Viaggio nell’ultima frontiera nord-americana
Comperata dalla Russia nel 1867 e dichiarata stato federale nel 1959, l’Alaska costituisce un quinto della superficie degli Stati Uniti, ma è il meno popolato. La ricchezza del sottosuolo e la sua posizione strategica ne ha fatto l’ultima frontiera della colonizzazione americana. Per la sua natura incontaminata è diventata un’attrazione turistica privilegiata e rifugio di americani in fuga dagli altri 48 stati dell’Unione (i cosiddetti lower 48). Ma anche questo angolo di paradiso sembra minacciato dall’avanzare del «progresso».
Siamo atterrati in Alaska dopo aver sorvolato Danimarca e Norvegia, nord della Groenlandia e Polo nord. I dati del paese li conoscevo: superficie del territorio pari a quella di Inghilterra, Spagna, Francia e Italia messe insieme; sviluppo delle coste superiore a quello degli Usa… eppure la prima sensazione è quella di aver raggiunto una terra esagerata, che toglie il respiro e mette soggezione. Tutto ha una dimensione grandiosa, compresa Anchorage, città modea che ha decuplicato i suoi abitanti in 20 anni. Le montagne che la circondano, basse e bianche di neve, paiono lontane.
Noleggio una bici e faccio un giro in centro; passo davanti alla statua del capitano Cook, arrivato fin qui nel 1778 alla ricerca del mitico «passaggio a nord ovest»; percorro la pista che costeggia il mare: i cartelli avvertono di non avventurarsi sulla distesa fangosa lasciata dalle maree, che qui raggiungono il primato di 10 metri.
Siamo a metà maggio: nel parco le betulle e gli aspen hanno ancora poche gemme, ma tra pochi giorni avranno le loro tremule foglie e cambieranno il paesaggio. La gente non ha paura del vento e del freddo; corre e cammina anche sotto una leggera pioggia; i ragazzi girano in maniche corte; i piccoli vengono portati in carrozzine chiuse, agganciate alle biciclette.
SILENZIO!
Dopo la prima guerra mondiale, le attrezzature usate per costruire il canale di Panama furono trasportate in Alaska per costruire le ferrovie. La più importante serve anche oggi per trasportare il migliore carbone del mondo, perché privo di zolfo e non inquinante, dal cuore del territorio al porto di Seward, dove viene imbarcato e spedito in Cile e in Corea.
Nei mesi estivi la linea, viene utilizzata dai turisti per spostarsi da Anchorage a Seward, attraverso paesaggi spettacolari di monti, laghi e ghiacciai. La cittadina prende nome dal segretario di stato americano che, nel 1867, volle comprare l’Alaska dai russi, contro il parere di buona parte del mondo politico di allora.
Sul treno siedo accanto a una famiglia di Anchorage in gita. I genitori sono originari di Sitka, l’antica città russa del sud est del territorio. Le tre bambine hanno nomi curiosi: Charity, Mercy, Marissa. Sul treno sale anche una classe elementare di Anchorage, guidata dalla maestra, che subito precisa di essersi felicemente trasferita dal New Jersey: «Le grandi città dei lower 48 sono invivibili». Un giudizio che sentirò ripetere spesso sui restanti stati americani, percepiti lontani, inquinati e troppo affollati.
Totalmente ricostruita dopo lo spaventoso terremoto del 1964, Seward è una cittadina di circa 4 mila abitanti, protetta da un profondo fiordo, circondata da monti bianchi di neve. Da qui si parte con il battello per raggiungere velocemente il mare aperto, tra isole rocciose, dove nidificano molte specie di uccelli. Incrociando orche e delfini, ci addentriamo in uno dei pochi fiordi già accessibili in questi ultimi giorni di primavera, per ammirare i ghiacciai che scendono in mare. Si spengono i motori; il mare brilla di mille blocchi traslucidi. Davanti allo spettacolo della natura vi è silenzio, emozione.
Ritornati in città, visitiamo il centro di ricerche biomarine. Tra le specialità della natura di questa parte del Pacifico, mi incuriosisce la storia di un pesce che riesce a sfuggire al sonar usato dalle modee navi da pesca; è forse grazie a questa sua specialità che sfugge alla minaccia di estinzione. La pesca effettuata negli ultimi anni, infatti, ha ridotto moltissimo la vita di questi mari un tempo pescosissimi, riducendo anche la presenza di uccelli e mammiferi marini che si nutrono di pesce.
