Perché gli africani parleranno cinese
Grandi summit inteazionali senza economia di mezzi. Documenti di principio per una cooperazione «tra eguali». Ma alla Cina interessano le riserve petrolifere e minerali. Da dare in pasto a un’economia in forte crescita. E gli africani svendono e ricostruiscono. Così, presto anche le leggi saranno tradotte in mandarino.
Nel giro di pochi anni, alcune capitali dell’Africa dell’Ovest hanno visto un cambiamento radicale del traffico su due ruote. I motorini, mezzo principale di trasporto della popolazione cittadina a Ouagadougou come a Cotonou, si sono rapidamente moltiplicati. Gli indistruttibili Yamaha giapponesi, assemblati in Burkina Faso sono stati soppiantati dai Jailing, Sukinda, Yashua e tanti altri nomi di fantasia. Ma anche Yamaha contraffatti. Tutti «made in China». A un terzo del costo.
Chi non poteva permettersi l’ambito mezzo, ha finalmente potuto accedervi. Si accorgeva, però dopo pochi mesi che un pezzo del motore si svitava e altre parti iniziavano a cadere. Ma che importa: più lavoro per le centinaia di meccanici di strada la cui esperta manualità, condita con la proverbiale arte del riciclaggio africana, permette di far rivivere ogni cosa. O quasi.
Anche andando ai mercati di quartiere, gli oggetti che si trovano, dal tessile, agli attrezzi, dai giochi, all’elettricità, sono diventati tutti di fabbricazione cinese. Alcuni fornitori chiedono ancora se si desidera un prodotto non cinese, ma allora si moltiplica il prezzo per due, tre, quattro volte.
Intanto spuntano nelle vie centrali delle città «Africa – China import», «L’Orient», «Hong Kong bazar», negozi gestiti da immigrati cinesi, dove si può comprare dallo spillo alla bicicletta, tutto di «rigorosa» produzione cinese.
In alcuni paesi, Niger e Angola per citae due, anche il panorama umano sta cambiando e si incontrano cinesi un po’ ovunque. Spesso è difficile, se non impossibile comunicare verbalmente con loro, anche se, di norma, sono molto gentili. Ma non sempre c’è un buon rapporto con le popolazioni locali.
Questi sono solo gli aspetti più evidenti di una «conquista» dell’Africa da parte della Cina, che ha visto uno slancio decisivo nell’ultimo decennio.
Primi passi
Senza andare alle esplorazioni cinesi durante la dinastia Ming (1368-1644), si può risalire alla conferenza di Bandung, nel 1955, dei paesi non allineati o «poveri», per trovare la Cina di Mao che cerca aperture inteazionali e pensa a una campagna africana. Iniziano i contatti, diplomatici prima, economici subito dopo con l’Egitto, all’epoca unico indipendente.
La Cina si pone subito come avente una storia simile, di lotta di liberazione dal colonialismo. Come paese povero che collabora con i suoi simili: una cooperazione «Sud-Sud», per contrapporsi a quella «Nord-Sud» e disfarsi del binomio colonizzatori – colonizzati. Va notato che questo approccio è tuttora in voga, con la Cina diventata la sesta potenza economica mondiale e presto entrerà tra le prime cinque spodestando Francia o Gran Bretagna.
Il gigante asiatico appoggia le lotte per l’indipendenza (Tunisia, Algeria, Marocco e in seguito Angola) e si affretta a riconoscere i nuovi stati, tra i primi l’Algeria e la Guinea Conakry. L’intervento è più sul piano politico – diplomatico, interessato a controbilanciare l’influenza di Mosca e dell’Occidente sul continente africano.
Politica ed economia
Ma la svolta nelle relazioni Cina – Africa si ha intorno alla metà del decennio scorso. È a partire dal 1995 che la Cina cerca di armonizzare la sua cooperazione economica con gli obiettivi politici.
E inizia a investire per la conquista del continente.
Organizza il «Forum di cooperazione Cina – Africa», il cui primo incontro si tiene a Pechino nel 2000, seguito da un secondo ad Addis Abeba nel 2003 e dal terzo, in grandissimo dispiego di mezzi ancora nella sua capitale, il 4 e 5 novembre dello scorso anno. Qui partecipano 41 delegazioni africane ai massimi livelli (capi di stato e di governo), per un totale di circa 3.500 delegati.
