Da Trento a Hiroshima

Trentino – Giappone

Gli studenti di una scuola superiore di Cavalese, in provincia di Trento, hanno vissuto un’esperienza unica, viaggiando fino a Hiroshima, per antonomasia luogo simbolo della follia umana. Hanno visto i disastri dell’atomica e hanno discusso con i loro coetanei giapponesi sulla follia delle guerre. Una lezione di vita che rimarrà per sempre nella loro memoria e forse servirà per diffondere la consapevolezza di quell’impagabile bene che è la pace.

L’aggettivo «nucleare» suscita immediatamente in tutti noi qualche reazione, in generale di timore se non proprio paura. La nostra mente va infatti al disastro di Cheobyl o alla distruzione di Hiroshima. Una tale reazione di allarme è certo comprensibile, ma è anche vero che essa deriva da una diffusa ignoranza scientifica di tutto quello che ha a che fare con le radiazioni e la radioattività (1). Se sapessimo che ogni ora milioni di radiazioni ionizzanti di origine naturale attraversano il nostro corpo, forse il nostro atteggiamento sarebbe un po’ diverso.
La tematica nucleare è certo importante per capire la portata degli eventi catastrofici di cui l’energia atomica è stata protagonista, ma non solo. Il cittadino moderno ha bisogno di venir informato sui pro e i contro dell’atomo in quanto oggi si torna a riproporre l’energia nucleare per la produzione di elettricità. D’altra parte basta pensare all’enfasi data dai media ai casi Iran (vedi reportage in questo stesso numero di MC) e Corea del Nord per rendersi conto che esiste pure un grave pericolo di proliferazione mondiale delle bombe atomiche.

È in questo quadro che, all’inizio del passato anno scolastico, un gruppo di studenti del liceo statale «La Rosa Bianca» di Cavalese, in provincia di Trento, inizia un impegnativo percorso di studio ed approfondimento sul tema dell’energia nucleare, nelle sue applicazioni militari (bombe atomiche) e civili (centrali elettronucleari, medicina nucleare, ecc.). I giovani sono seguiti dal corpo insegnante, con la collaborazione dei docenti di matematica e fisica, storia e filosofia, letteratura, religione e lingua inglese, oltre che da esperti estei, in particolare da un fisico dell’Unione scienziati per il disarmo (Uspid). I giovani raccolgono, esaminano e discutono molto materiale, reperito su libri e riviste, oltre che su internet.
Nel corso del lavoro didattico nasce l’idea di effettuare una visita a Hiroshima, luogo simbolo della distruzione nucleare e sede di un museo e di un parco della pace. Queste strutture consentono al visitatore di farsi un quadro dettagliato dell’effetto immediato dell’esplosione atomica e delle conseguenze per i sopravvissuti, spesso protrattesi nel tempo o evidenziatesi anche a distanza di anni dall’evento.
Tra il dire e il fare ci sono però, come sempre, di mezzo i…  quattrini! L’energico dirigente dell’Istituto «La Rosa Bianca», prof. Fiorenzo Morandini, individua una possibilità di finanziamento in una nuova iniziativa dell’Assessorato all’Istruzione della Provincia autonoma di Trento, che per la prima volta prevede la possibilità di gemellaggi con scuole di paesi extraeuropei. Viene steso un programma di attività, lo si inoltra ai competenti uffici, si attendono i tempi necessari e…  la risposta è positiva! Viene messa a disposizione la bella cifra di 45.000 euro per sostenere il progetto. L’Istituto La Rosa Bianca fornisce una quota di autofinanziamento e gli studenti partecipanti contribuiscono con 450 euro ciascuno.
In tal modo, con il patrocinio del Forum trentino per la pace e della Fondazione Campana dei caduti di Rovereto, un gruppo di 19 studenti, 4 docenti e il dirigente scolastico, un foto cine operatore, più un fisico come esperto esterno (lo scrivente), a fine maggio 2007 partono per Tokyo. Lì passano due giorni cercando di smaltire le sette ore di differenza nel fuso orario, visitando la città, ma soprattutto visitando la scuola superiore Meiji Gakuin, partner del progetto, con la quale si è fatto del lavoro preparatorio comune. Tutti i partecipanti hanno anche l’occasione di conoscere di persona il bravissimo professor Takao Takahara, docente di studi sulla pace all’università di Yokohama (2).

Trasferitisi a Hiroshima con un volo durante il quale si può ammirare la più famosa, alta e bella montagna giapponese, il Fuji, gli studenti e i loro insegnanti vivono la tappa più densa di impegni di tutto il viaggio. Al loro arrivo sono accolti dal prof. Hitoshi Mukai e dall’hibakusha Hiromu Morishita (3). Egli rappresenta per alcuni una vecchia conoscenza, essendo stato invitato in Trentino nel 2005 dall’Uspid e dalla Fondazione Campana dei caduti, in occasione del sessantesimo anniversario della distruzione di Hiroshima. Morishita, settantasettenne, possiede un’energia e un dinamismo invidiabili, tanto da suscitare la domanda scherzosa dei ragazzi se, per arrivare in tarda età in condizioni tanto buone, bisognasse proprio subire l’esplosione atomica!
Il programma degli incontri, svoltisi prevalentemente alla scuola superiore femminile Jogakuin, prevede una serie di presentazioni da parte degli studenti locali e dei loro ospiti stranieri. Nel corso di queste relazioni, ciò che più colpisce gli italiani è scoprire il contenuto profondamente pacifista dell’attuale Costituzione giapponese e, nel contempo, apprendere come l’educazione alla pace, un tempo importante e diffusa, venga oggi man mano abbandonata dalle scuole nipponiche. Per i giapponesi, invece, è piuttosto sorprendente constatare come gli italiani siano fondamentalmente contrari al possesso di armi atomiche, sebbene ve ne siano nelle basi di Aviano e di Ghedi e nonostante che i nostri partner europei Francia e Gran Bretagna ne posseggano. Ulteriore motivo di riflessione è constatare come al tempo della discussione sulla bozza di Costituzione europea non vi è stato nessun dibattito sugli aspetti militari in essa contenuti.
Indimenticabile sono la visita al Museo atomico e al Parco della pace, nonché gli incontri con alcuni sopravvissuti alle esplosioni atomiche. Oltre a Morishita, i ragazzi conoscono la signora Fumiko Sora, che racconta la sua storia, e Miyoko Matsubara, la quale rievoca in modo commovente e drammatico i terribili eventi di cui fu involontaria protagonista il 6 agosto 1945.

Toati in patria il 2 giugno 2007, gli studenti presentano la loro esperienza alla cittadinanza, regalando anche al sindaco di Cavalese un alberello dono della città di Hiroshima, nato dai semi di una pianta sopravvissuta all’esplosione e ancora oggi visibile dietro il Museo atomico. Il primo cittadino prende l’impegno di curare la pianta che, una volta irrobustitasi, sarà collocata in un parco cittadino con una targa commemorativa. A giudizio unanime dei partecipanti (4), giovani ed adulti, un viaggio a Hiroshima rappresenta un’esperienza memorabile, capace di far capire il dramma della guerra atomica molto più di quanto si possa fare con i libri o i documentari. Essere circondati dalle mute e drammatiche testimonianze della storia colpisce profondamente la mente e il cuore. Sarebbe bello sognare che un pellegrinaggio ad Hiroshima fosse un compito obbligatorio per i neo capi di stato e di governo delle potenze nucleari militari, che hanno nelle loro mani i destini dell’umanità. Forse, vedendo il disastro che un loro comando avventato potrebbe provocare, agirebbero con maggiore prudenza e senso di responsabilità.

Mirco Elena

Note:
(1)  Siamo arrivati al punto che persino una tecnica d’indagine medica come la risonanza magnetica nucleare, che nulla ha a che fare con le radiazioni ionizzanti o con la radioattività, ha visto il suo nome abbreviato con l’eliminazione dell’aggettivo “nucleare”, per non causare allarme nei pazienti e nel personale medico!
 (2) Takahara è una persona attivissima ma dallo stile incredibilmente tranquillo; ormai cinquantenne ha mantenuto un’invidiabile, quasi utopica fiducia nella possibilità di risolvere pacificamente i conflitti di qualsiasi natura; nei consessi inteazionali la sua voce porta messaggi di ragionevolezza e rappresenta un pacifismo della volontà e della ragione, che contrasta fortemente con la disillusione e il realismo cinico di tanti altri esperti e studiosi.
(3)  Hibakusha: con questo termine si indicano i sopravvissuti alle esplosioni atomiche.
(4 ) Sul sito della scuola – www.scuolefiemme.tn.it – immagini e materiali relativi al viaggio in Giappone degli studenti trentini.

Mirco Elena




URANIO POVERO

Crisi politica e insicurezza alimentare, dove va il paese

Vastissimo, ma desertico. Indicato come il meno sviluppato del mondo, ma anche quello a tasso di crescita più elevato. L’accesso all’acqua per tutti è ancora un sogno. L’educazione è da inventare, mentre chi gestisce il potere si appropria dei fondi pubblici stanziati per migliorarla. Intanto nasce un nuovo movimento tuareg ribelle, che semina morte nel nord. Ritratto di un paese estremo.

