La parabola del «figliol prodigo» (14) Le porte del perdono sono sempre aperte

«Dio è più grande del nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri»

Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. 20aPartì e si incamminò verso suo padre» (Lc 15,18-20).

Nulla può andare perduto
Nella puntata precedente (MC 9/2007, pp. 57-59) abbiamo lasciato il figlio giovane in preda di una solitudine esistenziale che aveva visto naufragare tutti i suoi sogni di autonomia. Solo, in terra straniera, sprofondato nella più abissale impurità (i porci con i quali avrebbe condiviso le carrube, «ma nessuno gliene dava»: v. 16). Abbiamo anche messo in evidenza che la motivazione del ritorno del figlio non può essere chiamata «conversione», perché le ragioni che lo inducono a ritornare non sono né il pentimento né l’amore per il padre, ma il suo tornaconto. Egli non soffre per il male fatto o perché il padre soffre, ma è terrorizzato di morire di fame. Il figlio giovane della parabola è un egoista cronico. È tutto centrato su se stesso e sui suoi bisogni immediati, per cui non può essere proposto come modello di conversione.
Eppure dentro di lui «accade» qualcosa di cui egli stesso è ignaro in un primo momento. Il testo greco dice che «dopo essere tornato in/dentro di sé, disse». Allontanatosi dal padre, non era finito solo «in un paese lontano» (v. 13), ma si era allontanato anche da se stesso: si era perduto geograficamente e spiritualmente. Aveva smarrito la dimensione di sé perché aveva perduto la sua identità di figlio. «Rientrare in se stesso», se in un primo momento non è sinonimo di «conversione» sincera, è l’inizio della consapevolezza del fallimento del suo progetto di vita autonoma.

Padre e figlio per sempre
Nessuno può abdicare dal proprio essere figlio e dall’essere padre/madre. Si è figli per sempre; si è padri/madri per tutta l’eternità. Nessuno è figlio del «nulla»; nessuno si fa da sé, ma ognuno di noi è sempre figlio di qualcuno e a sua volta è «genitore» di qualcun altro.
È la relazione che stabilisce l’identità personale: è quello che avviene all’interno della Trinità santa e accade dentro il mistero di vita di ciascuno di noi. Nemmeno il «figlio prodigo» può sfuggire a questa legge. Ciò significa una cosa sola: anche se la motivazione iniziale è imperfetta, può però costituire il primo passo verso un cambiamento che via via diventa consapevolezza, coscienza di vita. La motivazione egoista iniziale muterà in un processo evolutivo che si perfezionerà solo alla conclusione del cammino, cioè al punto di approdo.
In questo contesto si modifica la nozione stessa di «conversione» che di norma è intesa come un «atto unico» e irrepetibile, travolgente e traumatico, che cambia la vita, mentre alla luce della parabola lucana, essa è «un’attitudine al cambiamento», cioè un processo che inizia anche in modo imperfetto e s’illumina e si definisce lungo il processo di formazione. Abituarsi al cambiamento, ecco il vero senso della conversione, che in ebraico si chiama «teshuvàh». Il termine deriva dal verbo «shub» che ha in sé l’idea del ritorno sui propri passi e si riferisce al ritorno a Dio da cui si era allontanati (cf Dt 4,30).

Pentimento imperfetto
La tradizione giudaica insegna che la «penitenza/teshuvàh» fu creata da Dio prima ancora della creazione del mondo (Talmud, Pesachim-Pasque 54a) per concedere a Israele una possibilità supplementare di salvezza. Per questo la «penitenza/teshuvàh» s’innalza fino al trono di Dio, allunga la vita dell’uomo e guida alla redenzione del Messia (Talmud, Yoma-Gioo 86a-86b).
Il Midrash Deuteronomio Rabbàh-Grande (2,24) insegna che Dio impone a Israele il pentimento, ma non l’umiliazione, perché un figlio non può vergognarsi di ritornare a suo padre. Nel racconto di Luca, infatti, è il padre che è presente nella dissoluzione del figlio e lo spinge a compiere la sua «teshuvàh/ritorno» e come vedremo, lo accoglierà, ma non lo umilierà.

Motivazione nascosta del figlio
La «ragione/motivazione nascosta» che spinge il figlio al passo più difficile della sua vita, quella cioè di ritornare da suo padre, ma rinunciando alla sua condizione di figlio, rivela ancora una volta la superficialità di questo figlio che, nonostante tutto quello che ha passato, si ostina ad avere paura del padre: egli è terrorizzato di perdere la faccia, la dignità, l’onore.
Qui sta la prova finale che egli non ha mai conosciuto suo padre: nel momento in cui egli rinuncia a essere figlio, impone al padre di rinunciare alla sua pateità. Ciò sarebbe l’equivalente di un’altra morte. Ha preteso la morte del padre per affrancarsi da lui e ora si accontenterebbe di essere suo servo, credendo che il padre potrebbe fare finta di non essere suo padre. Ogni scelta, per quanto personale, implica sempre le scelte di qualcun altro.
Nel suo ragionamento assurdo, egli addirittura si paragona ai servi della casa di suo padre che stanno meglio di lui. Colui che voleva la libertà e la totale indipendenza, si considera inferiore ai servi di suo padre. In questo modo afferma indirettamente che il padre è la «garanzia» del benessere dei servi e quindi anche del figlio che vuole diventare servo. Questa considerazione è la presa d’atto di un totale fallimento, ma anche la certezza: quel «padre» che egli aveva voluto morto per avere preteso la vita in eredità, è ancora il peo della sua esistenza. Muore di fame e sogna suo padre come sua àncora di sopravvivenza. Il figlio non sa che il padre, portato via come «patrimonio», è stato il suo scudo e la sua difesa.

