«La sola verità è amarsi»

30° anniversario della morte dell’apostolo dei malati di lebbra e della pace

Il 6 dicembre 1977, moriva a Parigi Raoul Follereau. Per 50 anni ha fatto udire fino alle più alte sfere nelle stanze dei bottoni la voce di chi non ha voce: i lebbrosi e tutti gli esclusi del mondo. Il suo esempio e il suo messaggio non possono essere dimenticati; oggi più che mai, c’è bisogno di continuare la sua lotta «contro tutte le lebbre»: egoismo, ignoranza, indifferenza, viltà.

C ome le più grandi avventure, anche quella di Raoul Follereau iniziò per caso.
Era il 1936 e stava attraversando il deserto del Sahara. Vi era andato già diverse volte, in veste di giornalista e di credente, per raccontare la vita di padre Charles de Foucauld. A un certo punto il radiatore della sua auto si mise a bollire e i passeggeri furono obbligati a una sosta per far raffreddare il motore. Fu allora che apparvero dei fantasmi d’uomini. Erano degli scheletri che si trascinavano a stento, lo sguardo pieno di paura. Follereau con il suo proverbiale impeto li chiamò, li invitò ad avvicinarsi, ma quelli si allontanarono e si nascosero.
Follereau si rivolse al suo accompagnatore. «Chi sono?» chiese. «Lebbrosi» rispose quello. E non seppe aggiungere altro, né spiegare perché vivessero da reietti, isolati da tutto e tutti.
«Quel giorno – raccontò anni dopo Follereau – capì che esisteva un crimine imperdonabile, degno di qualsiasi castigo, un crimine senza appelli e senza amnistia: la lebbra».
ORFANO A 13 ANNI
Un caso, abbiamo detto. Ma è proprio così? L’uomo di carità è colui che è attento alla sofferenza degli altri. Follereau era stato allenato dalla vita ad affinare questa speciale sensibilità.
La sua adolescenza fu stravolta dalla Grande guerra. Quando scoppiò il primo conflitto mondiale aveva appena 11 anni (era nato a Nevers nel 1903). Il padre venne chiamato alle armi. La piccola fabbrica di famiglia, che produceva attrezzi per l’agricoltura, dovette essere convertita in «industria bellica». Non c’era più spazio per i sogni e per i giochi. Anche Raoul, insieme al fratello maggiore, fu costretto a lavorare alle macchine per produrre proiettili. La scuola divenne un lusso; ma il ragazzo ostinato studiava la sera con l’aiuto di un anziano sacerdote.
Le ostilità sembravano non cessare più, infinito l’elenco dei morti. A casa si pregava perché fosse risparmiata la vita del proprio congiunto. Purtroppo non fu così. Nel 1917 avvenne ciò che tutti temevano: il soldato Follereau venne ucciso in battaglia nella Champagne. Raoul aveva 13 anni e adesso era uno dei 3 milioni di francesi resi orfani dalla guerra.
Il disastro bellico in Francia s’era sovrapposto a un altro conflitto, che riguardava questa volta le coscienze e bruciava negli animi più sensibili ai valori della religione cristiana. Nel 1905, con la cosiddetta legge Combes (dal primo ministro che l’aveva proposta, un ex seminarista divenuto massone), la Francia aveva dichiarato solennemente la separazione tra stato e chiesa. Gli edifici di culto vennero espropriati, gli ordini religiosi disciolti e costretti all’esilio.
Raoul, che aveva studiato presso i Fratelli delle scuole cristiane, sperimentò su di sé l’anticlericalismo. Nel 1920, agli esami per l’ingresso alla facoltà di filosofia, venne bocciato per due volte nonostante la sua dissertazione fosse tra le migliori. Ma non piacevano le tesi esposte e dunque… Dovettero intervenire le organizzazioni degli ex combattenti per difendere il figlio di un caduto in guerra. Il ministro dell’istruzione, per evitare lo scandalo, ammise d’ufficio Follereau alla Sorbona.