L’aria è secca a Marmari, villaggio nel dipartimento di Tanout, nel centro del Niger. Un gruppo di case in mattoni di fango essiccati, buttate in mezzo alla sabbia. Il giallo ocra tinge e domina ogni cosa in questa terra. El Hadji Mamoudou è il capo villaggio, anziano e cortese. Ci porta a visitare il pozzo subito fuori dall’abitato: una grossa fortuna per la popolazione. Siamo a mille chilometri dalla capitale, Niamey, in una zona semiarida, che prepara al deserto, dove gli allevatori convivono con gli ultimi avamposti degli agricoltori stanziali. Peulh e tamashek (più comunemente tuareg) i primi, haousa e kanouri i secondi.
Il pozzo in cemento è profondo cento dieci metri. È stato realizzato dalla cooperazione internazionale ed è entrato in funzione nel 2004.
Gli uomini attingono l’acqua da questa voragine, di cui non si vede il fondo, utilizzando asini o buoi. Fanno tirare loro una lunga corda su rudimentali carrucole. Sotto il sole che, in questa stagione, rende il caldo infeale, raggiungendo i 45-50 gradi all’ombra. Quando il recipiente con un centinaio di litri arriva in superficie, due uomini lo versano negli abbeveratorni per gli animali. E qui, tra una vacca e un asino che cercano di placare la sete, una ragazza riempie alcuni bidoni di plastica. È il fabbisogno per una famiglia.
«In questa stagione il pozzo diventa secco più volte al giorno – racconta El Hadji Mamoudou – iniziamo ad attingere al mattino presto, ma dopo che un paio di famiglie hanno riempito i loro recipienti l’acqua si è ritirata». Siamo alla fine della stagione secca, che dura da settembre a maggio. È il periodo peggiore, perché i granai sono ormai vuoti. Ma proprio adesso agli uomini occorre tanta energia per lavorare i campi e preparare il nuovo raccolto, sperando che le piogge siano abbondanti e regolari. «Occorre aspettare una o due ore, ed ecco che la falda acquifera ricarica il pozzo e altre due famiglie si fanno avanti». Così per tutto il giorno, per 4 o 5 cicli. Ma questo punto d’acqua non è sufficiente per l’intera popolazione di Marmari, e molti si spostano a Chirwa, percorrendo quasi 4 km a piedi o con il carretto. In questo villaggio, più importante, una pompa a motore estrae acqua da 700 metri di profondità e la distribuisce a cinque fontane.
In Niger il problema dell’accesso all’acqua (non solo a quella potabile) rimane enorme.

Lo spettro della fame

Durante i mesi delle piogge si coltiva una varietà di miglio che si è adattata a questo suolo sabbioso. Il cereale, immagazzinato nei granai, sarà pestato dalle donne a forza di braccia nei mortai, e dovrà fornire la farina per il pasto quotidiano della famiglia per il resto dell’anno.
Finita la stagione delle piogge e ultimato il raccolto, si tenta di coltivare un po’ di ortaggi: «A 4 km da qui c’è un avvallamento che permette all’acqua di fermarsi per qualche mese in pozze naturali. Sono stati scavati anche dei pozzi poco profondi per l’irrigazione» continua El Hadji. «Intoo facciamo i nostri orti. Quest’anno però non c’era abbastanza acqua e non siamo riusciti a far crescere nulla».
Il Niger, dove l’alimentazione dell’80% degli abitanti dipende direttamente dall’agricoltura, occupò per qualche giorno le cronache dei giornali a causa della crisi alimentare del 2005. Una cattiva stagione piovosa nel 2004, l’invasione delle cavallette, congiunta alla precaria economia di sussistenza e ai non adeguati stock nazionali di sicurezza avevano fatto scattare l’emergenza in Niger, Mali e Burkina Faso. Ma fu il Niger il paese più colpito, dove si stima che 3,6 milioni di abitanti furono interessati dalla penuria di cibo. Oltre ai 150 mila bambini che soffrono di malnutrizione cronica, se ne aggiunsero altri 800 mila (sotto ai 5 anni). L’apparato internazionale degli aiuti umanitari di emergenza si era allora mosso con gran fragore. Ma la radice del problema non è stata eliminata e l’esposizione delle popolazioni ai capricci delle precipitazioni atmosferiche e alle migrazioni di insetti è sempre drammaticamente reale.

I due primati

Paese di un milione e duecentomila chilometri quadrati (quattro volte l’Italia), in gran parte desertico, il Niger è abitato da circa 13 milioni di persone.
Combinando la speranza di vita, che di poco supera i 44 anni, il tasso di scolarizzazione intorno al 21% e il reddito pro capite annuo di circa 220 dollari, il paese si guadagna da tempo l’ultimo posto (su 177 paesi recensiti) nella classifica dello sviluppo umano stilata ogni anno dalle Nazioni Unite.
Un altro primato è il tasso di crescita più elevato del mondo: 3,3%. Anche questo concorre alla malnutrizione e preoccupa il governo che vorrebbe ridurlo al 2,5% entro il 2015. La media di quasi otto figli per ogni donna (2,7 è la media a livello mondiale) e l’elevato numero di matrimoni precoci (la metà delle ragazze si sposa prima dei 15 anni, nei villaggi a 12 – 13 anni), spiegano la forte crescita. Questo nonostante i tassi di mortalità infantile restino molto elevati: oltre uno su quattro bambini non arriva all’età di 5 anni.  Valori questi che dimostrano le enormi difficoltà sul piano sanitario e nutrizionale.

uranio e ribelli

Il Niger è il terzo produttore d’uranio al mondo (dopo Canada e Australia) e i suoi giacimenti sono già sfruttati da decenni dai francesi. Il governo sta oggi vendendo concessioni per nuove prospezioni, spinte dal rialzo dei prezzi causato dal consumo cinese. Ma nel nord, nelle zone desertiche dell’Air, Azawak e Kawar la corsa è aperta anche alla ricerca del petrolio (già sfruttato nei vicini Ciad e Mauritania, e presto anche in Mali). Non è un caso quindi che tornino a far parlare di sé i gruppi di ribelli tuareg.
Nel febbraio di quest’anno il sedicente «Movimento dei nigerini per la giustizia» (Mnj) attacca una postazione militare a Iférouane, facendo tre morti e alcuni feriti. Toa così lo spettro della ribellione tuareg, degli anni ’90 conclusasi con la firma della pace di Ouagadougou, nell’aprile 1995. Le condizioni dell’accordo erano la reintegrazione dei ribelli nell’esercito (oltre 2.300 effettivi), il decentramento amministrativo e maggiori investimenti per sviluppare le terre del nord.  Tutte soddisfatte, secondo il governo. Il contrario per il neonato movimento. L’Mnj sostiene, in un memorandum, che la regione non beneficia di alcun investimento, «ha un sistema educativo in rovina, un livello degli allievi inquietante, un alto tasso di abbandono» e aggiunge «un sistema sanitario in decomposizione, che non tiene in conto della componente nomade e nessuna infrastruttura per un utilizzo duraturo delle zone minerarie».
Un movimento che vuole darsi connotati da «difensore degli oppressi» (forse a immagine dei più forti gruppi che controllano il delta del Niger in Nigeria), definendosi una «organizzazione che combatte l’ingiustizia» chiede un «forum di riflessione imparziale per una riforma globale della politica in Niger».
Si tratta di un gruppo di giovani tuareg, il cui capo Aghali ag Alambo non esita a rilasciare interviste, e che lanciano i loro comunicati sul proprio sito internet.

«Sono solo banditi»

Ma il governo giudica l’Mnj «una banda di banditi armati e trafficanti di droga» e rifiuta ogni forma di negoziato. Allora il movimento continua con attacchi. A uno sperduto sito di prospezione della potente impresa francese Areva, all’aeroporto di Agedez, per poi catturare il 22 giugno un’intera guaigione dell’esercito a Tezirzait, nelle montagne dell’Air, uccidendo 15 soldati e facendo una trentina di feriti. Consegnati questi ultimi alla Croce Rossa internazionale.  Toa anche l’insicurezza sull’asse stradale Tahoua – Agadez – Arlit.
Alcuni analisti sospettano legami tra questo movimento e il gruppo di tuareg che ha attaccato l’11 maggio una posizione militare a Tin Zawaten, nel nord – est del Mali. Gruppo che non ha rispettato agli accordi di pace del 4 luglio 2006 (vedi MC, settembre 2006). Parlano di un movimento transnazionale spinto anche dalle idee di un grande stato tuareg, predicate dal leader libico Mouammar Gheddafi.

problemi dell’educazione

Intanto il governo, e in particolare il potente primo ministro Hama Amadou (indicato anche come futuro presidente), è travolto dallo scandalo sull’educazione. Oltre 6,1 milioni di euro del «Programma decennale di sviluppo dell’educazione» si sono volatilizzati. Si tratta di un grosso finanziamento, in larga parte di governi europei, con l’obiettivo di migliorare il tasso di alfabetizzazione e di scolarizzazione del paese. Un’audit voluta dai partner nel 2006 ha rivelato «gravi problemi nella gestione dei fondi destinati all’educazione». Due ministri dell’educazione (Hamani Harouna e Ary Ibrahim) e altri dirigenti del ministero sono stati arrestati nell’ottobre scorso. I due dichiarano di aver ricevuto «ordini dalla gerarchia», ma Hama Amadou ha rifiutato di comparire davanti all’Alta corte di giustizia che conduce l’inchiesta, dichiarando di voler rispondere a domande scritte per scritto.
Da qui la mozione di sfiducia che l’opposizione ha presentato all’Assemblea nazionale. Ma ecco il colpo di scena. Nonostante il partito del primo ministro e i suoi alleati possano contare su una netta maggioranza parlamentare (88 dei 113 seggi), 62 deputati votano la sfiducia. Hama Amadou, dopo sette anni di regno è costretto a dimettersi. Il presidente della repubblica Mamadou Tanja (che finirà il secondo mandato nel 2009) nomina il 6 giugno scorso Seyni Oumarou (un fedelissimo di Hama) nuovo primo ministro. Ma l’équipe governativa cambia poco.
Questioni molto lontane queste da El Hadji Mamoudou e gli abitanti di Marmari. L’acqua quotidiana e il prossimo raccolto tra piogge e invasioni di cavallette li preoccupano di più. Resta vero che la maggior parte dei loro bambini non vanno a scuola e hanno a disposizione solo qualche sgangherata tettornia di paglia come aula. Ma lo sviluppo di un paese deve necessariamente passare dall’educazione.

