L’Africa «Feizhou» e l’impero di mezzo

Introduzione

Il più grande paese in via di sviluppo del mondo. Così la Cina – meglio i suoi dirigenti – definisce se stessa. La sesta economia del pianeta, scrivono gli economisti.  E ben presto sarà la quinta, grazie a un tasso di crescita che si avvicina al 10% annuo.  Ma è anche vero che il debito estero è intorno ai 228,6  miliardi di dollari e il paese occupa solo l’81simo posto della classifica delle Nazioni Unite sull’indice di sviluppo umano, classificato questo come «medio».

Quello che è certo è che il paese ha un grande bisogno di energia: dal 2005 è il secondo consumatore di petrolio, dopo gli Stati Uniti. Dal 10% della domanda a livello mondiale, passerà al 20% nel 2010.  Ma non basta. Se oggi in Cina ci sono 16 automobili per 1.000 abitanti, contro 588 dell’Italia e 812 degli Usa, si stima che grazie allo «sviluppo» il parco automobili esploderà, moltiplicandosi per 18 entro il 2030. Il gigante asiatico, pur avendo delle riserve, tra dieci annisarà costretto a importare il 60% del petrolio, contro il 30% di oggi.

Così, anche la Cina, come gli Usa è in corsa per accaparrarsi le riserve energetiche del pianeta. Non solo greggio, ma anche uranio, cromo, rame e legno … C’è un continente che ha tutto questo e lo vende (o lo svende) al miglior offerente: l’Africa.  O meglio Feizhou, come dicono loro e come sarebbe bene imparare. Dalla metà degli anni ‘90 i dirigenti cinesi varano una nuova politica per l’Africa, tuttora in piena applicazione. Cooperazione bilaterale (prestiti a basso interesse e senza condizioni), cancellazione del debito, doni, foiture militari. In cambio concessioni per lo sfruttamento di giacimenti o per l’esplorazione di nuovi. Così l’Angola diventa nel 2005 il primo fornitore di petrolio della Cina, il Congo foirà nei prossimi anni rame, ferro, oro, diamanti. In cambio alcuni miliardi di dollari che ricostruiranno i paesi distrutti da decenni di guerre (strade, porti, aeroporti, ferrovie, stadi, raffinerie, ecc.). O meglio multinazionali cinesi ricostruiranno l’Africa con soldi cinesi. E qualità cinese.

Piace l’approccio asiatico, soprattutto a molti capi di stato africani. Il principio base è «non ingerenza» nella politica intea degli stati. Questo può risultare utile al Sudan di Omar El Beshir e allo Zimbabwe di Mugabe, con i quali Pechino fa ottimi affari. Un’unica condizione: riconoscere l’unicità della Cina, ovvero non avere rapporti diplomatici con Taiwan.

Feizhou è anche un grande mercato di 850 milioni di persone per i prodotti cinesi. Beni a basso costo e infima qualità, ideali per le masse africane a basso reddito e tanta voglia di consumismo.
E gli altri? Francia, Gran Bretagna, Usa? I primi due si stanno ritirando lasciando ampi spazi di manovra. I secondi lanciano un nuovo assalto al continente. Di tipo militare, perché è l’unica cosa che sanno ancora fare. Così con la scusa della lotta al terrorismo nasce «Africom» il comando Usa in Africa: basi, aiuti militari, addestramento… presenza di marines.

Se Lucy, le cui spoglie riposano al museo di Addis Abeba, ci ricorda che tutti veniamo dall’Africa, lo slogan «made in China» ci mostra, ogni giorno, verso cosa stiamo andando.

Di Marco Bello

Marco Bello