AVVOCATO, GIORNALISTA, POETA
Del resto, quel giovane era già una piccola personalità. Dall’età di 15 anni aveva scoperto la sua vena di comunicatore. La sua prima conferenza la tenne nel 1918 nel cinema della sua città, in occasione di una cerimonia per ricordare le vittime del conflitto mondiale. «Dio è amore», fu il titolo, lo stesso che 85 anni dopo verrà scelto da Benedetto xvi per l’enciclica iniziale del suo pontificato.
Follereau fu uno studente brillante, a 20 anni era già laureato in filosofia e diritto. Forse sentì già in sé la vocazione di difensore degli ultimi e di lottatore contro le ingiustizie. Scelse allora la strada dell’avvocatura, ma nello studio dove iniziò a lavorare la prima causa che gli affidarono fu quella per un divorzio. Sbatté subito contro il muro della propria coscienza e dovette trovare altri strumenti per portare avanti la sua battaglia.
L’occasione si presentò presto, sotto forma di un posto quale segretario di redazione del giornale parigino L’Intransigeant. L’ambito intellettuale e dell’informazione era in effetti quello più adatto a lui. Allargò presto i suoi impegni e nel 1927 fondò la «Lega dell’unione latina», un’organizzazione che si proponeva di difendere la civiltà cristiana contro tutti i «paganesimi» e le «barbarie».
Follereau aveva elaborato la sua esperienza giovanile: le divisioni intee alla Francia, il ripudio della tradizione e delle radici cristiane su cui pure si fondava la nazione; e poi, la tragedia bellica, generata da anacronistiche contrapposizioni tra le vecchie potenze dell’Europa. Da questo passato Follereau vedeva proiettare ombre sul futuro, che di lì a pochi anni avrebbero preso drammaticamente corpo.
Chi erano i nuovi barbari temuti dalla sua Lega, se non la triade con cui avrebbe fatto i conti tutto il xx secolo? Il germanismo, che sarebbe sfociato nella follia nazista; il bolscevismo, che avrebbe applicato la ricetta comunista sotto forma di feroce dittatura; e la corsa al denaro, che più avanti sarebbe divenuta quasi un’ideologia con il nome di consumismo, alimentata dalle ricette iperliberiste con al centro di tutto il mercato e la borsa.
Per far circolare le idee del suo movimento fondò un mensile, L’Opera Latina, dove diede molto spazio ai poeti. Era poeta egli stesso, una sua lirica fu apprezzata da Gabriele D’Annunzio, che lo volle incontrare. L’anima poetica di Follereau fece la sua parte negli appelli ai grandi della terra e ai giovani che furono i «capolavori» della maturità. Follereau era un vulcano: giornalista, drammaturgo, conferenziere…
VIAGGI  E INCONTRI STRAORDINARI
E intanto viaggiava all’estero, si recava in ogni luogo dove poteva esserci un’impronta francese o latina. Nel 1929 il ministero della Pubblica Istruzione, forse per «risarcirlo» della discriminazione che aveva subito anni prima agli esami di ammissione universitaria, gli affidò una ricerca sull’influsso culturale francese in America del Sud. Nel suo rapporto scrisse di aver trovato dovunque i religiosi e le religiose francesi, gli stessi che erano stati cacciati dal proprio paese a causa delle leggi del ‘905. Questi connazionali avevano fondato scuole, collegi, università. Erano loro i migliori ambasciatori della patria che li aveva rifiutati.  Chi aveva incaricato Follereau della missione si aspettava certo altre conclusioni…
Durante quel viaggio il giornale argentino La Nacion gli affidò un reportage su de Foucauld. Il piccolo fratello del deserto non poteva non attirare Follereau, che tra il ’30 e il ’36 fece la spola tra l’America Latina e il Sahara.
Fratel Charles era stato un viveur impenitente e un ufficiale avventuroso prima di farsi conquistare da Gesù. Non dall’immagine potente del Figlio di Dio, ma da quella ordinaria del figlio del falegname, che vive la sua vita nascosta nella piccola Nazareth. Un incontro che gli cambiò l’esistenza e lo condusse infine nel Sahara algerino, al seguito delle truppe francesi. Follereau vide proiettata in questa avventura umana tutto il suo ideale di una Francia capace di espandere la civiltà cristiana, non con la forza economica e delle armi ma con la fedeltà all’amore di Dio.