I Forum producono i documenti di principio su cui si basa la cooperazione Cina – Africa. Dalla prima «Dichiarazione di Beijing» e il «Programma Cina-Africa per la cooperazione economica e sociale» del primo Forum alla nuova «Dichiarazione di Beijing» e il «Piano d’azione 2007-2009» nell’ultimo incontro.
Sul piano pratico, il governo cinese vara misure di tipo commerciale e fiscale per migliorare gli scambi, quali l’armonizzazione delle politiche commerciali, la riduzione della tassazione dei prodotti, accordi di protezione degli investimenti e incoraggiamento di joint-ventures.
Documenti strategici
Nel gennaio 2006 il governo di Pechino rende noto il «Documento ufficiale sulla politica cinese in Africa». Da notare che ne esiste solo un altro sulle relazioni con l’Europa (2003).
Definendosi «il più grande paese in via di sviluppo del mondo» molto interessato alla pace e al progresso, la Cina assicura che i principi base nella cooperazione con l’Africa sono un’amicizia sincera, i muti vantaggi su una base d’uguaglianza, cornoperare nella solidarietà. Trattarsi da eguali, nel rispetto della libera scelta dei paesi africani per la loro via al progresso, ma con l’intenzione di aiutarli in questo loro sforzo.
Assicurare reciproci vantaggi per uno sviluppo condiviso e appoggiare i paesi africani attraverso una cooperazione economica, commerciale e sociale, per la costruzione nazionale. Ma anche: darsi mutuo sostegno e agire in stretta collaborazione negli ambiti inteazionali come le Nazioni Unite e gli altri organismi multilaterali. Intensificare gli scambi anche sui piani educativo, scientifico e culturale.
Sul piano economico si definisce che nello scambio tutti devono guadagnare. Sul piano culturale si spinge per un aumento degli scambi.
Una sola Cina
L’unica condizione politica della Cina Popolare, ribadita nei documenti ufficiali, è quella del riconoscimento dell’«unicità della Cina». Questo significa il non riconoscimento di Taiwan. In Africa tutti gli stati tranne cinque (Burkina Faso, Gambia, Sao Tomé, Malawi e Swaziland) hanno aderito e la tendenza è quella di rompere con la Cina nazionalista (in Europa solo il Vaticano ha ancora relazioni diplomatiche con Taiwan, gli Usa le hanno rotte nel 1979, mentre nel ’71 avevano permesso alla Cina Popolare di entrare nell’Onu, escludendo così Taipei).
Oltre ai principi di base il documento descrive una cooperazione Cina – Africa a 360 gradi: mutuo appoggio a livello politico – diplomatico, cooperazione tra collettività locali, cooperazione economica (verso accordi di libero scambio), finanziaria, agricola, nelle infrastrutture (mettendo l’accento su trasporti, telecomunicazioni, acqua ed elettricità). E ancora cooperazione turistica, nel settore dell’educazione, tecnico – scientifica e medica.
Cooperazione tra i mass media e militare (scambio di tecnologie e formazione), giudiziaria e anche in materia di lotta al terrorismo.
Poche righe invece sono dedicate alle risorse naturali, che sono però il maggior interesse cinese sul continente, prima fra tutte il petrolio.
Un nuovo tipo di partenariato
Il presidente Hu Jintao, il primo ministro Wen Jiabao e il ministro degli Esteri Li Zhaoxing, hanno visitato quindici paesi africani in diversi viaggi nel primo semestre 2006. L’interesse per il continente continua ad aumentare.
Con la «dichiarazione di Beijing» del terzo Forum Cina – Africa, i capi di stato e di governo di 41 paesi africani (sui 48 invitati) e della Repubblica popolare lanciano solennemente un partenariato strategico di nuovo tipo: «uguaglianza e fiducia sul piano politico, cooperazione vincente – vincente sul piano economico, scambi benefici sul piano culturale».