Siamo ospiti di Margherite Christensen, una indigena aleutiana. Il villaggio dove è nata, sull’isola di Kodiak, fu totalmente distrutto dal terremoto del 1964. «Frequentavo la scuola elementare – racconta -. Udimmo il rombo della terra che tremava; il mare si ritirò e un’onda si chiuse sul villaggio». A Seward Margherite era arrivata per seguire i corsi di panetteria alla scuola professionale per i nativi americani. Ora non lavora, perché ha deciso di adottare una bimba e vuole occuparsene personalmente.
Il governo americano ha aiutato le comunità indigene a creare le proprie cornoperative; hanno costruito anche alberghi, che gestiscono con profitto, e amministrano i territori assegnati loro dallo stato come riserve, in ricompenso dell’immenso territorio loro sottratto, per lo sfruttamento del sottosuolo: petrolio, carbone, oro e altri minerali.
UNA VITA DIVERSA
Per passare all’altra parte della penisola Kenai non troviamo di meglio che un furgone per trasporto merci. Nostra compagna di viaggio è una ragazza diretta a Soldotna, dove ha trovato un lavoro estivo in un albergo. Shannon, questo è il suo nome, è decisamente obesa, come molte sue coetanee americane, e fatica persino a camminare.
Ho l’impressione che alla base ci siano problemi psicologici. La giovane è timida, ma riesco a farla parlare. «Ho venduto tutto – mi dice – e ho preso un biglietto di sola andata per Anchorage, senza sapere se avrei trovato un lavoro». A casa ha lasciato una scatola con alcuni oggetti e ricordi. Le chiedo dei suoi. «Mio padre? Non lo conosco; la mamma ha un boyfriend e non è mai a casa». Poi continua: «Terminata la scuola superiore, ho lavorato vicino a casa, in un locale sulla spiaggia dell’isola di Tybee. Sono venuta qui perché volevo cambiare, uscire da un posto divenuto stretto per me».
Molti altri giovani come lei, incontrati nel nostro viaggio, sono arrivati in Alaska con lo stesso sogno: costruirsi una vita diversa da quella che hanno lasciato, per lo più segnata dal dolore. Fergie, l’autista del furgone, è uno di essi. Capelli legati a coda, una vita disastrata alle spalle, è appena ritornato dalle isole Hawaii, dove ha tentato senza successo di stabilirsi. Oggi è il suo primo giorno di lavoro come autista.
La strada per Homer costeggia il Cook Inlet, attraversa un territorio di foreste con il terreno ghiacciato e duro; ma tra pochi giorni il disgelo creerà le condizioni di vita per le micidiali zanzare estive. Quando siamo nei pressi di Ninilchik, prego l’autista di fare una sosta fuori programma per visitare la bella chiesa russa. Il sole sta tramontando e restiamo in silenzio: lo sguardo spazia, al di là dell’immensa baia, sulle cime ghiacciate di una serie impressionante di vulcani.
Finalmente arriviamo a Homer, accolti nella casa di Kristal e suo marito.
OMBRE TROPPO LUNGHE
Questa mattina Homer registra la marea più bassa dell’anno. La gente è scesa a passeggiare sulla distesa umida di sabbia increspata, con i bambini e i cani, bellissimi, dal pelo lungo e bianco, la coda arrotolata. Le alghe sono lunghi nastri bruni, tra i rivoli d’acqua che si ritira. Nel cielo volano le aquile dalla testa bianca, tipiche di questa zona, così pure cicogne, stee artiche e gabbiani.
Homer non ha un vero centro cittadino, ma solo case sparse sul pendio boscoso, lungo la baia di Kachemak, vasto braccio di mare circondato da monti e numerosi ghiacciai. La gente che sceglie di venire in questo luogo è attratta dal clima, più mite che nel resto della penisola Kenai.
Trish, biologa marina, vi è arrivata 30 anni fa dal Tennessee per lavorare nelle industrie del pesce. Anno dopo anno ha visto il mare perdere la sua ricchezza a causa di una pesca indiscriminata. Dopo una grave malattia, ora che è in pensione, si sta costruendo una vera casa, accanto alla cabin che aveva nel bosco, per le vacanze.
