianco che minaccia con il fucile un nero. L’esasperazione politica è dappertutto, perfino nei nomi delle salse che si accompagnano al fufù, negli slogan pubblicitari dei cellulari, nelle competizioni sportive.
Nel sud dominato dal governo del presidente Laurent Gbagbo, l’astio verso la Francia occupa una grossa parte del discorso politico. «Macché francesi – sbotta Kamsi, l’agente della polizia avoriana che presidia il posto di blocco all’entrata di Yamoussoukro, rispondendo al suo giovane collega che si informa sulla nazionalità degli europei di passaggio -. Se fossero francesi li avrei già spediti via invece di chiacchierare con loro».
«Sembra uno scherzo – aggiunge il cancelliere dell’ambasciata d’Italia ad Abidjan -, ma l’odio per i francesi è tale che la vittoria italiana ai mondiali di calcio è stata una vera manna diplomatica: abbiamo sconfitto i francesi e siamo automaticamente diventati eroi per gli abitanti della Costa d’Avorio».
L’ostilità degli avoriani nei confronti degli ex-colonizzatori, tangibile, a volte ostentata, si mescola al timore di non essere ascoltati, creduti, interpellati nelle decisioni che li riguardano da vicino. Come quella di fare la guerra. «Ditelo ai vostri amici europei, ditelo che qui non c’è nessuna guerra, che sono i francesi ad averla inventata per continuare a rubarci quello che è nostro» si raccomandano tutti gli avoriani, dai militari alla gente comune.
La campagna antifrancese della stampa pro-Gbagbo ha dato i suoi frutti e, da Abidjan a Yamoussoukro, tutta la Costa d’Avorio a sud della zona di interposizione Onu vede nell’esecutivo di Parigi un ostacolo all’apertura dell’economia ai partner inteazionali. Una forza militare di occupazione che si nasconde dietro al dito del mandato Onu per mantenere il controllo delle risorse avoriane.
Una cricca di cospiratori che muovono i fili delle marionette locali con l’appoggio di leader stranieri compiacenti e venduti, primo fra tutti il presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré. Una parte della stampa internazionale, inoltre, specialmente quella online, non risparmia alla Francia l’accusa di aver fatto della Costa d’Avorio il proprio Iraq, o il proprio Vietnam.
Thomas Hofnung, giornalista di Libération, trova la causa del divorzio tra Parigi e Abidjan in una più ampia «incapacità francese a ridefinire la sua politica verso un continente diverso da quello della decolonizzazione e in piena mutazione». Secondo Hofnung, la diplomazia francese è confusa: da una parte non se la sente di abbandonare la Costa d’Avorio al suo destino per timore di una nuova carneficina; dall’altra è rimasta a guardare senza schierarsi quando, dopo la morte del presidente Boigny nel 1993, la Costa d’Avorio si è lanciata nella spirale dell’ivoirité, dei colpi di Stato e delle «elezioni calamitose» del 2000.

LA PRESENZA MILITARE

Se la presenza militare francese sul territorio avoriano è una realtà che fin dal 1978 ha permesso al Paese degli Elefanti di non doversi preoccupare delle spese per la difesa e di dedicare le sue risorse allo sviluppo economico, l’intervento vero e proprio della Francia in Costa d’Avorio arriva solo alla fine del 2002. Il conflitto armato che segue il fallito colpo di stato ai danni di Gbagbo, tra il 18 e il 19 settembre, spacca il paese a metà, lasciando il sud nelle mani del governo e portando il nord sotto il controllo dei ribelli delle Forces Nouvelles.
È a quel punto che l’Eliseo affianca ai militari francesi già presenti sul territorio altri 4 mila soldati e lancia l’operazione Licoe. Pochi giorni dopo il mancato golpe, i militari di Parigi ricevono l’incarico di interporsi tra esercito regolare e ribelli e mettere in salvo i quasi 20 mila connazionali in Costa d’Avorio.
Ma i dubbi sull’effettivo ruolo dei francesi nella serie di colpi di stato che hanno sconvolto il paese rimangono. «È difficile credere – scrive su Le Monde Diplomatique la giornalista belga Colette Braekman – che gli onnipresenti servizi di intelligence francesi ignorassero che nei sobborghi della capitale burkinabé, Ouagadougou, dei militari avoriani stavano preparando in clandestinità un’invasione della Costa d’Avorio, reclutando espatriati avoriani del nord, ma anche combattenti burkinabé o maliani».
Se è vero che i francesi non hanno organizzato attivamente la ribellione, è altrettanto vero che non hanno fatto nulla per stroncarla sul nascere. Ovviamente la diplomazia d’oltralpe, a partire dall’allora ambasciatore ad Abidjan, Renaud Vignal, nega ogni responsabilità negli eventi e nel gennaio del 2003, a pochi mesi dal colpo di stato di settembre, il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin lancia un ciclo di trattative diplomatiche che si tengono a Linas-Marcoussis, nella periferia parigina, per dimostrare a tutti che la Francia è in grado di tenere sotto controllo la sua ex colonia.
A Marcoussis sono presenti tutti i principali attori della crisi avoriana e tutti sembrano disposti ad accettare un accordo, sintetizzato nell’ennesima road map della storia più recente. In realtà Gbagbo non si presenta: si fa rappresentare dal capo del suo partito, Pascal Affi Nguessan, con intenzioni che diventano chiare pochi giorni dopo e fanno dimenticare il sorriso soddisfatto con cui de Villepin affronta le conferenze stampa.

DALLA TENSIONE ALLO SCONTRO

Secondo l’Inteational Crisis Group, gruppo di esperti in monitoraggio del conflitto, «la mancanza di buona fede e di volontà politica hanno compromesso gli accordi di Linas-Marcoussis sul nascere». All’indomani della conferenza di pace, al grido di «a ciascuno il suo francese!», Charles Blé Goudé e i suoi Jeunes Patriotes, le milizie pro-Gbagbo, invadono le strade di Abidjan, alla notizia che i ribelli di Guillaume Soro hanno ottenuto il ministero della Difesa e quello degli Intei.
Gbagbo non deve nemmeno scomodarsi a sconfessare gli accordi. Il suo «non ero presente alle negoziazioni» è sufficiente agli occhi dei suoi sostenitori.
 L’inserimento della missione Licoe sotto l’egida dell’Onu, nel febbraio del 2003, in seguito alle pressioni francesi sul Consiglio di sicurezza, non allenta la tensione. Anzi. A fine ottobre, un poliziotto avoriano uccide di fronte a decine di testimoni Jean Hélène, corrispondente di Radio France Inteational (Rfi), freddandolo con un colpo di pistola alla testa. «Siamo in guerra e ho sparato a un nemico – dirà il sergente dopo l’arresto – non facevo nulla di male».
E non è l’unico avoriano a pensarla così, se pochi mesi dopo, nell’aprile del 2004, Abidjan viene scossa dai disordini di piazza e dagli scontri tra opposizione e Jeunes Patriotes che fanno almeno 120 morti (fonte Onu).
Quando il 4 novembre del 2004 Gbagbo decide di lanciare l’«operazione dignità», l’offensiva finale contro i ribelli, la situazione è già avviata al disastro, nonostante la Francia e le Nazioni Unite siano state informate da Gbagbo stesso delle intenzioni del governo. Pare che la sera prima dell’attacco, in una telefonata riportata da François Soudan su Jeune Afrique, Jacques Chirac abbia cercato di convincere il presidente avoriano a desistere, senza successo. «Se non lascio mano libera ai militari – dice Gbagbo – questi finiranno per rivoltarsi contro di me».
Il 4 e il 5 novembre gli aerei avoriani, due Sukhoi-25, decollano dall’aeroporto di Yamoussoukro e bombardano le aree controllate dai ribelli di fronte a 5 mila peacekeepers delle Nazioni Unite e a 4 mila uomini della Licoe che restano a guardare. Solo i caschi blu marocchini si attivano per impedire alla fanteria governativa di forzare la zone de confiance e scontrarsi direttamente con le Forces Nouvelles.
Il 6 novembre, l’aviazione avoriana però si spinge oltre: durante un’incursione su Bouaké, uno dei due Sukhoi punta sul Liceo Descartes – che ospita una caserma della Licoe – e sgancia una bomba. Il bilancio è di 9 morti tra i militari francesi, a cui si aggiunge un civile americano, impegnato in una missione umanitaria. «Ho visto i militari francesi correre dappertutto, gridare e piangere – racconta padre Gilles, della diocesi di Bouaké -; c’erano uomini a terra con ferite e ustioni, un caos generale».
La reazione francese è immediata: il generale Henri Poncet, comandante della Licoe e responsabile nel 1994 dell’evacuazione dei francesi dal Rwanda, ordina l’immediata distruzione dell’aviazione avoriana. Appena i due velivoli atterrano all’aeroporto di Yamoussoukro, partono i missili che li distruggono. Insieme al Liceo Descartes e ai due Sukhoi vanno in frantumi le relazioni cordiali tra Francia e Costa d’Avorio, al punto che Chirac non telefonerà a Gbagbo nemmeno per fargli le condoglianze per la perdita del padre.
Abidjan insorge la mattina dopo: la voce del leader dei Jeunes Patriotes, Blé Goudé, tuona in tutte le radio. «Mostrate la vostra dignità – grida agli avoriani -. Se state mangiando, fermatevi. Se state dormendo, svegliatevi. Tutti all’aeroporto, tutti alla base militare francese!». È la fine. I francesi sono diventati i cobelligeranti che hanno fomentato la guerra per continuare il pillage (saccheggio) della Costa d’Avorio. La mattina dell’8 novembre i militari francesi, che stanno seguendo le operazioni di evacuazione dei civili all’Hotel Ivoire, si trovano di fronte a una folla inferocita e reagiscono aggravando la loro posizione.
«Si sono levati in volo due elicotteri francesi – racconta un testimone italiano che vuole rimanere anonimo, ma la sua versione è suffragata da un rapporto di Amnesty Inteational – e hanno iniziato a sparare sulla folla per tenerla lontana. Ufficialmente ci sono stati 60 morti, ma io ho visto i francesi sparare migliaia di proiettili su una folla compatta di migliaia di persone e secondo me le vittime sono molte di più».

FINE DELLA FRANCIA IN AFRICA

Comunque siano andate le cose, qualunque sia il numero di morti, la fretta di seppellirli si rivela più forte del bisogno di un conteggio: a distanza di pochi giorni tutte le parti in causa, dai francesi al governo avoriano, iniziano a sgonfiare gli eventi. «La paura di un nuovo incontrollato genocidio rwandese – scrive ancora Hofnung – aleggiava nell’aria. In quei giorni la radio avoriana fu ribattezzata Radio Milles Lagunes sulla falsariga della rwandese Radio Milles Colines che incitava alla strage dei tutsi». Gbagbo stesso moltiplica gli appelli alla calma, anche se non smette di parlare di armate di occupazione e di una regia francese nei colpi di stato.
La fine ufficiale degli scontri, peraltro, non ha restituito ai francesi il loro prestigio. L’inaugurazione dell’enorme ambasciata americana ad Abidjan è forse il simbolo più evidente del passaggio di testimone. «La voglia di America degli avoriani è maggiore dell’interesse mostrato dall’amministrazione statunitense per la Costa d’Avorio – si legge nel libro di Hofnung – George Bush infatti non ha voluto scontrarsi direttamente con gli interessi francesi e non ha mai voluto ricevere Laurent Gbagbo alla Casa Bianca, ma è solo questione di tempo».
Oltre a ciò Washington ha fatto escludere il Paese degli Elefanti dall’Agoa (African Growth and Opportunity Act), che promuove gli scambi economici tra Usa e Africa, almeno fino a quando la situazione non si sarà regolarizzata.
La Francia comunque sta perdendo terreno e il rifiuto di Bush a Gbagbo viene letto più come un atto di clemenza verso Parigi che un avvicinamento tra le due potenze. «Il declino della Francia – conclude Hofnung – è legato alla fine di una generazione di politici francesi nati in Africa nel periodo coloniale e alla fine di una generazione di dinosauri africani che con la Francia facevano affari».
Le grandi aziende francesi che per anni hanno agito sul continente nero stanno registrando perdite economiche per milioni di euro e, al di là delle reali responsabilità di Parigi, molti africani sono ormai convinti che i francesi siano un manipolo di bianchi attaccati ai loro privilegi. Un nemico che ostacola lo sviluppo del continente.