di Marco Bello

Intervista al vescovo di Maradi

Il monsignore dei grandi spazi

Monsignor Ambroise Ouedraogo è il vescovo di Maradi. La sua diocesi ha una superficie di un milione di chilometri quadrati (oltre tre volte l’Italia), ma conta appena 3.000 cristiani. Sono perlopiù immigrati dagli stati vicini (Benin, Burkina Faso, Togo, Nigeria, ecc.) arrivati qui in cerca di lavoro.
Lui stesso è burkinabè. Giunge in Niger come missionario fidei donum nel 1985, mandato dal cardinale Paul Zungrana di Ouagadougou. Nel 1999 mons. Catatregué, allora vescovo di Niamey lo consacra vescovo ausiliare. Due anni più tardi l’unica enorme diocesi del Niger viene divisa in due: nasce la diocesi di Maradi e mons. Ambroise ne diventa il primo pastore. Lavorano con lui altri 16 preti, di cui 2 diocesani e 14 redentoristi e padri bianchi. Le religiose sono una trentina, nelle diverse congregazioni dell’Assunzione, di Cluny, le figlie del Sacro Cuore di Maria (diocesane senegalesi) e le piccole sorelle di Gesù (tra cui alcune italiane). Queste ultime operano alla frontiera della diocesi, dove non ci sono preti.
Il vescovo, nella sua semplice abitazione (e ufficio) di Maradi, ci racconta il loro lavoro e la particolare evangelizzazione di pochi cristiani in una marea musulmana.

Quale pastorale portate avanti in queste condizioni così particolari?
Con mons. Berlier, c’era quello che chiamiamo «la pastorale sul tappeto»: ovvero una presenza cristiana, della chiesa cattolica con i musulmani, per vivere nel quotidiano il vangelo. Incontrare la gente, visitare, partecipare alle feste di famiglia, «stare con». Questo ha permesso che la chiesa sia riconosciuta e accettata dalla popolazione a maggioranza musulmana.
Nel 1985 ci siamo chiesti: dobbiamo continuare con questo tipo di pastorale di presenza o passare a una di evangelizzazione? Abbiamo fatto questo salto. Ma allora come evangelizzare questo popolo che è credente e musulmano? Se la nostra pastorale di evangelizzazione è di fare dei cristiani battezzati, cresimati, con i sacramenti, diventa molto difficile. Ma l’evangelizzazione è osare testimoniare il vangelo, annunciare il Cristo, essere testimoni del resuscitato. Andare verso i nostri fratelli e sorelle.
Penso che sia questo, che cerchiamo di portare avanti nelle due diocesi del Niger.
La maggioranza dei nostri cristiani vengono dall’estero, pochissimi sono nigerini. Nonostante questo cerchiamo di formarli, e coscientizzarli, perché non si isolino, ma possano essere in mezzo ai loro fratelli musulmani come «sale e luce».
Questa pastorale la facciamo attraverso le nostre strutture di educazione, come le scuole, le strutture sanitarie, i progetti di sviluppo. Cerchiamo di portare lo spirito del vangelo nel cuore delle azioni di pastorale sociale. Da due anni abbiamo la Cadev (Caritas e sviluppo), nella quale cristiani e musulmani sono impegnati per la lotta contro la povertà e nella promozione umana.
Se togliessimo i musulmani dalla Cadev resterebbero in pochissimi! È proprio un luogo di concertazione, di relazione cristiano-islamica. Si cerca insieme di mettere in piedi una politica di sviluppo che possa raggiungere le popolazioni.

Con questo obiettivo, arrivate a far lavorare bene insieme le persone?
Si, anche a livello delle nostre scuole. La maggioranza dei nostri insegnanti è musulmana. Lo è anche il responsabile dell’insegnamento cattolico. È una persona molto aperta, fa bene il suo lavoro e sposa la filosofia cristiana dell’educazione. È un’apertura nella relazione tra le religioni e facciamo continuamente questo sforzo, perché il rischio è che ognuno faccia le sue cose, che i cristiani si chiudano. Questo porterebbe a un suicidio della chiesa in Niger.
Oggi i cristiani hanno più coscienza, sanno di esserlo e devono manifestarsi come tali. C’era questa frase «la pastorale offensiva», per dire «siamo cristiani e vogliamo testimoniare la nostra fede con i fratelli musulmani». Non nascondersi, restare in disparte. Direi che abbiamo superato questa paura.

Non ci sono reazioni dell’integralismo musulmano?
In Niger c’è un certo integralismo, che aspetta per svegliarsi. È forte in ambienti periferici, più poveri. È li che agisce. Quando c’è stata la conferenza nazionale, tra il 1990 e il ‘91, c’era anche una tendenza che voleva fare del Niger un paese islamico. Fortunatamente, c’erano dei politici che hanno visto il pericolo e hanno optato per uno stato laico, dove ogni fede si possa esprimere liberamente.

Quali sono i problemi principali che avete per integrare la piccola comunità cristiana in quella musulmana?
Il primo problema che viviamo come cristiani è questa difficoltà di dire la propria fede. Già solo portare una croce ti mette in una condizione di straniero, perché per la maggioranza della gente, un nigerino non può essere che musulmano. Nella vita dei sacramenti ci sono le problematiche delle coppie miste cristiano-musulmane. Se è la donna a essere cristiana, il rischio è che per la pressione famigliare, debba rinunciare alla propria fede. È una constatazione. La sfida è formare le giovani affinché possano essere solide nella loro fede e non perderla alla prima occasione.
I cristiani sono stranieri e le questione più urgenti sono economiche: la ricerca del lavoro, sbarcare il lunario. Come legare questo con la fede e i tempi per la formazione? Non è sempre facile. Nei quartieri in cui vivono testimoniano la loro fede, anche se ci sono difficoltà. Fortunatamente non ci sono quartieri separati. Nella parrocchia di Maradi facciamo degli incontri di «Comitati cristiani di base», che si ritrovano una volta alla settimana. Pregano, leggono il vangelo, discutono su quale chiamata porta «la parola» nella loro vita. Penso che anche questo faccia in modo che i vicini li vedano e li riconoscano come cristiani.

Lo scopo di questa evangelizzazione qual è esattamente?
Siamo due religioni missionarie e ciascuno vuole avere il più gran numero di fedeli possibile. Ma nella nostra situazione, penso che sia difficile. È un sogno, ma dico che non dobbiamo mettere tra parentesi il comandamento di Cristo che ci invita ad andare in missione, fare dei discepoli, battezzare. L’evangelizzazione, fa anche vivere seriamente la mia fede, testimoniarla, rispettare la fede dell’altro e vedere insieme che cammino possiamo prendere per creare un mondo più fraterno, di giustizia, pace, solidarietà. Penso che cristiani e musulmani possono impegnarsi in questo senso e fare delle cose meravigliose.

I vescovi e i preti hanno contatti con i responsabili musulmani?
Esiste una commissione per le relazioni cristiano-musulmane. All’inizio si facevano le riunioni tra di noi, ma da circa tre anni invitiamo gli imam, con i quali cerchiamo di preparare dei moduli di formazione tra cristiani e musulmani per conoscerci reciprocamente. Il cristiano impara a conoscere il fratello musulmano e viceversa e questo ci permette di evitare conflitti inutili. Dal lato islamico la difficoltà per noi è che non sempre sappiamo verso chi andare, non essendoci una struttura ben precisa, un responsabile. Esiste l’associazione islamica. Ogni anno alle feste principali, ramadam, tabaski, mandiamo loro un messaggio di pace, solidarietà, auguri. Questo è cominciato con mons. Berlier, e porta dei frutti. A Natale i musulmani inviano una delegazione in cattedrale a Niamey, per fare gli auguri ai cristiani. Lo scorso Natale sono venuti anche ad Agadez (città del nord con scarsissima presenza di cristiani, ndr).

Lei si considera un missionario e in una situazione particolare?
È vero che essere missionario in Niger non è facile. Capisco i primi missionari che sono venuti dall’Europa per annunciare il vangelo in Africa. Oggi abbiamo condizioni di trasporto più facili, ma ci aspettiamo sempre che avendo una famiglia, questa diventi più grande. Qui in Niger non è così scontato. Io dico che bisogna vivere nella pazienza e nella speranza. Noi seminiamo, alcune piante cresceranno e dei frutti dell’albero qualcuno beneficerà. Lavoriamo e viviamo con la fede di portare il vangelo senza aver paura di annunciarlo e di dirsi cristiani. Di più: grazie al vangelo vogliamo essere al servizio dei fratelli e sorelle musulmani, dei più poveri. Questo fa parte dell’annuncio della buona novella. Quando la folla che seguiva Gesù aveva fame, lui ha fatto la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Noi siamo attenti ai bisogni della popolazione musulmana e vediamo in che misura possiamo rispondere. Senza «fare al loro posto», ma insieme. La nostra missione non è fare dell’assistenza, ma in partenariato con i musulmani lavorare per il benessere di uomini e donne, nella ricerca della pace e frateità.