L’umiltà eroica di Charles de Foucauld, che adorava il Santissimo nel silenzioso eremo di Tamanrasset e lì, il primo dicembre del 1916, venne ucciso da un tuareg, era l’esempio di chi offre la propria vita senza chiedere nulla in cambio. Sapendo, però, che in quell’oblazione sta il «di più» che fa grande la fede e conquista i cuori.
Dunque, Follereau a 33 anni era già tutto questo, quando il «caso» fece sì che la sua auto restasse in panne nei pressi di un accampamento di lebbrosi. Una visione che non lo avrebbe più abbandonato, sebbene costretto ancora ad occuparsi d’altro.
La storia incalzava. Scrisse un libretto dal titolo «Hitler, volto dell’Anticristo» si recò in Italia e Romania per convincere queste nazioni – che la latinità rendeva sorelle della Francia – a non schierarsi con la Germania nazista. Incontrò anche Mussolini, incuriosito dal fiocco che Follereau indossava a mo’ di cravatta più che dalle idee dell’interlocutore. Quella strana cravatta, disse Follereau, è il segno di una differenza e della libertà individuale. Il duce si limitò a sorridere.
Nel 1939, allo scoppio della guerra, fu destinato al servizio degli ascolti telefonici. Follereau, in altre parole, divenne una sorta di 007 e fu testimone diretto del drammatico precipitare degli eventi inteazionali. L’anno dopo si trovò a Vichy, quando nacque il governo collaborazionista del maresciallo Pétain. Rifiutò ogni incarico e si rifugiò a St. Etienne, continuando la sua personale battaglia fatta di incontri e di discorsi. Tra il ’40 e il ’42 girò la Francia in lungo e in largo per ridare orgoglio e fiducia ai connazionali avviliti dall’occupazione straniera, mentre collaborò discretamente con l’esercito clandestino.
«IL VAGABONDO
DELLA CARITà»
Tra tanto girovagare, nel novembre del ’42, mentre nel mondo infuriava la guerra, Follereau incontrò una suora bergamasca, Eugenia Elisabetta Ravasio, che era divenuta giovanissima madre generale delle Suore missionarie di Nostra Signora degli apostoli. La religiosa era appena tornata da un viaggio in Africa, dove s’era imbattuta in orde di hanseniani, costretti a vivere nell’isolamento e nell’abbandono più completi. Madre Eugenia voleva costruire per loro un piccolo villaggio nella foresta, dove ognuno avrebbe potuto disporre di un capanno con un orto e delle cure sanitarie.
In Follereau si materializzò l’immagine di sei anni prima: l’incontro casuale coi lebbrosi nel Sahara, il loro destino di perenni fuggiaschi. Il progetto della suora lo conquistò e si buttò a capofitto nell’impresa di trasformarlo da sogno in realtà. Iniziò subito un giro di conferenze e una raccolta di fondi.
Il primo appuntamento fu ad Annecy il 15 aprile del ’43 e sembrò surreale l’iniziativa a favore dei lebbrosi tra le macerie dei bombardamenti, in una nazione e in un continente devastati dal conflitto bellico. «Ma la lebbra ormai mi aveva preso – raccontò più tardi Follereau -, ero il suo felice prigioniero». Il luogo per far sorgere il villaggio dei lebbrosi fu individuato in Costa d’Avorio, in una località chiamata Azoptè.
Per 10 anni Follereau, insieme a due suore, girò per le strade di Francia, Belgio, Svizzera, Libano, Algeria, Tunisia, Marocco, Canada. Tenne 1.200 conferenze e divenne il «vagabondo della carità», «l’apostolo dei lebbrosi». Montagne di corrispondenza giunsero al suo indirizzo. Malati, medici, missionari gli raccontarono storie, drammi, speranze. E tutti dissero che non c’era solo Azoptè, che erano tanti e tanti – milioni – i lebbrosi da salvare dal peggiore effetto della malattia: il pregiudizio.
L’impegno a favore dei lebbrosi divenne un fiume in piena, sempre più impetuoso e inarrestabile. Non ci fu più spazio per altri mestieri, prese corpo l’idea di una fondazione che incanalasse il lavoro svolto in così tanti luoghi. Il campo d’azione divenne il mondo.  Follereau passò dall’Africa all’Asia, all’America Latina. Le sue conferenze divennero incalzanti, la sua oratoria proverbiale. Mirava al cuore degli ascoltatori, metteva a nudo l’indifferenza, la tiepidezza della maggioranza fortunata dell’umanità verso gli ultimi e gli esclusi. Coniò il suo famoso slogan: «Nessuno ha diritto d’essere felice da solo». Ecco, Follereau non voleva essere solo, voleva condividere giornie e dolori. Anche nella sua vita privata.
A 15 anni appena, s’era fidanzato con Madeleine, che a 21 sarebbe divenuta sua moglie. Madeleine fu per sempre la sua spalla. Lo sostenne nei momenti di difficoltà, quando l’attività vulcanica del marito non si conciliava con il conto della spesa; lo affiancò nei viaggi avventurosi, perfino a rischio della vita, quando piegata da una crisi di appendicite si trattò di accamparsi in Bolivia negli sperduti villaggi degli indios o di risalire il Rio delle Amazzoni con una canoa mezza rotta, tra nugoli di zanzare e frotte di caimani affamati. «La più grande fortuna della mia vita fu mia moglie», disse ormai anziano Raoul e aggiunse: «Solo quando si è in due si è invincibili».
«INSEGNARE DI NUOVO    AGLI UOMINI AD AMARSI»
Follereau non era un don Chisciotte. Credeva nell’utopia, ma non confondeva le pale di un mulino a vento col gigante da abbattere. La sua strategia solo a prima vista poteva apparire ingenua, in realtà puntava a moltiplicare il coinvolgimento dell’opinione pubblica e delle istituzioni in un gioco di causa-effetto che allargava il raggio d’azione e d’influenza a cerchi concentrici.
In questo senso il 1952 fu un anno fondamentale. Mentre la scienza medica annunciava la possibilità di curare la lebbra con i sulfoni, Follereau si rivolgeva alle Nazioni Unite. «Per molti paesi – scrisse – la lebbra rimane una malattia vergognosa: si nascondono i lebbrosi, si dissimulano, si interrano, nelle famiglie come nelle nazioni». La sua era ancora una voce isolata, ma comunque la voce di un testimone autorevole che nessuno poteva far finta di non sentire. Egli stesso ne era consapevole e l’anno successivo alzò il tiro creando la Giornata mondiale dei malati di lebbra.
Due gli scopi essenziali: garantire agli hanseniani trattamenti e cure come tutti gli altri malati; guarire i sani dalla paura ancestrale verso la lebbra.
Dal 1953 a oggi la Giornata si è sempre tenuta l’ultima domenica di gennaio e anche i pontefici non hanno mai mancato di unirsi all’appello alla solidarietà verso le persone affette dal morbo di Hansen.
Follereau ricordò spesso i suoi incontri con i papi, a cominciare da quello che ebbe a Castel Gandolfo con Pio xii: «Quando gli esposi tutte le miserie, le crudeltà, il dolore, l’eroismo di cui ero stato testimone, quando ebbi terminato questa arringa che era quasi una preghiera, ci fu nello studio del papa un grande silenzio,  limpido, assoluto. La voce del papa riprese, con un tono del tutto mutato: “Sì – mi disse -, sì, quello che serve è insegnare di nuovo agli uomini ad amarsi”».
APOSTOLO DELLA PACE
In un certo senso Follereau fu un antesignano della globalizzazione. Di fronte a un problema planetario, anche la lotta deve essere condotta sulla stessa scala. Aveva ben chiaro che il destino dell’umanità era legato a un unico filo. L’esperienza della seconda guerra mondiale e l’ingresso nell’era atomica non avevano fatto altro che rafforzarlo in questa idea.
Nel 1948, in una sorta di manifesto dal titolo «Bomba atomica o carità», profeticamente affermava: «Non c’è più posto per coloro che tergiversano o temporeggiano. Oggi bisogna scegliere, subito e per sempre. O gli uomini impareranno ad amarsi, a comprendersi, e l’uomo finalmente vivrà per l’uomo, o spariranno, tutti e tutti insieme». 
Già nel 1944 aveva scritto al presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, chiedendo che l’equivalente dei costi di un giorno di guerra fossero destinati alla ricostruzione e alla pace. Ma gli accordi di Yalta sancirono l’inizio della «guerra fredda» e così, 10 anni dopo, Follereau inviò un’altra lettera, stavolta sia al presidente americano Eisenhower che a quello sovietico Malenkov. Si rivolgeva ai due grandi in modo apparentemente naïf, mettendo alla berlina le contraddizioni della corsa bellica tra superpotenze. Chiedeva a ciascuno dei due destinatari un aereo da bombardamento: «Perché ho calcolato che, con il prezzo dei due vostri aerei di morte, si potrebbero curare tutti i lebbrosi del mondo. Un aereo in meno in ogni campo non modificherà l’equilibrio delle vostre forze. Voi potrete continuare a dormire tranquilli e io dormirò meglio».
Naturalmente nessuno gli rispose, ma intanto cresceva tra i popoli la consapevolezza del problema. E Follereau faceva di tutto per alimentare il fuoco delle coscienze.
L’anno dopo, era il 1955, indirizzò una lettera aperta ai «Nostri Signori della Guerra e della Pace». Il tono adesso ricordava quello dei profeti biblici: «Forse che voi non troverete mai per guarire i poveri, per nutrirli, per allevarli, la millesima parte di ciò che avete sacrificato per lunghi anni per uccidere, per odiare, per distruggere? Questa domanda è l’uomo, ciascun uomo di ogni popolo che ve la pone. Che rimaniate o no silenziosi, egli si rallegrerà della vostra iniziativa o constaterà la vostra indifferenza: in ogni caso, non sfuggirete al suo giudizio».
Nel ’64 Follereau affinò la sua tecnica di comunicazione globale. Inviò una lettera al segretario generale dell’Onu, Sithu U Thant, ribadendo la sua richiesta di destinare «un giorno di guerra per la pace» e poi chiese il sostegno della gioventù di tutto il mondo. Ai ragazzi compresi tra i 14 e i 20 anni vennero distribuite cartoline da inviare a U Thant in cui si dichiarava di far proprio l’appello di Raoul Follereau. Alla fine furono 3 milioni quelle che arrivarono al Palazzo di vetro di New York, spedite da 125 paesi di tutti i continenti.
Con i giovani Follereau riuscì a creare un feeling speciale. Tra tanti adulti incapaci di comprendere i loro sogni, i giovani scoprivano un vecchio che parlava come loro di grandi ideali da realizzare. Ad essi si rivolse nella sua ultima conferenza: «Il mondo di domani sarà come voi lo farete. Avrà il vostro viso e la vostra dimensione. Costruite una cattedrale e che sia il rifugio di tutto ciò che vi è di pulito, di schietto, di onesto e di giornioso nel cuore dell’uomo. Non crediate che il mondo sia perduto: non è vero. Stiamo attraversando un brutto momento, ci troviamo in un tunnel, ma i miei vecchi occhi riescono ancora a vedere in fondo la luce verso cui stiamo andando».

I l piccolo francese di Nevers era divenuto un megafono gigantesco, che come nessun altro prima era riuscito a far salire in alto, alle stanze dei bottoni, la voce di chi non aveva voce. Continuò fino all’ultimo a fare il globe trotter per i suoi lebbrosi e per tutti i poveri, fino alla sua morte avvenuta a Parigi il 6 dicembre 1977.
La sua opera «contro tutte le lebbre» prosegue attraverso la Fondazione internazionale che porta il suo nome e che è presente in mezzo mondo con una rete di associazioni di volontariato. Per Follereau valgono i versi di Jacques Prévert:
Il nostro amore è là
Testardo come un asino
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Sciocco come i rimpianti
Tenero come il ricordo.

Di Enzo Romeo

Enzo Romeo