Annuncio in profondità

Aprirà a Dar es Salaam un nuovo Centro di animazione missionaria

Evangelizzare «in profondità» è l’imperativo dato dalla Conferenza Episcopale del Tanzania ai cristiani del paese.  Come? Serve un «faro di missionarietà» per orientarsi fra le tante sfide che il mondo contemporaneo propone al continente africano e alla fede della sua gente. I missionari della Consolata ne hanno individuato uno e confidano sia quello giusto.

Dar es Salaam è una città costiera che si affaccia sull’Oceano Indiano. Sulla costa i fari abbondano. Non lontano dal mare, su un territorio rubato alla steppa e suddiviso dal governo in migliaia di lotti, si aggiunge un faro nuovo ma diverso. La sua luce non è per aiutare i pescatori a giungere a riva. La sua luce è per condurre al largo, al mondo: un faro di missionarietà!
La lettera apostolica Novo Millennio Ineunte di papa Giovanni Paolo II ci invitava ad iniziare il terzo millennio nella contemplazione del volto di Cristo. Una contemplazione che fluisse in santità di vita, entusiasmo rinnovato, annuncio fervoroso, testimonianza cristallina, fantasia di carità, e iniziative concrete per la missione… in profondità ed estensione. Difatti, il biblico Duc in altum, più volte ripetuto nella lettera, ha nel vangelo di Luca un duplice significato: avanzare in acque profonde e prendere il largo. Si tratta, quindi, di una missione all’interno della chiesa, sempre discepola e serva della Parola, che ha come scopo quello di far vivere la fede in profondità e con coerenza. Ma è pure una missione rivolta ai popoli, affinché riconoscano nel Cristo il Salvatore, perfezionamento di tutti i valori religiosi e culturali. La doverosa stima per questi non deve far dimenticare il mandato evangelico dell’universalità, pur lasciando che i semi di vangelo sparsi nel corso dei secoli maturino secondo i  tempi di Dio.
Per carisma i missionari e le missionarie sono votati alla missione ad gentes, cioè a testimoniare ed annunciare il vangelo nelle situazioni prive o povere del Verbo di Dio, parola che salva e nobilita l’umanità. Dove è possibile lo fanno in cooperazione, affinché la missione sia più ricca e assuma il volto paterno e materno di Dio. Annunciare, difatti, è sempre un partorire, come afferma l’apostolo Paolo parlando di se stesso nelle lettere scritte  ai Galati e ai Corinzi.
Con lo spirito e le caratteristiche ereditate dal Beato Allamano lo fanno i missionari della Consolata, attraverso molteplici attività che mirano ad educare, formare e trasformare. Lo fanno inserendosi in situazioni di estrema indigenza e accompagnando minoranze trascurate o in contesti che hanno ragion d’essere nella sola testimonianza silenziosa o nel dialogo interreligioso. La missione ad gentes, a tutti i popoli, non è univoca, ma ha più volti e più vie, che mutano con la storia e le sue sollecitazioni. Una cosa è certa: che la missione è obbedienza al comando esplicito del Risorto, e ha valore perenne. La staticità è morte, mentre il pellegrinaggio per le vie del mondo è vita. La chiusura è suicidio, mentre il dono rigenera. L’ardere della contemplazione… diventa illuminazione: «Voi siete la luce del mondo!».
Tuttavia, non si può dare per scontato che la tensione missionaria sia sempre incandescente e presente ovunque. Essa va generata e rafforzata in continuità, poiché è facile lasciarsi prendere dal torpore e, dalle necessità proprie, chiudersi nella miopia. Apertura e solidarietà vanno radicate in una spiritualità e nutrite con un processo di informazione e formazione. Tutto ciò prende il nome di: animazione missionaria. Essa tende a fare di ogni persona, famiglia, comunità e chiesa un punto luce e di irradiazione universale. Tale compito educativo rientra nella specificità della missione stessa.
È il compito che i missionari e le missionarie della Consolata si sono assunti anche in relazione alla chiesa che è in Tanzania. La cosa non è nuova. Già ci sono espressioni missionarie della chiesa locale – come pure in altri paesi d’Africa – che può vantare di avere inviato missionari, uomini e donne, in più nazioni. Ma sono necessarie una cultura e una spiritualità missionaria. Sono queste l’humus che garantiscono cattolicità e che permettono di essere una chiesa missionaria a se stessa e per il mondo, come si esprimeva Paolo VI in Uganda. La chiesa che è in Africa, con le sue ricchezze di umanità, solidarietà, gioia, pazienza, né può, né deve mancare all’appuntamento del donare e ricevere, che riconosce ad ogni chiesa pari dignità, vocazione e missione. Questo è pure l’imperativo che Giovanni Paolo II rivolge alle chiese giovani nell’enciclica Redemptoris Missio.

Per favorire questo processo, vicino a Dar es Salaam sta nascendo (inizierà le attività a partire dalla fine di quest’anno) il «Consolata Mission Centre»: faro di missionarietà. La costruzione di un centro di animazione missionaria in Tanzania corona un sogno che i missionari operanti in questo grande paese dell’Africa Orientale hanno nutrito per molti anni e che risponde anche alla «provocazione» lanciata dalla Conferenza Episcopale del Tanzania  a tutti gli agenti pastorali di lavorare per un’evangelizzazione che scenda il più possibile in profondità. Per dirlo in swahili: Uinjilishaji wa kina. Una prima evangelizzazione che tenga soprattutto conto della promozione umana e che si definisca in base alla dimensione delle opere di sviluppo e carità non può e non deve assolutamente tralasciare l’aspetto spirituale se non vuole vedere vanificati i frutti della sua azione. Per rendersi conto del rischio causato da un’evangelizzazione che si fermi alla superficie e non tocchi in profondità il cuore delle persone basta fare un giro per le strade di Dar es Salaam e notare il grande numero di chiese appartenenti alle sètte più disparate presenti ormai in ogni angolo della città e alla loro capacità di richiamare proseliti.
Proprio Dar es Salaam è stata scelta come sede del nuovo centro di animazione missionaria, e questo non a caso. La città costiera, porto marittimo, da sempre importante sede di scambi e commerci per tutta l’Africa Orientale è ormai una metropoli di circa 4 milioni di abitanti. Qui convergono genti di tutte le tribù, provenienti da ogni angolo del Tanzania, che fanno della città un luogo estremamente vivace e vario. L’ubicazione precisa sarà in una delle tante nuove periferie della città, Bunju, e dovrà servire anche come centro propulsore di attività e integrazione per il quartiere.
La dotazione del centro prevede una cappella, cuore dell’edificio e delle attività. Due spazi riservati all’ospitalità, con 48 camere a doppio letto, il refettorio, un salone conferenze e salette più piccole per incontri di gruppo. Il centro ospiterà anche l’abitazione e gli uffici dei missionari addetti all’attività di animazione missionaria. Accanto alla costruzione sorgerà anche la casa delle suore della Consolata che collaboreranno direttamente nella stesura dei programmi e nella conduzione delle attività di animazione e formazione.
Il Centro pubblicherà l’unica rivista missionaria in swahili di tutto il Tanzania: Enendeni (vedi box). Inoltre, pubblicherà vari sussidi di carattere pastorale-missionario.

Questa nuova iniziativa desidera avere una finalità educativa e formativa, orientata secondo una prospettiva squisitamente missionaria. I programmi dovranno avere un raggio molto vasto, in modo da cogliere la persona nelle sue varie dimensioni: umana, spirituale, apostolica e missionaria. Essi prenderanno in considerazione i vari aspetti della chiesa, della società e del mondo: vocazione missionaria di ogni persona e comunità, servizio, inculturazione,  dialogo interreligioso, ecumenismo, giustizia, pace e armonia del creato, promozione della donna, giovani. Inoltre, si approfondiranno argomenti come la pandemia Hiv-Aids e altri temi di scottante attualità in contesto africano, che richiedono risposte chiare da parte di animatori e operatori missionari ben formati.
Le attività del centro avranno come destinatari sacerdoti, religiosi, catechisti, leader comunitari, membri di associazioni e gruppi ecclesiali, i giovani e le famiglie. I programmi verranno preferibilmente condotti in modo partecipativo, «stile laboratorio», così da ottenere un maggior coinvolgimento personale di chi vi prende parte. Avranno inoltre una forte componente spirituale, in modo da offrire ai partecipanti le motivazioni e la forza per l’azione che deve seguire l’attività formativa. Il desiderio è quello di offrire qualità e profondità, in modo che i partecipanti trovino nel centro una fonte spirituale a cui abbeverarsi e contenuti solidi che ne appoggino l’azione pastorale e di testimonianza.
Attingendo al loro carisma e all’esperienza maturata sul campo, i missionari e le missionarie della Consolata si propongono di rendere questa iniziativa una scuola di universalità e di missione. Sarà necessaria la creatività degli artisti, la pazienza dei coltivatori, l’umiltà dei poveri e il coraggio dei profeti. Non sappiamo quale risonanza e risposta attingeranno i programmi offerti e le attività svolte. Sappiamo però che questo è il nostro dovere: animare, perché la chiesa che è in Tanzania viva l’ardore della Pentecoste, evento di missione per tutti i popoli. 

Di Giuseppe Inverardi e Gianni Treglia


ENENDENI
Gazeti la Kimisionari
(ANDATE – Rivista Missionaria)


«Andate… ammaestrate tutte le nazioni». Queste parole, comando di Gesù prima di ascendere al cielo, hanno caratterizzato l’attività missionaria della chiesa fin dal suo principio e animano ancora oggi i missionari sparsi per il mondo a portare il suo annuncio di pace e di liberazione ai popoli. Sono state anche il motivo per cui i missionari della Consolata in Tanzania hanno dato vita ad una rivista missionaria, uno strumento che, assieme a tante altre opere missionarie, portasse a tutti l’annuncio della «Buona Notizia».
La rivista Enendeni ha iniziato ad essere pubblicata nel 2003 ed è la più giovane fra le riviste pubblicate dai missionari della Consolata. Ha scadenza bimensile ed una tiratura di circa tremila copie. Alla base della riflessione che ha dato il via a questa rivista c’è sicuramente il fatto che le pubblicazioni cattoliche in Tanzania sono pochissime, tanto che si possono contare sulle dita di una mano. Tra queste, però, Enendeni si distingue per il desiderio di animare missionariamente la chiesa locale tanzaniana.
Impostata in modo molto semplice, la rivista si rivolge alla gente comune e ai giovani in modo particolare. Esperienze ed attività missionarie compiute in Tanzania e nel resto del mondo, messaggi della chiesa locale ed universale per occasioni particolari, riflessioni di natura biblico-missionaria, argomenti di vocazione missionaria costituiscono l’ossatura della rivista e il contenuto della maggior parte dei suoi articoli. Di grande impatto sui lettori sono le testimonianze dell’ormai buon numero di giovani missionari tanzaniani sparsi per il mondo, i quali, raccontando la loro vita spesa “per la missione”, contribuiscono al risveglio missionario e all’apertura di nuovi orizzonti.
Enendeni, pur essendo fondata e diretta dai missionari della Consolata, ha voluto, sin dal suo inizio, coinvolgere anche le altre forze missionarie del paese, altri istituti missionari, le diocesi, i laici. In questa linea, molto importante, e determinante per la sua divulgazione, è stata la collaborazione creatasi tra la rivista e le Pontificie Opere Missionarie del Tanzania. Ogni nuovo numero contiene un inserto gestito direttamente dal direttore delle Pontificie Opere Missionarie del Tanzania che spiega le attività svolte da questo ufficio nell’intero paese. Questa collaborazione ha fatto sì che la rivista raggiungesse tutte le diocesi del Tanzania e da tutti sembra essere molto apprezzata.
Con l’apertura del nuovo Centro di animazione missionaria a Dar es Salaam, la sede della rivista avrà una nuova casa. Non è certo uno spostamento di ordine pratico! Centro e rivista lavoreranno in stretta collaborazione in modo che, «essendo la Chiesa per sua stessa natura missionaria», possano proporre e promuovere insieme una sensibilità alla missione al servizio della chiesa tanzaniana.

Giuseppe Inverardi e Gianni Treglia




Ti amo da morire

Amore materno e figlicidio: intervista

Sempre più casi di genitori che uccidono i propri figli. Un «contrasto» psicosociale  in evoluzione ma prevenibile. E curabile. Un fenomeno moderno o una pratica antica? Come individuare la patologia, prima che sia troppo tardi. La parola alla specialista.

Da tempo si parla, più o meno con competenza, di disagio mentale grave e delle conseguenze sociali che comporta, come gli omicidi in famiglia in generale. Una realtà ancora più allarmante considerando il fatto che i riflettori sono puntati sul reato di figlicidio, ossia delle madri (o padri) che sopprimono la loro creatura in tenera età. Storie di dolore e sofferenza a cui la società non è ancora pronta (o non è in grado) di farvi fronte, nonostante tale «fenomeno» tenda ad aumentare, sia per numero di casi che per la molteplicità delle cause che sono all’origine del problema. Per sapee di più abbiamo intervistato la dottoressa Alessandra Bramante, psicologa, specialista in criminologia clinica ed esperta in psicodiagnostica forense. È pure consulente del Centro Depressione Donna all’ospedale Macedonio Melloni che fa capo al Fatebenefratelli di Milano. Autrice della recente pubblicazione Fare e disfare… dall’amore alla distruttività. Il figlicidio materno (ed. Aracne); inoltre membro e socio fondatore dell’associazione (onlus) Progetto Panda, che si occupa di prevenzione e trattamento del disagio psicosociale della donna in gravidanza, della puerpera e della mamma con bambini piccoli.

Dottoressa Bramante qual è la differenza tra infanticidio e figlicidio?
Infanticidio è un termine giuridico e si riferisce all’articolo 578 del nostro codice penale che prevede una pena diminuita per la madre che cagiona la morte del figlio durante il parto o subito dopo la nascita, in condizioni di abbandono materiale e morale. Quando si parla dell’uccisione di un bambino appena nato è quindi preferibile utilizzare il termine criminologico neonaticidio, che non ha valenza giuridica come il termine figlicidio, con il quale si intende l’uccisione di un figlio dal giorno di vita in poi.

In ogni caso si tratta di una realtà dal notevole impatto sociale. Quali le origini?
Sicuramente la notizia che una madre ha tolto la vita al proprio bambino suscita sgomento e profonda ansia collettiva, sia perché la vittima è un bambino sia perché viene ucciso nel luogo in cui dovrebbe essere protetto (la casa), e da chi più di ogni altro dovrebbe prendersi cura di lui. Ma le origini del fenomeno sono lontane: è un reato «vecchio come il  mondo», sempre esistito e addirittura in qualche periodo accettato o incentivato.

Cosa spinge una mamma a compiere un gesto così contro natura?
Sono molteplici le motivazioni che portano una madre a commettere figlicidio. Le più frequenti sono la presenza di una grave patologia psichiatrica, il neonaticidio, che ha motivazioni tutte sue, il troppo amore (sindrome di Munchausen per procura) e la sindrome di Medea.

Cos’è la sindrome di Medea?
La sindrome è un complesso di sintomi che caratterizzano uno stato morboso. In questo caso è riferito a quelle madri che uccidono il figlio per punire il vero oggetto d’odio e cioè il partner, proprio come fece Medea con Giasone. Tale sindrome, è nata per definire la madre figlicida, e oggi sembra essere più frequente nei padri che, incapaci di sopportare il dolore della separazione, uccidono il figlio per punire chi li ha abbandonati.

Il maggior numero di figlicidi riguarda più le madri o i padri?
Si tratta più o meno dello stesso numero di casi ma ben sappiamo che colpisce molto di più la notizia di una madre che uccide la propria creatura. In primo luogo perché le mamme uccidono bambini piccoli al contrario dei padri che uccidono giovani adulti. In secondo luogo perché spesso quando i padri uccidono non si parla di figlicidio ma di stragi famigliari, in quanto nel reato vengono coinvolti più membri della famiglia.

Tra le cause di figlicidio non meno importante sembra essere la depressione post-partum. In cosa consiste questa patologia? E in quanti casi si manifesta?
È una forma di depressione che colpisce il 10 per cento delle neomamme, ed è caratterizzata da sintomi ben precisi e riconoscibili quali: disturbi del sonno (non solo legati al pianto notturno del bambino), tristezza, perdita di interesse, isolamento sociale, senso di inadeguatezza, disturbi dell’alimentazione e trascuratezza di sé.

Perché la depressione post-partum è considerata il «lato oscuro» della mateità?
Perché è difficilmente riconosciuta dalle donne, in quanto è un aspetto negativo dell’essere mamma: piange, non dorme la notte, si sente insicura e crede che non sarà mai una buona madre per il suo bambino. La depressione post-partum è un «ladro che ruba la mateità», un qualcosa che fa paura. Ma se si prende coscienza del fatto che anche la mente si può ammalare senza vergogna, e si accetta di essere aiutati, è possibile uscie e godere appieno della propria mateità.

È una patologia prevenibile e curabile?
È una malattia troppo spesso non riconosciuta e sovente è sottovalutata, ma che se individuata in tempo è curabile. Ecco allora l’importanza di intervenire preventivamente soprattutto perché vi sono fattori di rischio già presenti durante la gravidanza come la familiarità psichiatrica, una gravidanza non desiderata, la vicinanza tra due gravidanze, la presenza della sindrome premestruale, oppure un rapporto di coppia conflittuale.

Nel nostro paese ci sono strutture socio-sanitarie preposte all’assistenza di queste donne considerate «a rischio»?
A Milano è sorto il Centro (primo in Italia) dedicato allo studio e al trattamento della psicopatologia della gravidanza e del post-partum. La struttura, denominata Centro Depressione Donna, ha compiuto due anni il 21 dicembre scorso, si trova all’interno dell’ospedale Macedonio Melloni e fa capo al Fatebenefratelli. L’équipe, guidata dal professor Claudio Mencacci e dalla dottoressa Roberta Anniveo, responsabile del centro. È uno staff in «rosa» formato da psichiatre e psicologhe, il cui lavoro si basa su colloqui psichiatrici, psicoterapia individuale e di gruppo, corsi di rilassamento, valutazione della relazione madre-bambino in collaborazione con la neuropsichiatria e lezioni ai corsi di preparazione al parto.

In alcuni casi dopo il parto la donna prova un senso di vergogna o addirittura di rifiuto al punto da dover sopprimere la propria creatura?
Può capitare che una neomamma non abbia fin da subito quello che viene detto «istinto materno» e che non senta quella forte attrazione verso il neonato. Ma sappiamo che non è vero che fare la madre è un’attitudine innata: si impara ad allevare un figlio giorno dopo giorno. Tuttavia, esistono casi estremi in cui la madre rifiuta totalmente il neonato o addirittura si vergogna di averlo generato, casi in cui si può arrivare all’abbandono oppure all’omicidio.

Cos’è la mateity blues?
È quella tristezza che accomuna il 70% delle neomamme, ed è caratterizzata da umore depresso (che non dura per tutto il giorno), ansia, crisi di pianto e senso di inadeguatezza che tende a risolversi nel giro di una o due settimane ma che se non sparisce rischia di trasformarsi in depressione post-partum.