La dichiarazione congiunta ribadisce il principio che tutti gli stati del mondo, potenti o poveri, grandi o piccoli, devono trattarsi da «eguale a eguale». Spinge per il rinforzo della cooperazione «Sud-Sud» e del dialogo «Nord-Sud», richiama l’Omc che riprenda i negoziati di Doha. Chiede inoltre la riforma dell’Onu e delle altre organizzazioni inteazionali, con l’obiettivo di servire meglio tutti i membri della comunità internazionale, migliorando la rappresentazione e la partecipazione degli stati africani nel Consiglio di sicurezza. I capi di stato esortano le organizzazioni inteazionali a fornire maggiore assistenza tecnica e finanziaria ai paesi africani per ridurre la povertà, le calamità, la desertificazione e realizzare gli Obiettivi del millennio.
«Cina e Africa unite dagli stessi obiettivi in termini di sviluppo e interessi convergenti, hanno davanti a loro delle vaste prospettive di cooperazione … mutuamente vantaggiosa, per sviluppo condiviso e prosperità comune».
A caccia di risorse
La Cina è (dal 2005) il secondo consumatore di petrolio al mondo dopo gli Usa1 e ha un’economia in crescita vertiginosa (quasi il 10% l’anno, con un Pil che raddoppia ogni 8 anni). Ha bisogno di energia e materie prime per le sue industrie e per la popolazione, primo fra tutti il petrolio. Il suo consumo di greggio era nel 2000 il 10% della domanda mondiale e diventerà il 20% nel 2010. Si stima che nel 2020 sarà costretta a importare il 60% del petrolio che consuma. Così come gli Usa, la Cina ha una priorità: garantirsi le riserve di petrolio per il futuro.
L’Africa, grazie alla penetrazione degli ultimi anni, assicura oggi a Pechino oltre un quarto delle sue importazioni di greggio. Angola (primo in assoluto, ha superato l’Arabia Saudita), Sudan, Congo, Guinea Equatoriale e Nigeria sono i suoi fornitori principali.
E il pilastro della politica estera cinese resta: «Non ingerenza negli affari interni degli stati». Approccio altamente apprezzato dai regimi africani.
Anche questo ha permesso a Pechino di conquistare lo sfruttamento di giacimenti petroliferi sudanesi, che alcune compagnie occidentali hanno dovuto lasciare a causa delle pressioni politiche Usa. La China National Petroleum Company (Cnpc) detiene il 40% del consorzio Greater Nile Petroleum Operating Company che produce 350 mila barili al giorno. La Cnpc aveva costruito 1.506 chilometri di oleodotto per portare il greggio al mare.
La Cina che ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu ha più volte bloccato (minacciando il veto, ma senza usarlo) le risoluzioni che volevano mettere l’embargo al Sudan sull’esportazione del petrolio, se questi non si fosse impegnato a mettere fine ai massacri perpetrati nel Darfur.
I rapporti con il Sudan risalgono al 1997 e comprendono anche la vendita di svariate foiture di armamenti, sia ai tempi della guerra civile in Sud Sudan, sia ai giorni nostri.
Ma il petrolio non è tutto. Molte altre sono le materie prime necessarie al miracolo economico cinese. La Cina estrae o importa da 48 paesi africani oro, ferro, cromo, platino, manganese, fosfato, cobalto, bauxite, uranio. E ancora tabacco, legname, cotone. Questi ultimi sono lavorati in patria e ritornano poi sul continente come manufatti.
I contratti globali
In cambio alle concessioni per l’estrazione Pechino fornisce prestiti a tasso agevolato e senza condizioni e offre grandi opere infrastrutturali a basso costo. Sono i cosiddetti «contratti globali» che comprendono aiuto allo sviluppo, annullamento del debito, prestiti, investimenti, tutto in cambio all’accesso alle materie prime.
Con l’Angola il contratto più esorbitante: 4 miliardi di dollari di credito (in due fasi tra il 2004 e il 2006) in cambio di petrolio. Luanda si è impegnata a fornire alle imprese cinesi il 70% del suo greggio. Così Shell e Total hanno perso il rinnovo del permesso di sfruttamento di importanti giacimenti, a beneficio delle compagnie cinesi. Il credito è utilizzato per grandi opere pubbliche, realizzate ancora da imprese cinesi (costruzione di 10 ospedali, 53 scuole, riabilitazione di strade, ponti e di tre ferrovie, la costruzione di un aeroporto, oltre alla foitura di centinaia di camion e trattori).