Quali sono le sfide per domani?
Da due anni abbiamo elaborato una visione pastorale con tema: «Insieme con il Cristo, cammino verità e vita, costruiamo una chiesa famiglia che vive, testimonia e annuncia il vangelo in Niger».
Questo percorso dura fino al 2010 e vedremo se saremo riusciti a realizzarlo.
Le sfide per la chiesa in Niger è vivere il vangelo e attraverso a questo trovare il cammino per dare una risposta alla povertà e all’ingiustizia nel paese.

a cura di Marco Bello


Marco Bello




Tutta un’altra storia

Preti d’America, alla scoperta di esistenze ed idee

L’Argentina non è soltanto terra d’immigrazione. Come negli altri paesi delle Americhe, anche qui ci sono popoli autoctoni, antecedenti la conquista bianca. I più noti sono i Mapuche (anche per la lunga disputa con Benetton), ma le popolazioni indigene sono una ventina. Ne abbiamo parlato con padre José Auletta, missionario italiano, che da 30 anni lotta al loro fianco.

Buenos Aires. Piccolo ed occhialuto, di prim’acchito sembra più un professore di liceo che un difensore dei diritti civili. Invece, ancora una volta, l’apparenza inganna. Lui è padre Auletta, missionario della Consolata, in Argentina dal 1976. Di nome farebbe Giuseppe, ma per tutti ormai è José. Lo incontriamo a Buenos Aires, dove si trova di passaggio. Il suo lavoro è infatti nelle lontane province del Nord, dove la vita è molto diversa da quella della capitale, metropoli in cui il fascino della città si scontra con il degrado delle immense periferie (villas miserias).

In questa sua lunghissima permanenza in Argentina (30 anni sono molti), lei ha sempre preferito lavorare con le popolazioni indigene di questo paese. Una prima domanda potrebbe allora essere la seguente. Rispetto ad altri paesi dell’America Latina, per esempio la confinante Bolivia o lo stesso Perù, le popolazioni indigene dell’Argentina sono decisamente minoritarie. Non soltanto come numero, ma anche come visibilità. È così?

«Sopravvive l’idea che l’Argentina abbia pochi popoli indigeni. In realtà, in questo momento si ritiene che siano presenti da 500 mila ad 1 milione di indigeni di diversi gruppi etnici, dal nord al sud dell’Argentina».

Che non sono pochi rispetto alla popolazione dell’Argentina, che non arriva a 37 milioni di abitanti…

«Non sono pochi, soprattutto se si tiene conto che, fino a non molto tempo fa, si credeva che in Argentina non ci fossero indigeni…».

Addirittura…

«Sì, e non solo tra la gente comune ma anche nell’ ambito della chiesa. Non sono pochi i vescovi che hanno scoperto solo ultimamente gli indigeni dell’Argentina».

Ho visto un bel manifesto di Endepa. Ci può parlare di questa organizzazione?

«L’Équipe nazionale di pastorale aborigena (Endepa) è nata più 20 anni fa come un organismo dipendente dalla Commissione episcopale di pastorale aborigena (Cepa). Il momento forse più importante si è avuto nell’anno 1994, in occasione della riforma della costituzione nazionale che risaliva al 1853. In quell’occasione, la presenza nella costituente di rappresentanti dei popoli indigeni fu elemento decisivo affinché venissero riconosciuti i loro diritti, soprattutto quando nessuno se lo aspettava. Dopo quel riconoscimento oggi si può parlare dell’esistenza di 20 gruppi etnici in Argentina».

Questi gruppi etnici dove sono dislocati principalmente?

«In buona parte delle province, da Nord a Sud, dalla Patagonia a Salta. Cominciando dal Sud, incontriamo i Mapuches (Neuquen, Rio Negro, Santa Cruz); i Wichis a Formosa; i Guaranies a Misiones; i Tobas nel Chaco; gli Ona, i Kolla, i Tehuelche, i Quilmes…».

Quilmes è una famosa marca di birra, è una città della Gran Buenos Aires…

«Ma è soprattutto il nome di un popolo indigeno. Anzi, è il nome del popolo indigeno che più ha sofferto nella storia dell’Argentina… Dopo essere stati sconfitti dai conquistatori spagnoli (1666), tutta la comunità fu deportata nella provincia di Buenos Aires, a 1.500 chilometri da Tucumán, suo luogo natale».

Dallo sterminio al riconoscimento del 1994

In generale, c’è una condizione particolare che caratterizza tutte queste popolazioni indigene dell’Argentina? Voglio dire: sono sempre state, come sembra dalle sue parole, popolazioni umiliate oppure questo, qui in Argentina, non è accaduto?

«Basta un esempio: la famosa “conquista del deserto” (1875-1884), portata avanti con piena coscienza dallo stato attraverso il generale Julio A. Roca, che tendeva semplicemente a sterminare gli indigeni per fare posto agli emigranti che arrivavano da altri paesi, dall’Europa in particolare. Quindi, c’è stata una lunga storia di ingiustizia verso questi popoli indigeni. Addirittura, se analizziamo l’articolo dove si parlava di indigeni, non c’è niente di lusinghiero. La costituzione affermava infatti che bisognava…».

Mi scusi, padre, stiamo parlando della costituzione del 1853?

«Sì, quella prima della riforma. Essa diceva che bisognava difendersi dagli indigeni, quasi fossero il nemico numero uno dello stato. E, per coronare il tutto, convertirli al cattolicesimo. Una contraddizione tremenda».

«Convertirli al cattolicesimo…» Posso scrivere proprio così?

«Lo può scrivere, perché proprio questo diceva quella Costituzione…».

Per fortuna, la revisione costituzionale del 1994 ha introdotto l’articolo 75…

«Sì. È un articolo veramente completo: riconosce la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni argentini, rispetto alla stessa formazione dello stato nazionale; riconosce i diritti alla proprietà comunitaria delle terre che storicamente occupano; riconosce il diritto alla propria organizzazione e all’insegnamento delle proprie lingue, il diritto ad essere informati su questioni che li interessano direttamente. Questo è l’articolo n. 75 comma 17 della Costituzione del 1994».

La terra: un diritto per pochi?

Torniamo alle sue esperienze. In precedenza, ha detto di aver lavorato molti anni con gli indigeni tobas. Che tipo di esperienza fu?

«Arrivai a Machagai, nel Chaco, alla fine dell’anno 1983, quando ricominciava la democrazia in Argentina. Il territorio della mia parrocchia aveva una configurazione molto ricca, nella quale appariva evidente la realtà indigena, come nella vicina Colonia Aborigen Chaco. Terminato il mio servizio di parroco, chiesi all’istituto di vivere direttamente nella stessa comunità. Non fu facile, ma, mi fu concesso. Nel maggio 1991 cominciai la nuova esperienza fino all’ottobre del 2000, vivendo lì prima da solo, poi con l’aiuto di un confratello e alla fine con le suore della Consolata. Si costituì una piccola équipe e riuscimmo a portare avanti un lavoro organizzato. A livello di promozione umana cercammo di impostare lavori comunitari centrati su tre aspetti: la comunicazione, ovvero strade interne perché la gente potesse muoversi con più agilità verso scuole, ospedali o la città di Machagai; la formazione di centri comunitari; terzo, un progetto abitativo, però con aiuto, lavoro e costruzione comunitari».

Tuttavia, la battaglia più importante e difficile era un’altra, vero?

«Il reclamo fondamentale era quello per la terra. Si riuscì ad avere il titolo comunitario di proprietà nell’anno 1996 con molte difficoltà».

Quanti sono i Tobas?

«Lì, nella colonia sono circa 4 mila persone».

Parlano ovviamente una loro lingua?

«Sì, c’è un processo di recupero della lingua. Sono stato responsabile di un’équipe diocesana di pastorale indigena, che si occupava proprio della preparazione di docenti aborigeni, che potessero insegnare nella loro lingua».

La regione del Chaco che tipo di caratteristiche fisiche e soprattutto sociali presenta rispetto ad altre province argentine?

«Più o meno ha le caratteristiche di tutto il Nord: fondamentalmente povero, ma con risorse forestali immense, in questi anni saccheggiate da imprese multinazionali con la connivenza del governo che lascia fare. Personalmente, ho assistito a momenti di grande siccità e a grandi inondazioni provocate proprio dall’uso indiscriminato delle risorse naturali».

Chi è il colpevole di aver venduto tutta la terra alle multinazionali straniere?

«Senz’altro l’indiziato primo è lo stato stesso. Nel Chaco, la prima tappa si ebbe all’inizio del secolo con le piantagioni di cotone, per far posto alle quali si disboscò una grande quantità di terreno usando manodopera indigena schiava, come d’altra parte nelle vicine miniere. Nell’anno 1924 ci fu un eccidio, uno sterminio di circa 500 indigeni tobas nella zona Aborigen Chaco, che è ricordato come la “matanza di Napalpí”. Un migliaio di indigeni tobas iniziò uno sciopero della raccolta del cotone. La repressione fu feroce: il 19 luglio un centinaio di poliziotti armati di fucili Mauser e Winchester uccise senza pietà circa 500 Tobas indifesi.