In queste donne particolarmente fragili e «a rischio», quanto incide la solitudine o la poca attenzione nei suoi riguardi prima e dopo il parto?
Ha una grande importanza per tutte le donne, soprattutto nel post-partum, avere l’appoggio non solo materiale ma anche psicologico delle persone che gli stanno intorno, ancor di più ciò è importante per quelle donne più fragili e a rischio.

Quanto sono coinvolti il marito o i famigliari della neo madre che ha commesso il figlicidio?
Studiando questo fenomeno ma anche occupandomi di depressione post-partum, mi sono resa conto di come si tratti di donne sole, incomprese nella loro sofferenza che, se pur spesso manifestata, viene minimizzata e in certi casi anche negata dal partner e dai famigliari.

Che ruolo ha un padre nell’equilibrio di madre (moglie) durante la gravidanza e dopo il parto?
Nei corsi di preparazione al parto insegniamo alle future mamme l’importanza di essere aiutate e di coinvolgere il futuro padre in tutto ciò che riguarda la cura del bambino. Quello di un padre presente e accudente, non solo con il bambino ma anche con la neomamma, è un ruolo di basilare importanza al fine di prevenire la psicopatologia così come gesti estremi.

In quali casi, e perché, la memoria dell’accaduto viene rimossa? E dopo quanto tempo la madre che si è privata del proprio figlio «ritorna» coscientemente alla realtà e con quali reazioni?
Capita a tutti noi nella vita di accantonare quei pensieri o eventi che più ci spaventano e feriscono. Tale meccanismo di difesa si chiama rimozione ed è utilizzato dalla nostra mente per allontanare ciò che ci fa male. Ma nulla è dimenticato e il rimosso prima o poi riaffiorerà. In questo senso è importante il lavoro psicoterapeutico per accompagnare queste donne nel cammino di elaborazione di ciò che hanno commesso, dal momento che la donna quando realizza di avere lei stessa tolto la vita alla propria creatura, si trova a dover affrontare un dolore lacerante. In questo momento il rischio di atti autolesivi è elevato e da lì in poi la donna dovrà affrontare la vita con dentro di sé una ferita che mai potrà essere sanata ma con la quale dovrà imparare a convivere.

Cosa fa oggi la società per stare accanto alla donna che si appresta a diventare madre?
Purtroppo la società fatica ancora a muoversi in tal senso, anche se in quest’ultimo periodo c’è un po’ di attenzione a tutto ciò che riguarda la mateità. Rimangono comunque da sfatare quei miti sulla mateità che la società ci propone sotto diversi aspetti, come ad esempio il fatto che avere un bambino sia esclusivamente fonte di gioia, quando sappiamo che non sempre è così e che esistono fattori che possono impedire alla donna di vivere serenamente la mateità.

I mass media nel dare notizia di questi eventi sono sempre responsabili tanto da creare quell’impatto mediatico che potrebbe, in alcuni casi, compromettere il rispetto della privacy e della dignità della persona?
Troppo spesso accade che la privacy venga violata dall’accanimento mediatico e che resti la grave infrazione di essersi intromessi, non solo gli addetti ai lavori ma noi tutti spettatori, nella vita e nel dolore dei protagonisti di queste tragedie famigliari. Se una madre è innocente la sua immagine sarà infangata e, al contrario se colpevole, il suo atto deve riguardare la giustizia e la medicina, e senza ombra di dubbio sarebbe necessario spegnere i riflettori su di lei lasciando, a lei e alla famiglia, il tempo e lo spazio per elaborare il loro dolore. 

a cura di Eesto Bodini

Eesto Bodini




Che donna!

Madre Maria Laura Montoya upegui (1874-1949)

Mistica sublime, missionaria d’avanguardia, scrittrice feconda, avvocata in difesa dei poveri, madre e maestra degli indigeni americani, Madre Laura ha rivoluzionato il concetto stesso di missione con mezzi pedagogici e metodi nuovi di evangelizzazione.

A Jericó, nella regione meridionale del dipartimento di Antioquia (Colombia), il 26 maggio 1874 nasce una bambina. La madre non vuole vederla né allattarla, finché non sia battezzata. Il padre, affannato, prende in braccio la piccina, corre in chiesa e prega il prete di battezzarla. Il tempo di trovare i padrini, e, a quattro ore dalla nascita, il prete versa l’acqua sul capo della piccola, dicendo: «Maria Laura di Gesù, io ti battezzo…». «Laura non è un nome di santa» interrompe il genitore. «Se non lo è, vuol dire che sarà essa a diventarlo» risponde brusco il prete, e prosegue la cerimonia.

«FAME DI AFFETTO»

Juan de la Cruz Montoya e Dolores Upegui, genitori di Maria del Carmen, Maria Laura e Juan de la Cruz, erano cristiani convinti. Entrambi originari di Medellin, si erano dovuti trasferire a Jericó, quando il padre assunse l’incarico di capo civile e militare.
In quegli anni la Colombia stava vivendo uno dei periodi più sanguinosi della sua storia. Odi ereditari, voglie di rivincita, lotte ideologiche si erano coagulate attorno a due partiti: conservatori e liberali. I conservatori, autodefinendosi paladini dell’ordine, si battevano per la perpetuità dei privilegi delle classi tradizionali e del clero; volevano fermamente che la Colombia fosse e restasse al servizio della vera fede, per cui eretici e miscredenti erano considerati nemici della patria.
I liberali difendevano con altrettanto ardore la separazione tra stato e chiesa e i «propri» princìpi di laicità, con viscerale fanatismo anticlericale, fino a dire che «fucilare vescovi e preti era un atto d’igiene e decenza pubblica». Così il paese era diviso in due accampamenti di partigiani: gli uni per cancellare la religione, gli altri per difendere religione e patria.
«Prima di insultare la regione a Jericó dovranno passare sul mio cadavere» diceva Juan de la Cruz. E così avvenne: la notte del 2 dicembre 1876, fu barbaramente assassinato e mutilato di un braccio. I rivoluzionari s’impadronirono di Jericó, confiscarono i beni della famiglia Montoya e degli altri anti-rivoluzionari.
La signora Dolores e i suoi tre figli si trovarono sul lastrico. Furono ospitati prima dai parenti patei e poi da quelli matei, ma senza mai sentirsi bene accolti. Alla fine Lucio Upegui, padre di Dolores, radunò la famigliola nella tenuta chiamata «La Vibora» vicino ad Amalfi.
Negli anni dell’infanzia Laura sperimentò «la fame di affetto», come scriverà nella sua autobiografia. Il nonno, infatti, non mostrò molta simpatia per questa nipotina seria e silenziosa.

«CHIAMATA DEL FORMICAIO»

Per non dare fastidio al nonno, Laura se ne andava per i campi, dove poteva abbandonarsi a giochi infantili, soddisfare la sua curiosità e contemplare la natura, rimanendo spesso per ore incantata dal laborioso via vai delle formiche.
A 7 anni Laura ebbe una straordinaria illuminazione, in cui scoprì la presenza personale di Dio, come racconta nell’autobiografia. «Una mattina me ne andavo con le formiche fino all’albero dove prendevano le foglie e tornavo con loro al formicaio… Venni ferita come da un raggio. Non so dire di più. Quel raggio fu conoscenza di Dio e della sua grandezza… Ho saputo che Dio esiste… Ho pianto a lungo di gioia, per il grande amore… Da allora mi sono lanciata nelle braccia di lui. Era proprio quello che cercavo e di cui sentivo la mancanza» (Autobiografia, p. 42). Laura definiva quest’incontro «la chiamata del formicaio».
Dopo tale illuminazione la bambina iniziò una vita di penitenza e di maggiore preghiera e ad amare e servire i poveri, soprattutto una vecchietta, a cui portava il conforto del suo servizio.

«LA CHIAMATA DEL BANCO»

Lontano dal paese, Laura non poté andare a scuola. Sua madre le insegnò a leggere, scrivere, fare un po’ di conti. Dalle labbra della madre imparò a pregare e perdonare: recitava tutti i giorni un Padre nostro per chi aveva assassinato suo padre. Apprese soprattutto il catechismo. Grazie alla sua memoria prodigiosa, Laura lo ripeteva a menadito, tanto che fu ammessa alla prima comunione all’età di 7 anni, anche se non si rendeva ancora conto della presenza di Gesù nell’eucaristia.
Ma un giorno, aveva 12 anni, mentre inamidava una tela su un banco da falegname, ebbe un’altra esperienza, da lei definita «chiamata del banco». «All’improvviso – racconta – un dolore intenso mi trafisse il petto; abbondanti lacrime mi inondarono le gote… sentii che l’eucaristia trafiggeva e penetrava nella mia anima. Sì Gesù era presente nell’eucaristia e il Verbo era in Gesù».
Da quel momento Laura non vedeva l’ora di poter comunicarsi e trovò uno stratagemma: di buon mattino sellava due cavalli del nonno e, insieme al fratello Juan, si recava ad Amalfi, riceveva la comunione e tornava a casa prima che qualcuno si svegliasse. Finché un giorno il nonno, esaminando i cavalli, domandò: «Come mai i cavalli sono così sudati, senza aver fatto ancora nulla?». I ragazzi non risposero, ma da quel giorno finì la santa avventura.

LAURA DIVENTA MAESTRA

La madre decise di inviare Laura a Medellin per farla studiare nel Colegio del Espiritu Santo, frequentato dalle figlie dell’alta società. Ospite nell’orfanotrofio gestito dalla zia Maria Jesus Upegui, doveva accompagnare una cuginetta capricciosa, che troppo spesso voleva tornare a casa e non permetteva a Laura di frequentare regolarmente le lezioni.  Per di più, senza libri e con un vestito da orfanella di panno giallo, era diventata lo zimbello delle compagne, che la chiamavano «canarino».
Smise di frequentare quel collegio e decise di diventare maestra, per sostenere se stessa e la madre con tale professione. Aveva 16 anni. Era senza il becco di un quattrino. Accettò di vivere nel manicomio diretto dalla stessa zia Maria Jesus, accudendo a oltre 80 malati. Non avendo libri, ottenne il permesso di frequentare la biblioteca dell’istituto magistrale, dove si preparò per l’esame di ammissione. Lo superò brillantemente e ottenne una borsa di studio del governo e, a 19 anni conseguì il diploma di maestra.
Laura prese con sé la madre e insegnò in vari posti del dipartimento di Antioquia, finché toò a Medellin, nel 1897, chiamata dalla cugina Leonor Echevarria per fondare insieme il collegio de La Inmaculada.
Considerava l’insegnamento come la migliore forma di apostolato, per cui non si accontentava di trasmettere il sapere umano, ma si dedicò particolarmente all’insegnamento religioso: con la sua vivacità, talento e ardore incantava le alunne e trasmetteva loro la propria esperienza di Dio, l’amore all’eucaristia, i valori cristiani.
La scuola diventò presto famosa, attirando le figlie delle principali famiglie della città. Quando la giovane Leonor morì, Laura prese le redini del collegio, aumentandone il prestigio, finché per un banale incidente dovette chiudere i battenti.
Una studentessa, Eva Castro, alla vigilia delle nozze fu presa dai dubbi, credendosi chiamata alla vita religiosa. I familiari attribuirono il fatto all’influenza della direttrice Laura Montoya. Eva, poi, si sposò felicemente, ma un suo fratello scrisse un romanzo intitolato «Figlia spirituale», in cui descriveva a tinte fosche Laura, le maestre e i loro metodi educativi. I genitori ritirarono le figlie e il collegio si svuotò.
Seguì un lungo periodo di fame, solitudine, disprezzo, persecuzione, emarginazione dalla società, insieme alla madre e alla sorella, finché il padre spirituale gli suggerì di scrivere una «Lettera Aperta», per confutare punto per punto le calunnie scritte nel romanzo. E lo fece con tale semplicità e maestria che la società, e lo scrittore stesso, le riconobbero l’innocenza, nobiltà d’animo e virtù. E ricominciò a insegnare in varie scuole pubbliche.

«LA PIAGA»

Da tempo Laura sentiva l’attrazione per la vita di consacrazione religiosa e pensava di diventare carmelitana, ma i suoi superiori non approvavano l’idea, finché ebbe tra le mani la rivista Annali della propagazione della fede e si sentì chiamata a salvare gli indigeni colombiani, con quello che lei chiamava «l’opera degli indios». Tale vocazione divenne così forte che, racconta nell’autobiografia, diventò «la piaga, un qualcosa che mi brucia e mi consuma».
Dopo un’escursione con due amiche tra gli indios del Choco, Laura scrisse inutilmente a varie congregazioni religiose chiedendo aiuto per questi indigeni. Decisa a recarsi a Roma, per presentare al papa la situazione degli indios americani, raccolse i suoi risparmi e, prima di partire, si recò nella cattedrale; si inginocchiò davanti alla statua dell’Immacolata e pregò: «Vedi, Signora, questo denaro: l’ho risparmiato per aiutare gli indios. Non vorrei sprecarlo in un viaggio difficile e costoso; ti prego: questa notte, quando il papa porrà la testa sul cuscino, fagli sentire i gemiti dei poveri indigeni del mondo e convincilo a fare qualcosa».
Nel giugno 1912 Pio x pubblicò l’enciclica Lacrimabili statu indorum, in cui esortava vivamente i vescovi d’America a interessarsi degli indigeni e facilitare il lavoro missionario in mezzo a loro.
Nel frattempo Laura decise di andare essa stessa a catechizzare gli indigeni. Scrisse a vari vescovi, presentando la sua «opera», finché ricevette una risposta da mons. Maximiliano Crespo, vescovo di Santa Fé de Antioquia. Questi le diede appuntamento per l’11 febbraio 1912 nell’episcopio di Medellin. Il prelato concluse l’incontro con queste parole: «Accetto la tua “opera” con anima, vita e cuore. Ti appoggerò sempre e, qualora scarseggiasse il denaro della diocesi, rimane il mio borsellino, che non è scarso, e lo metto a tua disposizione».

MISSIONE A DABEIBA

Laura cominciò subito i preparativi. Raccoglieva denaro, stoffa, specchi, stoviglie e quant’altro riteneva utile per gli indios e le compagne di avventura. Molti la prendevano per matta, ma alcune amiche si offrirono di andare insieme a lei. A tutte Laura domanda: «Sei disposta a patire la fame? Se è necessario, sei capace di mangiare lo stesso cibo degli indigeni, radici e foglie del bosco? Sei disposta a essere aggredita in qualsiasi momento dagli indigeni, a fuggire nella foresta e trascorrervi la notte? Sei disposta a lavorare senza nessun frutto e accettare il disprezzo degli indigeni?». A quell’epoca era chiedere l’eroismo e un pizzico di follia.
Cinque giovani, più la sua settantenne madre Dolores Upegui, accettarono di formare il primo gruppo di  «Missionarie catechiste degli indios». Il 5 maggio 1914 («il più bel giorno della loro vita») le sette donne lasciarono Medellin e, dopo 10 giorni a cavallo, raggiunsero il villaggio di Dabeiba, nella regione dell’Urabà, tra gli indios catios.
Le delicate ed eleganti signorine di Medellin iniziarono a costruire una grande capanna di fango e paglia con le loro mani, con la scarsa partecipazione di alcuni indigeni. L’abitazione grande serviva da salone di lavoro, scuola, luogo per ricevere visite, sala da pranzo; anguste camerette e una cucina completavano la casa.
All’inizio gli indios si mostrarono sospettosi e stavano alla larga. Ma poi, un fonografo attrasse la loro curiosità. Laura mise in atto tutte le sue doti pedagogiche per comunicare con gli indigeni, radunarli per parlare di Dio e della loro dignità, per istruirli e curare le loro infermità. Un po’ di bicarbonato e la dissenteria scompariva; un bicchiere di camomilla faceva passare tanti dolori; le ferite, spalmate di grasso, si cicatrizzavano…  per i catios erano miracoli.

NASCONO LE «LAURITE»

Laura non aveva nessuna intenzione di fondare una comunità religiosa. Ma mons. Crespo glielo aveva prospettato fin dal primo incontro: «Le condizioni poste alle tue compagne possono essere la base per una eventuale congregazione religiosa. Dovendo vivere con gli indios, per non sembrare loro mogli ci sarebbe il voto di castità; per non cadere nella tentazione di fare affari con loro ci sarebbe il voto di povertà; per non sbandare e per lavorare con ordine ci sarebbe il voto di obbedienza».
Aumentato il numero delle catechiste, constatando il loro esempio di generosità, abnegazione ed eroismo, il vescovo chiese a Roma di elevare quel gruppo di donne a congregazione religiosa diocesana.
Il 1° gennaio 1917 nasceva ufficialmente la congregazione delle «Missionarie di Maria Immacolata e santa Caterina da Siena» (poi note come «Laurite»), un’opera religiosa che rompeva con schemi e modelli tradizionali, lanciando le donne come missionarie nell’avanguardia dell’evangelizzazione dell’America Latina. Quello stesso giorno Laura emise la professione religiosa e 13 compagne, compresa la madre Dolores, iniziarono il noviziato canonico.
Grande maestra spirituale, Madre Laura così descrive la formazione impartita fin dall’inizio: «Nell’anima delle suore ho cercato d’imprimere l’idea che Dio non poteva essere conosciuto dagli indios se non si mostrava un riflesso di lui in noi e nel nostro modo d’essere… Dovevamo avere verso di loro una bontà tale da poter solo dire: così è Dio e ancora di più!».
Stile e scopo della nuova e, per quei tempi, rivoluzionaria comunità religiosa, sono riassunti nel comunicato che Madre Laura inviò a Roma per chiedere Decretum laudis, cioè l’approvazione definitiva della congregazione: «Cercare gli indigeni nella selva e avvicinarli con un metodo autenticamente materno; insegnare nei loro stessi villaggi;  cercare in ogni aspetto il miglioramento della sorte degli indigeni; continuare l’opera dei missionari con l’insegnamento, scuole, ospedali; alleviare i missionari in ciò che è possibile, assistendoli secondo le disposizioni dei vescovi; rivolgersi allo stesso modo agli indigeni a cui non può giungere l’azione di altre congregazioni».
Madre Laura era animata da zelo incontenibile e lo trasmetteva alle sue suore. Organizzava lunghe escursioni nella foresta, a dorso di mulo, sotto il sole canicolare, con poco cibo e molto entusiasmo, alla ricerca degli indigeni. Nei villaggi più lontani stabiliva nuovi centri o ambulancias, dove le suore, con la loro presenza, rassicuravano gli indios che erano persone, avevano un’anima ed erano figli di Dio, cose negate da certi leaders civili e religiosi.
Facendosi strada verso le montagne, navigano in canoa su fiumi dalla ripida corrente o in zattere costruite dagli indigeni o da loro stesse, le giovani Laurite si spingevano sempre più lontano, fino al Golfo di Urabà, in cerca dei caribes-kuna.