Intanto i cinesi sono sempre più presenti, anche fisicamente. «Ho constatato che la quasi totalità dei bugigattoli che fanno fotocopie sono gestiti da cinesi (anche in provincia) e molti cantieri edili (ce ne sono tanti, il paese è in forte crescita) a Luanda hanno personale cinese. I più sono occupati nei cantieri di ricostruzione della rete stradale. Questo business è finito per la quasi totalità nelle mani dei cinesi». Racconta un cornoperante di recente rientrato dal paese. «Ci sono molti cinesi in Angola, anche donne. Sono ben visibili, mentre 10 anni fa non si notavano». In Angola i cinesi sono scherzosamente chiamati «cama quente», ovvero «letto caldo», perché dormirebbero in tre, a tuo, nello stesso letto: ovvero uno dorme e due lavorano.
Anche la Nigeria, con le sue riserve nel delta del Niger fa gola al gigante asiatico che ha firmato un contratto di 800 milioni di dollari per una foitura a PertroChina di 30 mila barili di greggio al giorno, l’acquisto di un blocco da parte della Cnooc e la ristrutturazione della raffineria di Kaduna. I miliardi di dollari promessi sono in tutto cinque. In cambio la Cina spinge sul piano diplomatico affinché la Nigeria abbia un posto permanente al Consiglio di sicurezza.
Con lo Zimbabwe, altro regime «scomodo» come il Sudan, la Cina ha firmato per oltre un miliardo di dollari: costruzione di centrali termiche in cambio di diritti di estrazione mineraria.
Ma secondo Howard W. French del New York Times3, Pechino sta recentemente prendendo le distanze da regimi del Sudan e dello Zimbabwe, giudicati a lungo termine controproducenti.
Le miniere del pianeta
Il più recente contratto globale è quello firmato con la Repubblica democratica del Congo e presentato al pubblico lo scorso 17 settembre. Cinque miliardi di dollari, di cui due subito, per il settore minerario. Con questi soldi in prestito la Cina finanzia una serie di cantieri (3.200 Km di ferrovia, 3.400 km di strada, 450 km di strade cittadine, 31 ospedali e 145 dispensari …) e la ristrutturazione e rimodeamento di alcune compagnie congolesi di estrazione mineraria, nonché la prospezione di nuovi siti. Ad esempio la Miba (impresa pubblica di Mbuji-Mayi), possiede giacimenti di diamanti, rame, ferro, nickel, oro e cromo. Se da un lato il presidente Kabila ha così ottenuto i mezzi per la ricostruzione del paese, dall’altra la Cina entra prepotentemente nel settore minerario di uno dei paesi più dotati, a livello mondiale, da questo punto di vista.
Il braccio operativo finanziario della Cina in Africa è la China Exim Bank. È lei che presta alle multinazionali (pubbliche) cinesi i soldi per gli investimenti in terra africana. Si stima che la Cina abbia 1.300 miliardi di dollari di riserva monetaria e per questo non ha problemi a pagare, oltre che a promettere. In effetti ha soppiantato la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale in materia di prestiti. Le condizioni poste sono talmente vantaggiose, da non essere redditizi per chi presta, se non a lungo termine.
«Alla televisione etiopica, quando viene presentata la firma di un contratto, c’è sempre un cinese di mezzo» racconta padre Rasera, missionario della Consolata che da 25 anni vive nel paese. I cinesi sono presenti a livello industriale e stanno rifacendo la strada Mechara – Golelchia. «Pochi sono i rapporti con la popolazione locale. Vivono in campi isolati e si vedono solo uomini» continua. «A livello popolare non sono molto accettati dalla popolazione, mentre hanno una grande protezione da parte del governo». Gli etiopici che lavorano per loro raccontano che nei cantieri, una volta passato il controllore, il cemento armato viene smantellato e il tondino di ferro sostituito con quello di diametro inferiore… Nella regione dell’Ogaden stanno cercando il petrolio. Qui sono stati recentemente uccisi otto cinesi.
Africa, enorme mercato
Il continente africano è anche un immenso mercato di 850 milioni di persone. Non solo per le grosse imprese (statali), ma anche per l’import – export e le piccole medie imprese. Si valutano tra 600 e 800 le aziende cinesi (delle quali un quarto private) installate in Africa, mentre sono circa 150.000 i cinesi che vivono sul continente (tre volte tanto quelli naturalizzati, soprattutto in Africa australe).