Motivazione nascosta anche al figlio
La ragione/motivazione che guida il figlio a ritornare, è il «padre» che come «patrimonio» ha seguito il figlio sulla via della dissoluzione e della perdizione. Sostenuto dalla presenza invisibile del padre che anima tutte le decisioni di vita, il figlio giovane si determina a intraprendere il suo cammino di ritorno. La vera ragione del ritorno del figlio affonda le sue radici nell’amore del padre che non è mai venuto meno.
In termini spirituali si può dire che ogni ritorno, inteso anche come conversione, non è mai frutto della volontà dell’interessato, ma azione di grazia che lo Spirito compie per realizzare la volontà salvifica universale di Dio. Nessuno è capace di conversione perché possiamo solo lasciarci convertire dallo Spirito di Dio. Veramente credere nel Dio di Gesù Cristo è il compito più facile che esista: basta abituarsi a sapere ricevere: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7).
Il «richiamo» del padre è più forte della morte. Si capisce perché il padre si sia lasciato spogliare, derubare e «uccidere»: era l’unico modo per andare «con» il figlio e salvarlo da se stesso. Al padre non è mai interessato il patrimonio o «la proprietà». A lui interessa soltanto quel figlio che voleva perdersi a ogni costo e che bisognava salvare a tutti i costi, anche a costo della propria vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Il padre è l’immagine nuda e austera del Padre dei cieli, che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito… Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). Al fondo della sua abiezione e come risultato del suo fallimento, il figlio giovane può ancora una volta aggrapparsi al padre, la sua unica salvezza. Dice un detto della tradizione giudaica: «Le porte della preghiera possono essere chiuse (= Dio può anche non ascoltare), ma quelle del ritorno (pentimento) sono sempre aperte» (Talmud Jerushalmì, Makkot-Fruste, 2,7,31d).

L’Assente-Presente
I vv. 18-21 formano nell’economia del capitolo due sotto-unità, in cui si descrivono gli stessi movimenti: nella 1a unità (vv. 18-19), di cui ci occupiamo in questa puntata, il figlio parla con se stesso, immaginando di essere davanti al padre che materialmente è assente; nella 2a invece (vv. 20-21), che esamineremo la prossima puntata, si trova realmente davanti al padre al quale ripete le parole che aveva preparato. Le due unità sono strettamente connesse intorno alla figura del padre «assente-presente».
Questi versetti rivelano il mistero proprio di Dio, di cui facciamo fatica a capie la natura. Quando ci allontaniamo da lui, non acquistiamo autonomia e libertà, ma diventiamo schiavi di qualcuno o di qualcosa: è l’esperienza che facciamo ogni giorno. Il padre della parabola è l’immagine esemplare di Dio che è presente anche quando sembra assente e tutto appare perduto. Un’immagine plastica di questo dramma, si trova nel racconto della tempesta sedata di Mc. Tutto attorno crolla, la tempesta sopravanza e Gesù «se ne stava a poppa e dormiva», mentre i discepoli terrorizzati lo accusano di diserzione: «Maestro non ti importa che stiamo morendo?» (Mc 4,35-39, qui v. 38). C’è la tempesta e lui «dorme»; c’è la tempesta e lui c’è.

Un verbo per lasciare e due verbi per tornare
Il figlio che ha perduto ogni velleità, esausto nella sua fatica di vivere, riallaccia i contatti col padre, in modo flebile, interessato, ma reale: egli sogna la casa di suo padre come sicurezza, rifugio e protezione. Nonostante la motivazione insufficiente, bisogna cogliere l’evento di qualcosa di grandioso che accade. Quando abbandonò la casa, suo padre e Dio, dice l’evangelista: «Partì per un paese lontano» (v. 13); ora che ritorna, il testo greco dice: «E dopo essere risorto venne verso suo padre» (v. 20).
Per l’abbandono basta solo il verbo «partire», che in greco (apedêmēsen) indica l’allontanamento dalla società, dal popolo: è l’auto-ostracismo dalla condizione umana. Per il ritorno invece è necessario una decisione, un colpo di reni, che bisogna attuare con un gesto concreto.
La Bibbia della Cei (ed. 1997) rende abbastanza bene: «Si mise in cammino e ritoò da suo padre». Due sono le idee sottostanti: quella di risurrezione e quella del ritorno attuato: per ritornare bisogna cominciare a risorgere, anche se ancora le ragioni non sono del tutto sufficienti. Il cammino di conversione serve proprio a questo: fare prendere coscienza dell’evoluzione e dello sviluppo che la Grazia compie in chi si mette in cammino.
Si parte all’inizio con un atteggiamento e si arriva alla mèta totalmente cambiati, perché il cammino si apre camminando e il bisogno di cambiamento aumenta mano a mano che si cambia. Convertirsi è veramente abituarsi a lasciarsi cambiare.           (continua – 14)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella

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