SUCCESSI E CROCI

Nei primi 10 anni Madre Laura vide moltiplicarsi i frutti della sua travolgente opera apostolica: indigeni scolarizzati e avviati sul cammino della vita cristiana, altre giovani erano arrivate a rafforzare le file delle sue missionarie. Seguirono anni segnati da pregiudizi, incomprensioni e disprezzo da parte della società e dai prelati che non comprendevano quello stile di essere «religiose capre» (secondo la loro espressione). Con la morte di mons. Crespo, le suore dovettero abbandonare i primi centri costruiti con tanto eroismo.
«La comunità sembrava una barca rotta in mezzo al mare». Madre Laura affrontò le avversità con la solita giovialità e fede in Dio, infondendo coraggio alle sue figlie e aprendo nuovi campi di lavoro. Dopo aver migrato in varie località, Madre Laura ottenne di stabilire il noviziato e la casa centrale a Medellin, in un terreno chiamato Belencito. Qui si fermò sempre più a lungo, a causa della crescente obesità, che rendeva sempre più difficili i suoi viaggi. 
Negli ultimi 10 anni, la Madre fu costretta a vivere su una sedia a rotelle, da dove continua a vigilare sul cammino della congregazione e, seduta davanti a un piccolo scrittornio, arrivava con le sue lettere a tutte le sue figlie. Inviò alcune suore in Ecuador (1940) e in Venezuela (1948).
Il 21 maggio 1949 iniziarono terribili sofferenze alle gambe, che si riempirono di pustole dolorose. Dal mese di settembre dovette rassegnarsi a rimanere a letto, finché spirò serenamente, il 21 ottobre 1949, dopo 42 anni di vita secolare e 33 di vita religiosa.
Fu sepolta nella cripta della chiesa del Belencito, dove già riposavano i resti di suor Isabelita Tejada e di sua madre: suor Maria del Sacro Cuore.
Allora la congregazione delle Laurite contava 467 religiose e 93 novizie; erano state fondate 122 case, di cui erano aperte 90, irradiando il lavoro tra 22 popoli indigeni, la maggior parte in Colombia, altre in Ecuador e in Venezuela.

Nel 1930, Madre Laura si era recata a Roma, per chiedere l’approvazione pontificia della sua congregazione. In una delle visite alle basiliche romane, un prete le mostrò la galleria dei santi fondatori, i cui ritratti erano posti in belle nicchie. «In una di queste nicchie salirà anche lei Madre» le disse il prete. «Credo che, con queste gambe così pesanti, non riuscirò ad arrivare così in alto», rispose essa sorridendo.
Invece, il 25 aprile 2004, Giovanni Paolo ii la elevò alla gloria del Beini, dichiarandola beata e realizzando la profezia dello sbrigativo prete che l’aveva battezzata.  

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Una morte in più o tante morti in meno?

Ufficialmente è stato stroncato da un infarto fulminante, conseguenza di una polmonite che già si stava trascinando da tempo. L’aggressione subita dieci giorni prima nella missione di Manizales (Colombia), dove da anni risiedeva, aveva avuto pesanti effetti collaterali sul suo già precario stato di salute. Le botte, lo spavento, le ore passate disteso nel freddo e nell’umidità della notte, legato e imbavagliato in attesa di soccorso hanno minato le poche energie rimaste. È morto così padre Mario Bianco, missionario della Consolata novantenne, cinque decadi in Colombia, dopo una precedente esperienza in Mozambico. Uomo schivo, silenzioso, scioglieva la lingua solo quando poteva raccontare qualcuna delle sue tante avventure. Quest’ultima, purtroppo, ha avuto poco tempo per diffonderla.

La morte di padre Mario, avvenuta lo scorso 12 febbraio, ha coinciso con l’omicidio di una turista genovese assaltata a scopo di rapina mentre era in compagnia del marito, anch’egli ferito. Questa volta il fatto è avvenuto a Cartagena de las Indias, sulla costa atlantica, uno dei centri turistici più belli e frequentati del paese sudamericano. Due eventi senza nessun collegamento fra di loro se non quello di riguardare entrambi cittadini italiani. Due morti la cui causa è da ricondurre alla micro-criminalità urbana,  in cui non c’entra il conflitto armato che da decenni insanguina il paese; nonostante, va detto, il confine fra le morti a causa del conflitto e quelle dovute alla «violenza ordinaria» sia molto labile. Eppure, le fonti governative del paese continuano a parlare di drastiche diminuzioni nel numero di omicidi. Il comandante della polizia colombiana, generale Jorge Daniel Castro, ha comunicato recentemente che nel 2006 si sono verificati nel paese 17.206 omicidi, 500 in meno dell’anno precedente. Un netto calo si è registrato anche nel numero di sequestri. Il merito di ciò viene attribuito alla politica di sicurezza democratica lanciata dal presidente Uribe  e al conseguente rafforzamento della forza militare. I dubbi riguardano  la reale entità di questa diminuzione e, soprattutto, la vera ragione che l’ha prodotta.

Già nel 2005, il «Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo» (Pnud) aveva pubblicato un interessante studio sulle ragioni di questo calo, notando come a una diminuzione del tasso di omicidi nelle grandi città corrispondesse un aumento degli stessi in comuni più piccoli, meno facili da sottoporre a rilevazione statistica. Inoltre, la diminuzione si deve anche a precise strategie dei vari gruppi armati. Merita ricordare che le Auc, i gruppi paramilitari di estrema destra, in fase di trattative con il governo per la loro smobilitazione, hanno proclamato, a partire dal 2003,  vari «cessate il fuoco» che, sebbene molte volte non rispettati, hanno effettivamente portato a una diminuzione dei morti assassinati.

L’analisi del Pnud evidenzia come la decrescita degli omicidi nelle grandi città si debba soprattutto a politiche sociali di sicurezza cittadina e partecipazione democratica. Strategie di convivenza, azioni preventive concordate con i cittadini, programmi educativi nei quartieri più a rischio hanno dato molti più frutti della politica di sicurezza democratica sponsorizzata con forza dal governo. Perché non esportare questi modelli in altre zone del paese?

Avendo ereditato dal grande fratello nordamericano armi e vocabolario, Uribe si trova ora nelle condizioni di doverli usare  e continua a testa bassa nella lotta «contro il terrorismo». La parola «sociale» suona stonata ai suoi orecchi e le molte Ong (nazionali e inteazionali) che operano sul territorio sono da sempre sulla sua agenda nera. Non è esattamente questa la pista che la Colombia dovrebbe percorrere se vuole veder diminuire ulteriormente casi di morte violenta come quelli che hanno coinvolto l’incolpevole padre Mario.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Tra gli ismaliti del Pamir

Una delle Ong più attive in Tagikistan è la Fondazione Aga Khan (Fak), arrivata nel 1993. L’origine di tale presenza è da ricondurre al sostegno che la Fak offre in tutto il mondo alle comunità dei musulmani ismailiti di cui l’Aga Khan è il capo spirituale.
È la seconda comunità sciita, staccatasi dagli sciiti duodecimani. Lo scisma risale al 760 circa. I duodecimani sono così chiamati perché riconoscono nella storia l’autorità di 12 santi imam, discendenti in linea diretta dalla famiglia del profeta. Alla morte del sesto imam, Giafar, tra gli sciiti si produsse una spaccatura: alcuni seguirono la linea dinastica che faceva capo al primogenito Ismail, morto prima del padre; gli altri riconobbero come imam il figlio minore Musa.
Nel XX secolo gli imam ismailiti, che da metà ’800 portano il titolo onorifico di Aga Khan ricevuto dallo scià di Persia, cominciarono a promuovere istituzioni per lo sviluppo economico e sociale delle loro comunità. L’attuale Aga Khan, Karim, diventato il 49° imam nel 1957, ha proseguito sulla stessa strada e nel 1967 ha costituito la Fondazione che porta il suo nome e opera nei paesi in cui vivono le comunità ismailite, ma estende i propri interventi anche agli altri abitanti, senza distinzione di razza e religione.
Concentrati soprattutto in Iran e paesi vicini, gli ismailiti si sono diffusi anche in Africa Orientale, Europa e Nord America.

È un principio che ha subito voluto puntualizzare Dovlatjar, uno dei responsabili della Fondazione in Tagikistan, da me incontrato nella sede di Dushanbe. Egli è un pamiri, appartiene a quelle popolazioni iraniche che, abitando le impervie regioni del Pamir, non furono toccate dalle invasioni turco-mongoliche e convertitesi all’islam ismailita all’inizio del secondo millennio.
Dovlatjar segue il programma della Fak per lo sviluppo delle comunità montane proprio nel Pamir. «Quando la Fondazione vi arrivò nel 1993, dovette fronteggiare l’emergenza cibo, causata dalla guerra civile e dall’isolamento della regione. Qui vivevano 250 mila persone, cui si aggiunsero i profughi provenienti da altre parti del Tagikistan. Passata l’emergenza, dal 1995 si è potuto pensare a uno sviluppo a lungo termine, con un programma di riabilitazione e costruzione di infrastrutture: strade, ponti, scuole, infermerie, canali d’irrigazione. Dal ’98 abbiamo incominciato a istituire le organizzazioni di villaggio».
A questo punto Dovlatjar ha dovuto darmi qualche spiegazione aggiuntiva. «In Asia Centrale c’è sempre stata la consuetudine di eleggere un capo villaggio, l’aksakal (barba bianca): persona autorevole e da tutti ascoltata, con il compito di guidare la comunità. Molti lavori erano fatti da tutto il villaggio: l’aksakal assegnava i compiti, stabiliva i tui per lo sfruttamento dei pascoli, che erano in comune; a lui ci si rivolgeva per un consiglio e dirimere una lite».
Gli abitanti di un villaggio si riuniscono, elencano le cose da fare, stabiliscono le priorità; poi le comunicano alla Fondazione che cerca di trovare il necessario contributo finanziario. Così le comunità sono responsabili nell’individuare le necessità, pianificare gli interventi, costruire e mantenere le infrastrutture.
Dopo un’ora di colloquio con Dovlatjar, cominciavo a capire come il sistema funzionava in teoria, ora desideravo vederlo in opera. L’ho visto a Garm, il centro principale della valle Rasht, dove la Fondazione opera in sette province. Qui ho conosciuto Azam, che tiene i contatti con le 43 organizzazioni di villaggio della provincia e che mi ha invitato a visitae qualcuna.
I l nostro primo villaggio è Shulmak. Vi scorre un torrente cristallino dove si pescano delle trote piccole e saporitissime, «ma anche molto difficili da acchiappare», aggiunge Azam. Si chiamano gol mâhi (pesce fiore), perché la loro pelle è cosparsa di puntini rossi, come minuscole corolle.
All’inizio della collaborazione con la Fak c’è sempre un’assemblea, in cui si stabilisce quanti intendono costituire una propria organizzazione di villaggio. Se almeno l’85% degli abitanti è d’accordo, si elegge un presidente, vicepresidente, contabile e la responsabile del gruppo delle donne. La Fac tiene a che le donne costituiscano un loro gruppo, perché in un ambito tutto femminile, senza la presenza dei mariti e altri uomini, hanno più agio di discutere e formulare le loro richieste.
A Shulmak quasi tutte le famiglie hanno aderito. Il presidente Rakhimov lo spiega così: «Ci siamo accorti che ognuno per sé non poteva risolvere i suoi problemi; così abbiamo deciso di metterci insieme e chiedere aiuto alla Fondazione. Ci siamo riuniti per decidere quali erano le cose da fare. Ne è venuto fuori un lungo elenco: infermeria, strada, scuola, canali d’irrigazione, ripetitore televisivo rotto, vasca per pulire il bestiame, centro per i giovani, ponte, generatore (abbiamo l’elettricità solo per due ore il giorno). Abbiamo scelto di cominciare con l’infermeria».
La stanno costruendo lì accanto. La Fondazione fornisce i materiali, ma il lavoro lo fanno gli uomini del villaggio. Nel frattempo sono stati avviati anche altri programmi: una piantagione di alberi per legname da costruzione, difficile da reperire; microcrediti per le donne, che possono così sviluppare la loro economia domestica e ricavae ortaggi e animali da vendere al mercato.
Arrivata l’ora del pranzo, sul tavolo sotto gli alberi, dove il presidente aveva disteso le sue carte e io prendevo appunti, sono arrivati piatti con anguria, melone, biscotti, pane. Pensavo si trattasse di una merenda veloce; ma di lì a poco è comparso un grosso piatto di carne, poi una montagna di pescetti grigiastri, con dei puntini rossi (i gol mâhi), da ultimo la minestra.
Capivo che non era cosa semplice per questa gente mettere insieme un pranzo del genere; ma alle mie rimostranze è venuta fuori la frase classica, che chiude ogni discussione: «Lei è un ospite!». La legge dell’ospitalità in questi luoghi è ferrea. All’ospite si offre tutto quello che c’è in casa, per accoglierlo si uccide anche l’ultima bestia. Non si può fare altro che accettare con riconoscenza.

D opo pranzo abbiamo visitato il villaggio di Loyoba. Il presidente ci ha ricevuto in casa sua. In questo villaggio c’è il problema dell’acqua. «Non ce n’è a sufficienza per irrigare i campi – spiega il presidente -; la falda acquifera è profonda e i pozzi normali non ci arrivano. Una volta c’era una piccola centrale che pompava l’acqua dal fiume, ma adesso non funziona. Con l’aiuto della Fondazione abbiamo costruito un pozzo profondo. La situazione è migliorata, però non basta. Dovremmo costruire una pompa, ma i macchinari sono costosi». Più della metà degli uomini del villaggio lavorano all’estero. Da una parte è un bene, perché a casa arriva qualche soldo; dall’altra non ci sono braccia a sufficienza e molti lavori ricadono su donne e bambini. Peggio di tutto, però, quando di uomini in famiglia non ce ne sono affatto: una vedova fa fatica a provvedere a sé e ai figli.

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Peggio di così…

La più povera repubblica socialista dell’Urss, il Tagikistan è rimasto tale
con l’indipendenza (1991), tanto da rimpiangere il tempo che fu.
Il paese offre panorami mozzafiato, ma non ha strutture turistiche;
la gente è generosa, ma deve sopravvivere… con l’emigrazione.