Oltre ai grandi cantieri (strade, ferrovie, aeroporti, stadi, scuole, ecc.) in mano ai costruttori statali, che tengono i prezzi bassi grazie ai «contratti globali», i prodotti realizzati in Cina, senza alcun controllo di qualità, e di marchio (molti sono contraffatti) hanno invaso il continente. I prezzi ridotti di un terzo o un quarto delle stesse merci di fabbricazione locale o di importazione, hanno permesso alla massa di africani a basso reddito di accedere a beni fino a pochi anni fa a loro proibiti. Come il ciclomotore.
Questo fenomeno ha creato anche problemi legati al dumping, in particolare nell’industria tessile, dove oltre 75.000 lavoratori hanno perso il lavoro dal 2002 (Sud Africa, Marocco, Mauritius). Ma anche a quella dei motorini in Burkina.
D’altro lato molte multinazionali cinesi danno ormai lavoro anche agli africani. In Mozambico, ad esempio la più grossa impresa cinese di costruzioni, che realizza opere pubbliche, ha chiesto che il codice del lavoro sia tradotto in mandarino. Il ministro ha dichiarato che una traduzione ufficiale sarà presto disponibile. I cinesi dicono di voler avere una migliore comprensione della legge (attualmente tradotta solo in inglese) per migliorare i rapporti con i lavoratori locali ed evitare così i frequenti scioperi.
Gli scambi commerciali nei due sensi sono saliti da 40 miliardi di dollari nel 2005 a 55,46 nel 2006 (statistiche cinesi), mentre il primo ministro Wen Jiabao ha proposto di portarli a 100 entro il 2010. L’Africa fornisce l’11% delle importazioni della Cina.
Molti iniziano a vedere gli interessi del gigante asiatico nel continente come un’«invasione» o una «nuova colonizzazione». Altri pensano che l’Africa ha tutto da guadagnare. Certo è che Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna vedono con apprensione l’intensificarsi di questi rapporti «tra eguali».
Gli Usa (non) stanno a guardare
Anche gli Usa capiscono l’importanza strategica del continente e si apprestano a lanciare un’operazione sul piano a loro più consono: quello militare. Così Bush ha annunciato già a fine 2006 l’idea di «Africom», un comando militare statunitense per l’Africa. Si affianca agli altri cinque (Eucom, Northcom, Southcom, Centcom e Pacom) che si dividono il pianeta. Finora il continente africano era «coperto» da tre di questi.
Costruzione di nuove basi (attualmente gli Usa hanno solo una base ufficiale a Djibuti e una stazione radar a Sao Tomé per controllare il «petrolifero» Golfo di Guinea), addestramento truppe africane, cornordinamento attività anti-terrorismo. Ma anche «condurre operazioni militari allo scopo di respingere aggressioni o di rispondere a crisi» si legge sulla memoria del vice segretario alla difesa, Teresa Whelan. Ovviamente, «Africom» avrà una forte componente civile e umanitaria.
La scusa è contrastare più efficacemente la penetrazione dei terroristi islamici (Somalia, Sahara, Sahel). Il vero motivo è essere più vicini e proteggere le riserve energetiche degli Usa. Circa il 20% delle importazioni di greggio degli Stati Uniti provengono infatti dal Golfo di Guinea, e la quota è prevista salire al 35%.
«Africom», che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) diventare operativa per fine anno, ha già un capo: il generale afro – americano William Ward (58 anni), che si è occupato di addestramento truppe in Algeria, Mali e Mauritania. Non ha invece un paese di accoglienza per il suo quartier generale, che dovrebbe supportare una serie di altre basi sul continente. Trattative sono in corso con diversi paesi (Nigeria, Etiopia, Kenya, Ghana, Senegal), ma nulla di fatto. Anzi. Il Sud Africa si oppone fermamente a un «comando su territorio africano», ed è seguito dagli altri 16 paesi dell’Africa australe, ma anche l’Algeria. Solo la Liberia di Ellen Jonson-Sirleaf si è detta favorevole a ospitare «Africom». A livello internazionale il progetto del Pentagono può creare tensioni.
La Cina potrebbe vederlo come una volontà di controbattere la propria penetrazione del continente.
Il mondo sta diventando troppo piccolo e le riserve dell’Africa allettanti e accessibili.
Marco Bello