E dopo il cotone, arrivò l’allevamento del bestiame. Insomma, ogni progetto era buono per ampliare l’area coltivabile a danno dell’area boscosa. L’equilibrio naturale si ruppe, come dimostravano l’alternanza di inondazioni e siccità».

Morire per fame (nel granaio del mondo)

Dopo i 10 anni di Carlos Menem, l’Argentina sprofondò in una paurosa crisi economica, che culminò con la rivolta del dicembre 2001. Come si manifestò quella crisi nelle regioni del Nord?

«Dalla povertà si passò alla miseria, per dirlo in forma molto sintetica. Si vissero 10 anni di illusione e di inganno. Si parlava di un’Argentina da primo mondo, però solo in alcuni ambienti. A Buenos Aires si perse la cultura del lavoro e della solidarietà e venne imposta la cultura del “si salvi chi può in qualsiasi modo”».

Nel 2002, nelle province di Tucuman e Misiones ci furono decine di bambini morti per fame. Una cosa che ha dell’incredibile per un paese come l’Argentina, no?

«Certamente, soprattutto se si considera che quelle province avevano ed hanno risorse sufficienti per tutti purché equamente distribuite. Tra l’altro, la denutrizione è un problema ancora attuale, che sarà difficile sradicare in poco tempo».

A proposito di alimenti, anche nel Nord dell’Argentina si è avuta la diffusione delle coltivazioni di soia?

«Nella provincia di Salta, dove io lavoro, la tendenza è quella di ampliare sempre di più le aree coltivate a soia».

Perché la soia? Dicono, si dice, che abbia portato molta ricchezza al paese, ma anche molti svantaggi, legati al fatto di essere soia transgenica.

«Oggi la soia è un prodotto per l’arricchimento facile e immediato di molte imprese. Ma è soprattutto un prodotto che impoverisce la terra. Anzi, secondo alcuni è una causa scatenante dei problemi alimentari del paese».

Percorrendo le terre attorno alla grande Buenos Aires, ho visto molti campi racchiusi dietro barriere di filo spinato ed ognuno aveva la sua marca: Cargill, Monsanto, eccetera. Cosa significa questo esattamente?

«Significa che in quei terreni sono stati utilizzati prodotti agro-chimici per “migliorare” (tra virgolette) le coltivazioni stesse. I nomi sono quelli dei gruppi industriali internazionali che sfruttano queste terre per lasciarle, un domani non molto lontano, senza sostanze. Un deserto».

Guaraní contro Seaboard Corporation

Dal Chaco lei è passato ad Oran, nella provincia di Salta. Con chi sta lavorando?

«La parrocchia di San José si trova in una zona urbano-periferica di Oran. Comprende quartieri degradati in una città che di per sé è povera, anche se ricca di risorse. Oltre alla popolazione urbana, ci occupiamo di 4 comunità di indigeni kollas che vivono sulle montagne. Vivono lontani dalla città, per cui li raggiungiamo ogni fine mese per una settimana e soltanto da maggio ad ottobre quando non piove. Da qualche anno lavoro inoltre nella commissione diocesana di pastorale sociale, che si occupa soprattutto di “terra”, l’asse attorno a cui girano tutti i problemi di Oran. Con diverse pastorali – aborigena, della carità, della sociale, della salute – si è formata una commissione interpastorale con un’équipe giuridico, un gruppo di avvocati volontari che si sono presi a cuore i problemi della terra».

Ancora una volta conflitti per la terra. Sembra un problema infinito…

«In questo momento ci sono 6-7 casi di cui uno di non indigeni, di criolos. Il caso più conosciuto è quello della comunità di Iguopeigenda (in lingua spagnola, Rio Blanco Banda Sur), composta da indios tupí-guaraní. La comunità si sta confrontando con un “mostro”, l’industria zuccheriera Tabacal, che dal 1996 è proprietà della multinazionale statunitense Seaboard Corporation.

Questa ha comprato dai Costas, la famiglia di latifondisti già proprietaria di Tabacal, una grande quantità di terreno, circa 1 milione di ettari».

Dunque, siete in lotta addirittura con una multinazionale. Un confronto impari…

«Sono già 3 anni che ci troviamo a lottare con la multinazionale statunitense. Gli indios di Iguopigenda erano sotto minaccia di sfratto dalla terra che occupavano da tempo. Intervennero i nostri avvocati che presentarono istanza alla giustizia per reclamare il diritto al possesso di quella terra. Nel frattempo, ci furono minacce alla comunità e a noi. Dopo 2 anni, il giudice, una donna, ha deciso di accogliere la richiesta degli indigeni, riconoscendo alla comunità il diritto di poter recuperare 224 ettari».

Parliamo di 224 ettari su un’estensione di 1 milione…

Una comunità composta di 60 famiglie (una media per ogni famiglia di 5-6 persone), che vogliono vivere del lavoro della terra. Un lavoro peraltro rispettoso, nel senso che non distrugge, ma produce lo stretto necessario per poter vivere e vendere i frutti della terra. Favorendo anche la società, riuscendo cioè a vendere ad un prezzo non esagerato. In questo momento siamo in attesa che i nostri avvocati richiedano l’esecuzione della sentenza».

Perché una compagnia con tanto terreno nelle proprie mani non capisce quanto irrilevante sia, rispetto alla sua attività economica, un pezzettino di terra di pochi ettari? Come mai accanirsi contro 60 famiglie, che con quella terra sopravvivono?

«Da una parte, la compagnia statunitense si fa forza di un pezzo di carta che le accredita la proprietà della terra, approfittando del fatto che i popoli indigeni non si sono mai preoccupati delle cose formali. Abitano le terre senza definire i confini del territorio che occupavano o che occupano. Dall’altra parte, alla Seaboard Corporation, come a tutte le multinazionali, interessa soltanto il profitto, da perseguire ad ogni costo. Salvo poi presentarsi ai cittadini con il suo lato positivo-umanitario con donazioni a istituzioni pubbliche che le consentono di apparire sui media come un’associazione benefica. Una vergogna in tutti i sensi».

L’Argentina di Kirchner e la sete di potere

Lasciamo un attimo gli indigeni, per parlare dell’Argentina di Nestor Kirchner. Il suo parere su questa presidenza.

«Si è cercato di riordinare la cosa pubblica in diversi aspetti, ma non si può nascondere la sete di potere che sta invadendo un po’ tutti i politici, a cominciare dall’attuale governo che pretende di continuare al potere».

La sete di potere è una caratteristica del peronismo…

«E non solo, perché anche partiti diversi, che governano in altre province, hanno la stessa tendenza. Abbiamo avuto un caso significativo nella provincia di Misiones dove il governatore Carlos Rovira pretendeva di cambiare la costituzione solo per essere rieletto in forma indefinita. La stessa popolazione ha chiesto a mons. Piña, vescovo in pensione, di mettersi alla testa del reclamo popolare. Così è entrato nella costituente, per evitare che si riformasse l’articolo che avrebbe permesso al governatore di essere rieletto indefinitamente. La risposta è stata tale che, per una volta, la gente ha sconfitto la mania dei politici di sentirsi padroni del potere».

Mi sembra di capire che la sua fiducia del cambiamento è una fiducia condizionata.

«Sì, anche perché uno continua a sentire discorsi ambigui, che possono facilmente trasformarsi in un nuovo inganno per la gente, troppo spesso utilizzata per i fini del governante di tuo».

Per lei che ha lavorato con popolazioni indigene per molti anni, cosa significa l’esperienza della Bolivia, dove c’è da poco un presidente aymara? Mi riferisco ovviamente a Evo Morales.

«È stato un passo importante, ma anche qui bisogna stare attenti. Far sì che ci sia una vera partecipazione popolare e che non si cada in eccessi demagogici, che possono essere pericolosi. Certamente è fondamentale che sia stato eletto un presidente indigeno, con la forza dei popoli indigeni, che sono la gran maggioranza della popolazione».

Dopo 30 anni in Argentina, che sensazione personale si porta dentro?

«Senz’altro di arricchimento umano, culturale, un grande insegnamento che ho ricevuto nei diversi posti, in particolare nel Chaco. Anche le altre tappe sono state importanti, di preparazione per vivere il grande amore che è stato l’incontrare la realtà indigena che peraltro io non ho mai idealizzato. Come tutti gli esseri umani, anche gli indigeni hanno pregi e difetti».

(fine 6.a puntata – continua)

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Missione compiuta

Un «necrologio» appassionato

Il 29 giugno scorso, con la benedizione del vescovo ausiliare di Westminster e vari discorsi di circostanza ha chiuso i battenti il Missionary Institute di Londra. Iniziativa unica nel suo genere, per quasi quarant’anni il MIL ha continuato a ripetere profeticamente ciò che oggi appare sempre più evidente e necessario: la missione bisogna imparare a farla e a viverla insieme.