Al turista frettoloso non consiglierei mai il Tagikistan: le strade sono in condizioni tali che qualsiasi spostamento, fuori dalla fascia di alcuni chilometri intorno alla capitale Dushanbe, è impresa assai ardua. Esse non vengono riparate da più di 10 anni, da quando il Tagikistan ha ottenuto l’indipendenza. È facile immaginare cosa ciò voglia dire in un paese in cui quasi metà territorio si trova oltre i 4 mila metri e meno di un quinto sotto i mille. Chiazze del vecchio asfalto sono rimaste qua e là; ma sono così sforacchiate che gli autisti preferiscono evitarle e passare sulla parte sterrata.
Ma per chi non ha fretta questa circostanza ha i suoi vantaggi.
La carretta su cui stavo viaggiando arrancava a fatica verso il passo di Anzob, a 3.700 metri. Per fare raffreddare il motore, ogni quarto d’ora l’autista si fermava accanto al solito ragazzino, pronto lungo il ciglio con la lunga canna dell’acqua. Intanto, avevo tutto il tempo di ammirare il paesaggio e abituare l’occhio alle sue bellezze sempre nuove. Scendevo dalla macchina, assaggiavo l’aria, sempre più frizzante, e tiravo fuori la macchina fotografica.
L’Asia Centrale riserva agli amanti della montagna mille sorprese ed emozioni. Non avrei mai pensato che in natura potessero esistere tali e tante varietà di forme, colori, vegetazione nello spazio di pochi chilometri. Da una parte del crinale le valli sono aperte, i declivi morbidi ed erbosi, la roccia bianca; dall’altra tutto è brullo: rocce nere, verdi, azzurrognole si levano perpendicolari. Passa qualche chilometro e la montagna si colora di rosso.
Il veicolo su cui stavo viaggiando era un’auto privata. I trasporti pubblici interurbani sono quasi inesistenti. In due settimane ho incrociato solamente un vecchio autobus, che faceva servizio (irregolare) tra alcuni paesi vicini. Chi ha vera necessità di muoversi deve armarsi di pazienza e aspettare un taxi collettivo o un privato che vada nella direzione voluta. Fino a che non sono riempiti tutti i posti, non si parte. Può capitare di metterci mezza giornata, uno, due giorni per compiere anche brevi percorsi. La va a fortuna.
RICORDI DI TERRORE
Ho aspettato più di tre ore, prima che si riempisse il taxi, diretto a Garm, cittadina a circa 200 chilometri da Dushanbe. Per ingannare l’attesa proposi al taxista Giamshid di andare a bere qualcosa.
Il nome del paese mette ancora paura. A Garm e nella regione omonima ha imperversato con particolare ferocia la guerra civile, che, tra il 1992 e il 1997, ha visto fronteggiarsi le bande paramilitari dei post-comunisti filogovernativi e quelle della cosiddetta Opposizione unita, un’insolita alleanza tra i partiti: democratico, nazionalista e islamico.
«Se sono ancora vivo lo devo a una donna», mi diceva il taxista Giamshid, ex insegnante di scuola, che aveva lavorato diversi anni a Mosca.
Non c’era niente di romantico nella sua storia. Giamshid era stato catturato da una banda di filogovernativi e stava già per essere ucciso, quando una donna, che faceva parte del commando, convinse i compagni a lasciarlo andare. Quell’improvviso gesto di pietà, che Giamshid non si sapeva ancora spiegare, gli aveva salvato la vita, ma per molti altri era andata peggio.
Nel suo villaggio, in un solo giorno, avevano ammazzato 11 persone. La regione di Garm era considerata dai post-comunisti una roccaforte dell’opposizione e ogni abitante maschio era un nemico da eliminare.
Per sottrarsi alle incursioni delle truppe, gli uomini scappavano sulle montagne, si rifugiavano nelle repubbliche vicine, arrivavano fino in Russia. Donne e bambini rimanevano, campando come potevano. Coltivare i campi era pericoloso: per sfamarsi vendevano o uccidevano il bestiame.
Sebbene la guerra sia durata diversi anni, le violenze maggiori sono avvenute nell’arco di sei mesi, tra l’estate del 1992 e i primi mesi del 1993. Si calcola che in questo periodo le vittime del conflitto siano state circa 50 mila, i profughi 800 mila.
Adesso, percorrendo la valle solcata dal fiume Sorkhâb (in tagiko «acqua rossa», per il colore del terriccio discioltovi), che parecchi chilometri più a sud, dopo la confluenza col Pianj, diventerà il famoso Amu Daria, non pare vero che quei luoghi siano stati il teatro di tante violenze; ma, se il discorso cade sulla guerra, negli occhi della gente riaffiora la paura e l’orrore di quei giorni, quando gli elicotteri volavano sulle teste e le truppe entravano nei villaggi in cerca degli uomini e nessuno poteva sentirsi sicuro.
INDIPENDENZA AMARA
All’indomani dell’indipendenza c’era chi in Tagikistan aveva immaginato un futuro finalmente libero e prospero, svincolato da Mosca e dal suo regime autoritario. Erano nati diversi movimenti e partiti politici, ispirati a ideali di rinascita nazionale, sia in senso laico che religioso, ma la mancanza di una tradizione democratica aveva velocemente portato al deterioramento della vita politica e la lotta per il potere era presto sfociata in guerra aperta.
Le forze in campo si dividevano, più che per appartenenza politica, per appartenenza a clan, radicati in un determinato territorio: il clan di Khogiand, al nord, da cui tradizionalmente provenivano i dirigenti del partito comunista, si era alleato con quello di Kuliab, una città del sud.
L’opposizione, invece, era concentrata nella provincia di Korgan Tube, sempre a sud, in quella di Garm, al centro, e nel Goo-Badakhshan, la regione del Pamir, a maggioranza ismailita. Sebbene la guerra sia ufficialmente finita nel 1997, con l’entrata nel governo dei partiti d’opposizione, per alcuni anni la situazione ha continuato a essere di estrema incertezza, perché l’esercito regolare non riusciva a controllare tutto il paese e non tutti i signori della guerra avevano deposto le armi.
La guerra ha dato il colpo di grazia a un’economia già molto fragile, messa in crisi dai rivolgimenti che hanno accompagnato il crollo dell’Urss e dall’esodo dei russi che, con l’indipendenza, furono emarginati e spinti a lasciare il paese. Il Tagikistan si ritrovò non solo a dover ridisegnare il proprio sistema economico in una coice politica completamente diversa, ma anche privo dei quadri tecnici e direttivi, quasi sempre russi, che avevano fino allora fatto muovere l’industria. Quasi tutte le fabbriche furono chiuse. Lungo le strade si vedono campeggiare le loro moli abbandonate. Alla fine del 1996 il Pil era appena il 40% di quello del ’91, il salario medio inferiore ai 10 dollari.
GUARDANDO… LE STELLE
Pur rimanendo assai critica, la situazione negli ultimi anni è andata lentamente migliorando, soprattutto grazie al sostegno delle organizzazioni inteazionali. Qui c’è tantissimo da fare, perché il governo, che manca di una strategia a lungo termine, è di fatto latitante e lascia che la gente provveda da sé (chissà poi come) alle proprie necessità.
A risentirne non sono solo le strade. La struttura sanitaria non funziona: le cure, o un’eventuale operazione, sono a carico del malato. Chi non può permetterselo si arrangia.
Stipendi statali e pensioni non consentono neanche di sopravvivere; le acque non vengono depurate e nei villaggi la mortalità infantile è alta, a causa della dissenteria; l’elettricità è razionata, perché, nonostante la grandissima abbondanza d’acqua – una delle maggiori risorse del paese – le centrali funzionanti sono poche e insufficienti al fabbisogno. L’illuminazione pubblica è così scarsa, che perfino nella capitale di notte si possono vedere le stelle. Ma la loro luce non è sufficiente per salire le scale di un condominio, per chi non ha l’occhio abituato. Difatti, mancano le lampadine, che, da quando si sono rotte o portate via, nessuno le ha più sostituite, perché sparirebbero subito.
Quando ho percorso la valle di Garm si era nel periodo della trebbiatura. Il fondo stradale era a tratti cosparso di spighe, distribuite in modo tale che i rari veicoli di passaggio fossero costretti a passarci sopra: è così che i contadini trebbiano il grano. Prima delle macchine agricole, i nostri padri utilizzavano i buoi; ma, con la guerra, ai tagiki non sono rimasti nemmeno quelli.
RIMPIANTI E NOSTALGIE
Sangin lavora alla stazione turistica di Iskanderkul da circa 20 anni. Il villaggio di spartani cottages, in tipico stile sovietico, si trova sulle rive di un lago (kul), dove la leggenda vuole che abbia sostato Alessandro il Macedone (Iskander) mentre era diretto in India. Il suo fedele cavallo Bucefalo aveva bevuto l’acqua fredda del lago e si era ammalato, così non era potuto ripartire insieme al padrone. Si dice che, il giorno in cui Alessandro morì, il cavallo abbia cominciato a nitrire disperato e si sia lanciato nelle acque del lago, scomparendovi. Ancora oggi nelle notti di luna piena lo si vede uscire dal lago, pascolare e giocare sulle rive, o saltare da una parte all’altra della valle, da una cima all’altra, per rituffarsi nell’acqua sul far del mattino.
Il lago è meritatamente famoso, incastonato com’è tra le aspre cime di due diverse formazioni montane. Un tempo la bellezza dei luoghi richiamava turisti da tutta l’Unione Sovietica e dall’estero. Nel villaggio c’era sempre una grande animazione e la sera il ristorante era pieno di gente, c’era la musica, si ballava fino a tardi. Ma dal ’93 i turisti hanno cominciato a disertare il posto. Ora il villaggio è in palese decadenza, come tante altre cose nel paese, i cottages fatiscenti e semivuoti.
Non ho incontrato nessuno, giovane o vecchio, che non rimpianga i tempi sovietici. Una signora, madre di sei figli, nella sperduta Girgatel, quasi al confine con la Kirghizia, non la finiva più di cantarmi l’apologia della vita sotto il passato regime, quando c’era la possibilità di andare a studiare in Russia, magari a Mosca, e di restarci, se si trovava qualcuno da sposare. «Ma perché mai non l’ho fatto anch’io?», si chiedeva.
Anche Sangin ricorda con nostalgia i vecchi tempi. Dopo la scuola era andato a studiare a Kiev. Poi era venuta l’ora del servizio di leva, per un disguido non era stato inserito nel contingente inviato in Afghanistan; era finito, invece, prima in Kazakistan, poi sull’Enisej, da ultimo oltre il circolo polare artico. Aveva, così, spaziato da un capo all’altro dell’Unione, aveva incontrato coetanei provenienti da tutte le repubbliche e insieme avevano formato, a suo dire, una compagnia multietnica e affiatata. Insomma, era tornato a casa con un prezioso bagaglio di esperienze.
NON RESTA CHE EMIGRARE
In Russia circola una barzelletta su simili sentimenti nostalgici. «Che cosa rimpiange del passato sovietico, dell’epoca di Breznev, per esempio?», chiede un giornalista a un anziano signore, seduto ai piedi del monumento a Marx. «Per lo meno due cose: la vodka costava meno; e poi le donne erano più giovani» spiega il signore.
La nostra memoria è selettiva: ritiene i ricordi piacevoli e tende a disfarsi di quelli brutti. Eppure, si deve ammettere che, a confronto del presente sfacelo, la vita di allora non può non apparire desiderabile.
Sebbene anche ai tempi dell’Unione il Tagikistan fosse la più povera delle repubbliche, la meno industrializzata, con il più basso livello d’istruzione e il peggiore servizio sanitario, la grande retorica dei popoli fratelli aveva avuto in queste lande un risvolto concreto e nei villaggi era arrivata l’acqua potabile, periodicamente passava il medico, la farina si acquistava a prezzi modici, i giovani di talento potevano andare a studiare nelle altre repubbliche.
Adesso queste possibilità sono sfumate. Spostarsi, non dico fuori dei confini nazionali, ma all’interno dello stesso Tagikistan, è diventato un lusso che non tutti si possono permettere: fare poche centinaia di chilometri costa quanto uno stipendio.
Per molte famiglie la salvezza è avere un marito, o un fratello, che lavora all’estero. Circa un milione di tagiki lavorano stagionalmente fuori del paese, principalmente in Russia e in Kazakistan. Si calcola che la valuta straniera che portano a casa ecceda il bilancio dello stato.
In Russia i tagiki sono considerati il gruppo etnico più derelitto tra quelli dell’ex-Urss. Sono disposti a fare qualsiasi lavoro a qualsiasi prezzo; sono lavoratori illegali, quindi soggetti a soprusi, ricatti e ogni genere di umiliazioni. Eppure, tutto è preferibile alla miseria di casa.
TANTA… OSPITALITÀ
La guida del Tagikistan elenca un numero esiguo di alberghi: qualcuno a Dushanbe, uno qua, uno là nei centri principali, e poi basta. Eppure il turismo potrebbe essere una grande risorsa per il paese; invece è quasi inesistente, né pare si stia facendo alcunché per incoraggiarlo.
A parte la mancanza di infrastrutture, la necessità di ottenere un permesso speciale per il Pamir (più della metà del territorio nazionale) e la difficoltà per avere un visto fanno il resto. Per i funzionari, da cui le formalità dipendono, il turista è un’occasione per arrotondare lo stipendio. Il console a Mosca mi ha rilasciato il visto come se mi facesse un favore personale; alla fine me lo ha fatto pagare una cifra esorbitante, senza rilasciarmi alcuna ricevuta.
Per fortuna, quando, superati tutti gli ostacoli, finalmente si arriva a destinazione, si è ricompensati dalla benevolenza della gente e dal sentimento di genuina meraviglia che la tua apparizione suscita. In città, come nei villaggi, è facile trovare ospitalità.
Khadisa, incontrata durante il lungo viaggio in treno da Astrakan a Dushanbe, è una grande conoscitrice di piante ed erbe medicinali. Le raccoglie nelle montagne vicino a casa e ne fa dei preparati per i suoi pazienti. Saputa della mia passione per la montagna, mi ha invitato ad andare con lei durante una delle sue spedizioni. Con mia meraviglia, non abbiamo portato con noi né cibo, né sacco a pelo.
La sera, dopo aver camminato tutto il giorno, entravamo in una casa, venivamo fatte sedere per terra, intorno all’unico, grande piatto di patate e verdura cotta, dal quale tutti attingevano, aiutandosi con fette di pane; poi ci preparavano il giaciglio in una stanza, o sull’aia, al riparo di una tettornia. Al mattino, prima di ripartire, ci offrivano latte, miele e tè. Si può forse desiderare di più?

Bianca Maria Balestra




Virus mortale dagli animali all’uomo

Malattie dimenticate (7): la febbre di Rift Valley

Il 2006 si è chiuso con una epidemia in Kenya della febbre di Rift Valley, che nella sia pur rara forma emorragica uccide un paziente su due.

I numeri che arrivano dal Kenya, dalla fine del 2006, si inseguono, giorno dopo giorno: 12 casi e 11 morti, 32 e 19, 220 e 82. Un aggioamento continuo in salita. Al momento della scrittura di questo articolo si parla di circa 250 persone infettate e oltre 90 morti, ma il bilancio non è ancora definitivo.
Il responsabile della strage silenziosa, che a dicembre ha iniziato a mietere vittime nel paese, è la febbre di Rift Valley, infezione virale che appartiene principalmente al mondo degli animali domestici (bovini, pecore, capre, cammelli), causandone la morte e portando con sé gravi perdite economiche.
Ma è un’infezione che può essere trasmessa anche all’uomo, con i risultati sopra riportati.

Rara e poco conosciuta

La febbre di Rift Valley è una malattia di origine virale non molto nota e rara. In genere, il sospetto sulla sua presenza nel bestiame scatta di fronte a un aumento non spiegato del numero di aborti spontanei fra gli animali.
La prima volta della febbre di Rift Valley risale a tre quarti di secolo fa. Nel 1930, infatti, è stato isolato per la prima volta il virus responsabile dell’infezione in Kenya.
A seguito di un’epidemia scoppiata fra le pecore di una fattoria nella Rift Valley, erano state fatte analisi che hanno poi portato all’identificazione del virus. Da allora sono state segnalate diverse epidemie nella regione subsahariana e nel Nord Africa, di cui quella maggiormente ricordata risale al 1997-98, sempre in Kenya e nella vicina Somalia (vedi il riquadro).
Risale al 2000 invece la prima segnalazione della malattia, con casi di infezione e decine di morti, in paesi non africani, e più precisamente in Yemen e Arabia Saudita, a seguito dei quali, secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), è aumentato il rischio di una possibile espansione dell’infezione in altre zone dell’Asia e dell’Europa.

Nascosta per anni

Il passaggio del virus responsabile della malattia agli uomini avviene principalmente attraverso il contatto con sangue o altri fluidi od organi provenienti da animali malati, come pure viene considerato a rischio il consumo di latte crudo. Inoltre, sembra che il virus possa essere trasmesso tramite la puntura di una zanzara, la zanzara aedes.
In particolare, il collegamento fra epidemie di febbre di Rift Valley e precedenti allagamenti nelle zone interessate passa proprio attraverso questo insetto e i casi nel bestiame vengono in genere osservati negli anni in cui le piogge sono particolarmente abbondanti e vi sono inondazioni.
La zanzara aedes, infatti, prende l’infezione dal bestiame e la trasmette alle sue uova. Le uova infette vengono deposte lungo i corsi dei fiumi, dove possono restare per lunghi periodi, anche diversi anni, in ambiente asciutto, finché, a seguito appunto di abbondanti piogge e inondazioni, non vengono sommerse. Una volta sotto l’acqua, si schiudono dando origine a nuove zanzare infette che, ad anni di distanza dunque, propagano nuovamente il virus, infettando animali e uomini.
Questo circolo porta al mantenimento dell’infezione in natura nel tempo e a un continuo passaggio del virus: zanzare aedes e altre specie non infette, che si nutrono da animali malati con il virus nel circolo sanguigno, si infettano amplificando e mantenendo la diffusione della malattia.

Simile all’influenza, ma non sempre

Nell’uomo, il periodo di incubazione, cioè l’intervallo di tempo tra l’infezione e la comparsa dei primi disturbi, può variare da due a sei giorni. Nella maggior parte dei casi le manifestazioni della malattia sono lievi, con sintomi simili a quelli dell’influenza: febbre improvvisa, mal di testa, dolori muscolari e alla schiena; talvolta possono esserci anche disturbi che fanno pensare alla meningite, come rigidità al collo, luce fastidiosa per gli occhi (fotofobia) e vomito. Il decorso della malattia si risolve in genere nell’arco di una settimana.
Una piccola parte dei pazienti, tuttavia, può avere disturbi molto più gravi, sviluppando tre tipi di complicazioni: malattia agli occhi (0,5-2% dei casi), meningoencefalite o febbre emorragica (meno dell’1% dei casi).
Da una a tre settimane dopo la comparsa dei primi sintomi, nel primo caso si verificano lesioni alla retina, che possono portare a danni permanenti della vista, mentre nel secondo vi sono manifestazioni neurologiche, se si tratta di meningoencefalite; per entrambe le complicazioni è però rara la morte del paziente.
Non altrettanto rara invece in caso di febbre emorragica: due o quattro giorni dopo l’esordio della malattia, si manifesta una grave forma epatica, con ittero ed emorragie da tutti gli orifizi (come vomito e feci con sangue, chiazze purpuree della pelle per sanguinamenti, sangue dalle gengive). Muore un paziente su due con la forma emorragica (50%), a fronte di una mortalità globale della febbre di Rift Valley che, pur variando fra le diverse epidemie, generalmente non supera l’1%.
Secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nella maggior parte dei casi, in cui le manifestazioni dell’infezione sono lievi e di breve durata, non sono necessarie terapie specifiche, mentre i pazienti più gravi sono seguiti con terapie generali di supporto.
Nell’ambito della prevenzione dell’infezione e delle epidemie rientrano programmi di vaccinazione del bestiame (non vi sono al momento in commercio vaccini per l’uomo), misure di protezione nella gestione di casi e materiale infetto e nei confronti della puntura di zanzare, possibili portatrici della malattia.

In Kenya dopo le inondazioni

In Kenya, i casi di febbre di Rift Valley nelle zone nordorientali del paese, sono stati preceduti anche questa volta da inondazioni, che hanno portato alla nascita di zanzare portatrici del virus da uova infette e a un nuovo propagarsi della malattia.
È difficile avere un quadro preciso della situazione, con conteggi esatti sulla diffusione dell’attuale epidemia: la popolazione a rischio vive in una zona di grandi dimensioni, secondo quanto riportato dall’Organizzazione non governativa (Ong) Medici senza frontiere (Msf), difficile da raggiungere via terra proprio a causa delle inondazioni.
È dunque possibile che le persone infettate, che abitano in fattorie isolate, siano molte di più: secondo Msf potrebbero essere 500 mila i soggetti a rischio e i casi finora identificati potrebbero rappresentare solo una minima parte degli infettati.
Un ulteriore ostacolo a una registrazione corretta dei malati, e quindi a un loro trattamento e contenimento dell’epidemia, è dato, sempre secondo Msf, dalla paura della popolazione nei confronti della febbre di Rift Valley: visto l’alto numero di morti nelle forme gravi, molti pensano non vi sia beneficio nell’affrontare lunghi viaggi per raggiungere i centri di salute, e non vengono quindi visitati e segnalati.

Di Valeria Confalonieri

Epidemie del passato

Nel 1997 si è verificata un’importante epidemia di febbre di Rift Valley in Kenya e in Somalia. Nel mese di dicembre, dopo le abbondanti piogge registrate in ottobre, analogamente a quanto accaduto in quest’ultima epidemia, vennero segnalati nei due paesi numerosi decessi fra gli uomini e un’alta percentuale di aborti spontanei e morti per emorragie fra gli animali domestici.
Indagini dell’Organizzazione mondiale della sanità portarono alla conferma del virus della febbre di Rift Valley quale responsabile dell’epidemia, che nel solo Kenya infettò 27.500 persone e costò la vita a 170.
I primi casi di febbre di Rift Valley segnalati al di fuori del continente africano risalgono invece a circa tre anni dopo, nel settembre del 2000 nella penisola arabica, in Yemen e in Arabia Saudita. Nel primo il bilancio finale fu di 1.328 casi fra cui 166 morti, mentre in Arabia Saudita vi furono 124 morti su 882 persone infettate.

Fonti

• Centers for Disease Control and Prevention:
www.cdc.gov/ncidod/dvrd/spb/mnpages/dispages/rvf.htm

• Medici senza frontiere
www.msf.it/msfinforma/news/08012007.shtml

• Organizzazione mondiale della sanità:
www.who.int/mediacentre/factsheets/fs207/en
www.who.int/csr/disease/riftvalleyfev/countrysupport/en

Valeria Confalonieri




Uccidera l’anima

Gamal Ghitani, giornalista e scrittore egiziano, nato il 9 maggio 1945, incarcerato dal regime nasseriano nel 1966, è autore di Zayni Barakat «un grande romanzo storico che rivela, con una sconcertante analisi, gli eterni meccanismi del potere e della corruzione», tradotto in 25 lingue (in italiano edito da Giunti). Nel 2006 ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per la raccolta di racconti Schegge di fuoco (Jouvence 2005). Lo abbiamo intervistato.

Iniziamo col parlare del grande maestro, Nagib Mahfuz, unico premio Nobel del mondo arabo (1988) da me presentato su Missioni Consolata (mostro l’articolo e foto su MC marzo 1996). Non fu solo un grande scrittore, ma anche intellettualmente molto onesto, che scava dentro i suoi personaggi e mostra la differenza tra quello che dicono e come appaiono e ciò che sono realmente, smascherando mediocrità e corruzione. Come lo ha incontrato e che cosa pensa di Mahfuz?
Lo incontrai nel 1959 quando lui era uno scrittore affermato e io avevo solo 14 anni: la conoscenza di allora è diventata amicizia. Per oltre 20 anni ci siamo incontrati ogni martedì sera: camminavamo lungo le sponde del Nilo e parlavamo di qualsiasi argomento. Era un incontro molto importante per me e per lui. Nel 1994, Mahfuz aveva 83 anni quando gli integralisti cercarono di ucciderlo, picchiandolo selvaggiamente, a causa del libro Il rione dei ragazzi. Smise di scrivere per due anni, dovendo fare riabilitazione fisica alla mano destra; ebbe anche seri problemi agli occhi: memorizzava e poi dettava i suoi pensieri. Il suo stile è molto semplice e nel  contempo molto forte. È ancora il numero uno tra gli scrittori di lingua araba. Tutta la mia generazione vede in lui un modello. Camminiamo alla sua ombra.