Le cabins sono capanne di tronchi di legno, tipiche delle zone di frontiera, senza servizi interni, riscaldata da una stufa. «Finché c’erano i miei genitori, ritornavo una volta all’anno in Tennessee; ora mi è rimasta una sorella, che ha una famiglia numerosa, non la vedo da anni».
Visitiamo Seldovia, un antico insediamento russo di cacciatori di pelli, raggiungibile solo via mare. Quando l’Alaska fu acquistata dagli Usa, sorsero le fabbriche per il trattamento delle aringhe. Ora è tutto chiuso: le aringhe si sono estinte, così pure i famosi granchi della baia. Resta la pesca degli halibut, giganteschi pesci che raggiungono anche i 200 chili.
Il villaggio è un insieme di vecchie case di legno, con la chiesetta russa bianca e azzurra in posizione panoramica sulla baia e il porto, poche vetture e tutte d’epoca. Nei boschi vicini sono sorte le cabins per le vacanze di chi abita in città. Oggi sono arrivati alcuni proprietari per aprir casa e farsi un giro in barca a vela.
Sul traghetto di ritorno siamo accolti da una robusta signora in uniforme, dai capelli bianchi e le gote arrossate dal vento. Seduta a terra, apre la mappa e ci indica l’orario dei traghetti: vuole convincerci a ripartire in serata per le isole Aleutine. Una settimana di navigazione per arrivare nell’ultimo avamposto, un’isola priva di vegetazione, che durante la seconda guerra mondiale fu occupata dai giapponesi. Ringraziamo stupite per la calda accoglienza di questa gente di Alaska, ma dobbiamo rinunciare: non abbiamo il tempo né le forze per un simile viaggio.
Dispiace lasciare la casa di Kristal e suo marito, in cui abbiamo trovato veri amici. Abbiamo parlato a lungo di noi e dei nostri paesi. Anch’essi lasceranno Homer. Da poco hanno messo in vendita la bella casa, dove si erano trasferiti dal sud della Califoia alcuni anni fa, per restare accanto al figlio, rimasto vedovo dopo un incidente, e prendersi cura dei tre nipoti. Ora che i ragazzi sono cresciuti e studiano in un college a Seattle, hanno deciso di trasferirsi nello stato di Washington. «L’inverno in Alaska è troppo lungo e buio; comincia a pesarmi» Kristal confida, mentre con la sua auto mi porta a visitare un altro luogo interessante non lontano da Homer.
Si tratta di un insediamento di russi, conosciuti come «vecchi credenti». È domenica e sono vestiti a festa. Alcuni sono in coda a prendere i biglietti per fare un giro in giostra. Le bambine indossano vestiti lunghi e leggeri, di colore rosa e azzurro, come le mamme, e un velo sul capo, fermato da una tiara. Incuriosita, mi fermo per parlare con la gente, che si mostra molto riservata. Sono i discendenti di quei russi ortodossi che, nel 17° secolo si opposero alle riforme ecclesiastiche imposte dalla gerarchia ufficiale e per questo furono costretti a fuggire dal paese e rifugiarsi in Cina e Sud America. Dal Brasile si sono trasferiti negli Stati Uniti e ultimamente quassù, alla ricerca di un luogo pulito, lontano dai vizi delle grandi città. Pare però che i giovani siano attratti dalla modeità. Hanno scoperto l’alcornol e, la sera, vogliono divertirsi come gli altri americani.
C’È POSTO PER TUTTI
Negli ultimi decenni l’Alaska è diventata la nuova frontiera americana. Molte persone sono venute dalla Califoia, per fuggire dal traffico, crimine e sviluppo edilizio esagerato. Ma c’è gente che viene anche dagli stati per nulla congestionati, come Idaho, Montana, Dakota. La ragione è che in Alaska non si pagano le tasse statali; anzi, alla fine dell’anno, gli abitanti ricevono un bonus proveniente dallo sfruttamento petrolifero.
Inoltre, la breve estate turistica richiede molto personale stagionale, reclutato anche al di fuori degli Stati Uniti. Centinaia sono gli studenti provenienti dall’est europeo. Slavo, alla sua prima stagione, è uno dei 200 universitari croati arrivati da poco. La paga è minima, ma le mance sono generose; e poi, a fine stagione farà una crociera sulle navi del gruppo che gestisce i grandi alberghi del parco Denali.
Oltre alle 8 ore nel villaggio turistico, Slavo e i suoi amici lavorano anche nel ristorante della Roadhouse di Talkeetna, per cui le ore di riposo sono pochissime. D’altronde, a queste latitudini la luce diua dura molto e il cielo si oscura solo per 5 ore.
Talkeetna è il punto di partenza per scalare le cime del Mckinley, una impressionante montagna di ghiaccio di oltre 6.000 metri, che domina una regione di grandi fiumi a soli 300 sul livello del mare. Un gruppo di alpinisti belgi è appena ritornato alla base: due di essi hanno alcune dita delle mani congelate. Li incontro mentre si stanno rifocillando con i ricchi piatti della cucina della storica Roadhouse, avamposto dei pionieri dell’800, dove si fermavano le carovane di slitte trainate da cani.
Da pochi anni è proprietà di Trish Costello, una giovane signora di origine spagnola-irlandese, competente e appassionata: alle 4 del mattino è già in cucina a impastare il pane e preparare i pancakes. Trish è sempre in movimento: quando arrivano i primi avventori, organizza, prende le prenotazioni, assegna le camere, cucina, dando ordini a un certo numero di personaggi incredibili che si alternano ai fornelli. Tipica del gruppo è una giunonica ragazza in canotta e boxer colorati che spadella senza posa.
L’ambiente è più che familiare, come ai vecchi tempi: ai grandi tavoli si trova sempre posto, tutti insieme per potersi conoscere. Alle tre del pomeriggio la cucina chiude, ma si continua con le bevande, zuppe e dolci fatti in casa con i frutti di bosco.
Ma le poche camere in affitto a Talkeetna sono occupate. Dopo la prima sera dobbiamo spostarci dall’altra parte della strada, nella Casa dei 7 pini, gestita da una gentile, anziana vedova di Anchorage. «Era la casa che avevamo fatto per le vacanze con i nostri 4 figli – mi confida -; ora sono sposati e abitano lontano». Poi mi fa una proposta: «Se ti fermi e prendi in mano la gestione di questa casa, me ne vado al nord a trovare mio fratello». Mi dispiace rinunciare a questa occasione: questo paese è sorprendente, anche per le tante opportunità che può offrire persino a persone anziane.
Paradiso perduto?
Questo grande paese mi ha tolto il fiato, sin dal primo giorno. Sarà per la luce, che ti lascia riposare poche ore, o l’immensità dei panorami, con paesaggi dai ruvidi contrasti, orizzonti spogli di ogni orma umana, oppure per la prospettiva di trovarsi all’improvviso davanti un orso affamato.
I boschi sono scuri per l’abbondanza di pini spruce che a volte paiono cipressi, tanto sono sottili. Betulle e aspen hanno messo in questi giorni le prime foglie che, muovendosi, brillano e ingentiliscono i boschi. Le grandi felci si stanno schiudendo e tappezzano il sottobosco.
Ma si parla molto di riscaldamento globale e del danno creato dagli aerei che passano sulla rotta polare. Sono chiamati in causa anche velivoli militari, che, dalle due grandi basi aree vicino ad Anchorage e Fairbancks compiono frequenti voli di ricognizione e addestramento. In Alaska, infatti, sono dislocati oltre 10 mila militari dell’aviazione e un corpo di marines. Durante il fine settimana i parchi sono affollati da gruppi di giovani rumorosi, robusti e allegri. Sono militari, tra i quali molte donne. «La posizione del paese è strategica: siamo più vicini al Giappone che a San Francisco, lo stretto che ci separa dalla Siberia russa è largo poco più di 80 miglia» afferma una coppia con in spalla due biondissimi bambini. «Abitiamo qui da due anni – dice la giovane mamma -; mio marito è militare, di stanza a Delta Junction, presso Fairbancks, una delle due grandi basi militari».
Il paradiso incontaminato forse non esiste più. I villaggi dei nativi stanno scivolando nell’Artico per lo scioglimento del permafrost, il terreno che fino a poco tempo fa rimaneva gelato tutto l’anno. Gli americani che cercavano un paese tranquillo ora si confrontano con le gang di asiatici che spacciano droga, non solo ad Anchorage, ma anche nei villaggi più remoti, dove il buio del lungo inverno accrescono l’isolamento e la paura.
Claudia Caramanti