Scrivendo queste poche righe di «commemorazione» per il Missionary Institute London (MIL), mi rendo conto di ubbidire essenzialmente a un’esigenza personale: considerare ancora viva e importante un’esperienza di formazione che ha occupato quattro irripetibili anni della mia vita come missionario della Consolata. Penso anche – anzi, ne sono quasi sicuro – di interpretare il sentimento dei tanti confratelli, ora sparsi a servire il Regno di Dio nei quattro angoli della terra, che al MIL hanno studiato o insegnato, alimentando uno scambio di sapere che per 40 anni ha contribuito a tenere in piedi un’istituzione unica nel suo genere, esempio di collaborazione e condivisione fra forze missionarie e laboratorio di evangelizzazione per futuri agenti della missione. Un tempo breve e intenso, giunto al suo termine il 29 giugno scorso quando una toccante cerimonia di commiato ne ha decretato il precoce pensionamento.
Oggi il MIL non c’è più. I suoi locali hanno chiuso e saranno presto riconvertiti in qualcosa di differente. «Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo», scriveva l’autore del libro dell’Ecclesiaste, frase che ben si adatta allo spirito missionario, fatto di dinamismo e continue ripartenze. Sono spariti i contorni della campagna inglese che ne facevano da coice,  ma resta attuale l’ideale che aveva portato alla fondazione di questa «università della missione», un ideale che continua a vivere in altre istituzioni che da questa esperienza hanno tratto ispirazione e che in altre parti del mondo ne continuano a trasmettere il messaggio.
Ci si conosceva tutti al MIL;  innanzi tutto perché si era in pochi: circa 150 studenti provenienti di volta in volta da una trentina di paesi diversi. Ma anche perché, al di là dell’impegno accademico, molte erano le occasioni di aggregazione fra studenti, insegnanti e staff. Fra queste ultime spiccavano i 30 minuti di intervallo, curiosamente previsti dopo la prima ora di lezione, in cui si aveva modo di socializzare, parlare del più e del meno o terminare, allargando la platea dei partecipanti, la discussione di classe che la fine dell’ora aveva lasciato in sospeso. Mezzora in cui si creava un ambiente propizio allo scambio, all’integrazione e al dialogo. L’atmosfera del MIL, che tutti ricordano e apprezzarono, era il frutto di una scelta ben precisa: dar vita a un esperimento di collaborazione e comunione fra forze missionarie come strumento imprescindibile della missione evangelizzatrice della chiesa. Il MIL, infatti, è stato frutto dello sforzo congiunto di sette istituti missionari (Missionari d’Africa, di Mill Hill, della Consolata, Comboniani, dello Spirito Santo, della Società per le Missioni Africane e del Verbo Divino) che, per rispondere all’esigenza di offrire ai propri studenti una formazione in linea con il loro carisma, si sono riuniti in consorzio dando vita a un ateneo orientato interamente alla missione.

LE RADICI

Vari motivi di differente natura hanno concorso, verso la metà degli anni ’60, alla fondazione della nuova istituzione accademica. La prima ragione era di ordine essenzialmente pratico. In quel periodo, infatti, esistevano a poca distanza l’uno dall’altro due grossi seminari appartenenti ad altrettante congregazioni missionarie: la Società di San Giuseppe per le missioni estere (Mill Hill Missionaries) e i Missionari d’Africa, altrimenti conosciuti come Padri Bianchi. I primi, di fondazione locale, avevano la loro Casa madre e seminario nell’imponente struttura del St. Joseph College, dominante la zona di Mill Hill, nella parte settentrionale di Londra. I secondi, avevano invece acquistato, nel 1958, i locali e il terreno dell’ ex-orfanotrofio di St. Edwards, nella confinante area di Totteridge, con l’intenzione di trasformarlo in un seminario e centro di studi per i loro studenti.
È stata la collaborazione iniziale di queste due istituzioni, fatta di scambi di locali e di personale docente, che ha fatto scaturire l’idea di fondare una scuola di teologia dove la missione potesse permeare tutte le aree della formazione accademica.  Un’esigenza, questa, avvertita anche da altri istituti missionari che, poco alla volta, si unirono con entusiasmo all’iniziativa.
C’è, però, una seconda ragione più profonda e più prettamente teologica che portò all’inizio di questa nuova apertura accademica che si concretizzò, finalmente, nella fondazione del Missionary Institute. Nel 1965, a conclusione del Concilio Vaticano II venne pubblicato il decreto Ad Gentes, sull’attività missionaria della chiesa. Il documento, guardando alla vastità dell’opera missionaria da compiere, mise l’accento sulle nuove sfide della missione e, in modo speciale, sulla responsabilità della chiesa locale nel lavoro di evangelizzazione. Il documento auspicava che detto lavoro venisse portato avanti da persone adeguatamente formate e capaci di investire risorse nello studio teologico, filosofico e culturale delle chiese da evangelizzare. Il documento, inoltre, invitava tutti gli agenti della missione ad utilizzare al meglio le risorse umane e materiali disponibili, promuovendo  sforzi congiunti che dovevano portare alla costituzione di opere e strumenti comuni al servizio dell’evangelizzazione. In modo particolare, si evidenziavano alcuni ambiti di azione, quali quello accademico, pastorale-catechetico e di comunicazione sociale.
Ai primi tentativi avviati dalle due sopraccitate congregazioni, che porterà nel settembre del 1967 a dar vita a un unico programma accademico, seguirà la partecipazione degli altri istituti che progressivamente si insedieranno nella zona e offriranno studenti e personale docente alla nuova iniziativa. Nel 1968, con l’approvazione ufficiale della «Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles» e della «Sacra congregazione per l’evangelizzazione dei popoli» nasce ufficialmente il Missionary Institute of London a cui, attraverso la «Sacra congregazione per l’educazione cattolica» verrà dato il potere di conferire diplomi e certificati accademici.
A partire dall’anno accademico 1972-1973, il MIL si affilia e inizia un lungo rapporto di collaborazione con l’Università di Lovanio, in Belgio, una delle più antiche e prestigiose università cattoliche del mondo. È grazie a questo accordo che gli studenti del Missionary Institute possono accedere al programma di «Baccalaureato in Sacra Teologia» e, in seguito, al titolo di «Master in Scienze Religiose».
Nel 1994, infine, il MIL ottiene l’affiliazione alla Middlesex University di Londra, un ateneo di recente costituzione che aveva avuto uno sviluppo rapido e costante nel mondo accademico britannico. Tra le sue iniziative più interessanti poteva vantare un prestigioso istituto di filosofia e di studi religiosi. L’impegno con la Middlesex permise al MIL quel collegamento con il mondo universitario inglese che ancora gli mancava per poter attirare fra le sue fila un numero maggiore di studenti laici. Frutto di quell’accordo fu l’istituzione di corsi triennali per il conseguimento di una laurea breve in missiologia e, soprattutto, un programma di studi superiori (master) in varie aree della missione quali giustizia e pace, etica e società, evangelizzazione e spiritualità missionaria. La partecipazione a questi programmi di specializzazione di studenti con una significativa esperienza missionaria alle spalle ha garantito al MIL un apprezzamento incondizionato del mondo accademico ed ecclesiastico inglese.