Come rievoca nel racconto «La scorta» in Schegge di fuoco, la sua esperienza quando fu imprigionato nel 1966 ha segnato la sua vita e influenzato il suo lavoro…
Avevo 21 anni, lavoravo già e mi ero iscritto a un partito segreto, di ispirazione maoista. Nasser perseguitava tutti questi movimenti politici. Fui arrestato con altri compagni. Fummo sottoposti a ogni tipo di tortura. Abbiamo trascorso così circa sei mesi. All’inizio del 1967 invitarono Jean Paul Sartre, che dichiarò di non poter venire in Egitto se non fossimo stati liberati. Grazie a questo intervento fummo liberati. Ci tengo a precisare che non siamo mai stati processati da nessuna corte e che io avevo lasciato il partito  prima del mio arresto, perché non gradivo che il partito mi dicesse che cosa dovevo o non dovevo scrivere o che censurasse i miei scritti. Sono infatti sempre stato una persona libera che vuole pensare e scrivere da persona libera.

L’esperienza del carcere ha ispirato il suo libro Zayni Barakat. Com’è nata l’idea di questo romanzo?
Ho iniziato Zayni Barakat dopo la sconfitta inflittaci da Israele nella guerra del Kippur (o guerra dei 6 giorni). Continuavano a dirci che avevamo vinto, cioè a raccontarci bugie. Ho indagato nella storia per trovare un periodo storico a cui ispirarmi per poi raccontare che cosa succedeva ai giorni nostri. Nel contempo iniziai a lavorare come giornalista, visitando anche il fronte dell’Iran. Nel 1980 smisi di fare il corrispondente di guerra: un conto è morire per il mio paese, l’Egitto; un altro conto è morire per l’Iran. Sono uno spirito libero non un mercenario.

Un personaggio importante di questo romanzo è Zakaria, capo della polizia segreta: lo definirei un «mostro», che usa tutte le persone che crede di amare, anche bambini, per spiare tutto e tutti.
Descrivendo Zakaria, ho raccontato il comportamento reale della polizia, che usava qualsiasi mezzo: dal pedinamento all’imprigionamento, alle torture più atroci, spesso fino all’uccisione, quasi sempre senza un giusto processo. 

Zayni Barakat, il grande censore del Cairo (titolo del romanzo) in modo più subdolo si comporta come Zakaria. Infatti appare come una persona irreprensibile, ma, usando frasi altisonanti che chiamano in causa Dio, la giustizia, il benessere della comunità, di fatto anche lui usa e manipola le persone.
Zakaria diceva: «Distruggiamo l’anima e il corpo», mentre per Zayni «bisogna distruggere l’anima, cosicché la stessa persona può continuare a camminare, ma sarà un’altra persona», diverrà cioè parte di un sistema e pedina del potere.

Un altro  personaggio, Said, lo studente, è definito nella presentazione il suo alter ego, sempre pedinato, seguito, cade quasi in disperazione, perché non sa come comportarsi.
Said è il simbolo della mia generazione.

In vari suoi racconti ha descritto altri modi, praticati al giorno d’oggi, per «uccidere l’anima». «Cerimonia» è popolato di personaggi quasi grotteschi di una organizzazione umanitaria, che raccoglie ingenti fondi per imprese fantasma, ma non fa nulla per la gente; il protagonista di «Ricetrasmittente» è un giovane onesto e istruito, circondato da poliziotti e amministratori corrotti, che lo obbligano ad andarsene; in «Notizia» il capoufficio non dimostra alcun interesse per il solerte fattorino. Insomma menzogna, camuffata da «buone azioni», corruzione e indifferenza… «uccidono l’anima».
Proprio così. Desidero, però, precisare che quando scrissi quei racconti, mi trovavo in un momento molto delicato della mia vita: 10 anni fa dovetti recarmi negli Usa per un intervento al cuore. Alcuni amici mi consigliarono di scrivere dei racconti. La raccolta Schegge di fuoco è il frutto di quel periodo, in cui mi sentivo in punto di morte.
Che cosa «cura l’anima»? La sorella che cucina per il fratello i piatti preferiti, malgrado gli impegni di famiglia e sia diabetica; la madre che aiuta il figlio preparando panini deliziosi per il suo negozio… In pratica, è la famiglia la «cura dell’anima».
Questo è quanto succede in Egitto. La famiglia è molto, molto importante.

Il protagonista di «Letargo» si rattrista e quasi piange, quando legge il versetto: «Io non vi chiedo altra mercede, se non l’amore per il prossimo». Perché?
Tutte le persone povere e semplici (come l’uomo onesto del racconto «Ricetrasmittente», vittima della corruzione di poliziotti e burocrati) soffrono per la corruzione e sanno che tale versetto troppo spesso si riduce a semplici parole.

In un’intervista lei ha affermato che ci sarà vera democrazia  solo quando nel mondo ci sarà onestà per costruire vera giustizia e vera pace.
Sono obiettivi  ancora molto lontani e non solo per i paesi del Sud del mondo, ma anche per l’Occidente. Costruire una società che offra a tutti la possibilità di istruirsi e avere una vita dignitosa è quasi un miraggio. Ho scoperto che lo stesso progresso può, di fatto, uccidere l’uomo.  Nel mondo la situazione è molto brutta se pensiamo che il 5% dell’umanità detiene tutta la ricchezza del pianeta, mentre  milioni di persone sopravvivono a mala pena. Basta leggere alcuni miei racconti come «Cerimonia» per scoprire gli inganni che ci circondano.

Di Silvana Bottignole

NAGIB MAHFUZ Premio Nobel per la letteratura 1988

Nato nel 1911 in un quartiere popolare del Cairo, Nagib Mahfuz è morto il 30 agosto 2006 all’età di 95 anni. Nel 1994 (aveva 83 anni) fu minacciato di morte e poi selvaggiamente picchiato dai fondamentalisti islamici a causa del suo libro: Il rione dei ragazzi. Che cosa contiene questo romanzo di tanto «pericoloso»?
Il rione dei ragazzi (tradotto in italiano nel 2001) era uscito a puntate nel 1959 sul quotidiano egiziano Al Ahram; la raccolta in un volume, edizione leggermente espurgata, è stata pubblicata a Beirut nel 1967.
Con la genialità di grande scrittore, Mahfuz racconta la spiritualità popolare, che ha ispirato i mitici cantastorie delle caffetterie della Cairo Vecchia. Adham (Adamo), Ghabal (Mosè), Rifaa (Gesù), Kassem (Maometto) e un emblematico mago Arafa con assistente (forse Marx e Mao) sono i protagonisti di 144 brevi capitoli, tanti quanti le sure del Corano.  
Come tutti gli abitanti del vicolo discendono da Ghabalawi, l’antenato che vive nella Grande Casa, proprietario di tutti i beni amministrati da un fiduciario. Purtroppo, però, «per ogni uomo che cerca di fare del bene, troviamo dieci capi che brandiscono i loro manganelli e cercano lo scontro; cosicché la gente si è abituata a comprare la propria incolumità con tangenti in denaro, sottomissione e servilismo».
Adham è il capostipite, cacciato dalla Grande Casa per la sua curiosità. Sollecitato da Idris (diavolo in forma umana) e incoraggiato dalla moglie, voleva conoscere i segreti del «libro» proibito. Al contrario di Idris, ladro e seminatore di discordia, Adham vivrà del suo duro lavoro, ma sempre nel rispetto del severo Ghabalawi, che lo perdonerà.
Ghabal, salvato e cresciuto dalla figlia del fiduciario, non sopporterà le oppressioni fatte al suo popolo, parlerà con Ghabalawi e, divenendo incantatore di serpenti, sconfiggerà il fiduciario, rimanendo «proverbiale fra la sua gente per giustizia, forza e ordine».
Riifa, quasi simile a Ghabalawi ed esortato dalla sua voce, vuole scacciare gli spiriti del male che albergano nel cuore degli uomini, per lui «i migliori sono quelli che fanno del bene». Farà un matrimonio pro forma per salvare una prostituta da morte sicura, ma sarà tradito da questa con i capi, che lo uccideranno. «Alla sua morte, Riifa godette di un onore, rispetto e amore che mai aveva sognato quando era vivo. La sua vita divenne una storia gloriosa… specialmente da parte di Ghabalawi, che raccoglie il suo corpo e lo seppellisce nel giardino… Alcuni dei suoi seguaci giunsero agli estremi, evitando persino il matrimonio, con l’idea di imitarlo».
Kassem, grande ammiratore di Ghabal e Riifa, su invito di un servo di Ghabalawi, comincia ad addestrare il popolo nell’uso dei bastoni, perché desidera portare la giustizia di Ghabal, la misericordia di Riifa, ma anche gestire il patrimonio. Dopo molte battaglie, diverrà fiduciario, facendo conoscere alla gente del suo vicolo «fratellanza, amore e pace».
Infine, il mago Arafa giunge quando nel mondo c’è molta sofferenza. Vuole conoscere il libro segreto di Ghabalawi, causandone la morte. Diverrà una pedina del fiduciario, che userà le sue bombe rudimentali per opprimere e spaventare la gente. Qualcuno spera ancora nel suo messaggio.

Silvana Bottignole




Bruciare i rifiuti? Una pessima idea

L’imbroglio dei «termovalorizzatori»

In Italia l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili è irrisorio. Forse anche per questa ragione si è inventata una scappatornia all’italiana: considerare come energia da fonte rinnovabile quella prodotta dagli inceneritori (termovalorizzatori).  Un falso, tra l’altro finanziato da un prelievo (il «Cip6») dalla bolletta elettrica di tutti noi.  I termovalorizzatori funzionano? Producono energia elettrica, ma a costi insostenibili, soprattutto per la salute dei cittadini.  Da ultimo, disincentivano la raccolta differenziata (che già è poco amata dagli italiani). A conti fatti, questa soluzione non funziona, in quanto produce più problemi di quanti ne risolva.

In Italia non si chiamano quasi mai «inceneritori» (sebbene lo siano a tutti gli effetti), ma «termovalorizzatori». Quest’ultimo termine indica che questi impianti non servono solo a bruciare i rifiuti, ma a produrre energia (che viene poi rivenduta allo Stato) oppure calore utilizzabile nel teleriscaldamento. Apparentemente sembrerebbero impianti vantaggiosi, invece non è proprio così, perché se tutti i rifiuti prodotti in Italia fossero destinati al termovalorizzatore e fosse ottimizzata al massimo la combustione, si arriverebbe ad ottenere energia elettrica solo per il 12% del fabbisogno nazionale per uso domestico. Per quanto riguarda invece il teleriscaldamento poi, questo è efficace solo entro 2,5 Km dall’impianto ed è possibile solo in edifici di nuova realizzazione. Attualmente in Italia la produzione di energia elettrica tramite incenerimento dei rifiuti è sovvenzionata indirettamente dallo stato, per sopperire alla sua antieconomicità ed il tutto avviene tramite il sistema detto Cip6 (vedi box). Infatti, questa modalità di produzione di energia è considerata impropriamente come «da fonte rinnovabile» alla stregua di idroelettrico, solare, eolico e geotermico. Pertanto chi gestisce l’inceneritore può vendere all’Enel l’energia che produce ad un costo circa triplo, rispetto a quello di chi produce energia a partire da metano, petrolio e carbone. L’Unione europea (Ue) ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia per gli incentivi dati dal governo italiano per la produzione d’energia bruciando rifiuti inorganici, visti come «fonte rinnovabile». Nel 2003 il Commissario Ue per i trasporti e l’energia Loyola De Palacio, recentemente scomparsa, in risposta ad un’interrogazione dell’on. Monica Frassoni al Parlamento europeo, ribadì (20/11/2003, risposta E-2935/03 IT) il fermo «no» dell’Unione europea all’estensione del regime di sovvenzioni europee  per lo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili, previsto dalla Direttiva 2001/77, all’incenerimento delle parti non biodegradabili dei rifiuti. Queste le affermazioni testuali del Commissario all’energia: «La Commissione conferma che, ai sensi della definizione dell’art. 2, lettera b) della Direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 settembre 2001, sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità, la frazione non biodegradabile dei rifiuti non può essere considerata fonte di energia rinnovabile. Il fatto che una legge nazionale (Legge 39 del 1/3/2002, art. 43) proponga d’includere, nell’atto del recepimento italiano della Direttiva 2001/77 (D.L. del 29/12/2003, n. 387) i «rifiuti tra le fonte energetiche ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili, ivi compresi i rifiuti non biodegradabili», rappresenta una palese violazione di quanto dettato dalla Direttiva europea. Esiste peraltro una contraddizione in questa Direttiva comunitaria, che autorizza l’Italia a considerare l’energia prodotta dalla quota non biodegradabile dei rifiuti nel complesso dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, ai fini del raggiungimento dell’obiettivo del 25% del totale nel 2010; tale deroga è però stata attaccata nel 2006 in sede di Parlamento europeo coll’emendamento (art. 15 bis) alla legge comunitaria 2006.
C’è poi da considerare un altro aspetto, oltre a quello giuridico ed economico, dell’uso dei termovalorizzatori.

L’ambiguità dei «limiti di legge»

Qual è il loro impatto sulla salute pubblica? I termovalorizzatori possono operare solo se adeguatamente dotati di sistemi per l’abbattimento delle emissioni, in grado di garantire il rispetto dei limiti di legge. Attenzione, però, perché i limiti di legge, come tutti i limiti relativi a prestazioni tecnologiche, sono tarati sulla capacità di abbattimento dei fumi ottenibile con le attuali tecnologie. Infatti non serve imporre dei limiti oltre la capacità oggettiva di contenere l’inquinamento permessa dai sistemi attuali. Questo, però, significa che i «limiti di legge» non garantiscono un valore di inquinanti «sicuro» in base a studi medici ed epidemiologici sull’effetto degli inquinanti emessi. C’è poi da dire che i limiti di concentrazione degli inquinanti imposti dalla normativa sono riferiti al m3 di fumo emesso, mentre non viene detto nulla sull’emissione totale d’inquinanti, cioè al valore commisurato alla quantità di rifiuti bruciati. Praticamente vengono impostati come limiti di legge dei valori, che si riferiscono al «miglior impianto» attualmente realizzabile e non all’effettiva rischiosità dei vari inquinanti. Per capire meglio questo concetto ci viene in aiuto Mario Tozzi, noto geologo e divulgatore scientifico, primo ricercatore Igag/Cnr, che nel suo ultimo libro sostiene che le domande giuste da porre sarebbero: quanti picogrammi (miliardesimi di milligrammo) di diossina (vedi box) emette davvero un impianto? I valori foiti sono medi o minimi? Quante misurazioni sono effettuate in un anno?  È opportuno sapere che per i termovalorizzatori è previsto un solo controllo all’anno: per essere sicuri che l’impianto non sia nocivo è evidente che il monitoraggio dovrebbe essere continuo e non annuale e soprattutto non autocertificato.

Diossina per tutti

Attualmente le normative europee indicano che in un m3 di fumi non devono esserci più di 100 picogrammi di diossina. La sola considerazione che per le diossine si usa come unità di misura non il milligrammo, comunemente usato per le altre sostanze, ma il picogrammo   (10-12 g) è più che sufficiente a farci intuire il grado di pericolosità per la salute di queste sostanze. Del resto, a tale proposito, vale la pena di ricordare che le diossine sono le stesse sostanze responsabili delle terribili conseguenze dell’incidente occorso all’Icmesa di Seveso, o delle conseguenze dell’uso del tremendo «agente orange» (diossina appunto) usato nella guerra del Vietnam (vedi inserto). Tozzi fa poi un rapido calcolo per dimostrare a quale rischio potremmo essere esposti, vicino ad impianti «a norma di legge». Se la tecnologia attualmente disponibile non ci consente di rilevare la presenza di diossina al di sotto di un certo valore, ad esempio 50 pg/m3, entro comunque il limite di legge che è di 100 pg/m3, si rischia di non considerare affatto valori inferiori, ad esempio 40 pg/m3, di diossina emessa da un impianto e di valutare pertanto quest’ultimo come idoneo e rispettoso dei limiti di legge. Poiché però nell’aria che respiriamo normalmente, la quantità di diossina è di 0,05-0,5 pg/m3, allora 40 pg/m3 vogliono dire un quantitativo da 80 ad 800 volte superiore rispetto alla normale quantità. Quindi, solo perché non misurabile, ignoriamo tale quantitativo e le sue possibili conseguenze? Un inceneritore di media taglia, cioè da un migliaio di tonnellate di rifiuti al giorno, emette circa 5 milioni di metri cubi di fumi. Se la quantità di diossina in essi contenuta fosse di 40 pg/m3, significherebbe che ogni giorno nell’atmosfera sarebbero dispersi 200 milioni di picogrammi di diossine. Poiché la dose massima tollerabile gioalmente da una persona adulta è di circa 150 pg, questa quantità sarebbe quindi quella tollerabile da un milione e mezzo di persone. Con un centinaio di inceneritori di questo tipo sul territorio nazionale si arriverebbe a 20 miliardi di picogrammi di diossina, cioè la massima dose tollerabile da 150 milioni di persone. E questo con impianti rigorosamente a norma di legge.
Non dimentichiamo che, per quanto riguarda la diossina, non è importante solo la sua quantità in un m3 d’aria, ma quanta effettivamente se ne deposita al suolo in un anno. Le diossine infatti sono un gruppo di composti ad elevato peso molecolare, quindi poco volatili. Sono inoltre solubili nei grassi, dove tendono ad accumularsi e non vengono smaltite dall’organismo umano, per il quale sono tossiche e cancerogene. Pertanto, anche un’esposizione a livelli minimi, ma prolungata nel tempo, può causare gravissimi danni alla salute sia umana, che animale.  È importante a tale proposito ricordare che presso i lavoratori dell’inceneritore di Cracovia è stata rilevata un’incidenza anormalmente alta di neoplasie polmonari e di accidenti cardiovascolari, nonché un’incidenza anomala di neoplasie, disturbi respiratori, patologie tiroidee e malformazioni fetali negli abitanti esposti. In Italia uno studio condotto negli anni 1986-2002 nel territorio di Campi (Fi) ha rilevato più del doppio di casi attesi per linfomi non Hodgkin e per sarcomi dei tessuti molli, tumori che la letteratura scientifica correla molto strettamente all’azione delle diossine. Studi giapponesi sottolineano che la maggiore fonte di diossina è rappresentata dagli inceneritori urbani ed inoltre è segnalata l’incidenza di morti infantili, malformazioni congenite e malformazioni della sfera riproduttiva fra gli abitanti vicini ad inceneritori anche di ultima generazione. Naturalmente gli inceneritori non sono gli unici impianti a rilasciare diossina, che è rilevabile normalmente presso altri impianti industriali, soprattutto acciaierie, oltre che nel fumo di sigaretta, nelle combustioni di legno e di carbone e nelle combustioni incontrollate (es. mini-incenerimento domestico).

Mercurio, cadmio, (…): di tutto, di più

I termovalorizzatori sono responsabili della diffusione di idrocarburi aromatici policiclici, di policlorobifenile (PCB), di metalli pesanti, quali piombo, zinco, rame, cromo, cadmio, arsenico, mercurio e di furani; inoltre, come qualsiasi processo di combustione, rilasciano nell’aria polveri sottili, la cui quantità emessa aumenta al crescere della temperatura (specialmente il particolato ultrafine PM<2,5). A proposito di mercurio, la maggioranza degli studiosi sostiene che è pressoché impossibile escogitare sistemi efficaci per abbattee con sicurezza l’emissione; ricordiamo che il mercurio provoca gravissimi danni al sistema nervoso centrale. Per quanto riguarda le polveri fini PM2,5 e quelle ultrafini (da PM2,5 a PM0,1) di tipo inorganico, va innanzitutto detto che non esistono filtri efficaci, per cui un limite alla loro emissione non sarebbe attuabile al momento, se non vietando il funzionamento degli impianti di incenerimento. Le nanopolveri o particolato ultrafine, cioè quelle a PM<2,5, sono responsabili, secondo dati Oms del 2005, di un calo di vita medio di 8,6 mesi in Europa e di 9 mesi in Italia (morti cardiovascolari e respiratorie).
L’azione mutagena e cancerogena degli idrocarburi aromatici policiclici e del policlorobifenile è fin troppo nota, mentre per quanto riguarda il cadmio, questo ha mostrato un danno genotossico da stress ossidativi con accumulo nel sistema nervoso centrale, renale ed epatico e inoltre è causa di malformazioni fetali e cancerogenesi a carico di diversi tessuti.
Naturalmente nel corso degli ultimi vent’anni sono stati fatti molti passi avanti, nel tentativo di rimuovere i macroinquinanti derivanti dall’incenerimento e presenti nei fumi (ad es. ossido di carbonio, anidride carbonica, ossidi di azoto e gas acidi come l’anidride solforosa) e di abbattere le polveri. Si è così passati da sistemi di filtro come i cicloni ed i multicicloni,  con rendimenti massimi di captazione degli inquinanti rispettivamente del 70% e dell’85% ai filtri elettrostatici o filtri a manica, che hanno una resa fino al 99% ed oltre. Inoltre sono state sviluppate misure di contenimento preventivo delle emissioni, ottimizzando le caratteristiche costruttive dei foi e migliorando l’efficienza del processo di combustione. Questo risultato si è ottenuto attraverso temperature più alte, maggiori tempi di permanenza dei rifiuti in regime di alte turbolenze e grazie all’immissione di aria per garantire l’ossidazione completa dei prodotti di combustione. Però non va dimenticato che l’aumento della temperatura, se da un lato riduce la produzione di diossine, dall’altro aumenta quella degli ossidi di azoto, nonché delle nanopolveri, per cui diventa necessario trovare un compromesso.

Brescia: ma che bel premio!

Facciamo ora una considerazione a proposito del «miglior impianto», a cui si attiene la normativa vigente, in materia di limiti da non superare. Recentemente, cioè nell’ottobre 2006, l’impianto di termovalorizzazione di Brescia è stato proclamato «migliore impianto del mondo» dal Waste to Energy Research and Technology Council (Wtert), un organismo indipendente formato da tecnici e scienziati di tutto il mondo e promosso dalla Columbia University di New York. Lascia tuttavia perplessi il fatto che questo organismo annoveri tra gli enti finanziatori e sostenitori la Martin GmbH, che è tra i costruttori dell’inceneritore premiato. D’altro canto proprio questo impianto è stato oggetto di diverse procedure d’infrazione da parte dell’Unione europea. Se a ciò si aggiunge la testimonianza del dottor Francesco Pansera, che parla di censura del dissenso tecnico a Brescia, nonché di soppressione delle verifiche e delle voci critiche, il sospetto che i premi dati a certi impianti non siano altro che subdole forme pubblicitarie diventa forte. Sul sito della Martin GmbH, raggiungibile da quello della Wtert, si legge poi che in Italia la Martin è partner della Technip, un’altra multinazionale, che sta già partecipando ad un piano del presidente Cuffaro per la costruzione e la gestione di inceneritori in Sicilia. Quindi per queste ditte l’Italia, cioè la nazione premiata, rappresenta un mercato in espansione, purché si neutralizzino le critiche e si ottenga il favore dell’opinione pubblica. Del resto in Italia i termovalorizzatori sono ancora poco diffusi, a differenza dell’Europa, dove sono attualmente attivi 304 impianti in 18 nazioni.
Bisogna tuttavia porsi una domanda: perché paesi come l’Olanda, la Germania e la Francia stanno perseguendo la politica di bruciare sempre meno rifiuti, per dismettere un giorno gli impianti esistenti? A tale proposito in queste nazioni sono attuate amplissime forme di raccolta differenziata e di riduzione alla fonte anche con leggi nazionali sul riutilizzo delle bottiglie di vetro e di plastica (ogni cittadino in pratica paga una cauzione sulle  bottiglie di plastica e di vetro, che gli verrà restituita con un bonus per il supermercato, quando riconsegnerà le bottiglie negli speciali spazi presso i centri commerciali). Inoltre in tali nazioni si stanno sempre più usando forme di energia alternativa, quali quella eolica e quella solare. Alla luce di tutte queste considerazioni, possiamo dedurre che la strada del termovalorizzatore non è certo quella ottimale per risolvere il problema dell’eliminazione dei rifiuti e quello della produzione di energia, tanto più che non solo non sappiamo con certezza quali sono le sostanze realmente immesse nell’atmosfera, ma a quanto pare non possiamo nemmeno fidarci troppo delle valutazioni d’impatto ambientale, che vengono effettuate. Pensiamo inoltre al fatto che l’energia che si ottiene dalla combustione di un oggetto è quasi sempre di gran lunga inferiore a quella impiegata per costruirlo. Per di più, per ricostruire lo stesso oggetto, è necessario sfruttare materie prime dell’ambiente (ad es. alberi nel caso della carta), che si sarebbero risparmiate con il riciclaggio.  Sicuramente è quindi fondamentale assumere nuovi stili di vita, che portino ad una riduzione dei rifiuti all’origine, ad un loro riutilizzo o al loro riciclaggio, dove possibile, in modo da limitare al minimo il conferimento in discarica o negli inceneritori già esistenti.  

Roberto Topino e Rosanna Novara

Il glossario di «Nostra madre terra»

L’ABC DEL PROBLEMA


Cancerogeno: qualsiasi agente chimico, fisico o virale in grado d’indurre la comparsa di una forma di cancro.

Cicloni e multicicloni: si tratta di apparecchiature utilizzate per la separazione di particelle solide o liquide trascinate dai gas e per la separazione di particelle solide trascinate dai liquidi, sfruttando l’azione della forza centrifuga. I cicloni sono essenzialmente costituiti da recipienti cilindrici con una parte inferiore tronco-conica, nei quali viene introdotta tangenzialmente la corrente fluida da purificare, messa in movimento a grande velocità. Da un condotto centrale esce, verso l’alto, il fluido purificato, mentre nel fondo conico si raccolgono le particelle separate, la cui grandezza è di solito compresa fra 5 e 1.000 µm. Sono molto usati per eliminare le particelle dai fumi di scarico di industrie.

Composti organici ed inorganici: i primi sono composti contenenti atomi di carbonio (C) e costituenti tipici della materia vivente, mentre gli altri non contengono atomi di C e sono prevalentemente, anche se non esclusivamente, presenti nel regno minerale.

Danno genotossico: danno al Dna, quindi analogo di mutazione (vedi: mutageno).

Filtri a manica: sono utilizzati per le separazioni solido-gas e sono costituiti essenzialmente da tubi di tela, all’interno dei quali arriva il gas da depurare; mentre quest’ultimo attraversa la superficie, il solido viene trattenuto. Costituiscono l’ultima fase del recupero dei solidi da gas e spesso sono montati a valle dei cicloni.

Filtri elettrostatici: sono anche detti elettrofiltri. Sono costituiti da un tubo a grande diametro e di estesa superficie, che rappresenta il condotto del fumo ed è collegato a terra e da un filo posto al centro del tubo, dal quale è isolato elettricamente. Il campo elettrostatico, che si genera tra questi due elementi, provoca una ionizzazione del gas; gli ioni negativi caricano le particelle solide e liquide, presenti nei fumi, che si raccolgono sulla superficie del condotto (elettropositivo), dal quale sono asportate. Sono usati per asportare polveri e nebbie, anche di dimensioni piccolissime.

Fonti di energia alternativa: idroelettrica, solare, eolica e geotermica. In questi casi l’energia elettrica viene ottenuta rispettivamente dalla trasformazione di energia idraulica, solare, cinetica derivante dalla forza del vento e dal calore della terra.

Furano: composto organico eterociclico dotato di caratteristiche aromatiche (cioè con formula di struttura ad anello, contenente legami semplici e doppi alternati). Dal tetraidrofurano vengono preparati l’esametilendiammina ed il nylon. Presenta reazioni di sostituzione elettrofila, che avvengono però in condizioni più blande, che negli altri composti aromatici.

Idrocarburi aromatici policiclici: sono idrocarburi derivati dal benzene, per condensazione di due o più anelli benzenici. Vengono estratti dal catrame di carbon fossile o dal petrolio. È nota la loro azione cancerogena. Tra i tumori più diffusi, da loro causati, ricordiamo il cancro del polmone. Nel fumo di sigaretta sono presenti questi idrocarburi, nonché ammine aromatiche.

Mutageno: qualsiasi composto in grado di provocare una mutazione del Dna cellulare. Le mutazioni vengono distinte in geniche, cromosomiche o genomiche a seconda che vengano colpiti uno o più geni, un cromosoma oppure più di un cromosoma, così da compromettere l’intero genoma. Se il genoma colpito appartiene ad una cellula della linea germinale (ovociti o spermatozoi), la mutazione verrà trasmessa alla discendenza, con conseguenze di maggiore o minore gravità, a seconda del danno genetico (es. malformazioni, aborti spontanei, ecc.) mentre una mutazione a carico del Dna di una cellula della linea somatica (cioè di tutte le cellule del corpo diverse da quelle germinali), può determinare la trasformazione della cellula in senso neoplastico.

Picogrammo: 10-12g = 10-9mg = 1/1.000.000.000 mg.

Policlorobifenili: sono composti organici aromatici clorurati, in cui degli atomi di cloro sostituiscono in varia percentuale gli atomi d’idrogeno di un bifenile. Sono stati ampiamente impiegati per vari usi, finché non ne è stata segnalata la tossicità, dovuta all’inquinamento delle falde acquifere.

Stress ossidativo: danno a varie strutture cellulari dovuto all’azione dei radicali liberi, molecole che hanno perso nei loro atomi un elettrone, nell’orbita estea. Queste molecole vengono prodotte nelle fasi intermedie del metabolismo cellulare e sono sostanze chimiche paragonabili ad un ossidante, che intacca le materie più diverse, tra cui il Dna cellulare, con rottura delle sue catene e quindi con effetto mutageno e cancerogeno. Il nostro organismo si difende dall’azione dei radicali liberi con dei sistemi enzimatici, come la superossido-dismutasi, e non enzimatici tra cui gli antiossidanti naturali delle cellule, come il glutatione, la metionina, la cisteina e le vitamine C ed E. Diversi fattori favoriscono la formazione dei radicali liberi tra cui il tabacco, per la presenza di idrocarburi aromatici policiclici e di ammine aromatiche, l’alcornol, l’assunzione di certi farmaci, l’esposizione a svariati composti chimici, le radiazioni ionizzanti ed i raggi ultravioletti.
(a cura di R.Topino e R.Novara)

Come funziona un termovalorizzatore

DAI RIFIUTI, ENERGIA E… (fumi, scorie, ceneri)


Il funzionamento di un termovalorizzatore può essere sintetizzato in 7 fasi:

1) Arrivo dei rifiuti, che possono essere utilizzati come sono, il cosiddetto «tal quale», oppure provenire da impianti di selezione, per la produzione della frazione combustibile o Cdr (combustibile derivante dai rifiuti), previa separazione degli inerti (metalli, minerali, ecc.). Confrontando la resa di un impianto, che brucia il «tal quale», con uno che brucia il Cdr, si stima che il rendimento del primo sia di 250 Kwh/tonnellata, mentre quello del secondo sia di 800 Kwh/tonnellata, quindi la combustione del Cdr dà sicuramente una resa migliore. Prima di venire bruciati, i rifiuti sono stoccati in un’area dell’impianto dotata di un sistema di aspirazione, per evitare la dispersione dei cattivi odori.

2) Combustione: mediante griglie mobili i rifiuti vengono portati in foo e bruciati a circa 1.000° C, in presenza di aria forzata, per migliorare la combustione con continuo apporto di ossigeno.

3) Produzione di vapore: il calore derivante dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per portare ad ebollizione l’acqua di una caldaia posta a valle del bruciatore.

4) Produzione di energia elettrica: il vapore generato mette in moto una turbina, che accoppiata ad un motoriduttore e ad un alternatore, trasforma l’energia termica in elettrica.

5) Estrazione delle scorie: le componenti incombuste dei rifiuti vengono raccolte e smaltite in discarica. Nel caso dell’uso del Cdr si ottiene un abbattimento della produzione di scorie.

6) Trattamento dei fumi: i fumi derivanti dalla combustione vengono filtrati con un sistema multistadio (filtri elettrostatici o filtri a manica), per la riduzione degli agenti inquinanti sia aeriformi che corpuscolati; la loro temperatura viene inoltre abbassata a 140°C mediante acqua di raffreddamento, che necessita poi di depurazione.

7) Smaltimento delle ceneri: le ceneri derivanti dalla combustione sono normalmente classificate come rifiuti speciali non pericolosi e conferite in discarica. Nel caso della combustione del «tal quale» rappresentano circa il 30% del peso iniziale, mentre nel caso della combustione del Cdr rappresentano circa il 70%. Le polveri fini, classificate come rifiuti speciali pericolosi, rappresentano circa il 4% del peso iniziale. Entrambi i tipi di polveri sono smaltite in discariche per rifiuti speciali.

Il caso Torino

«VOGLIAMO INCENTIVI»

A seguito dell’emendamento al decreto legge sugli «obblighi comunitari», deciso dal Consiglio dei ministri il 27 dicembre 2006 e formalizzato a gennaio 2007, che in pratica ha ristretto l’ambito d’applicazione del sistema «CIP6» (gli incentivi alle fonti energetiche rinnovabili e assimilate, pagati come sovrapprezzo nelle bollette energetiche dai cittadini italiani), sia nella giunta comunale torinese che in quella della provincia di Torino c’è stata aria di bufera, perché sostanzialmente è stato colpito dal provvedimento il progetto di costruzione del termovalorizzatore del Gerbido. A seguito di questo emendamento, l’incentivo sarà limitato ai termovalorizzatori già esistenti ed operativi, ma non a quelli «già autorizzati» e di cui è già stata o sarà avviata la realizzazione, come appunto nel caso di quello del Gerbido.
La reazione del presidente della provincia di Torino, Antonio Saitta, si è tradotta in un appello bipartisan per tentare di ottenere, da parte del governo, una deroga a beneficio degli impianti già autorizzati. Secondo Saitta, senza tale deroga i costi della costruzione e del funzionamento del termovalorizzatore ricadranno sulle spalle dei cittadini, sotto forma di un vertiginoso aumento della tassa rifiuti.
Ma quanto verrebbe a costare la sola costruzione del termovalorizzatore? Ebbene, il costo dell’impianto è stimato in 260 milioni di euro, a cui vanno aggiunti 90 milioni di euro per le spese connesse, più 20 milioni di compensazioni, per un totale di 370 milioni di euro. La gara d’appalto dovrebbe essere avviata nel gennaio 2008, mentre l’impianto dovrebbe entrare in funzione nel 2011.
E quanto costa smaltire i rifiuti con il termovalorizzatore, oppure in discarica? Per quanto riguarda i costi dello smaltimento con il termovalorizzatore, questi varieranno a seconda della disponibilità dei contributi. In particolare dovrebbero essere di 120-125 euro per tonnellata a incentivi zero, mentre potrebbero scendere a 90-95 euro con incentivi al 40% ed a 80 euro con la totalità dei contributi; il conferimento in discarica costa attualmente circa 123 euro a tonnellata.
L’atteggiamento di chi vorrebbe questi incentivi è in linea con le direttive europee? La risposta, come abbiamo cercato di spiegare nell’articolo, è «no».

Roberto Topino
Rosanna Novara

Il caso della provincia autonoma

DOVE VOLA LA FARFALLA TRENTINA?


«Il bosco, la casa dei trentini», così recitava uno slogan della Provincia Autonoma di Trento. Sul turismo della natura il Trentino ha fondato le proprie fortune. Eppure, qualcosa sta cambiando e non in meglio. L’idea dell’inceneritore di Trento risale al 2001 e dovrebbe trovare realizzazione attraverso la «Trentino Servizi» spa. La società è partecipata al 20% dalla Asm di Brescia, proprietaria del famoso inceneritore, il quale, tra l’altro, ha prodotto questa grave conseguenza: «Brescia è ai primi posti tra le province lombarde per quantità pro capite di produzione di rifiuti, e agli ultimi per raccolta differenziata» (cfr. quotidiano L’Adige, 2 settembre 2002). Proprio un bell’esempio da seguire! Ma l’inceneritore non è tutto. Le cosiddette (e famigerate) «grandi opere» stanno per sbarcare anche nelle province di Trento e Bolzano. In primis, il progetto Alta velocità/capacità (Tav/Tac) da Verona a Monaco con un tunnel di 56 Km (da Fortezza ad Innsbruck) sotto il Brennero. Nel numero di dicembre 2006 de «Il Trentino», la rivista della Provincia di Trento, le pagine conclusive erano dedicate a «come sarà il Trentino tra 30 anni». Leggiamo qualche passo: «Tra trent’anni per il Trentino continueranno a transitare, assieme alle persone, anche le merci. Lo faranno soprattutto via treno, sui quattro (notare: 4!) binari della nuova ferrovia del Brennero e attraverso il grande tunnel sotto le Alpi. L’autostrada del Brennero sarà riservata alle auto (…)». A parte il fatto di non considerare per nulla la possibile (ed auspicabile) opposizione della gente, sembra che l’analisi costi-benefici sia stata fatta ignorando i primi (più che certi) ed esaltando i secondi (più che dubbi). A parte i 25 anni di lavori, l’ambiente naturale sconvolto, il paesaggio deturpato, il traffico, il rumore, le polveri, a parte tutto questo ci sarà anche il conto: l’Alta velocità è un buco finanziario senza fine, che dovrà essere colmato con soldi pubblici (si sa: al contrario dei profitti, i costi sono sempre collettivi…) per generazioni.
Continuiamo a leggere: «Tra trent’anni “Benessere” sarà la parola d’ordine. (…) Il riciclaggio dei rifiuti sarà un’abitudine normale, e l’inceneritore si avvierà alla chiusura». Ancora gli «esercizi di futurologia» de «Il Trentino» (così sono chiamati) nascono con importanti errori concettuali: in primo luogo, ignorano che già oggi la prospettiva più virtuosa è quella denominata «rifiuti zero»; in secondo luogo, non considerano che raccolta differenziata ed inceneritore sono strumenti antitetici, dato che la prima riduce la quantità di rifiuti prodotti, mentre il secondo ha bisogno di rifiuti per esistere e funzionare.
Insomma, gli amministratori trentini volevano infondere ottimismo nelle «magnifiche sorti e progressive», ma hanno ottenuto l’effetto opposto: uno scenario orwelliano. Quasi non bastasse, alcune settimane fa sono uscite delle statistiche sul «consumo di suolo» (cfr. L’Adige, 2 febbraio). Ebbene, il Trentino, negli ultimi anni,  ha cementificato come mai nella sua storia. Una terra di boschi e montagne, laghi e castelli, meli e vigneti rischia di soccombere davanti a progetti di sviluppo insensato ed anacronistico. Da trentino (sono di Rovereto) vedere la mia terra offesa da tangenziali, bretelle, viadotti, autostrade, funivie e in futuro forse anche da superferrovie, megatunnel, termovalorizzatori, aeroporti tra le montagne, mi produce un’enorme tristezza e rabbia. Ma voglio pensare in positivo. Per secoli i trentini e gli altornatesini (sudtirolesi) hanno saputo difendere la loro terra. Speriamo che si sveglino dall’attuale torpore e tornino in sé. Perché, come scriveva Tom Benetollo, «arrendersi al presente è il modo peggiore di costruire il futuro».

Paolo Moiola


Siti internet: www.pattomutuosoccorso.org
E-mail: noinceneritorenotav@gmail.com,
noeurotunnelnotavbz@libero.it

Fonti

I testi: M.Tozzi, L’Italia a secco, Rizzoli Editore, 2006

I siti Web:
• http://www.beppegrillo.it – blog del 1/12/06 e 15/12/06: – «Le emissioni degli inceneritori: danno biologico» in «Termovalorizzatori nella piana fiorentina: le ragioni del sì, le ragioni del no», di M. Gulisano, La Piana, Metropoli; – lettera del dr. Francesco Pansera al Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia, dr. F. Abruzzo, del 30/10/2006
•http://www.ecoage.com/ambiente/rifiuti/termovalorizzatore.asp: Termovalorizzazione: di cosa si tratta?
• http://www.altreconomia.it: il termovalorizzatore Silla 2 di Milano
• http://www.rifiuti.it: Riciclaggio e recupero di rifiuti plastici in Svizzera
•http://www.rifiutilab.it/_downloads/Conferenza_Trento3doc.pdf: Inceneritore ed altri sistemi di trattamento termico dei rifiuti urbani: esperienze svizzere
•http://www.comune.firenze.it/comune/organi/q4/informa/giugno02/02.pdf: Termovalorizzatore: pro e contro
• http://www.isolapossibile.it/article.php3?id_article=1484: Regione Campania, emergenza rifiuti: storia di un disastro sanitario ed ambientale annunciato
• http://lists.peacelink.it/pace/msg12369.html: Proposta di cornordinamento a sostegno delle vittime della diossina in Vietnam

Roberto Topino e Rosanna Novara




«Mettete pane nei vostri cannoni»

Da Vicenza a Cameri, uno scandalo che non può essere taciuto

PERCHÉ?

Perché si aumentano le spese belliche?
Perché si perpetuano le servitù militari?
Perché non si utilizzano i soldi (pubblici) in favore di uno sviluppo «virtuoso»?

«Mi rivolgo alla vostra rivista di cui sono assidua lettrice per richiamare la vostra attenzione su quanto sta avvenendo a Vicenza in questi giorni. Vi prego di fare un articolo su questo argomento per aiutarci a vincere questa battaglia a favore della pace ma contro potenze fortissime. Se volete ulteriori informazioni vi segnalo il sito www.altravicenza.it.
Grazie per l’attenzione e continuate così.

Emanuela Lievore, Vicenza


Abbiamo pensato che fosse giusto accontentare la nostra lettrice, pur sapendo – per esperienza maturata sulla nostra pelle (dal Kosovo all’Iraq, dalla Palestina all’Iran) – che quando si affrontano questi argomenti si rischiano sempre le critiche e, a volte, gli insulti. Proprio per auto-tutelarci (senza, però, auto-censurarci) abbiamo chiesto di esprimere un parere su questi argomenti a 4 nostri collaboratori di prestigio, tutti preti (per questa volta). Prima di lasciarvi alle loro considerazioni, ricordiamo qualche dato.
Nel mondo, gli Stati Uniti sono di gran lunga il paese con la maggior spesa militare, pari al 48% del totale mondiale (dati Sipri). In Italia, le forze degli Stati Uniti si sono piazzate bene e comodamente, da Nord a Sud del paese. I casi più clamorosi sono quelli de La Maddalena (Sassari), una base navale che ospita sottomarini nucleari e che dovrebbe (finalmente) essere smantellata nel 2008; Aviano (Pordenone), da dove partirono i cacciabombardieri durante la guerra del Kosovo (1999) e Camp Darby (in provincia di Pisa, nonostante il nome inglese), dove esercito ed aviazione statunitensi custodiscono un ricco arsenale. Da anni l’Italia è tra i primi 10 paesi del mondo sia come spesa militare che come esportatore di armi.
Dimenticando totalmente le questioni etiche, parliamo di soldi. La Confindustria, la maggioranza dei politici, gli economisti e i giornalisti «schierati» (diciamo così) affermano che «basi militari e spese militari sostengono lo sviluppo economico perché incentivano gli investimenti e producono posti di lavoro». Provate soltanto ad immaginare che volano economico produrrebbe un dirottamento dei soldi pubblici spesi per la difesa (e per la costruzione di mezzi da guerra: ad esempio, gli aerei da combattimento Eurofighter e Joint Strike Fighter o le navi da guerra della classe Fremm) per progetti diversi come, ad esempio, investimenti nel settore delle fonti energetiche rinnovabili e contributi per l’edilizia bioecologica. Si incentiverebbe non soltanto lo sviluppo economico, ma anche e soprattutto uno sviluppo di tipo virtuoso. Quanto al (presunto) ritorno economico delle basi Usa, sarebbe meglio dare un’occhiata ai rapporti del «Dipartimento della difesa» degli Stati Uniti, alla voce Allied Contributions to the Common Defense. Nel 2004, ad esempio, l’Italia ha pagato agli Stati Uniti, per le cosiddette «spese di stazionamento», 366 milioni di dollari: soltanto Giappone e Germania pagano più del nostro paese. Washington prende i soldi, ma se i suoi soldati combinano qualche «marachella» (come la strage del Cermis, in Trentino, che nel 1998 provocò 20 morti) non possono essere processati in Italia. Di questo si è lamentato addirittura il Corriere della sera (pur favorevole, come tutti i grandi giornali, alla presenza delle basi Usa), che parla della necessità di «aggioare le condizioni dell’ospitalità» (17 gennaio 2007).
Come tutti sanno, mancano sempre i soldi per le Università, la ricerca, gli ospedali, le scuole, la salvaguardia dell’ambiente, il risparmio energetico, le pensioni, le politiche migratorie, la cooperazione internazionale, ma non mancano mai per le spese militari. Sembra che, in ogni parte del mondo, dagli Usa all’Italia, la lobby politico-militare-finanziaria esca sempre vincente. Una ragione in più per alzare la voce. Noi lo facciamo.

Paolo Moiola

A Vicenza si vuole ampliare la base degli Stati Uniti, a Cameri (Novara) si vogliono assemblare i nuovi caccia militari F-35. Si adducono motivi diplomatici («i patti sono patti»), economici («si porta lavoro
e ricchezza»), di opportunità («altrimenti se ne vanno da un’altra parte»), ma in verità nulla di tutto ciò può essere giustificato, se si considerano le spese militari un attentato alla pace e uno spreco assurdo di risorse. Da Vicenza a Cameri, dagli eserciti alla finanziaria: troppe scelte di guerra, troppa ipocrisia. E troppi interessi.

1
Essere per sempre spettatori passivi (o impotenti) davanti alla morte del diritto e dell’etica?

Solo un occhio superficiale o, almeno, sprovveduto, può vedere nell’attuale dibattito sulla nuova base dell’Us Army a Vicenza una semplice questione riguardante i rapporti Italia-Usa (con il collaterale e strumentale dibattito sull’antiamericanismo) o un problema correlato alla nostra «politica estera» (con il consequenziale e ugualmente strumentale riferimento alla «fedeltà» circa gli impegni precedentemente assunti dall’Italia).
Il problema non è questo. Il problema è l’intero contesto nel quale questa scelta viene a porsi; e preoccupante è il panorama che ne emerge.
Ora noi sappiamo bene che nel mondo della comunicazione una parola, un’espressione ed anche un’intera affermazione prendono senso dal contesto del discorso: il luogo in cui si parla, il pubblico cui ci si riferisce, l’oggetto del parlare ed il parlare stesso. In contesti diversi le stesse parole assumono valori diversi, a volte anche contraddittori. La parola «padre», per portare un esempio, in contesti diversi può significare il padre che ha generato, ma può significare anche Dio, il padrino e perfino il padrone e il mafioso. Quindi, onde evitare incomprensioni e fraintendimenti si rende necessaria un’opera di contestualizzazione del «parlato» e di «sintonizzazione» con il parlante: tutto ciò al fine di una corretta comprensione e di una positiva comunicazione.
Questo lavoro «ermeneutico» in filosofia viene chiamato «sitz in leben». Ed è un lavoro non facile, eppur necessario. Una volta, a Raimon Panikkar, fu chiesto di indicare gli equivalenti sanscriti di 25 parole chiave latine ritenute emblematiche della cultura occidentale. Egli declinò l’invito, perché ciò che sta alla base di una cultura non sta necessariamente alla base di un’altra. È un campo in cui i significati non sono trasferibili. «Le operazioni di traduzione sono più delicate dei trapianti cardiaci» ebbe a dire in quella occasione.
Ora qui, non si tratta di «tradurre», ma di «leggere» dei fatti e onestà e correttezza vogliono che si faccia opera di contestualizzazione, «sitz in leben», appunto.
Proviamo allora a porre questa scelta del governo Prodi a favore dell’installazione di una nuova base americana presso l’aeroporto Dal Molin di Vicenza.
In sintesi, rileviamo che:
1. il Pentagono, unilateralmente e senza consultare gli «alleati», ha deciso di rischierare dalla Germania in Italia la sua brigata aerotrasportata;
2. la scelta americana è parte integrante del programma di Bush e della sua politica guerrafondaia che pretende di combattere il terrorismo con la guerra e di imporsi come unico gendarme mondiale, accantonando anche e depotenziando perfino la stessa Onu;
3. l’impegno con Bush è una eredità che ci viene dalla servile politica estera del precedente governo; una politica che in Europa non ha trovato nessun seguito, oltre l’infelice eccezione anglo-italiana.
Questo, in breve, il panorama circostanziato e a breve raggio.
E se proviamo ad allargare, come di dovere, l’orizzonte all’economia e alle politiche che caratterizzano il mondo nella sua attuale distretta?
Notiamo, allora, che la politica è stata asservita all’economia e che questa, a sua volta, trova la sua floridità nell’industria militare. Così l’Impero e la Guerra sono diventati fratelli siamesi, le banche sono i migliori azionisti delle lobby militari e l’euro-
dollaro e le armi sodomizzano sotto lo stesso tetto.
In questo contesto sia la querelle di Vicenza, come quella di Cameri, ma anche la questione dell’Afghanistan sono tutti tasselli che concorrono a rinforzare la morsa micidiale degli osceni connubi di cui sopra. Da lamentare, in aggravio al bilancio negativo delle ultime scelte governative, lo scandalo di una finanziaria che, dopo aver tagliato fondi su scuola, sanità e servizi, in nome del rigore e dell’austerità, per la guerra riserva privilegi ed extra: nella sola Tabella di bilancio della difesa il precedente importo totale di 17,782 miliardi di euro è stato portato a 18,134 miliardi, con un incremento di 352 milioni.
Si pone, allora, bruciante, la domanda su che cosa vada lavorando una politica di pace che invece di scalfire, almeno in parte, questi abbracci mortiferi li consolida e li perpetua.
Bisogna purtroppo lamentare che, nonostante affermazioni in contrario, la «politica» considera le obiezioni all’attuale deriva militarista come variabili irrilevanti, sterili trastulli di chi si attarda a parlare di «valori».
Si deve ancora lamentare, con Danilo Zolo, docente di filosofia del diritto internazionale all’Università di Firenze, che  «le ragioni morali hanno scarsissimo rilievo nei rapporti inteazionali. Oggi prevalgono i rapporti di forza. Il sangue di innocenti è un banale “effetto collaterale”. Il diritto internazionale, di fatto, è una razionalizzazione ex post della volontà delle grandi potenze. E se il diritto è scarsamente efficace, l’etica è addirittura incommensurabile con gli obiettivi politici, economici e militari che legittimano anche agli occhi delle maggioranze democratiche dei paesi occidentali l’uso dei mezzi di distruzione di massa. La logica delle grandi potenze non ha nulla a che fare con i “valori” cui pure si fa retorico riferimento: è una logica spietata i cui emblemi sono i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, sono Guan-tanamo e Abu Ghraib o, su altro versante, è l’11 settembre 2001» e, aggiungiamo noi, Sigonella, Vicenza, Cameri e, ancora, la finanziaria.

Aldo Antonelli

2
Il primato della forza sulla ragione non deve uccidere la voglia e il dovere di sognare.

Sono due i nodi «bellici» dell’attuale realtà italiana: l’allargamento della base militare Usa in località Dal Molin a Vicenza e l’accordo per l’acquisto di nuovi aerei da combattimento denominati F35 con la prospettiva di un loro assemblaggio finale presso l’aeroporto militare di Cameri, in provincia di Novara.
Il tema è uno di quelli spinosi e sui quali bisogna procedere con molta attenzione.
La Commissione diocesana Giustizia e Pace di Novara, da tempo allertata su questo tema, ha cercato di farsi interprete e di dare risonanza al magistero della chiesa su un tema così importante, ripercorrendo passo dopo passo gli interventi più incisivi e qualificanti elaborati a partire dal Concilio Vaticano II ad oggi sulla corsa agli armamenti. Ed è proprio ripercorrendo questi testi che si resta allibiti di fronte alla protervia della lobby delle armi. Quando la chiesa ricorda che ogni volta che capitali astronomici vengono destinati alla fabbricazione di strumenti di morte, sottraendo così ingenti risorse che potrebbero essere destinate allo sviluppo dei popoli e alla risoluzione di emergenze drammatiche (Aids, malattie, fame), gli si risponde obiettando che un polo tecnologico così d’avanguardia sarebbe una promozione non solo per tutta la realtà novarese ma addirittura per l’intero Piemonte, notoriamente in una fase di crisi per ciò che riguarda i posti di lavoro.
Ci sono molti modi da cui partire per affrontare un tema così spinoso come quello degli F35, noi preferiamo farlo stando dalla parte dei più poveri a cui non vorremo mai dire: «resta con la tua fame, le tue malattie, le tue emergenze, perché le risorse che potrei destinare a te e ai tuoi bambini, le utilizzeremo per costruire armi sempre più sofisticate e tecnologicamente avanzate che magari terremo in magazzino ma che ci aiuteranno a sentirci più sicuri di fronte alle paure che attanagliano i nostri stomaci». La scelta di stare accanto ai poveri ci sembra più aderente ai criteri evangelici che non a quelli dettati dalla «real politique».

La corsa agli armamenti è sempre stata una iattura per i popoli della terra ed in particolare per i paesi del cosiddetto Terzo Mondo: essa disperde enormi risorse che potrebbero essere destinate a risolvere i principali problemi dei paesi poveri.  È urgente più che mai passare da una strategia di guerra ad una strategia di pace. La corsa agli armamenti in quanto contraria all’uomo è contraria a Dio. Da un punto di vista pastorale bisogna lavorare e impegnarsi per bandire questa corsa folle per due ragioni principali:
1) non c’è nessuna proporzione tra i danni causati e i valori che si vorrebbero salvaguardare;
2) armarsi per difendersi, quando le armi di difesa hanno un potenziale distruttivo enorme, come l’atomica, perde ogni sua ragione d’essere, giustificazione, e legittimità.
Potremmo aggiungere che l’accumulo spropositato di armi nelle mani di pochi paesi, potrebbe spingere questi ad una politica di ricatto verso altre nazioni, mettendo a rischio il già precario equilibrio dei diversi paesi della comunità internazionale.
In più la corsa agli armamenti costituisce una profonda ingiustizia perché afferma il primato della forza sulla ragione (questo è un leit-motiv  che accomuna tutti i pontefici del secolo scorso fino a Benedetto XVI, nei loro incessanti appelli per la pace).
La corsa agli armamenti è inoltre una vera pazzia perché spinge i rapporti umani individuali e quelli politici inteazionali a basarsi sulla paura dell’altro creando attraverso il controllo dei mass media, una specie di isterismo collettivo. La corsa agli armamenti diventa un mezzo per imporre alle nazioni più deboli la propria visione del mondo. Tutto questo non è accettabile dalla coscienza cristiana.
La pace non è solo superamento del criterio di non belligeranza, è la riacquisizione di valori spirituali e ideali che promanano dal vangelo, come la difesa della vita, la valorizzazione della persona nella sua dignità e la costruzione di rapporti di giustizia tra individui e popoli. Se vogliamo che la pace non resti un sogno, dobbiamo avere il coraggio di sognare insieme.

Mario Bandera

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La guerra come sostegno di una pace che non c’è. Perché la pace ha bisogno di giustizia.

La logica del mondo è opposta alla logica cristiana evangelica:  l’una e l’altra sono incompatibili nel fine e nei mezzi. Il mondo del potere è finalizzato alla guerra come struttura di sostegno al dominio, il vangelo è finalizzato alla pace come struttura della coscienza individuale, fondamento della coscienza dei popoli. Il mondo vuole dominare, il vangelo esige di servire. Il mondo usa strumenti di distruzione anche quando potrebbe ricorrere a mezzi pacifici, il vangelo impone l’amore per i nemici come condizione essenziale della propria identità di figli di Dio. Il potere ha bisogno della guerra perché il suo obiettivo è l’annientamento dell’altro come ostacolo alla propria dittatura, la pace ha bisogno di giustizia perché il suo obiettivo è la convivenza. La guerra è serva del potere, il dialogo è trampolino per la pace. Due mondi e due strategie che non possono mai coincidere o soltanto venire a compromesso.

Opposti contraddittori. Bisogna scegliere: o Dio o mammona.  O il Dio dell’esodo o il vitello della schiavitù. O la pace o la guerra. Lev Nikolaevic Tolstoj  ci avverte che non è più tempo di «Guerra e pace» nel senso ineluttabile del destino, ma è tempo della responsabilità personale, sorgente del diritto pubblico e del destino dell’umanità.  Non c’è una via di mezzo. Non licet! Si deve scegliere. Il mondo guerrafondaio ha fatto proprio l’aforisma romano «se vuoi la pace prepara la guerra», sostenendo così il principio della moralità della guerra come sostegno della pace o per lo meno come deterrente dello stato di pace. Questa pseudo e lugubre filosofia è servita e serve a giustificare la guerra dovunque e comunque perché la pace deve essere difesa dappertutto e sempre e quindi necessita di armi che diventano così il fondamento primario dell’economia senza distinzioni di tempi e di qualità. L’aberrazione raggiunge livelli parossistici quando un’azione di guerra preventiva, un intervento armato o una spedizione di militari in assetto di guerra vengono spudoratamente definiti «azioni umanitarie». Le centinaia di migliaia di morti innocenti in Iraq o i torturati di Abu Graib e di Guantanamo avrebbero fatto a meno di questi aiuti umanitari che li hanno seppelliti sotto le bombe e al di fuori di ogni garanzia civile di diritto come prescrivono le convenzioni inteazionali.

