Un a piccola parrocchia di montagna
Il quarantesimo anniversario della morte di Don Lorenzo Milani, celebratosi alla fine di giugno di quest’anno, ne ha riportato ancora una volta la figura al centro dell’attenzione mediatica; libri, articoli, speciali televisivi, «pellegrinaggi» a Barbiana (anche Veltroni vi si è recato a cercare ispirazione in vista delle incombenti nuove avventure politiche che lo attendono). La fronte spaziosa e gli occhi penetranti del «priore» sono tornati a riempire il nostro immaginario di cristiani sempre in cerca di icone da contemplare, di punti di riferimento. Chissà se le sue parole, rilette e riascoltate oggi fino all’eccesso, saranno ancora capaci di produrre il miracolo di risvegliare coscienze intorpidite, come accadde al tempo delle sue battaglie più tenaci.
Me lo chiedo leggendo l’ultimo messaggio per la Giornata missionaria mondiale (pubblicato in questo numero di Missioni Consolata alle pagine 74-75), nel punto in cui il papa, rivolgendosi alle nostre comunità cristiane di più antica tradizione, scrive: «… queste chiese corrono il rischio di rinchiudersi in se stesse, di guardare con ridotta speranza al futuro e di rallentare il loro sforzo missionario».
La situazione ecclesiale in cui stiamo vivendo è molto diversa da quella di mezzo secolo fa, questo è certo, ma lo stile pastorale di Don Milani può dire qualcosa di importante anche a noi e alle nostre comunità di oggi. Don Lorenzo non ebbe fra le sue corde una specifica attenzione alla missione ad gentes. Soprattutto nella seconda fase del suo apostolato, quella di Barbiana, la sua azione si concentrò in modo radicale ed esclusivo sulla sua comunità, all’insegnamento e all’educazione dei ragazzi. A ciò dedicò tutto se stesso al limite dello sfinimento. Era e si sentiva il prete della sua gente e «solo» della sua gente. Ciò che rimproverava ad alcuni suoi colleghi era la dispersione in mille attività che non si focalizzassero direttamente sulle necessità dei più poveri affidati alle loro cure pastorali.
Allo stesso tempo, fu capace di stimolare nei suoi ragazzi quella visione aperta del mondo e quel profondo senso di giustizia globale che sprizzano dalla Parola di Dio e di cui si nutre la missione di sempre. I ripetuti invii dei suoi ragazzi all’estero affinché apprendessero più lingue possibili, l’invito fatto ai loro coetanei stranieri di soggioare a Barbiana e condividere la loro realtà con i ragazzi del posto, lo studio sistematico e critico della realtà fatto attraverso la lettura dei giornali e l’incontro con professionisti, politici, uomini di fede (non sempre capaci, per la verità, di superare la ghigliottina critica del parroco e dei suoi studenti) furono strumenti che Don Milani usò abbondantemente per spalancare ai suoi giovani le porte che da Barbiana li avrebbe proiettati nel mondo. Un mondo che li avrebbe rispettati e non più sfruttati, visto che ora erano capaci di comprenderne e dominae i meccanismi. Non importa se questo viaggio si sarebbe fermato a Vicchio o a Firenze. Gli strumenti per andare «fino agli estremi confini della terra» erano ormai in loro possesso.
L’invito fatto dal papa alle nostre comunità a non chiudersi in se stesse non deve escludere la scelta, che Don Milani visse in modo quasi «fondamentalista», di chiudersi «con» esse, in una relazione di donazione totale. Penso sia rischioso, anche se oggi è la tendenza, limitare l’azione di animazione missionaria a una formazione intensiva alla missione sul modello «toccata e fuga», trascurando il contatto diretto, personale, continuativo e spiritualmente profondo con le persone.
Ugo Pozzoli