UNO STILE DIFFERENTE

Uno dei problemi più sentiti dalla nuova istituzione fu, da subito, quello di garantire un certo equilibrio fra una formazione accademica tradizionale, che rispondesse ai requisiti obbligatori che qualsiasi università pontificia richiede ai candidati al sacerdozio, e il carattere squisitamente missionario che si voleva dare ai corsi del MIL. L’ideale perseguito è sempre stato quello di fare della missione il «minimo comun denominatore» dell’intera formazione accademica.  Da un lato si ebbe cura di introdurre nel piano di studi corsi, sia fondamentali che elettivi, di natura spiccatamente missionaria, quali: teologia della missione, antropologia culturale e sociale, etnologia, teologia delle religioni, islamismo, religioni tradizionali africane, economia e sviluppo nel mondo contemporaneo. Dall’altro, e ben più importante, si cercò di dare a tutto l’insegnamento accademico, soprattutto ai corsi fondamentali (teologia sistematica, Sacra Scrittura, liturgia) un taglio particolare che fosse spiccatamente orientato alla missione, cercando di superare la tendenza a «occidentalizzare» troppo lo stile dell’insegnamento. Questo secondo obbiettivo, a onor del vero, non sempre è stato raggiunto in maniera sufficiente. Ci si è dovuti accontentare della sensibilità missionaria e della voglia di condividere l’esperienza maturata sul campo di alcuni insegnanti, nonché del contributo offerto dagli studenti (spesso attraverso le loro domande interessate) che avevano avuto una qualche esperienza di missione come parte del loro cammino formativo.  Soltanto verso la fine degli anni ’80 il MIL iniziò a ricevere insegnanti provenienti da paesi del Sud del mondo disposti a dare un insegnamento ad ampio raggio che fosse in grado di tener conto della voce e delle teologie del Terzo Mondo. Il primo in assoluto fu un missionario della Consolata, il mozambicano padre Felipe Couto, successivamente rettore dell’Università cattolica del Mozambico e attualmente rettore dell’Università nazionale di Maputo.
Sempre a quel tempo risale l’iniziativa di invitare docenti di importanti centri accademici del Sud del mondo affinché condividessero i frutti delle loro ricerche con studenti e colleghi del MIL.
Grande attenzione venne anche posta sulla dimensione pastorale della missione. Sebbene gli aspetti formativi fossero lasciati ai singoli seminari, uno degli obbiettivi fondamentali del MIL  è sempre stato quello di garantire ai propri studenti la possibilità di integrare in maniera costruttiva l’ambito accademico con quello più squisitamente pastorale, con una spiccata preferenza per l’approccio contestuale tipico delle teologie emergenti nel Sud del mondo.  Molti corsi erano costruiti come veri e propri seminari in modo da poter raccogliere l’esperienza diretta degli studenti, facendola diventare così parte integrante della materia insegnata. Per esempio, la tesi finale del Diploma in missiologia, conferito attraverso il MIL dalla Middlesex University era volutamente impostata come un lavoro di sintesi basato su un’esperienza pastorale continuativa e significativa di almeno due anni. Guidato da un tutor scelto fra il personale docente e da un responsabile della struttura dove svolgeva il suo servizio pastorale, lo studente veniva invitato a riflettere teologicamente su un contesto ben preciso di cui doveva descrivere dettagliatamente le caratteristiche e sottolineare pregi e difetti del lavoro pastorale che veniva svolto. La seguente lettura biblico-teologica doveva poi guidarlo a suggerire linee d’azione più efficaci e nuove prospettive. In questo modo, lo studente non solo «studiava» teologia ma, cosa ben più importante, imparava a «fare» teologia. Grazie a questo approccio, impostato sul metodo del «vedere-giudicare-agire», molti responsabili di varie istituzioni caritative o pastorali hanno trovato il modo di poter analizzare e rinnovare le loro politiche di intervento sul territorio e sulle persone.
A questo riguardo, Londra ha rappresentato un terreno ricco di opportunità: il suo carattere di metropoli multietnica ha sempre favorito innumerevoli possibilità di lavoro pastorale significativo: tra i migranti, i senza fissa dimora, i carcerati, i malati di Aids. In svariate occasioni è stato possibile collaborare con organizzazioni non governative operanti nei settori della cooperazione e di giustizia e pace. Molte parrocchie si sono avvalse della presenza degli studenti del MIL che, oltre ad offrire il loro contributo nelle varie attività, hanno rappresentato una voce critica e, attraverso le loro ricerche, hanno fornito dati utili per meglio impostare il lavoro di evangelizzazione e assistenza caritativa. Inoltre, grazie alla presenza sul territorio di una maggioranza di persone di fede anglicana e di moltissimi cristiani di altre denominazioni, Londra si è sempre rivelata un palcoscenico unico per quanto riguarda il dialogo ecumenico e interreligioso.
Di tutta questa abbondanza il MIL si è arricchito, creando con la città un proficuo scambio di sapere. Dalla realtà si auspicava prendesse spunto la ricerca; dalla ricerca si attingevano gli strumenti per una missione efficace e consapevole della realtà.
Dal 29 di giugno tutto questo non esiste più. Motivi di varia natura hanno portato gli istituti missionari che più avevano investito nell’iniziativa in termini di studenti e personale docente a ritirarsi progressivamente sino a chiudere con questa esperienza. Dopo l’affiliazione con la Middlesex University erano state manifestate alcune difficoltà incontrate a livello di programmi accademici e di orari poco compatibili con la routine di un seminario. Ma le ragioni principali sono state economiche (Londra è purtroppo una città molto cara per mantenere una comunità di seminaristi) e formative (la maggioranza dei candidati di tutte le congregazioni viene ormai da paesi del Sud del mondo e si ritiene più opportuno investire in strutture accademiche più vicine alla terra d’origine). A queste difficoltà, purtroppo, non ha fatto riscontro la sperata partecipazione dei laici, accorsi in numero inferiore alle attese e insufficiente a coprire i costi di gestione dell’università.
La storia del MIL continua a vivere in altre esperienze. Oggi, per esempio, il Tangaza College di Nairobi (un’iniziativa congiunta di vari istituti missionari)  continua a sostenere l’idea fondamentale che la missione attuale o la si fa insieme o non riesce a trovare le forze sufficienti per poter avere un impatto significativo sulla realtà. Al Missionary Institute questo sogno è stato inseguito con tutte le forze. Accademicamente, si è cercato di promuovere un lavoro interdisciplinare di insieme, fatto con la partecipazione e grazie all’esperienza di tutti. A livello di aggregazione si è cercato insistentemente di favorire tutte quelle attività che potessero unire, approfittando della ricchezza umana e culturale di ciascuno: dalle celebrazioni liturgiche ad avvenimenti sportivi, culturali e di festa.
Sarò forse apologetico e certamente di parte, ma mi sembra che, dando uno sguardo alla complessità del mondo attuale e della missione che ad esso si rivolge, la strada imboccata dal MIL è quella da continuare a perseguire. 

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Cari missionari

Troppa grazia…!

Cari missionari,
grazie per la vostra rivista, per i dossier, le notizie, i servizi, perché fate conoscere l’operato dei vostri missionari.
Grazie per la professionalità, competenza e perché ci dite la verità. Grazie per l’impegno di tutti i vostri missionari. Grazie a voi tutti per l’amore con cui amate l’umanità e la terra! E che Dio vi benedica!
Luisa
Via e-mail

Ringraziamo anche noi!

«Nostra madre terra»

Cari missionari,
grazie per la vostra rivista che mi permette di conoscere la vita e l’opera dei nostri sacerdoti che hanno rinunciato alla loro vita per quella del prossimo.
In riferimento alla rubrica «Nostra madre terra», penso che non sia corretto il nome da voi dato, in quanto noi siamo figli di Dio e così pure tutto il creato.
Michele Petracci
Via e-mail

Certamente siamo tutti figli di Dio; ma non c’è nulla di sconveniente nel chiamare la terra «nostra madre»; lo faceva anche san Francesco: «Laudato si, mi Signore, per sora nostra madre terra, la quale ne sustenta e governa…».

Altri ringraziamenti
e una proposta

Cari missionari,
leggo troppe critiche alla nostra rivista, così mi sono deciso a scrivere questa breve mail per ringraziare tutti voi: i missionari, innanzi tutto, i redattori della splendida rivista che leggo dalla prima all’ultima riga, cercando così di cogliere il senso di ciò che accade intorno a noi. Solo Missioni Consolata riporta notizie del sud del mondo così ben documentate, riflessioni su di noi e la nostra (pseudo) civiltà. Continuate ad arricchire il nostro bagaglio di conoscenza, che tende a essere sempre più scao, limitato, desolatamente vuoto.
Bellissimi, tra i tanti, i servizi «alternativi» sulle frecce tricolore e campi da golf… Apprezzo anche i confronti della rubrica «Battitore libero». A tale proposito, vorrei prendere spunto dal disappunto del sig. Andrea Dovio di Torino, che chiedeva al don Farinella cosa suggerisse di fare per «concretare l’impegno dei cristiani nella vita politica». Io un suggerimento l’avrei, neanche originale: riappropriamoci della preferenza! A qualunque schieramento apparteniamo, rivendichiamo il diritto di cittadini di «scegliere» la persona che più rappresenta i propri ideali.
Continuate con il vostro ottimo lavoro, proclamate il vangelo con ogni mezzo e il Signore vi benedica tutti.
Marco Pesce
Albenga (SV)

P.S. Oggi sono particolarmente contento: il mio terzogenito, Giorgio, 7 anni, mi ha detto che da grande non farà l’attore o il calciatore, ma vuol fare… il prete! Non so se è un segno della vocazione, non oso sperarlo, ma mi sento realizzato come padre. Forse il merito è anche di quelle riviste cristiane e missionarie che, tra le altre, circolano in casa nostra. Vi abbraccio.

Prima di tutto: tanti auguri a Giorgio. Per il resto siamo pienamente d’accordo: se gli italiani avessero potuto scegliere i propri rappresentanti, e non quelli imposti dai partiti, in Senato, Parlamento e governo ci sarebbe meno zavorra.

Minaccia nucleare?

Signor Direttore,
per la seconda volta pubblicate gli ostili articoli della Lano contro Israele. Con quale coraggio pubblicate frasi faeticanti come: «Israele è una minaccia nucleare…» («La bomba di Pulcinella», MC maggio 2007 p. 45).
Israele è una minaccia, non già il mare dittatoriale siriano, iraniano, saudita, egiziano, palestinese, ecc. Non una parola per scoprire le tristi realtà di questi paesi; sempre contro l’unica democrazia del Medio Oriente…
Non merita che gente non libera come la Lano scriva in quella che era una rivista missionaria. Io conosco la rivista da quasi 30 anni… Saluti delusi.
Alfio Tassinari
Cervia (RA)

Le parole incriminate non sono inventate dall’autrice, ma sono una citazione di France Press. Come rivista missionaria, abbiamo sempre scritto (e continueremo a farlo) contro guerre, armi, spese militari, terrorismo, violenza… e contro tutte le ipocrisie camuffate da politically correct.  

Dove va la missione?