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




L’alba dell’indipendenza

Genesi del dramma avoriano

Per capire la crisi avoriana è necessario ripercorrere gli eventi che hanno portato alla guerra e ai massacri degli ultimi sei anni. Un’immagine più di ogni altra descrive la fine di un’epoca di prosperità e di pace che era valsa alla Costa d’Avorio la palma di perla dell’Africa occidentale: il gotha dell’Africa francofona e la Francia che conta, in primis François Mitterand, Jacques Chirac e Valéry Giscard d’Estaing, presenziano vestiti a lutto alla cerimonia funebre di Félix Houphouët-Boigny il 7 febbraio del 1994.
Nella colossale basilica di Yamoussoukro, la San Pietro della giungla voluta dal «Vecchio» per onorare le radici cattoliche della Costa d’Avorio, accanto ai politici siedono i signori dell’economia franco-avoriana: il costruttore Martin Bouygues, l’armatore Vincent Bolloré e quel Jacques Foccart,amico di Mobutu e di tutti i dittatori degli anni ‘60, che ha fatto da eminenza grigia dei rapporti franco-africani per almeno un ventennio, organizzando colpi di stato qua e là e influenzando le politiche del continente nero.
I funerali solenni del padre della nazione, quell’Houphouët soprannominato Boigny (ariete in baoulé, la sua lingua e gruppo etnico), che gli avoriani credevano immortale, si svolsero a tre mesi dalla sua morte in un’atmosfera di fine regno: al di qua e al di là del Mediterraneo tutti sapevano che con la morte del «Vecchio» si estingueva il contratto tra francesi e avoriani che aveva fatto della prosperità senza libertà la parola d’ordine della Françafrique. Il miracolo economico avoriano basato sull’indipendenza formale, voluta più dal generale Charles De Gaulle che da Houphouët, e sull’assoluta dipendenza militare della Costa d’Avorio dalla Francia era già finito da qualche anno. Ma la morte del presidente avoriano accelerò il processo.  

Personalità complessa e sfaccettata, il presidente dell’indipendenza aveva messo il suo genio politico al servizio di un principio: tutto cambi perché nulla cambi. La scelta di fare del suo villaggio natale, la piccola Yamoussoukro in cui era nato nel 1905, la nuova capitale politica del Paese ne era stata l’ultima dimostrazione: Abidjan, infatti, continuava a rimanere il vero centro nevralgico del potere politico ed economico, sede del governo avoriano e dell’Ambasciata di Francia, mentre Yamoussoukro si riempiva di ampi viali e giganteschi palazzi vuoti.
L’ex-potenza coloniale era presente ovunque, in ogni snodo economico, in ogni ganglio politico. Ma si trattava di una presenza discreta, lontana dagli occhi dei cittadini avoriani, che vedevano invece scuole funzionanti, rete stradale in rapida espansione, ospedali efficienti e, soprattutto, aumento della produzione di cacao, che dalle mille tonnellate annue del 1920 si era attestata sulle 380 mila del 1978.
Specchio del benessere derivato dall’oro marrone, Abidjan espandeva il suo quartiere chic, il Plateau dei grattacieli in perfetto stile Manhattan. Il momento d’oro coincise con la costruzione dell’Hotel Ivoire, il più grande e lussuoso dell’Africa occidentale.  
Mentre il denaro del cacao scorreva a fiumi nelle tasche degli alti papaveri e le briciole tenevano buoni i lavoratori avoriani attirandone di stranieri, i germi della crisi futura erano già al lavoro. Nessuno si preoccupò di dotare il paese di un’industria di trasformazione o di costruire alternative economiche da mettere in campo nel caso in cui le fluttuazioni del prezzo del cacao avessero portato a periodi di recessione.
La bella meccanica concepita da Houphouët si inceppò alla fine degli anni ‘70, quando l’offerta di cacao superò per la prima volta la domanda europea, facendo precipitare i prezzi. La Costa d’Avorio entrò così nella spirale economica negativa del debito pubblico: per mantenere il tenore di vita degli avoriani il governo si mise nelle mani delle istituzioni finanziarie inteazionali, primo fra tutti il Fondo monetario internazionale, e ai loro piani di ristrutturazione economica. Le riforme colpirono i salari dei dipendenti pubblici e costrinsero l’esecutivo a vendere la rete elettrica e idrica agli amici francesi.
Nonostante gli sforzi, gli errori del Fmi e del governo avoriano resero irreversibile la crisi. Nel 1987 una serie di speculazioni finanziarie innescarono la cosiddetta guerra del cacao: il governo avoriano congelò le esportazioni delle fave per costringere i cioccolatai europei a offrire un prezzo più favorevole ad Abidjan. Non fu così: le grandi società del cacao si rivolsero al vicino Ghana e alla lontana Malesia.
Houphouët  uscì sconfitto dalla prima e unica battaglia della sua vita e milioni di fave rimasero a marcire nella foresta, lacerando il già usurato tessuto economico del paese degli elefanti. Per la prima volta, all’inizio degli anni ‘90, il padre della patria subì le contestazioni della piazza. Migliaia di persone invasero le strade di Abidjan al grido di «Houphouët  voleur, Houphouët  démission!» (ladro, vattene). Era l’inizio della fine: l’Ariete aprì alle opposizioni e si arrese alla nascita di un sistema politico multipartitico.

Il 7 dicembre 1993, arrivò così, con un largo preavviso: la stampa avoriana diede la notizia della morte del «Vecchio» senza avere un nome degno della sostituzione. Lo scialbo Henry Konan Bédié divenne presidente ad interim in virtù del suo incarico di presidente dell’assemblea Nazionale, nonostante fosse stato il primo ministro Alassane Ouattara a garantire la continuità di governo nei giorni della malattia di Houphouët. La guerra degli eredi era cominciata sulle ceneri di un’economia distrutta. Di lì a poco sarebbero emerse le tensioni etniche che avrebbero reso ingovernabile la Costa d’Avorio del xxi secolo.

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




Galleria degli «errori»

Chi è chi nel conflitto avoriano

Da una parte la coppia presidenziale degli onnipresenti Laurent e Simone Gbagbo, con la loro retorica aggressiva ma anche brillante, almeno nel caso del presidente, e le milizie armate. Dall’altra un’opposizione fatta di personaggi con antichi conti in sospeso, da cui si stacca il giovane leader dei ribelli Guillaume Soro, la cui reale volontà di uscire dalla crisi è però tutta da verificare. Galleria dei protagonisti del conflitto che da cinque anni impedisce alla Costa d’Avorio di risollevarsi dal baratro di miserie politiche ed economiche in cui è precipitata alla morte del padre della patria, Félix Houphouët-Boigny.

Laurent Koudou Gbagbo
presidente della Costa d’Avorio
dal 2000

Nulla descrive Laurent Gbagbo meglio delle sue stesse parole: «I miei avversari dicono che ho una propensione a ingannare tutti? Se io li inganno, è perché loro sono ingannabili». E ancora: «Per arrivare dove sono oggi, sono passato attraverso gli anni difficili dell’opposizione, della clandestinità, della prigione. I miei avversari, invece, non sanno aspettare il loro tuo nella storia: vogliono il potere anche quando non spetta a loro».
Pirotecnico nell’eloquio, ironico, insolente, ma anche appassionato, determinato, razionale, Laurent Gbagbo è l’animale politico per eccellenza nella Costa d’Avorio del dopo Houphouët-Boigny. Abilissimo a giocare al gatto col topo con la diplomazia francese, specialista nel negare oggi quello che ha giurato ieri; la lotta politica è il suo pane fin dai tempi in cui, insieme all’energica moglie Simone, tramava contro il regime a partito unico di Houphouët, il «Vecchio» che per quasi mezzo secolo ha regnato sulla Costa d’Avorio in un rapporto quasi simbiotico con la Francia.
Figlio di un poliziotto che aveva combattuto nell’esercito francese durante il secondo conflitto mondiale, Laurent Gbagbo nasce 62 anni fa vicino a Gagnoa, nella Costa d’Avorio occidentale, in piena cintura del cacao e area bété, una delle etnie non certo favorite dal vecchio presidente.
Storico di formazione, è già attivo negli anni dell’università come sindacalista, ispirato da «idee marxiste di tendenza maoista». Imprigionato alla fine degli anni ‘60, fonda nel 1982 il Front Populaire Ivorien (Fpi) e si autoesilia a Parigi per 6 anni, da dove continua il suo lavoro di opposizione a Houphouët e l’elaborazione del suo programma politico. Rientra ad Abidjan nel 1988 e nel 1990 è l’unico sfidante del Vecchio alle elezioni, dove ottiene il 18% dei voti.

Nel 1992 è al governo Alassane Ouattara, scelto da Houphouët per mettere ordine, nei conti e non solo. Le leggi anti-sommossa promulgate dal premier porteranno Gbagbo in carcere per altri 6 mesi.
Nel 2000, dopo la morte del Vecchio e dopo il colpo di stato del generale Robert Gueï, si ricandida alle elezioni presidenziali: i requisiti per candidarsi, tutti incentrati sul concetto di ivoirité, sono talmente restrittivi che Gbagbo è l’unico avversario di Gueï. A sorpresa vince le elezioni, ma rifiuta di rimettere in palio il titolo includendo anche i candidati che la clausola di ivoirité aveva escluso.
Il conflitto avoriano, secondo Gbagbo, si riassume in poche parole: si tratta di una guerra di successione, iniziata dagli eredi di Houphouët, Alassane Ouattara e Henri Konan Bédié, una guerra nella quale i francesi non hanno saputo stare al loro posto. Cioè fuori.

Acclamato dai suoi come il patriota che può portare a termine la seconda decolonizzazione e la completa liberazione dalla tutela della Francia, i suoi detrattori lo dipingono come il despota che controlla veri e propri squadroni della morte e che si è abbandonato al fanatismo religioso, dopo che la moglie lo ha convinto ad avvicinarsi alla sètta evangelica americana Inteational Church of the Foursquare Gospel.
Quel che è certo è che Gbagbo non ha nessuna intenzione di abbandonare il potere: attaccandosi strenuamente alle prerogative presidenziali garantite dalla Costituzione, ha più volte ostacolato il lavoro del primo ministro Charles Konan Banny, scelto dai mediatori africani e dalle Nazioni Unite per portare la Costa d’Avorio fuori dalla crisi. D’altronde Gbagbo ha tutto l’interesse a coltivare questa situazione di stallo: finché resta alla presidenza, la comunità internazionale non può attivare contro di lui le procedure che lo porterebbero davanti al Tribunale penale internazionale, dove dovrebbe rispondere delle sue ambiguità nel gestire la violenza organizzata, appannaggio dei Jeunes Patriotes, che lascia a briglia sciolta – o addirittura fomenta – contro le opposizioni e gli stranieri.

Simone Ehivet Gbagbo
moglie di Gbagbo
e first lady della Costa d’Avorio

Niente asili, orfanotrofi e tagli di nastri: la first lady avoriana Simone Ehivet Gbagbo non ha tempo per queste cose da moglie del presidente. Di etnia akan, discendente di una famiglia reale, non si veste all’occidentale, preferendo i tessuti e tagli avoriani, e non si interessa di diplomazia. Anzi, la detesta, se è vero che ha liquidato gli avversari di suo marito con espressioni decisamente non tenere: «Henri Konan Bédié? Un idiota. Guillaume Soro? Un giovane manipolato e sotto pressione. Alassane Ouattara? Uno straniero».
E nemmeno a suo marito risparmia critiche, frecciate e aut-aut: durante le negoziazioni degli accordi di Marcoussis, la first lady dichiarò: «Se i nostri uomini vanno a Parigi per prendere decisioni che non ci soddisfano, al loro rientro non ci troveranno nel loro letto».

Classe 1949, figlia di un gendarme, perde la madre alla nascita e si trova rimbalzata da un angolo all’altro della Costa d’Avorio, insieme ai suoi 18 fratelli e sorelle. Appassionata di politica fin dal collège, è durante gli studi in Letteratura all’università di Abidjan che inizia la sua militanza: aderisce alla sezione femminile del movimento studentesco cattolico, rimane affascinata dalle tesi marxiste e dalla loro riedizione in chiave africana nei pensieri di Patrice Lumumba e Kwame Nkrumah.
Nel 1972, sotto lo pseudonimo di «Adèle», aderisce al movimento clandestino che si trasformerà nel Front Populaire Ivorien  (Fpi). Qui incontra «Petit Frère», nome di battaglia di un giovane professore di storia, Laurent Gbagbo, che diventa suo marito. Con lui condivide le lotte politiche contro il regime di Houphouët-Boigny, la prigione e, dal 2000, anche il potere.
Eletta deputata del Fpi nella circoscrizione di Abobo, quartiere povero di Abidjan, la sua propaganda è intrisa di elementi religiosi: da quando è diventata seguace della sètta evangelica Shekinah Glory Memories (Church of the Foursquare Gospel), guidata in Costa d’Avorio da Moïse Koré, pare che la first lady passi molto tempo a leggere la bibbia e digiuni spesso.
Ma i richiami a Dio e i discorsi dai toni quasi messianici non l’hanno tenuta lontana dalle pesanti accuse mosse tra gli altri da Onu e Radio France Inteational. La moglie del presidente sarebbe implicata nello scandalo dei rifiuti tossici scaricati qualche mese fa ad Abidjan e il suo entourage controllerebbe da presso gli squadroni della morte e i Jeunes Patriotes di Charles Blé Goudé. Sembrerebbe quasi che alla lady di ferro avoriana spetti la parte di lavoro sporco che Gbagbo non può permettersi di fare in prima persona.

Henri Konan Bédié
il delfino di Houphouët

Definito «personaggio scialbo» da Le Monde Diplomatique, Henri Konan Bédié è l’erede designato del padre della nazione Houphouët-Boigny. Muove i primi passi della carriera politica all’ombra del Vecchio, che gli spiana la strada e lo mette al riparo dagli scandali e accuse di corruzione. Dopo gli studi di economia è nominato ambasciatore negli Stati Uniti dal 1961 al 1966, ministro delle Finanze di Abidjan dal 1966 al 1977 e presidente dell’Assemblea nazionale dal 1980 al 1993.
Settantatreenne, originario del centro paese, di etnia baoulé come Houphouët, Bédié diventa presidente della Costa d’Avorio ad interim alla morte del suo predecessore, sopraggiunta nel dicembre del 1993.

Appena un anno dopo il suo insediamento fa indispettire Parigi, decidendo di concedere ai giganti americani Cargill e Adm alcuni contratti di esportazione del cacao, senza consultare le multinazionali francesi. Ma il suo nome è legato soprattutto all’introduzione della clausola dell’ivoirité nella competizione elettorale.
Dopo aver dichiarato, nel maggio 1994, «non ritireremo mai il diritto di voto a persone che votano in questo paese fin dal 1945», cede subito alla tentazione di eliminare con un solo colpo di spugna il suo più temibile avversario politico, Alassane Ouattara, l’ex primo ministro avoriano accusato di essere in realtà un burkinabé. Incarica dunque una commissione di intellettuali di definire il concetto di «ivoirité» attraverso il quale stabilire chi è avoriano e chi no, di conseguenza, chi ha diritto a far parte dell’elettorato attivo e passivo.

Messo così fuori gioco Ouattara, Bédié viene eletto con il 96% dei voti in uno scrutinio elettorale boicottato da tutta l’opposizione. Il suo mandato si caratterizza per la corruzione dilagante, nepotismo e incapacità di uscire dalla crisi economica, cominciata già alla fine degli anni ‘80 sull’onda del crollo del prezzo del cacao.
Nel dicembre del 1999, il colpo di stato del generale Robert Gueï mette fine alla presidenza di Bédié e apre le porte a Laurent Gbagbo.
In esilio in Francia fino al 2001, Bédié rientra per prendere parte al Forum di riconciliazione nazionale. È attualmente il presidente del partito fondato da Houphouët, il Pdci.

Alassane Ouattara
il grande escluso

«Uomo distinto e cortese, dai modi lenti, ma dall’intelligenza viva» per il giornalista di Libération T. Hofnung, «creatura satanica» per l’entourage di Gbagbo, Alassane Dramane Ouattara ha tutti i tratti del tecnocrate razionale e posato.
Ado, come lo chiamano i suoi sostenitori, non infiamma le folle, non ingaggia duelli politici o gare retoriche. Fa conti. Nel gennaio 2006, in occasione del suo rientro in Costa d’Avorio dopo tre anni di esilio in Francia, sbriga in due parole la parte toccante del suo discorso e va dritto al punto: «Vorrei dire ai giovani che i momenti difficili sono davanti a noi. Dal momento che la situazione economica è difficile, come economista direi addirittura catastrofica, vorrei dire loro che è questa la nostra priorità e che la pace ci aiuterà a uscire rapidamente dalla crisi economica».
Nato 65 anni fa a Kong, nel nord della Costa d’Avorio, musulmano, Ado studia economia negli Stati Uniti e inizia una brillante carriera che lo porta al Fondo monetario internazionale come economista e alla Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale (Bceao) come governatore.
Nel 1990 Félix Boigny lo richiama in Costa d’Avorio per mettere ordine nei conti avoriani, estremamente provati da un corso sfavorevole del cacao e da anni di corruzione imperante. Divenuto primo ministro, si trova fuori dal gioco politico poco dopo la morte del Vecchio, quando il suo principale avversario Konan Bédié fa approvare la clausola di ivoirité: Ado, che nel frattempo ha accettato l’incarico di vicedirettore generale al Fondo monetario internazionale, è nato in Costa d’Avorio, ma è titolare di un passaporto burkinabé. Per questo non può candidarsi alle elezioni.
La sua temporanea alleanza con quel Gbagbo, che tre anni prima aveva fatto arrestare, non sposta minimamente le sorti del voto, e Konan Bédiè è eletto presidente.

La sua nazionalità avoriana è riconosciuta solo nel 2001 dal Forum di riconciliazione nazionale, voluto dal presidente Gbagbo, che però rifiuta di metter in pratica le decisioni prese durante lo stesso Forum.
Oggi però, Ado, alla testa del Rassemblement des Rèpublicains, può esibire la sua carta d’identità avoriana e affermare: «Sono un figlio di Kong e ne sono orgoglioso. Le carte d’identità dei miei genitori sono disponibili e non sono state fatte ieri. Tutti le conoscono perché sono state pubblicate». Ma per Ado la strada è ancora tutta in salita.

Guillaume Soro
il capo dei ribelli

Il suo nome in lingua senoufo significa «invincibile», come spiega con un sorriso malizioso al corrispondente della Bbc. Guillaume Kigbafori Soro, 32 anni, orfano di entrambi i genitori, originario del nord della Costa d’Avorio, non ha bisogno di trovarsi un nome di battaglia come fanno i suoi uomini, i ribelli delle Forces Nouvelles. Sul campo di battaglia non c’è probabilmente mai stato, ma delle lotte politiche, nonostante la sua giovane età, è già un veterano.
Comincia con la militanza come capo della Federazione degli studenti avoriani (Fesci), che gli procura numerosi soggiorni in carcere durante la presidenza Bédié, ogni volta che una manifestazione degenera in disordini e scontri con la polizia.
Dopo aver lasciato il paese per continuare gli studi in Francia e in Inghilterra, riappare in Costa d’Avorio all’indomani del colpo di stato di Robert Gueï e tra il 1999 e il 2000 per cercare un’intesa con la giunta militare e lanciare un’operazione «mani pulite».

Ma il «Che» avoriano, come lo chiamano i suoi compagni del movimento studentesco, divorzia presto da Gueï e si rivolge al Rdr di Alassane Ouattara, con cui ha in comune tra l’altro la provenienza geografica. Nei giorni dell’ivoirité e dell’estromissione di Ouattara dalla competizione elettorale, condanna pubblicamente la campagna xenofoba, messa in atto contro le etnie del nord e gli stranieri, e sparisce di nuovo dalla scena avoriana.
Riappare nell’ottobre del 2002, un mese dopo lo scoppio della ribellione e la divisione del paese. Noto ora come «il generale» o «dottor Koumba», Soro si presenta come capo del Mouvement patriotique de Côte d’Ivoire (Mpci), che rappresenta le Forces Nouvelles e altri gruppi ribelli armati (ad esempio il Mpigo, movimento nato a ovest da combattenti liberiani).
La sua opposizione a Gbagbo non potrebbe essere più netta. È passato molto tempo da quando il giovane Soro, affascinato dal socialista Gbagbo, vedeva in lui il leader in grado di permettere agli avoriani di «non nascere e morire sotto il governo di Houphouët».
Nemmeno la comunità internazionale è al riparo dalle sue critiche. «Non ci si mette tra due litiganti – dice il giovane leader – se non si ha abbastanza forza per separarli».
Guillaume Soro, come Simone Gbagbo e Charles Blé Goudé, figura sulla lista nera delle Nazioni Unite per le violazioni dei diritti umani in Costa d’Avorio: il segretario generale delle Forces Nouvelles sarebbe colpevole di aver avallato le esecuzioni sommarie compiute dai ribelli. Ma, osservano molti commentatori, la sua è l’unica faccia nuova in un panorama politico popolato da dinosauri: se si andasse a elezioni questo potrebbe rivelarsi un vantaggio non da poco.
Dopo essersi visto attribuire il ministero degli Intei e della Difesa, un rimpasto di governo lo ha nominato ministro delle Comunicazioni nell’esecutivo di transizione guidato da Charles Konan Banny.

Charles Blé Goudé
il capo dei Jeunes Patriotes

«L’esercito francese? Saccheggia, stupra, uccide. Occupa il nostro Paese come la Germania faceva con la Francia». Questa dichiarazione è una delle più pacate tra quelle rilasciate da Charles Blé Goudé, il leader del movimento nazionalista dei Jeunes Patriotes. Succeduto al coetaneo Guillaume Soro alla testa della Federazione degli studenti (Fesci), Blé Goudé studia inglese all’università di Cocody, nella capitale avoriana, e frequenta un master in prevenzione e gestione del conflitto a Manchester.
Blé Goudé è il braccio propagandistico e armato di Gbagbo nelle strade di Abidjan: il suo appoggio attivo alla repressione delle manifestazioni in favore degli accordi di Marcoussis, nel marzo 2004, contribuirà al bilancio finale di centoventi morti e venti dispersi.
All’indomani dello scontro tra esercito avoriano e militari della Licoe, nel novembre dello stesso anno, sarà lui a incitare la folla inferocita a occupare l’aeroporto al grido di «a ciascuno il suo francese». Grande ammiratore del presidente rwandese Paul Kagame per i suoi continui attacchi frontali al ruolo della Francia in Africa, Blé Goudé è noto per le dichiarate posizioni razziste, riprese anche nel suo libro La mia parte di verità, di recente pubblicazione.

Charles Konan Banny
il premier di Mbeki e Obasanjo

Sessantaquattro anni di vita consacrata alle istituzioni economiche e finanziarie e l’appartenenza all’etnia baoulé di Houphouët-Boigny sono i tratti salienti della carta d’identità di Charles Konan Banny, l’attuale primo ministro avoriano.
Scelto nel dicembre 2005 dal duo di mediatori incaricati dall’Onu – il presidente sudafricano Thabo Mbeki e quello nigeriano Olusegun Obasanjo – l’ex governatore della Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale (Bceao) non è per ora riuscito a raggiungere l’obiettivo primario del suo incarico: quello di organizzare le elezioni presidenziali in Costa d’Avorio.
Lo scrutinio elettorale previsto per l’ottobre 2006 è stato rimandato di un altro anno, mentre Konan Banny si è visto colpito da velate accuse di connivenza con Gbagbo. Altre questioni spinose che si trova per le mani sono il mancato disarmo dei ribelli e le difficoltà nel regolare il funzionamento delle audiences foraines, i tribunali itineranti che hanno il compito di verificare l’effettivo numero di avoriani, e quindi di elettori, presenti sul suolo nazionale.

Di Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




I coccodrilli della palude avoriana

I camion e gli autobus che percorrono la strada che da Bouaké va a Yamoussoukro rallentano all’improvviso. Sul ponte di Minabo la strada si restringe fino a ridursi a un’unica corsia. Dietro a qualche sacco di sabbia e a un cingolato bianco, un paio di soldati delle Nazioni Unite osservano il passaggio dei veicoli nella zona di confiance, l’area controllata dai caschi blu.
Poco dopo sono i militari avoriani a intimare l’alt. È la dogana che separa la zona controllata dai ribelli da quella in mano alle forze del governo.
A qualche metro di distanza, una donna litiga con un soldato. Gesticola, si agita e pesta i piedi. Il nodo del pagne, il fazzoletto rettangolare che le fa da copricapo, è sfatto, la sua t-shirt sgualcita, ma lei non cede. Per nessun motivo permetterà al militare di perquisire la grossa borsa di tela che stringe tra le mani. Sono i suoi effetti personali, qualche rotolo di franchi Cfa, tutto il denaro che ha a disposizione per il viaggio, e ha paura che le venga sequestrato.
Dietro di lei i gbaka, i camioncini a diciotto posti che attraversano il paese, sono pieni di gente esasperata per i continui controlli della polizia e le estenuanti attese.
Dopo alcune ore un ufficiale con il berretto rosso e lo stemma dei paracadutisti sblocca la situazione: dice qualcosa all’autista di un gbaka e velocemente una mazzetta di banconote cambia padrone. Un ordine secco e il traffico riprende a muoversi.
Non è così per il resto del paese, bloccato ormai da cinque anni da una guerra civile che non sembra avere soluzioni. «È una situazione di ni paix ni guerre – dice padre Martino Bonazzetti della Società dei missionari d’Africa – non c’è pace, ma non si può parlare di guerra».
Gli scontri armati sono limitati alla regione occidentale, ma l’odio negli animi degli avoriani è rimasto immutato e ha traslocato dal campo di battaglia alle piazze di Abidjan, dove ogni settimana si verificano incidenti tra i manifestanti e la polizia.

Nessuno dei protagonisti della crisi sembra interessato a uscire dalla situazione di stallo. Nel nord i ribelli hanno organizzato commerci illegali di cotone e armi con il Mali e il Burkina Faso e non cessano di vessare la popolazione con continue esazioni di denaro; a sud gli alti papaveri del governo avoriano controllano gran parte dell’esportazione del cacao e i profitti delle aziende a partecipazione statale.
«Di fatto – scrive il giornalista di Liberation, Thomas Hofnung, nel suo La Crise en Cote d’Ivoire – la Costa d’Avorio è prigioniera degli interessi di tutti quelli che traggono vantaggi diretti e indiretti dall’agonia del “Paese degli elefanti”. A soffrire rimangono solo i cittadini ordinari».
A fine dicembre il presidente Laurent Gbagbo è apparso alla televisione di stato avoriana proponendo una road map alternativa a quella voluta dalle Nazioni Unite e dalle forze ribelli per uscire rapidamente dalla crisi. «Un programma in cinque punti che non sarà mai accettato dalle opposizioni – ipotizza in via confidenziale il responsabile di una grande Ong internazionale – e che permetterà a tutti di continuare il gioco delle reciproche accuse, mantenendo lo stallo».
Quello che è certo è che la retorica di Gbagbo ha convinto i militari e la polizia. «La nostra fiducia nel presidente non è cieca e incondizionata – sbotta il doganiere avoriano al posto di blocco tra Sassandra e San Pedro, sulla costa oceanica -, ma se non lo lasciano lavorare non saremo mai in grado di giudicarlo. Non abbiamo bisogno di una tutela internazionale, non abbiamo bisogno dei militari francesi, delle Nazioni Unite e dei caschi blu. Se Gbagbo non fa il suo dovere saremmo noi avoriani a scegliere qualcun altro alle prossime elezioni».

Senza saperlo, il doganiere tocca il punto dolente dell’impianto della crisi: anche se i sondaggi condotti dall’Onuci (Missione Onu in Costa d’Avorio) hanno confermato che l’attuale presidente è molto più amato di quanto lo siano i suoi avversari Alassane Ouattara, Henri Konan Bédié e Guillaume Soro; la sua rielezione rimane un’incognita.
Nel 2000, infatti, Gbagbo vinse grazie all’esclusione dal voto delle migliaia di immigrati burkinabé, maliani e guineani che negli anni erano stati naturalizzati avoriani e che per i calcoli dei predecessori di Gbagbo erano stati esclusi dalle liste elettorali.
Nel 1995, alla vigilia delle prime elezioni presidenziali multipartitiche, l’attuale candidato dell’opposizione ed ex presidente, Henry Konan Bédié, introdusse una legge che dava il diritto a candidarsi alla presidenza solo a chi avesse risieduto in Costa d’Avorio per almeno i precedenti cinque anni e avesse entrambi i genitori avoriani.
«La legge non mirava a togliere il voto agli stranieri che erano in Costa d’Avorio da più di 50 anni – sottolinea Hofnung -, ma aveva l’obiettivo di eliminare gli avversari di Bédié, in quanto l’allora candidato presidente Alassane Ouattara era detentore di un passaporto burkinabé».
Le conseguenze sull’elettorato, però, sono state immediate e sono una delle cause mai affrontate della crisi avoriana. Gli esclusi dal voto del 2000, almeno nei timori di Gbagbo, si aggiungerebbero oggi agli elettori favorevoli all’opposizione, non dimentichi che le milizie del presidente si sono a più riprese rese responsabili di atti di violenza contro gli stranieri.
Per questo, la presidenza ha ostacolato con ogni mezzo il regolare svolgimento delle cosiddette audiences foraines, durante le quali piccoli tribunali itineranti dovrebbero raccogliere i dati anagrafici degli abitanti dei villaggi per stabilire chi è avoriano e chi straniero.
Ma anche in questo caso, la diffidenza tra governo e ribelli ha congelato le operazioni. L’inizio delle audiences foraines si è scontrato con enormi problemi logistici e con le contestazioni spesso violente dei sostenitori di Gbagbo. Secondo questi, le condizioni in cui si dovrebbero svolgere le operazioni di riconoscimento dei quasi 3 milioni e mezzo di sans papiers non garantiscono l’assenza di frodi massicce. «Un gruppo di giudici, che va a raccogliere i dati dei contadini nei villaggi più sperduti con i mitra delle Forces nouvelles puntati alla tempia, non può essere obiettivo – dice uno dei tanti poliziotti ai posti di blocco nel sud del paese -. È necessario che i ribelli consegnino le armi prima di fare il censimento».
In realtà, secondo le informazioni dell’Inteational Crisis Group, le forze ribelli non hanno per nulla ostacolato o viziato le operazioni di riconoscimento. Quello che hanno fatto è stato invece rifiutare di disarmarsi fino al completamento delle audiences foraines.

Si è creata così una impasse: la contrapposizione tra la presidenza e i ribelli ha minato la già debole autorità del primo ministro della transizione Charles Konan Banny, che è diventato la principale vittima dei giochi di potere e ha deluso le aspettative degli avoriani che avevano intravisto una via d’uscita dalla crisi.
Nemmeno lo scandalo del traffico di rifiuti tossici che, nell’autunno del 2006, aveva costretto alcuni alti funzionari e ministri alle dimissioni è servito a dare una spallata decisiva al potere di Gbagbo, complice la poca incisività dei suoi oppositori. L’impressione è che Ouattara e Bédié preferiscano aspettare che il potere sia loro servito su un piatto d’argento dalla comunità internazionale, piuttosto che lanciarsi nell’agone politico contro i coniugi Gbagbo.

Lontano dai palazzi del potere, le razzie nei villaggi sono all’ordine del giorno tra Man e Guiglo, che si sono guadagnati l’appellativo mediatico di selvaggio west.
Ancora più preoccupante la voce che i mercenari liberiani del Model (Movimento per la democrazia in Liberia) sarebbero pronti a restituire il favore a Gbagbo, che li aveva ospitati sul territorio avoriano mentre organizzavano la loro resistenza contro il presidente del genocidio liberiano, Charles Taylor. «Questi miliziani – afferma Ehouman Kassy di Africa Magazine – si troverebbero in una piantagione vicina alla frontiera e aspetterebbero solo un cenno del presidente avoriano per attaccare i ribelli».
La paralisi ha fatto degenerare il tessuto sociale avoriano: i frequenti posti di blocco e le esazioni da una parte e dall’altra della zone de confiance hanno indotto un aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Il pane ha subito nell’ultimo anno un aumento del 30%, per metà  imputabile ai continui taglieggiamenti da parte delle forze dell’ordine.
Tutto è diventato a pagamento, comprese le ricette mediche e, se i funzionari pubblici almeno continuano a ricevere gli stipendi, la corruzione ha invaso tutti i livelli dell’amministrazione.
«Diventare commissario di polizia costa 3 milioni di franchi Cfa in mazzette – spiega Jean Claude, giovane studente di giurisprudenza, oggi arruolato nelle file dell’esercito avoriano -. Molte famiglie si indebitano per fare entrare i figli all’accademia di polizia sapendo che una volta riusciti nel concorso si faranno a loro volta rimborsare con nuove tangenti».

Di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




La parabola del «figliol prodigo» (8)

Il padre spezza la sua vita tra i due figli

L a parabola del figliol prodigo si divide in due parti: a) vv. 12-24: il figlio minore; b) vv. 12-25: il figlio maggiore. Il padre è il peo attorno a cui ruotano tutti e due, anche a loro insaputa. Molti sarebbero i modi di accostarci al testo, scegliamo quello lineare, seguendo l’ordine dei versetti come proposti da Lc.

1a parte: il figlio «più giovane» (vv. 12-24)
Dividiamo questa prima parte che si compone di 13 versetti in 6 piccoli frammenti letterari, così sintetizzati:
1) vv. 11-15: morte come distacco     ovvero rifiuto della famiglia
2) vv. 16-17: morte come condizione    ovvero mancanza della famiglia
3) vv. 18-19: coscienza della morte     ovvero desiderio della famiglia
4) vv. 20-21: decisione contro la morte     ovvero famiglia come progetto
5) vv. 22-23: morte sconfitta     ovvero rinascita nella famiglia
6) vv. 23-24: morte trasformata in vita     ovvero famiglia in festa
Di ogni unità riporteremo il testo integrale nella versione della Cei; ma nel commento seguiremo il testo originario greco e, quando sarà necessario suggeriremo, una traduzione quasi letterale che ci permetta di fare un confronto, ma anche di andare più a fondo, con lo scopo di alimentare in noi il desiderio di «ruminare» la scrittura, che non si esaurisce in un solo significato.
Di questa parabola, che costituisce «il vangelo del vangelo», con l’aiuto dello Spirito cercheremo di assaporare parola per parola, cercando di sentirne la dolcezza come il profeta Ezechiele dopo avere mangiato il rotolo della parola di Dio: «Mangiai e accadde che nella mia bocca fu dolce come il miele» (Ez 3,3).

V. 11b: «Un uomo aveva due figli»
Nel numero di febbraio di MC abbiamo iniziato a commentare la 1a parte del 1° versetto della parabola lucana (v.11a) «E disse», che ci ha permesso di mettere in evidenza in modo particolare l’importanza della «Parola» in sé nel contesto dell’anonimato delle persone protagoniste della parabola: «Un uomo aveva due figli» (v. 11b). Di questa espressione avevamo già anticipato sia l’anonimato che la struttura circolare, dandone anche lo schema circolare o a chiasmo che riprendiamo.
L’espressione generica, infatti, ci lascia così stupiti da pensare che sia una scelta consapevole dell’evangelista per darci un messaggio particolare. L’indicazione lucana non descrive una relazione affettiva, ma evidenzia una contrapposizione d’interessi. Riprendiamo lo schema osservando la posizione dei singoli termini:
 L’uomo anonimo, solo dopo l’intervento dei figli acquisisce la dimensione esistenziale di padre. Nessuno è chi è per se stesso, senza rapporto a un altro. La nostra identità dipende dalla relazione costitutiva del nostro essere.
L’immobilità del possesso del verbo «aveva» si rapporta alla dinamicità del verbo «disse», che movimenta il cammino del figlio verso il padre. Il nucleo centrale di questa breve frase di presentazione è dominato dalla presenza, anch’essa anonima, dei due figli, di cui uno resta sullo sfondo (assente-presente incluso nei due figli), mentre immediatamente entra in scena «il più giovane».
Luca è unico nel NT a usare l’espressione «ànthropos tis» che si può tradurre con «un uomo», ma anche e forse meglio in senso più indefinito «un tale», perché fa riferimento al genere umano indistinto (cf 10,30; 12,16; 14,2.16; 15,11; 16,1; 19,12; 20,9; At 9,33).
In greco esiste un’altra espressione più individualizzante e precisa: «anêr tis – un uomo» (Lc 8,27; At 5,1; 8,9; 10,1; 13,6; 16,9; 17,5;25,14) oppure «tis anêr» (At 3,2; 14,8; 17,34), che Lc usa da ottimo conoscitore della lingua greca. Questa seconda espressione, pur anonima, mette in evidenza la caratteristica sessuata dell’uomo, come dirimpettaio della donna e sarebbe stata più idonea a definire un padre. Lc preferisce la prima alla seconda forma, più logica, forse perché la riceve da una fonte precedente, che vuole fare risaltare, attraverso l’anonimato estremo, la vera ricchezza di quest’uomo: non è definito da sé, ma è identificato subito dopo dai due figli: egli è padre.

Il padre crocifisso tra due figli-ladroni
Quale ne è il senso? Solo nel versetto successivo (v. 12) quest’uomo è definito «padre» in rapporto al figlio «più giovane»: i figli definiscono se stessi in rapporto al «padre», perché senza di lui essi non esistono. Un padre/madre senza il riconoscimento della loro pateità/mateità da parte dei figli restano anonimi: «un tale». Figlio e padre esistono solo nella relazione. Il padre «aveva due figli», ma resta «un tale», senza nome: un innominato perché i due figli non hanno un padre.
Possiamo intuire che quest’uomo è «già» morto prima ancora che inizi la storia: immediatamente infatti siamo immessi in una storia di morte e di morti. I figli sono morti al padre e il padre è morto per i figli. Il padre è «crocifisso» con i due figli che lo sorvegliano, ciascuno da un lato, ma ambedue assetati della morte del padre.
Il minore lo uccide anzitempo per appropriarsi dell’eredità prima della morte del padre: «Dammi la parte del patrimonio che mi spetta» (v. 12). È come se dicesse: «Tu per me sei morto».
Il maggiore non è da meno, perché mette il padre sotto processo e lo giudica con una severità veemente, condannandolo inesorabilmente senza appello: «Egli s’indignò… tu non mi hai dato… questo tuo figlio» (vv. 28. 30).
Si potrebbe intitolare questa prima parte della parabola come «la parabola della morte preventiva». Quale tragedia per questo «uomo», che in un attimo apre gli occhi e si sveglia da un sogno per prendere coscienza di avere fallito tutto nella sua vita che ha dedicato ai suoi due figli, i quali ora gli negano la sua stessa «natura»: i figli hanno il potere di trasformare il «padre» in «un tale».

Nota. In Oriente, al tempo di Gesù (il costume esiste ancora oggi presso i palestinesi) quando nasce un figlio, sia il padre che la madre perdono il nome proprio per acquistare quello della pateità/mateità. Facciamo l’esempio di Gesù. Il padre legale, Giuseppe, e la madre, Maria, mantengono i loro nomi fino alla nascita del figlio e per tutti sono Giuseppe e Maria. Dal momento della nascita del figlio maschio (che eredita non solo i beni, ma anche il nome e quindi il casato), Giuseppe diventa per tutti «il padre di Gesù» (‘ab Jehoshuà; in arabo: abù Issàh) e Maria perde il suo nome proprio e diventa per tutta la vita «la madre di Gesù» (‘em Jehoshuà; in arabo: ummùn Issàh: Gv 2,1.3; 19,25; At 1,14). Il figlio determina la natura e la funzione del padre e della madre.
Vale anche il contrario: di norma i figli non vengono chiamati con il nome personale, ma con il nome che indica la relazione generativa, per cui Gesù non è il «figlio di Giuseppe» (Lc 3,23; 4,22; Gv 1,45; 6,42) oppure «il figlio di Maria» (Mc 6,3).
 
L’anonimato estremo della parabola mette in risalto in modo drammatico la tragedia di questo padre: «aveva» solo due figli, che erano tutta la sua vita e la sua ricchezza; ha vissuto per loro credendo di essere una vita donata. Un istante e tutto crolla; senza identità, senza funzione, senza più figli: una pateità strozzata, vilipesa e uccisa.
È il sentimento comune a tanti padri e madri che davanti all’autonomia dei figli, che prendono strade diverse da quelle che essi vorrebbero, si abbandonano allo sconforto e pensano di avere fallito tutto nella loro vita o di non essere stati capaci di trasmettere ai figli quel bagaglio necessario ad affrontare il viaggio dell’esistenza, mentre i figli pretendono il diritto di sbagliare da soli, attraverso le loro esperienze.
A questi padri e madri, piombati nell’anonimato della sterilità non resta che assumere questo stato innaturale e trasformarlo in un punto di forza, come fa il padre della parabola lucana: è un padre negato che non nega né rinnega i suoi figli. I figli lo uccidono lasciandolo ancora respirare, ma egli non rinuncia alla sua pateità generativa e continua ad amarli perché a un padre e a una madre nessuno può impedire di amare e continuare a generare i figli, anche contro la loro volontà, anche se non ne sono coscienti. Un figlio può rinnegare il padre; il padre non può rinnegare mai il figlio: padre e madre «sono condannati» a partorire i figli sempre. In questo contesto si capisce e si spiega l’espressione che tante volte abbiamo richiamato: «Dio è giusto perché salva, perché perdona».

V. 12b-c: 12bPadre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. 12cIl padre divise tra loro le sostanze
Il vocativo «padre» farebbe supporre un grado d’intimità confidenziale, invece mette ancor più in evidenza lo stridore tra questa parola pregna di affetto e la richiesta del figlio, che si rivolge al padre con un imperativo. Lc usa l’imperativo aoristo (dòs – dammi), che in greco esprime un comando che deve essere eseguito una sola volta, per cui potremmo tradurre: «dammi una volta per tutte/una buona volta» oppure «dammi definitivamente».
Usando il verbo in questo tempo il figlio vuole chiudere la partita col padre una volta per sempre, segno che la sua richiesta è frutto di una lunga gestazione e macchinazione. Forse da molto tempo fa le prove, ma non ha mai trovato il coraggio di affrontare il padre, mentre ora entra nella logica della rottura definitiva e quindi della lacerazione: «Padre, dammi…» nel senso di «facciamo i conti». Lo circuisce con una finta affettività (padre) per assestargli il colpo di grazia senza scampo (dammi).
Già nella quarta parola di libertà della Toràh (comandamento), Dio aveva scritto sulla pietra che una condizione per accedere all’alleanza era l’onore dei genitori: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dá il Signore, tuo Dio» (Es 20,12; cf Dt 5,16). La sanzione per chi non osserva questo obbligo è la morte: «Chiunque maltratta suo padre o sua madre dovrà essere messo a morte; ha maltrattato suo padre o sua madre: il suo sangue ricadrà su di lui» (Lv 20,9; cf Es 21,17). Il libro dei Proverbi caratterizza la fisionomia del figlio saggio e intelligente e quella del figlio stolto e disonorato: il primo onora il padre (Pr 15,20; 28,7; 10,1) il secondo lo rattrista (Pr 19,13.26; 17,25).
Il figlio più giovane con una sola parola (dammi)  abolisce la Legge, la Sapienza e qualsiasi principio che si basi sul dovere: abolisce semplicemente l’intera Toràh di Mosè. Egli è impaziente e in quanto giovanissimo non ha tempo per aspettare il suo tempo: accecato da se stesso, vuole il buio attorno a sé e tutto deve piombare nel silenzio della morte: «Dammi!». La figura del figlio più giovane risalta ancora di più, se messa a confronto con due simboli eccellenti di tutta la tradizione biblica giudaico e cristiana: Isacco e Gesù, i due figli esemplari.
 In Gen 22 incontriamo Isacco che sale accanto al padre Abramo verso la cima del monte Moira, dove egli figlio «unigenito» dovrà essere sacrificato. Lungo il cammino padre e figlio dialogano con intensità fino a identificarsi entrambi nell’obbedienza al loro Dio esigente. Isacco si rivolge ad Abramo, invocandolo con la dolce espressione «Padre mio!», a cui fa eco la risposta calda e traboccante di affettività del padre: «Eccomi, figlio mio» (v. 7).
Nel NT Gesù di Nazareth che la tradizione cristiana vede prefigurato in Isacco, nel momento supremo della sua morte, prende tutta la sua vita e la getta nel cuore del Padre: «Padre nelle tue mani depongo/affido (da paratìthemi) il mio spirito» (Lc 23,46). Isacco e Gesù hanno il rispettivo padre come mèta e fondamento della propria esistenza. Il «figlio più giovane» della parabola invece esige: «dammi» (da dìdomi); egli ha come scopo e confine della sua esistenza solo ed esclusivamente se stesso: egli vuole, esige e pretende. Il verbo greco dìdomi significa dare/donare/offrire, ma anche pagare (cf Lc 20,22; 23,2) per cui c’è una richiesta esigente, come se riscuotesse un pagamento.

«La parte del patrimonio che mi spetta»
La traduzione letterale quasi meccanica è: «Padre dammi la parte che è posta sopra della sostanza», perché esprime l’idea di una divisione e per dividere bisogna prima contare e quindi «porre sopra» il tavolo e fare i calcoli di quanto spetta a uno e quanto all’altro. Lc per indicare «il patrimonio» usa il sostantivo femminile «ousìa», derivato dal verbo eimì (io sono), che significa «sostanza/essenza/bene/patrimonio»; ma nel greco del 1° secolo (Platone e Plotino) significa anche «natura/esistenza», cioè la consistenza dell’essere. Il figlio non chiede solo «la roba» o il patrimonio, ma vuole di più: egli pretende la «natura» del padre suo, cioè la sua vita.
Il padre, infatti, capisce perfettamente la richiesta del figlio, perché l’evangelista si premura di dire che «divise tra loro» non le sostanze, come dice la traduzione della Cei, ma «ton bìon – la vita». Il padre prende la sua vita e la distribuisce, la divide, la spezza tra i due figli. Chiedere la vita del padre insieme agli averi, senza aspettare la morte naturale, significa volee la morte in anticipo. Con la sua richiesta il «figlio più giovane» uccide il padre in nome della sua autonomia e libertà.

Una vita… «a perdere»
Non si parla della reazione emotiva del padre, ma di ciò che fece: sa che come padre non ha una vita propria perché, avendo generato lui i due figli, spetta a lui dare loro la sua vita. Sono i padri che devono «donare» la vita ai figli e non viceversa: «Il padre divise tra loro la (sua) vita».
Nell’ultima cena Gesù compie lo stesso gesto: prese il pane, lo spezzò, lo diede (in greco dal verbo dìdomi) loro e disse: è il mio corpo… è il mio sangue (cf Lc 22,19). Chi ama oltre se stesso, dà la vita senza calcoli e senza misura. Solo Dio può fare questo e solo un padre/una madre sulla terra possono imitare Dio nel dare la vita «a perdere». Il padre avrebbe potuto appellarsi alla Legge e farlo condannare, metterlo in riga, diseredarlo, imporre la sua volontà e, se avesse voluto, avrebbe potuto distruggerlo, portandolo in giudizio ed esigendone la condanna: «Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce… suo padre e sua madre… lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita… Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà» (Dt 21,18-21). Invece di avvalersi del suo diritto, il padre non solo vi rinuncia, ma divide la sua vita.
Con questo gesto il padre non dà solo la sua vita, ma annulla e svuota la richiesta e l’azione del figlio, perché adesso non è più il figlio che pretende, ma è il padre che «offre/dà» la sua vita. La situazione è capovolta. Se il padre avesse punito il figlio, lo avrebbe inchiodato alla sua responsabilità oscena, perdendolo per sempre e uccidendolo; ma svuotando il suo «imperativo» (dammi), spezzando la propria vita e donandola senza nulla pretendere ai figli, egli li salva ancora una volta preventivamente e li mette al riparo da se stessi, perché li custodisce al caldo della sua vita che ora è data per sempre perché data per amore.

Il padre «spezzato», figura di Abramo
Non è più l’uomo qualunque, «un tale», ora è a tutti gli effetti «il padre» e non tradisce la sua «natura», quella che il più giovane chiede per sé come garanzia della sua autonomia, perché la «natura» del padre è quella di essere «vita» per i figli: «divise la [sua] vita».
Il comportamento di questo padre «spezzato» è lo stesso di quello di Abramo, quando Dio lo chiama e gli ingiunge una separazione dolorosa, una frattura irreversibile con tutta la sua vita: Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria, da tuo padre (Gen 12,1-4): Abramo deve lasciare la sicurezza (paese), la storia (patria) e gli affetti (padri); con sé deve portare solo la sua sterilità, perché possa sperimentare che la vita donata è un dono ancora più grande, perché non dipende dalla sua virilità, ma dalla grazia di Dio.
Il redattore di Genesi fissa in un gesto la risposta di Abramo: «E Abramo partì» (Gen 12,4). La risposta degli uomini di Dio è sempre un gesto che dice più di qualsiasi parola. Lo stesso atteggiamento troviamo nel «padre» del figlio più giovane: «divise la [sua] vita». Non si limita a dare le sostanze del patrimonio a cui forse nemmeno pensa, ma dà tutto ciò che è: il suo essere padre non appartiene a lui, ma appartiene solo ai figli. Non un rimprovero, non un appunto né recriminazione, ma semplicemente un dono gratuito della sua vita.
Al padre interessa solo una cosa: salvare il figlio; per questo, invece di rischiare di mandarlo da solo, gli dà la sua vita come compagna di viaggio e la vita del padre lo custodirà e proteggerà anche contro la sua volontà e a sua insaputa: «Il padre divise la vita».                  (continua – 8)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Miracoli feriali

Presenza delle suore Marcelline nel «Paese delle aquile»

Sono arrivate nel paese quando molti albanesi si davano alla fuga; hanno aiutato famiglie e profughi negli anni di emergenza; e continuano a lavorare a fianco dei più bisognosi: cinque suore Marcelline raccontano le loro storie di amore a fianco di gente dimenticata e senza voce.

Ci sono luoghi nel mondo dove i miracoli hanno nomi, volti e raccontano storie. Storie bellissime, speciali, ma allo stesso tempo semplici, quasi «normali». Perché vissute ogni giorno e rinnovate con l’amore verso il prossimo, soprattutto se questo è indifeso, dimenticato, senza voce.
Saranda, cittadina del sud dell’Albania, è uno di questi luoghi e il miracolo che vi si compie ha il volto di cinque donne, tre italiane e due messicane: tutte appartenenti alla congregazione delle suore Marcelline. Suor Daniela e suor Lucia sono quelle che hanno aperto la strada della nuova missione, nel 1995. Suor Maricruz e suor Betty hanno lasciato Città del Messico qualche anno dopo, mentre suor Anna, giovanissima, è arrivata nel 2005.
Cinque donne e una grande storia da raccontare: quella che le ha portate, passo dopo passo, ad aprire un asilo, un centro medico, una mensa scolastica, un centro di formazione. Ma soprattutto, a guadagnare la fiducia della gente d’Albania, un popolo schivo e all’apparenza duro, dal passato oscuro e dal presente difficile, dove povertà e progresso sono due facce di una stessa medaglia.
Oggi le suore sono conosciute, rispettate e apprezzate da tutta Saranda. Autorità comprese: la loro presenza e il loro parere in consiglio comunale sono sempre ben accetti; la loro esperienza è sinonimo di affidabilità e saggezza.

STORIE DI EMERGENZA

Ma come si è arrivati a tutto questo? Piccoli miracoli di ogni giorno, si diceva. Con il volto e la storia di suor Daniela, che è arrivata in Albania quando tutti, anche gli stessi albanesi, si davano alla fuga. «Nei primi anni  ‘90 vivevamo a Lecce – racconta la suora, milanese di origine -.  Vedevamo passare centinaia di disperati in cerca di nuove speranze».
Erano gli anni delle navi mercantili sulle coste pugliesi, piene di albanesi in fuga dal proprio paese, dopo la caduta del rigido regime comunista. «Allora ci siamo dette – prosegue suor Daniela -: anziché aiutarli dando loro accoglienza, perché non andare nel loro paese e convincerli a rimanere?».
Detto fatto. Così nacque la prima casa delle Marcelline a Valona, appena 60 chilometri di mare da Brindisi. «Eravamo tre suore in una casa molto piccola – continua la suora -, ma da subito abbiamo attivato un piccolo asilo con 20 bambini, e l’aula era la nostra camera da letto». Un ricordo che ancora oggi le fa abbozzare un sorriso, assieme a quello dell’ambulatorio, «posto all’entrata dell’abitazione: un salottino senza finestre».
Ma erano tempi d’emergenza, che si sono poi aggravati nel marzo 1997, all’indomani della crisi finanziaria, che gettò sul lastrico migliaia di famiglie albanesi. In quel momento le suore si erano già trasferite a Saranda, dove la presenza internazionale era pressoché inesistente.
Suor Daniela ricorda il 1997 come un inferno, dal quale, però, non è voluta scappare. «Anche la polizia aveva abbandonato la città; tutti rubavano tutto; i ragazzini giravano in bande con i kalashnikov – racconta la suora -. Noi vivevamo rinchiuse nella nostra casa, ospitando più bambini possibile».
La normalità sarebbe tornata solo molti mesi dopo, ma un’altra emergenza era già alle porte: migliaia di sfollati dalla guerra del Kosovo inondavano l’Albania con le loro angosce. Siamo nel giugno 1999. Le Marcelline si rimboccarono subito le maniche e un altro miracolo si faceva strada, giorno dopo giorno. «Siamo riuscite ad accogliere 1.500 profughi – ricorda suor Daniela -; 600 di loro erano nell’hotel Butrint, che ancora oggi è l’alloggio più famoso della città».
Le suore erano aiutate dall’operazione Arcobaleno, ovvero decine di volontari che scaricavano container pieni di beni di prima necessità raccolti dal governo italiano. Alla fine, le suore ce l’hanno fatta. I kosovari sono poi rientrati nelle loro case e, con l’inizio del secolo xxi, una sorta di normalità ha preso piede in tutto il «paese delle aquile» (o Shiqperia, nome ufficiale dell’Albania; la bandiera nazionale è infatti una grande aquila nera su sfondo rosso).
Govei meno corrotti di un tempo, più relazioni paritarie con l’estero e lo sviluppo di un commercio interno hanno gettato le basi di una fragile, ma decisa democrazia, quella che tuttora vige nel paese.

NELLA GIUNGLA DI CEMENTO

L’Italia è il primo partner dell’Albania per tutto: import-export, aiuti umanitari residui, progetti di sviluppo. L’attività principale è ancora oggi quella che esisteva già ai tempi di Mussolini: la costruzione di strade. Appena fuori dalle città si possono leggere su enormi cartelli le scritte: «Strada realizzata grazie al contributo della Cooperazione italiana».
Così, chilometri e chilometri di asfalto rendono più veloci i collegamenti del paese; ma l’asperità del terreno fa di ogni viaggio una piccola odissea, permettendo, però, una lenta scoperta dell’Albania più profonda, quella dei piccoli paesi collinosi, dediti all’agricoltura e pastorizia, dove il tempo è fermo e lo rimarrà per chissà quanto ancora.
Tale è, per esempio, il paesaggio attraversato dalla strada che dalla capitale Tirana porta a Saranda: solo 120 chilometri, che con un maneggevole pulmino si coprono in «sole» sette ore. Dopo decine di colline, valli mozzafiato e quasi nessuna presenza umana (a parte alcune splendide cittadine come Argirocastro e il suo centro medievale, oggi sede di una grossa università), Saranda ti accoglie con la sua freschezza di città costiera, affacciata sul mar Mediterraneo e sull’isola greca di Corfù, meta migratoria agognata dagli albanesi tanto quanto l’Italia.
Grazie a Corfù e alla Grecia in generale, Saranda sta vivendo negli ultimi cinque anni un boom turistico senza precedenti: i 30 mila abitanti invernali triplicano d’estate. Molti rientri vacanzieri in famiglia di lavoratori albanesi, ma anche una crescente mole di turisti greci, che trovano alloggio in alberghi e appartamenti che spuntano come funghi in tutta la città.
Progresso, ma anche nuovi problemi, a cominciare dallo spazio. Non ditelo alle Marcelline e a Rocco, volontario italiano che da cinque anni vive con loro. Quando le suore sono arrivate nel quartiere, la loro casa era circondata da campi, e si vedeva il mare. Oggi tre dei quattro lati (il quarto dà sulla strada) sono coperti da palazzoni, due dei quali costruiti a metà. 
«Qui non c’è un piano regolatore e tutti costruiscono dove gli pare» dice Rocco, che si occupa dell’educazione di adolescenti albanesi tramite lo sport . «Poco tempo fa abbiamo avuto problemi con uno dei proprietari qui a fianco – continua il ragazzo pugliese – perché voleva che accorciassimo il campo di calcio per farci stare il suo appartamento».
Rocco e le Marcelline hanno dovuto accontentarlo, vista la sua prepotenza e l’assenza di regole. Lo stesso avviene nell’edificio dove le suore hanno adibito la mensa per bambini, che si trova a lato di un albergo che si espande sempre più, nonostante i pochi clienti che lo frequentano.

I SEGRETI DI SUOR LUCIA

Nonostante l’abusivismo edilizio, che sta trasformando e abbruttendo Saranda, la casa delle suore Marcelline rimane ancora oggi un punto di riferimento per tutta la città. Dal 2000, grazie al contributo economico della fondazione Pierfranco e Luisa Mariani, tutta la struttura ha subito un rinnovamento totale, e oggi risplende per ordine e semplicità.
All’interno del recinto in muratura si apre un mondo chiamato «Qendra sociale Santa Marcellina», un centro sociale composto da due grandi edifici, giardino con giochi per bambini, e un piccolo campo di calcio. Qui centinaia di persone si recano ogni giorno, per svariate ragioni.
La giornata al Qendra comincia prestissimo. Non sono ancora le otto, infatti, quando 150 bambini, accompagnati dai genitori, riempiono di colori e schiamazzi il cortile: ha così inizio l’asilo, la principale attività delle suore, aiutate da sei insegnanti albanesi, che ricevono regolare stipendio grazie all’impegno della stessa fondazione Mariani. Grazie all’asilo, le suore vengono a contatto con decine di famiglie in difficili condizioni economiche, che poi cercano di aiutare attraverso la condivisione dei loro problemi.
Suor Lucia è risoluta nel tracciare una profonda analisi della società albanese e non risparmia le critiche: «Violenza familiare, pregiudizi verso le persone con problemi di handicap, assenza quasi totale delle istituzioni, corruzione ancora molto viva: questi i maggiori problemi con cui abbiamo a che fare» enumera la suora, originaria di Tricase, paesino in provincia di Lecce.
Suor Lucia, oltre ad abile cuoca, è anche infermiera; è lei a gestire l’altra grossa attività del Qendra, l’ambulatorio di neurologia pediatrica, dove ogni pomeriggio arrivano le famiglie i cui bambini hanno problemi legati alle terminazioni nervose. «Esaurimenti ed epilessia sono le malattie più frequenti, e si presentano già dai primi anni di vita» spiega la suora.
Nell’area attorno a Saranda almeno 5 mila persone hanno problemi di natura epilettica, dicono gli ultimi studi. Una delle percentuali più alte d’Europa, superiore anche alle zone dove è alta la concentrazione di radiazioni. «A questi problemi se ne aggiungono altri, di natura psicologica, legati a quello che è successo nel 1997» continua suor Lucia.
Nell’ambulatorio, ad accogliere le centinaia di piccoli pazienti, lavorano vari pediatri ed esperti di neurologia; alcuni arrivano direttamente da Tirana almeno una settimana al mese. L’ambulatorio è l’ambito in cui la fondazione Mariani ha dedicato i suoi sforzi maggiori nell’aiuto alle suore. Per un semplice motivo: lo scopo principale della Mariani, da oltre 20 anni, è il sostegno a chi si dedica alla neurologia infantile, in Italia e nel mondo.
Quello delle Marcelline è l’unico centro medico specializzato del sud dell’Albania, anche perché l’ospedale cittadino è fatiscente e poco attrezzato, a cominciare dai medicinali.
Suor Lucia questo lo sa bene. Ciò che pochi sanno è che la religiosa ha il suo segreto-miracolo: una stanzetta, chiusa ermeticamente, adibita a dispensario medicinale. Centinaia di medicine diverse, di vario tipo, non solo neurologico, arrivate da varie donazioni italiane ed inteazionali. «Questo piccolo tesoro è vitale per molti albanesi – confessa la suora – anche perché molti di loro non si fidano a comprare medicinali fabbricati nel proprio paese».
La ragione? «A volte quello che c’è scritto sulla confezione non corrisponde alla realtà – spiega suor Lucia -. Le farmacie, forse approfittandosene un po’ troppo, consigliano alla gente di comprare quelle inteazionali, che però costano dieci volte tanto». Molte famiglie non ce la fanno, per questo la suora ha il suo «forziere», al quale attinge con molta cautela.

IL COMPUTER DI MARICRUZ

Anche suor Anna e le due suore messicane sono infermiere e sono un valido aiuto a suor Lucia. Ma oltre all’asilo e all’ambulatorio, le Marcelline a Saranda si occupano di formazione e promozione umana: corsi di artigianato, tessitura, turismo e informatica riempiono i pomeriggi al Qendra. Suor Maricruz è la responsabile e, da come si muove sul computer, si può dedurre la sua abilità d’insegnamento informatico. «Cerchiamo di dare ai giovani strumenti per trovare lavoro» dice la suora.
I risultati dei primi anni di corsi fanno ben sperare. Ad esempio, grazie al corso di operatore turistico, la 25enne Emirjeta Roboci lavora oggi come guida alle vicine rovine romane di Butrinto. La ragazza ha inoltre avviato la prima esperienza di turismo responsabile nella zona, ricevendo alcuni turisti italiani e portandoli nei luoghi che il turismo tradizionale non contempla.
Tra questi vi è il piccolo villaggio di Shendelli, situato in un lembo di terra vergine, tra due enormi laghi naturali, una visuale a 360 gradi, dalla quale si vedono le case di Corfù.
La particolarità di Shendelli, però, è nella sua gente: almeno cento famiglie rom, originarie del nord dell’Albania, arrivate in queste terre nel 1996.  Vittime di pregiudizi da parte dei locali, queste persone hanno vissuto per anni in baracche, fino a quando le suore Marcelline, tramite aiuti inteazionali, hanno dato loro quella dignità che era negata.
Ora, con case in muratura, piccole attività commerciali legate all’agricoltura e all’artigianato, riescono a vivere senza patire la fame. «Ma ora bisogna insegnare ai loro bambini a leggere e a scrivere», dice suor Daniela. Un altro piccolo miracolo da compiere. Un’altra bella storia da raccontare, un giorno non lontano.  

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Malawi – strade africane (terza puntata)

L’arrivo del pick-up scatena sempre un assalto alla carovana. Da sopra la vettura la gente offre mani per appiglio e si stringe ulteriormente per fare spazio ai nuovi arrivati. Qualcuno viaggia in piedi, tenendosi alla cabina anteriore dell’autista. Chi mi colpisce sempre sono le donne anziane che si arrampicano con un’agilità che non ti aspetteresti vedendole passeggiare a terra. Sembra di essere parte di un enorme gioco di tetris vivente, dove le varie figure da incastrare sono corpi umani. Il peggio che ti possa succedere durante quello spostamento (del mezzo, non del tuo corpo sul cassettone) è che ti venga un crampo. Il peggio spesso si avvera. Cerchi una soluzione con un movimento disperato delle dita dei piedi, dei polpacci o, quando non c’e’ alternativa, con la forza del pensiero.
Arrivato a Milepa scendo dal pick-up cercando di riacquisire la posizione eretta, riassesto muscoli ed ossa e mi incammino verso l’unico ristorante del paese. Di fronte c’è una sorta di staccionata. Il paesaggio ricorda un po’ il Far West, il ristorante un vecchio saloon, ma alla staccionata non sono legati cavalli, bensì biciclette. Ebbene si, gli ultimi tre chilometri li faccio in taxi-byke. Una quindicina di ragazzi si piazza qui davanti con la propria bicicletta e campa trasportando la gente ai loro villaggi o al mercato, che di giorno in giorno si tiene in una località diversa. Io mi faccio trasportare a Ndanga, non prima di aver pagato i miei 100 Kwacha (60 centesimi di Euro) per la notte che trascorrerò in uno dei due “alberghi” del paese. Ma questa è un’altra storia, e ve la racconto la prossima volta.  
La pedalata fino al villaggio di Ndanga dura una ventina di minuti, tra i saluti delle tante persone che si incrociano sulla strada, bambini che escono dai campi di mais o di tabacco, donne con le loro semplici bancarelle ai bordi della strada e tanta, tanta gente in bicicletta, in questa sorta di Olanda tropicale con i baobab al posto dei mulini a vento. Tutti divertiti nel vedere il musungu in bicicletta, col naso arrossato dal sole, mentre scompare nella polvere della loro quotidianità. (fine)
Dario Devale

Dario Devale




Tra cielo  e … acqua

Nabasanuka: nuova missione alle foci dell’Orinoco

Nella missione di Nabasanuka, tra gli indios warao, nel delta del Río Orinoco, i padri Josiah K’okal (ugandese) e Vilson Jochem (brasiliano), hanno cominciato a sognare in grande, nonostante le sfide lanciate dalle difficoltà logistiche, studio della lingua e cultura indigena, povertà della gente… Stanno inseguendo lo stesso sogno di Dio.

Il 20 di giugno 2006,  festa della Consolata, abbiamo aperto ufficialmente la nuova missione di Nabasanuka, lungo il Río Adentro, uno degli innumerevoli rami che formano l’immenso delta del Río Orinoco. La scelta di questa nuova missione è avvenuta dopo un periodo di riflessione e di studio del luogo, a partire dalla fine del 2005, quando abbiamo iniziato a visitare il territorio, spendendo a più riprese alcune settimane con la gente.
Per avere un’idea di dove ci troviamo, basta dire che, partendo da Caracas o Barlovento dove lavoriamo da vari anni, occorrono 24 ore di viaggio: 17 sulla terra ferma per arrivare a Tucupita, sede dell’omonimo vicariato apostolico, e altre 7 per fiume, su barca a motore, per essere a destinazione. Ancora 40 minuti e si è in alto mare, in pieno Oceano Atlantico.
Naturalmente, per rispettare la tabella di marcia tutto deve filare liscio, il che non sempre accade. Nei primi viaggi, infatti, avevamo a disposizione una curiara (barca, canoa) con un motore vecchio di 30 anni: per la sua età faceva ancora miracoli, ma non sempre ci riusciva. Più di una volta ci ha lasciati in mezzo al fiume. Come quella volta che, partiti alle 2,30 della notte per andare a Tucupita, il motore cominciò a bloccarsi dopo un’ora di viaggio… e arrivammo in città alle 4,30 del pomeriggio.
Ma non sono esperienze che ci scoraggiano. Anzi, diventano occasioni per gustare la bellezza del creato. Ci sentiamo immersi in un altro mondo, un paradiso terrestre, tra cielo e… acqua, circondati dalla lussureggiante vegetazione della fitta foresta tropicale, popolata da miriadi di uccelli e altri animali acquatici e terrestri: siamo nell’immenso delta del fiume Orinoco (vedi riquadro).

Il territorio della missione di Nabasanuka misura oltre 15 mila kmq (pari all’Abruzzo e Molise messi assieme), in buona parte coperto di acqua; la terra ferma, in quanto tale, è molto scarsa.
Tutto il delta dell’Orinoco è abitato dagli indios dell’etnia warao, che vivono sparsi nel vasto territorio in piccole comunità, 63 delle quali sono comprese nei confini della nostra missione.
Tradizionalmente i warao si dedicavano alla caccia, pesca e raccolta di frutta e vegetali commestibili, offerti dalla natura circostante. Col tempo, però, i mutamenti climatici e geografici li hanno costretti a cambiare alcune abitudini di vita; hanno incrementato la pesca, principale fonte di alimentazione, e si sono dedicati anche all’agricoltura. Si tratta di agricoltura di sussistenza: unico prodotto coltivato è l’ocumo, una pianta erbacea con tuberi commestibili.
Anche nell’ambito dell’artigianato, la produzione è limitata alle necessità immediate della vita: amache, ceste, utensili vari.
Sotto l’aspetto materiale, quindi, i warao sono gente povera; vivono in fatiscenti palafitte di legno, piantate lungo le sponde dei fiumi. Eppure la scarsità delle risorse li ha portati a  sviluppare, fin dai primi anni di età, tutte le doti necessarie per la sopravvivenza. Basta guardare i bambini che, a 4 anni, nuotano come pesci e solcano le correnti dei fiumi in canoa con estrema maestria. Sembrano nati nell’acqua.
Ancor più ricco e sorprendente è l’aspetto umano e sociale dei warao. Anche se, come missionari, ci consideriamo stranieri, ospiti e pellegrini, fin dai primi incontri essi ci hanno accolto con tale semplicità e schiettezza da farci sentire subito in famiglia. Sorprendente è il modo con cui si riferiscono a noi: non ci chiamano «preti» o «missionari», ma fratelli. I giovani si rivolgono a noi con il termine «daje» (fratello maggiore), gli anziani con la parola «daka» (fratello minore). Questo ci fa sentire la missione come costruzione di legami di fratellanza.
Altrettanto stupenda è l’espressione usata per indicare il regno di Dio: «Dioso a Janoko», che letteralmente vuol dire «la casa di Dio». Anche questo ci fa vedere come Dio è in azione anche in questa sperduta parte del globo e, soprattutto, ci indica la natura della missione appena iniziata: trasformare il mondo per fae una casa, una famiglia dove tutti possono appendere il proprio chinchorro (amaca) e condividere il poco e il molto che si ha.

Costruire la Dioso a Janoko è, quindi, la grande sfida della nuova missione tra le 63 comunità warao che ci sono state affidate. E abbiamo già cominciato a stendere i progetti e fissare le priorità, tenendo conto della situazione religiosa della gente. Le comunità della missione, infatti, possono essere suddivise in tre gruppi: quelle già evangelizzate, dove la fede cristiana è radicata; quelle che hanno avuto contatti sporadici con i missionari, per cui la vita cristiana non è ancora impiantata; quelle che non hanno ancora avuto alcun contatto con il vangelo.
Per rispondere alla sfida, ci siamo gettati a capofitto nell’apprendere la lingua dei warao: senza di essa è impossibile entrare nel loro mondo culturale e trasmettere il messaggio del vangelo; anche perché buona parte delle comunità parla solo il warao e non conosce lo spagnolo.
Di pari passo con lo studio della lingua procede la visita alle comunità, intrattenendoci con loro per meglio conoscerle e farci conoscere. È una sfida che assorbe molto tempo, non solo per raggiungere le varie località, ma anche per l’approvvigionamento del carburante. In Venezuela la benzina costa poco, ma il rifoimento più vicino si trova a Tucupita: ciò significa sette ore di curiara nell’andata e altrettante nel ritorno.
C onsiderando il numero di comunità e le distanze da percorrere per raggiungerle, ci è impossibile visitarle con frequenza e svolgervi un lavoro in profondità. Per questo abbiamo scelto come priorità assoluta la preparazione di animatori e catechisti, i quali, in nostra assenza, assicurino l’assistenza religiosa ai gruppi cristianamente già formati e promuovano l’annuncio del vangelo in quelli ancora da evangelizzare.
Tale priorità fa parte anche del programma pastorale del vicariato apostolico di Tucupita. Non ci resta che inserirci nel progetto. Anzi, abbiamo già iniziato con la formazione di catechisti in tre comunità: Nabasanuka, Bononia e Araguabasi. Abbiamo circa 40 persone, uomini e donne, che frequentano il centro di Nabasanuka, che stiamo attrezzando con computer, fotocopiatrice e materiale didattico vario. Ma il problema più grande rimane quello del trasporto: abbiamo creato un piccolo fondo per fare fronte ai viaggi dei catechisti, senza pesare sulle loro tasche vuote. E fino ad ora la Provvidenza non vi ha fatto mancare nulla per coltivare i nostri sogni.
Altri sogni nel cassetto riguardano la promozione umana. Alla povertà economica, infatti, si aggiunge quella scolastica e sanitaria: il governo venezuelano ha praticamente lasciato gli abitanti del delta in uno stato di abbandono.
Sotto l’aspetto sanitario il discorso è molto breve: in tutta la regione (15 mila kmq) c’è un solo dispensario, con un solo dottore residente, che si è offerto volontariamente di prendersi cura di questa gente.
Per quanto riguarda l’istruzione, in tutto il territorio ci sono solo due scuole secondarie. Ciò significa che la stragrande maggioranza dei giovani si fermano alle elementari, senza la possibilità di completare il ciclo della scuola secondaria, che qui chiamano liceo.
Per di più,  anche l’insegnamento nella scuola elementare non eccelle per serietà e rendimento, per la mancanza di insegnanti professionalmente qualificati. Ed è comprensibile: quale insegnante o professore (e dottore) è disposto a vivere su una palafitta, isolato dal resto del mondo, in piccoli villaggi privi di ogni comodità e in un ambiente totalmente estraneo alla propria cultura?
Il vicariato apostolico di Tucupita ha dato vita a una bella iniziativa, in collaborazione con l’Università pedagogica Libertador (Upel) di Maracay di Caracas: due volte al mese, durante il fine settimana, alcuni professori di questa università vengono a Nabasanuka per svolgere un programma di formazione professionale per insegnanti warao. Nel giro di tre anni essi dovrebbero essere preparati per assumere la responsabilità di tutti i settori della scuola.
Intanto, a partire da ottobre 2006, con l’inizio dell’anno scolastico, anche noi missionari siamo coinvolti nell’insegnamento nelle classi del liceo di Nabasanuka, l’unico in tutto il territorio della missione, dove confluiscono studenti provenienti da una quindicina di comunità. Ce lo ha chiesto la comunità e abbiamo accettato volentieri. La presenza nella scuola secondaria, oltre all’opportunità di contribuire alla loro preparazione accademica, ci offre l’opportunità di entrare nel mondo dei giovani warao e di accompagnare la loro crescita umana, culturale e religiosa.
Tale formazione sta diventando un problema sempre più preoccupante. Il bombardamento dei canali televisivi riversa sui giovani warao i nuovi modelli di vita dalla globalizzazione, erodendo i loro valori culturali e provocando un senso di inferiorità di fronte alla cultura dominante.
Per noi è un compito in più, che si aggiunge a quello prettamente di evangelizzazione, ma siamo convinti che anche questo contribuisce al processo di autornaffermazione e di sviluppo della popolazione warao. I giovani mostrano molto entusiasmo e voglia di imparare; ma, anche in questo ambito, mancano spesso gli aesi del mestiere: cioè i libri di testo. Per questo anno abbiamo bisogno di 800 testi, e ci stiamo organizzando per raccattarli, sempre confidando nella Provvidenza.

Alla fine del 2006 sono arrivate a Nabasanuka quattro suore della Consolata, completando così il quadro del personale programmato per questa nuova avventura missionaria. Ma siamo in contatto anche con alcuni laici, che un giorno potrebbero venire a condividere la nostra avventura.
Oltre a dare nuovo impulso alle nostre attività di evangelizzazione e promozione umana, continuiamo a sognare nuovi progetti. Uno dei quali riguarda la costruzione di un salone multiuso, per facilitare la formazione degli agenti di pastorale, il cui numero continua ad aumentare, e dare vita a nuove iniziative per accelerare il processo di recupero della cultura della popolazione warao.
Il progetto è ambizioso e costoso; ma abbiamo pazienza. In queste terre del delta, terre di pura acqua, continuiamo a coltivare il sogno di Dio: «Che tutti giungano alla conoscenza della Verità» senza perdere i valori della propria cultura. 

Di Josiah K’okal

Il Delta dell’Orinoco

Il più grande del Venezuela e terzo dell’America del Sud, l’Orinoco è uno dei fiumi più ricchi d’acqua del mondo, con una porta media di 38 mila litri al secondo. Nasce vicino al confine con il Brasile nella parte meridionale del Venezuela e scorre per 2.150 km; attraversata Ciudad Guayana, si dirige verso l’Oceano Atlantico, trasformandosi in una complessa rete idrografica, dividendosi in numerosi rami, canali, lagune, che s’intrecciano tra loro fino a raggiungere, dopo oltre 200 km, l’Oceano Atlantico, con una superficie approssimativa di 22 mila kmq.
Gli ecosistemi terrestri e acquatici sono caratterizzati da una grande diversità biologica. L’area terrestre è coperta da una fitta foresta tropicale che conta circa 2 mila specie  di piante, poi: ricchezza di uccelli (464 specie), rettili (76 specie), anfibi (39 specie), mammiferi (151 specie), pesci (410 specie). Una grande quantità di invertebrati.
Le terre del Delta del RÍo Orinoco sono abitate da tempi remoti da una etnia indigena, i warao, che significa «gente di curiara» (canoa). Sono oltre 100 mila. Vivono in villaggi, formati da famiglie unite fra loro da forti legami di solidarietà e mutuo aiuto. La direzione e il controllo della comunità è affidato al più anziano, chiamato «aldamo».
I warao sono esperti pescatori con varie tecniche e metodi di pesca, la quale costituisce la principale fonte della loro alimentazione. Sono poi cacciatori, esercitando una caccia di sussistenza. L’agricoltura è esercitata in piccole aree (conuchi) e si basa sulla coltivazione dell’«ocumo», una pianta erbacea con tubercoli commestibili, che rappresentano attualmente il «pane» dei warao.

Giuseppe Bono

Josiah K’okal