Conseguenze logiche. Come cristiani siamo incastrati: o Dio c’è o Dio non c’è. Se Dio c’è, le conseguenze logiche sono inevitabili come lo sono quelle nell’ipotesi che Dio non ci sia. È finito il tempo e l’aberrazione del «giusto mezzo» che è la logica che tutto giustifica e nulla risolve come spesso hanno motivato la loro politica i partiti cosiddetti ispirati al cristianesimo. Non esistono né possono esistere partiti cristiani o cattolici come non può esistere un governo cattolico o cristiano, aspirazione truce di chi vorrebbe imporre la religiosità con la forza della spada o con l’obbligatorietà di leggi civili. La parola di Cristo è drastica e tagliente: non potete servire due padroni. L’uno (il mondo) si serve, l’altro (Dio) si cerca. I cattolici che sono nelle istituzioni elettive, i giovani che si arruolano volontari nell’esercito, uomini e donne che hanno ricevuto il battesimo nel Nome di Gesù Cristo crocifisso e risorto, non possono accettare qualsiasi compromesso con il militarismo comunque si camuffi e si manifesti. Nessun giovane oggi è obbligato a fare il militare in un esercito dove conta non più la difesa del proprio popolo, ma il grado di scientificità per ammazzare sempre meglio. Un giovane che sceglie di fare il militare si mette contro la logica del vangelo e si pone in una condizione di forte rischio per la sua sopravvivenza sia fisica che spirituale. Nessun credente può vestire una divisa militare che resta incompatibile con la veste bianca del battesimo. Anche dove il servizio militare fosse obbligatorio, il credente è obbligato a diventare obiettore di quella coscienza che è creata ad «immagine e somiglianza» di Dio. Il vangelo non è un codice di galateo o un manuale di realismo. Il vangelo è semplicemente la prospettiva del Regno di Dio che esige la non-violenza come pratica quotidiana di vita e di relazione:  a chi ti percuote sulla guancia destra porgi anche la sinistra; a chi ti chiede il mantello, offri anche la tunica. Una via di mezzo non esiste né può esistere.

Democrazia a sovranità limitata. I cosiddetti cattolici impegnati in politica a qualunque mangiatornia appartengano, sono indissolubilmente fedeli agli Usa. Divorziano cattolicamente dalle mogli, ma restano indissolubilmente fedeli nei secoli al matrimonio con gli Stati Uniti o meglio con il governo degli Usa che garantisce loro una masochistica sottomissione. Una parte di essi parla di pace, fa genuflessioni doppie davanti al papa, si appella ai «valori», ma sceglie sempre la guerra a favore della guerra. Berlusconi, drogato di americanismo e condizionato dal suo bisogno di essere fotografato accanto al texano Bush, ha dato carta bianca ai servizi segreti Usa e alle basi militari in Italia che come Paese cessa di essere una nazione autonoma e sovrana e diventa un pied-à-terre del governo degli Stati Uniti, come ha dimostrato il caso di Abù Omar. Non è da meno il governo Prodi, condizionato dal suo complesso di inferiorità (dimostrare di non essere anti-americano) che ha concesso il raddoppio della militarizzazione di Vicenza sulla testa e sulla vita degli abitanti, coprendosi con la foglia di fico della delibera comunale, relegando così la politica estera agli umori di un consiglio comunale di periferia. La smentita è venuta il 1o febbraio 2007 dal senato della Repubblica che ha votato un ordine del giorno dell’opposizione giustificato dal sen.  Renato Schifani, capo dei senatori proprietà di Berlusconi, con queste parole: «La scelta di ampliare la base è di rango politico ed è coerente con la politica estera del governo, in continuità con quella del governo precedente». L’Italia cagnolino di compagnia del governo statunitense e democrazia a tempo e limitata.
La voglia di guerra e il dovere della disobbedienza. Nel mondo cresce una voglia di armi e di guerra, una voglia così efferata e impudente che passa sopra i diritti naturali delle popolazioni chiamate a pagae il prezzo salato in termini di salute, di ambiente e di dignità. La concessione agli Stati Uniti del raddoppio della base militare già esistente a Vicenza è solo un sintomo tragico di una situazione senza ritorno.
Come se non bastasse a Cameri in provincia di Novara c’è il progetto di assemblaggio di caccia bombardieri da guerra aerea, trasportatori di bombe e/o testate nucleari. In 15 anni l’Italia dovrebbe acquistae 131 al costo previsto di 150 milioni l’uno (ma altri parlano di 200 milioni). Facciamo allora un po’ di conti: 8 F-35 all’anno costerebbero al nostro paese  1.200 milioni di euro, cioè circa il 4 % della finanziaria 2007. «Se non li faremo a Cameri, tante famiglie di lavoratori resteranno senza stipendio», è stato detto. Ma con tutti quei soldi (pubblici) quanti posti di lavoro «virtuosi» si potrebbero creare? Un fiume di denaro pubblico buttato nelle spese militari, mentre nel mondo la povertà avanza inesorabilmente e in Italia circa 3 milioni di famiglie non arrivano alla fine del mese.
A Vicenza e a Cameri bisognava dire un doppio «no», pretendendo una ridiscussione generale della politica estera e coinvolgendo l’intera Europa in una ricerca che analizzasse i fallimenti degli Stati Uniti, impedendo che continuassero a fare strage di democrazia e di integrità territoriale di paesi sovrani e liberi. Avremmo voluto assistere ad un governo compatto e univoco, mentre ancora una volta assistiamo allo scempio di una  non-maggioranza che sta dilapidando il patrimonio che le italiane e gli italiani gli hanno conferito sull’orlo del precipizio istituzionale berlusconiano.

Nemmeno un temperino. L’Italia terra strategica nel cuore del Mediterraneo per essere porta  tra Occidente e  Oriente, partecipa e condivide la politica suicida della rincorsa agli armamenti, diventando complice e causa di ingiustizie che si perpetrano in quel mondo che dice di volere aiutare con progetti di pace. I progetti di pace escludono le armi, anche il temperino degli scout perché la pace, ove fosse necessario, come è necessario, si arma dello scudo della non-violenza che consiste nel principio aureo: quando la violenza è inevitabile, è meglio subirla che darla. Nessuna deroga può esserci al principio evangelico: «Chi di spada ferisce di spada perisce». Il frutto maturo della nostra «civiltà» consiste nel fatto che oggi in ogni guerra in atto la percentuale dei militari morti è pari al 5% mentre i civili muoiono nella misura del 95%. I militari si divertono, gli innocenti muoiono. In caso di guerra nucleare, gli unici a salvarsi sarebbero i militari rinchiusi in qualche sommergibile. L’umanità corre a ritmo serrato verso la militarizzazione senza aggettivi perché oggi i governi sono condizionati da una politica militarista che determina l’economia, le alleanze e le scelte sociali.
Militarismo in clergyman.  Da questa prospettiva evangelica le cappellanie e gli ordinariati militari sono un controsenso evangelico e il segno grave di un’alleanza tra due poteri che si autoreferenziano e si alimentano reciprocamente. In nome del realismo. Il segno di questa aberrazione sono i vescovi e i preti militari che diventano parte integrante dell’esercito con titoli, stellette e relativo stipendio fornito dal ministero della difesa. Ministri dell’altare embedded  in tuta mimetica a servizio di una struttura di peccato perché strutturalmente finalizzata all’uccisione e alla morte. Nei primi tre secoli i militari non potevano accedere al sacerdozio come i figli dei macellai perché gli uni e gli altri erano familiari al sangue. Dopo ogni guerra i preti che vi hanno preso parte ricevono la dispensa nell’eventualità che avessero compiuto atti contrari allo status sacerdotale che propriamente non si addice al servizio militare (Codice Diritto Canonico 289 §1). In ogni guerra i cappellani delle diverse religioni pregano Dio perché protegga i propri soldati e ciò è una bestemmia perché esige da Dio un comportamento contraddittorio visto che in guerra qualcuno deve pur morire. Chi deve scegliere Dio? Con quale metodo? La guerra degli uomini diventa guerra tra gli «dèi» e ci riporta indietro all’Olimpo, quando le divinità parteggiavano per l’uno o per l’altro esercito. Oggi la presenza di preti e frati e vescovi inquadrati militarmente è una delle concause che giustificano e alimentano le guerre di religione e il dissesto etico delle nostre generazioni. Se anche la chiesa con proprio personale è dentro al processo militarista finalizzato alla guerra e alla violenza degli stati e dei loro eserciti, è impossibile annunciare il vangelo delle Beatitudini o del Magnificat o del Servo di Yhwh o pensare che il mondo possa cambiare e lasciare che la pace da sola possa farcela: davanti agli occhi del mondo la stessa guerra è giustificata e legittimata.

Esportare idiozia. Gli Usa hanno ammesso ufficialmente che la guerra in Iraq (ma anche quella in Afghanistan) è stata un fallimento completo (non potendolo dire così, parlano di «errori»). Gli unici risultati di quelle scellerate guerre, volute da un incapace e scellerato capo di governo a cui si accodarono altri scellerati capi di governo, pigmei illiberali e schiavi di servilismo, sono stati la destabilizzazione delle zone di guerre e del mondo intero che oggi è più fragile e più esposto al terrorismo che quelle guerre alimentano e ingrassano. L’idiozia di esportare la democrazia in armi ha prodotto l’accorciamento della democrazia negli stessi paesi produttori di guerra.  Quando, come Missioni Consolata, dicemmo (confortati anche da un papa) che la guerra è una pazzia fatta da pazzi contro pazzi e che nulla avrebbe risolto, ma tutto avrebbe aggravato, fummo tacciati di antiamericanismo, di disfattismo, di antipatriottismo e finanche di connivenza con i terroristi islamici. Fummo solo prevedibili e noiosi profeti impotenti. In una società civile democratica,  di fronte a questo sfacelo, uomini insignificanti come Bush, Blair, Berlusconi, Aznar che hanno voluto le guerre per ideologia avrebbero dovuto non solo dimettersi da ogni carica istituzionale, ma anche scomparire dalla scena politica perché hanno ingannato i loro popoli, li hanno defraudati della dignità, li hanno mandati allo sbaraglio e li hanno uccisi con falsità. Licenziati per incapacità di governo o peggio ancora per incapacità di valutazione previsionale. Un capo di stato che non sa prevedere le conseguenze delle proprie scelte è una iattura per il suo popolo.

Scenari mondiali: che succederà ora in Iran, Siria e Palestina?  Tony Blair ha di fatto affossato la (meritoria) proposta italiana all’Onu di moratoria sulla pena di morte. L’Europa, infatti, non parlerà una sola lingua perché Blair in Europa fa gli interessi degli Usa da cui non si discosta più di una museruola da cane. Una grande occasione perduta politicamente e moralmente. Il suo degno compare di guerre Bush, persa la guerra in Iraq, cerca di imbastie un’altra contro l’Iran con l’intento di scatenare una deflagrazione nel Medio Oriente e forse permettere ad Israele di usare armi atomiche per la soluzione finale di Iran, Siria e Palestina. Si è capovolto l’aforisma latino che diventa: parla di pace, ma prepara la guerra. Questa escalation verso la guerra sistematica cammina di pari passo con il degrado ambientale, la desertificazione del sud e dell’Africa  e la prospettiva della distruzione del pianeta per implosione della stupidità dei governi cosiddetti democratici. Per essere una civiltà occidentale ce n’è di che vergognarsi. In tutto questo frangente, siamo in attesa di sentire la voce della gerarchia ecclesiastica che in nome del vangelo e dell’etica che sgorga dalla sua dottrina sociale, sicuramente avrà una parola illuminante. Una parola di salvezza per i loro popoli e il loro ambiente geografico e sociale.

«Alienum a ratione». Semplicemente folle. «Quelli che vuol perdere, Dio rende pazzi», dice un proverbio latino  attualissimo oggi: la maggior parte dei governi sono in mano a uomini folli: il mondo è già collocato sulla bocca di un vulcano in eruzione perché con le riserve atomiche la terra può essere distrutta sette volte ed essi continuano ad armarsi sempre più modeamente, occupando sempre più territori, popoli e persone e perseguendo la sola logica che il demone della guerra concepisce e partorisce: la distruzione degli innocenti, la strage dei civili, la miseria e la povertà strutturale di due terzi dell’umanità. Con un cambio di strategia: nei prossimi mesi e anni sentiremo parlare di necessità di armarsi per la salvaguardia della stabilità ambientale. Il prologo è cantato dagli industriali che hanno fomentato abbondantemente il dissesto ambientale ad ogni livello (è drammatico il rapporto su clima e ambiente redatto dai maggiori esperti mondiali e reso pubblico lo scorso 2 febbraio), ma sono pronti a convertirsi all’ecologismo e all’economia ambientale perché vi hanno intravisto un modo «altro» per fare soldi e sottomettere sempre più popoli e territori ai loro guadagni. Non è lontano il tempo in cui vedremo i militari e gli eserciti convertiti alla difesa dell’ambiente per poterlo distruggere meglio, guadagnandoci anche il prezzo e sopraprezzo, mentre i loro popoli muoiono di fame o si avviano inesorabilmente verso la catastrofe ambientale annunciata. Pazzo o folle vuol dire senza ragione/illogico ed è così che Giovanni XXIII definisce la guerra nella enciclica Pacem in terris:  «alienum a ratione», semplicemente «folle».

La voglia di guerra è la soluzione finale dell’istinto di aggressività che regge la morale di questa nostra epoca: molti soldati, pur volontari, non vanno in guerra solo per guadagnare qualche centesimo in più, molti vanno perché spinti dall’odore del sangue a cui si sono allenati per anni senza mai avere la possibilità o di menare le mani o di mettere a frutto tutta la violenza che hanno incamerato nel tempo della preparazione professionale. I politici si divertono a garantire che i «nostri» soldati sono professionalmente preparati. Traduzione: i nostri soldati sono preparati ad uccidere professionalmente, cioè  a colpire per primi, cioè ancora ad agire «preventivamente» se vogliono salvarsi la pelle. I torturatori di Abu Graib torturavano «per diversivo o per noia». Allo stesso modo nelle strade delle nostre città persone fragili, ma che hanno sete di guerra senza poterla realizzare mettono in atto l’unica guerra possibile per bulli annoiati: aggredire persone ancora più deboli e fare ecatombe di stupri, di sesso, di violenza gratuita. Il futuro è già cominciato: la voglia militarista ha già intaccato il nostro vivere civile; la mentalità guerrafondaia dilaga e domina le nostre città e le nostre relazioni. Dio ci salvi da questo buco nero senza ritorno, se ancora è in grado di farlo. A noi cittadini inermi e credenti nel Dio di Pace, il dovere di resistere senza ambiguità.

Paolo Farinella

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Le armi non si devono nè vendere né costruire: «in piedi, costruttori di pace!»

«In piedi, allora, costruttori di pace. Anzi, come dicono i francesi, en marche!». Queste parole di don Tonino Bello (Arena di Verona, 1989) ci devono scuotere ancora oggi. Se ci guardiamo intorno e vediamo il crescere di una cultura militare e di guerra. Se apriamo gli occhi per vedere cosa davvero succede dietro alle scelte di ampliamento della base Usa a Vicenza, dietro alla notizia che il quotidiano Libero (non certo antiamericano…) riportava a fine gennaio 2007, in merito alla conferma della presenza nella base di Aviano di testate nucleari, dietro al folle progetto di assemblaggio a Cameri (Novara) degli aerei da guerra F35, i cui costi sono astronomici, davvero urge far risuonare le parole profetiche di don Tonino: «In piedi, costruttori di pace». Guai a chi mette velocemente nel cassetto le proprie motivazioni, magari anche cristiane, per buttarsi negli affari, nei vantaggi di un’economia armata, che pare essere davvero il motore di tutta l’economia e la finanza. Le armi sono un businnes pazzesco! Proprio pazzesco, sì! Perché la guerra, come dice la Pacem in terris di Giovanni XXIII, è «roba da matti» (alienum est a ratione).
Un segno profetico di fronte a questi progetti di morte ci viene dal documento, firmato da mons. Ferdinando Charrier, vescovo di Alessandria e presidente della Commissione Problemi sociali, Giustizia e Pace del Piemonte insieme a mons. Tommaso Valentinetti, vescovo di Pescara-Penne e presidente di Pax Christi Italia, del 25 gennaio scorso.
Scrivono i due monsignori: «Sulla scia dei pronunciamenti del magistero della chiesa desideriamo riaffermare, come comunità cristiana, la necessità di opporsi alla produzione e alla commercializzazione di strumenti concepiti per la guerra. Ci riferiamo, in particolare, alla problematica sorta recentemente sul nostro territorio piemontese relativa all’avvio dell’assemblaggio finale di velivoli da combattimento da effettuarsi nel sito aeronautico di Cameri (Novara). Riteniamo – continua il testo – che la produzione di armamenti non sia da considerare alla stregua di quella di beni economici qualsiasi».

Contro questa posizione si sono subito levate voci autorevoli, anche cattoliche (ahimè!), con questi toni  «pur dichiarandomi, in termini ideali, vicino ai vescovi, ritengo che non si possa prescindere, in una fase delicata per la nostra economia, da una valutazione pragmatica…  Dobbiamo fare tutto il possibile per far sviluppare il nostro territorio e non possiamo permetterci di perdere nessuna opportunità che vada in queste direzioni».
Come a dire: il vangelo va bene, ma a livello intimistico o per le suore di clausura. Nella vita poi bisogna essere realistici, e al vangelo subentrano altri criteri! Su alcuni valori non si transige (Pacs, aborto, famiglia, fecondazione artificiale…), su altri come l’economia, i soldi, la guerra… bisogna vedere, valutare…! 
Un altro messaggio profetico arriva dalla insanguinata terra dell’Iraq, dove ho molti amici. Ci sono stato più volte, anche nello scorso mese di dicembre. Avendo parlato del progetto degli aerei F35  al vescovo di Kirkuk, mons. Luis Sako, ecco cosa mi ha risposto:
«Che vergogna! Se un  beduino nel deserto si fabbrica  una spada per proteggersi,  si può capire. Ma gente del Primo Mondo, gente istruita e saggia, gente nobile che costruisce armi, aerei e altri strumenti di morte: questa è una cosa  vergognosa! Una cosa inammissibile. Basta armi! Basta distruzioni e gente che muore ogni giorno!  La vita è bella.  A causa delle armi fabbricate da voi e con i vostri soldi, in Iraq ogni giorno ci sono circa 100 morti, molti feriti e profughi. Lo stesso accade adesso in Somalia, Palestina, Libano e in  altri  paesi.  Il nostro paese è diviso e la popolazione che è rimasta vive nella paura».
«Queste armi sono solo fuoco e sono brutte come i loro fabbricatori. Con questi soldi potete costruire terre nuove  e formare gente nuova e aiutare positivamente alla crescita della vita!. Così sarete beati costruttori della pace e di una società migliore, invece di fare con queste armi una offesa a Dio e all’umanità intera. Questa è una colpa capitale», conclude Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, Iraq (31 gennaio 2007).

Brutti segnali di guerra e profetici richiami alla pace. Siamo in Quaresima, tempo di conversione. Ci aiutano ancora le parole di don Tonino all’Arena di Verona:  «Se non abbiamo la forza di dire che le armi non solo non si devono vendere ma neppure costruire… che certe forme di obiezione sono segno di un amore più grande per la città terrena…  se non abbiamo la forza di dire tutto questo, rimarremo lucignoli fumiganti invece che essere ceri pasquali».

Renato Sacco

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