Cari missionari,
mi unisco ai numerosi lettori che mandano lettere di dissenso sulla linea, che chiamerei «secolarizzata», della vostra rivista. Purtroppo non è la sola: troppe riviste missionarie vanno in questa direzione.
C’è un gruppo numeroso di missionari sul campo (Asia e Africa) che sta denunciando la situazione. È un grido di dolore che sale dal basso e vuole raggiungere chi ha autorità in materia. I primi firmatari: mons. Ambrogio Ravasi vostro missionario e vescovo in Kenya, il padre comboniano Giovanni Marengoni, e il famosissimo missionario e giornalista padre Piero Gheddo del Pime li appoggia. Il manifesto di questi missionari denuncia: «… dubitare che Cristo sia l’unico e supremo salvatore dell’uomo… la tendenza a sostenere che tutto quello che è carità e promozione umana si possa definire ministero di prima evangelizzazione… il diffondersi dell’idea: missionario uguale operatore sociale, ecc.».
Aggiungo io, da laico, non è specifico compito dei missionari risolvere i problemi dell’acqua, della guerra, della giustizia sociale, della fame, ecc. Il compito specifico del missionario è annunciare Cristo che è la vera salvezza del mondo presente e non solo dell’aldilà. Il missionario annunci, preghi, istruisca, formi, aiuti la crescita integrale della comunità cristiana, ossia costruisca la chiesa. La comunità cristiana poi, in proporzione alla conversione a Cristo, crescendo in fede e opere, risolverà i propri problemi umani e sociali. Pensare che il missionario risolva tutti i problemi della gente è ancora una forma di patealismo e clericalismo.
Un’ultima osservazione: tra la rivista e i fascicoli allegati (vita del beato Allamano), ci sono due concezioni diverse di chiesa. Mi appello al vostro padre generale perché vigili e recuperi il carisma del vostro fondatore, anche per la rivista.
Mario Scodes
Stresa (NO)

La lettera meriterebbe una risposta lunga e approfondita. Mi limito ai punti evidenziati.
Il carisma: il nostro fondatore dice che la missione consiste nel «fare prima uomini e poi cristiani». Per cui «compito specifico» dei missionari è pure la promozione umana. Anche Paolo vi afferma che evangelizzazione e promozione umana (sviluppo, liberazione, giustizia, pace e integrità del creato) sono inseparabili (cf Evangelii nuntiandi 31).
Cristo unico salvatore: non ne abbiamo mai dubitato; anzi, crediamo che sarà anche il nostro unico giudice e ci chiederà conto se lo abbiamo o meno «riconosciuto e servito» quando era affamato, assetato, ignudo, senza tetto, ammalato, in prigione.
Per quanto riguarda i firmatari, so che mons. Ravasi ha fatto costruire anche pozzi, scuole, dispensari e altre opere sociali; padre Marengoni non lo conosco; del «famosissimo missionario» lo sanno tutti, e da tanto tempo, come la pensa.

La sola Verità è amare

Egregio Direttore, mi è or ora giunto l’ultimo numero di Missioni Consolata. Sono abbonata da quasi 17 anni, non per mia scelta, ma in quanto ho adottato a distanza dei bambini con voi. La prima sorpresa si è trasformata in piacere e ora la attendo ogni mese e la leggo con grande interesse.
Per mia consuetudine leggo sempre la «piccola posta» di ogni tipo di pubblicazione, anche le riviste modaiole che circolano fra le mie conoscenze. Preciso che, oltre a voi, sono abbonata solo all’Espresso, per farvi capire le mie idee.
Amo molto leggere; e, come tutti gli atei, mi affascinano le sacre scritture e ne ho una discreta conoscenza, cosa che non ho rilevato in tanti credenti. Spesso vorrei scrivervi, per dare il mio parere o per avere chiarimenti, ma non mi sono mai permessa perché sono acattolica, acristiana, e non riesco a credere in un creatore a mia immagine e somiglianza…
Oggi, però, non so resistere alla tentazione, perché ho letto la lettera «Eresia e sciocchezze», in cui il sig. Pugliese, abbastanza sostenuto, stigmatizzava le vostre scelte editoriali, tacciandovi di populisti, terzomondisti e marxisti. A parte l’ultimo, non mi sembrano aggettivi di cui vergognarsi, ma per lo scrivente, evidentemente lo sono. Insomma a lui non aggradano in Missioni Consolata proprio le cose che me la fanno amare. E come in tutti questi casi, provo un grande timore di fronte a chi si sente la verità nelle mani, la certezza assoluta di essere nel giusto; tanto da temere, per chi non è totalmente in linea con i suoi pensieri, la dannazione dell’anima.
Questa è la religione che mi spaventa: chi sono io per credere di avere la certezza? Ho cresciuto due figli da sola… nell’amore e nel rispetto degli altri. Non sono dei geni, non hanno fatto i milioni, non hanno fior di ragazze, ma sono due bravi figlioli, lavoratori e rispettosi degli altri. Nulla di cui vantarsi, ma essere orgogliosi nel profondo del cuore.
Sarò una povera di spirito, ma se Dio esiste, non è a Roma, o in altri luoghi sacri. È ovunque, più che una figura precisa, è l’anima di noi tutti. Sarò insensibile, ma non lo vedo in chiese o davanti a statue piangenti, ma nel volontariato in case di riposo, che ho fatto per anni. A quelli che, sapendo che ero agnostica dichiarata, mi chiedevano: «Se non credi in Dio, come fai a fare volontariato?», non rispondevo neppure.
Non sto dicendo che la mia è la sola verità universale, che Dio non esiste; sto cercando di spiegare che non lo so, che faccio fatica, che mi sforzo di capire tutti, che tento di non essere cattiva, perché farei del male agli altri, indipendentemente da un premio, sono veramente populista, vero?
La sua risposta è stata giusta e mirata, ma non credo che sarà capita e apprezzata: la modestia è proprio la cosa più difficile da accettare. Scusi le mie frasi un po’ a casaccio, sono poco colta, ma mi vanto di capire chi è pieno di amore e chi invece è pieno di amore solo per se stesso. 
Daniela Inzoli
Milano

Cara Daniela, penso che il Signore ti direbbe che «non sei lontana dal regno di Dio» (Mc 12,34). In un dio «fatto a nostra immagine e somiglianza» non credo neppure io. Al contrario, siamo noi fatti a immagine e somiglianza di Dio; e per sapere come è fatto, cosa pensa, come agisce e ama… basta guardare Gesù Cristo: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9).




Un a piccola parrocchia di montagna

Il quarantesimo anniversario della morte di Don Lorenzo Milani, celebratosi alla fine di giugno di quest’anno, ne ha riportato ancora una volta la figura al centro dell’attenzione mediatica; libri, articoli, speciali televisivi, «pellegrinaggi» a Barbiana (anche Veltroni vi si è recato a cercare ispirazione in vista delle incombenti nuove avventure politiche che lo attendono). La fronte spaziosa e gli occhi penetranti del «priore» sono tornati a riempire il nostro immaginario di cristiani sempre in cerca di icone da contemplare, di punti di riferimento. Chissà se le sue parole, rilette e riascoltate oggi fino all’eccesso, saranno ancora capaci di produrre il miracolo di risvegliare coscienze intorpidite, come accadde al tempo delle sue battaglie più tenaci.
Me lo chiedo leggendo l’ultimo messaggio per la Giornata missionaria mondiale (pubblicato in questo numero di Missioni Consolata alle pagine 74-75), nel punto in cui il papa, rivolgendosi alle nostre comunità cristiane di più antica tradizione, scrive: «… queste chiese corrono il rischio di rinchiudersi in se stesse, di guardare con ridotta speranza al futuro e di rallentare il loro sforzo missionario».
La situazione ecclesiale in cui stiamo vivendo è molto diversa da quella di mezzo secolo fa, questo è certo, ma lo stile pastorale di Don Milani può dire qualcosa di importante anche a noi e alle nostre comunità di oggi. Don Lorenzo non ebbe fra le sue corde una specifica attenzione alla missione ad gentes. Soprattutto nella seconda fase del suo apostolato, quella di Barbiana, la sua azione si concentrò in modo radicale ed esclusivo sulla sua comunità, all’insegnamento e all’educazione dei ragazzi. A ciò dedicò tutto se stesso al limite dello sfinimento. Era e si sentiva il prete della sua gente e «solo» della sua gente. Ciò che rimproverava ad alcuni suoi colleghi era la dispersione in mille attività che non si focalizzassero direttamente sulle necessità dei più poveri affidati alle loro cure pastorali.
Allo stesso tempo, fu capace di stimolare nei suoi ragazzi quella visione aperta del mondo e quel profondo senso di giustizia globale che sprizzano dalla Parola di Dio e di cui si nutre la missione di sempre. I ripetuti invii dei suoi ragazzi all’estero affinché apprendessero più lingue possibili, l’invito fatto ai loro coetanei stranieri di soggioare a Barbiana e condividere la loro realtà con i ragazzi del posto, lo studio sistematico e critico della realtà fatto attraverso la lettura dei giornali e l’incontro con professionisti, politici, uomini di fede (non sempre capaci, per la verità, di superare la ghigliottina critica del parroco e dei suoi studenti) furono strumenti che Don Milani usò abbondantemente  per spalancare ai suoi giovani le porte che da Barbiana li avrebbe proiettati nel mondo. Un mondo che li avrebbe rispettati e non più sfruttati, visto che ora erano capaci di comprenderne e dominae i meccanismi. Non importa se questo viaggio si sarebbe fermato a Vicchio o a Firenze. Gli strumenti per andare «fino agli estremi confini della terra» erano ormai in loro possesso.
L’invito fatto dal papa alle nostre comunità a non chiudersi in se stesse non deve escludere la scelta, che Don Milani visse in modo quasi «fondamentalista», di chiudersi «con» esse, in una relazione di donazione totale. Penso sia rischioso, anche se oggi è la tendenza, limitare l’azione di animazione missionaria a una formazione intensiva alla missione sul modello «toccata e fuga», trascurando il contatto diretto, personale, continuativo e spiritualmente profondo con le persone.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli