Tutta un’altra storia
Preti d’America, alla scoperta di esistenze ed idee
L’Argentina non è soltanto terra d’immigrazione. Come negli altri paesi delle Americhe, anche qui ci sono popoli autoctoni, antecedenti la conquista bianca. I più noti sono i Mapuche (anche per la lunga disputa con Benetton), ma le popolazioni indigene sono una ventina. Ne abbiamo parlato con padre José Auletta, missionario italiano, che da 30 anni lotta al loro fianco.
Buenos Aires. Piccolo ed occhialuto, di prim’acchito sembra più un professore di liceo che un difensore dei diritti civili. Invece, ancora una volta, l’apparenza inganna. Lui è padre Auletta, missionario della Consolata, in Argentina dal 1976. Di nome farebbe Giuseppe, ma per tutti ormai è José. Lo incontriamo a Buenos Aires, dove si trova di passaggio. Il suo lavoro è infatti nelle lontane province del Nord, dove la vita è molto diversa da quella della capitale, metropoli in cui il fascino della città si scontra con il degrado delle immense periferie (villas miserias).
In questa sua lunghissima permanenza in Argentina (30 anni sono molti), lei ha sempre preferito lavorare con le popolazioni indigene di questo paese. Una prima domanda potrebbe allora essere la seguente. Rispetto ad altri paesi dell’America Latina, per esempio la confinante Bolivia o lo stesso Perù, le popolazioni indigene dell’Argentina sono decisamente minoritarie. Non soltanto come numero, ma anche come visibilità. È così?
«Sopravvive l’idea che l’Argentina abbia pochi popoli indigeni. In realtà, in questo momento si ritiene che siano presenti da 500 mila ad 1 milione di indigeni di diversi gruppi etnici, dal nord al sud dell’Argentina».
Che non sono pochi rispetto alla popolazione dell’Argentina, che non arriva a 37 milioni di abitanti…
«Non sono pochi, soprattutto se si tiene conto che, fino a non molto tempo fa, si credeva che in Argentina non ci fossero indigeni…».
Addirittura…
«Sì, e non solo tra la gente comune ma anche nell’ ambito della chiesa. Non sono pochi i vescovi che hanno scoperto solo ultimamente gli indigeni dell’Argentina».
Ho visto un bel manifesto di Endepa. Ci può parlare di questa organizzazione?
«L’Équipe nazionale di pastorale aborigena (Endepa) è nata più 20 anni fa come un organismo dipendente dalla Commissione episcopale di pastorale aborigena (Cepa). Il momento forse più importante si è avuto nell’anno 1994, in occasione della riforma della costituzione nazionale che risaliva al 1853. In quell’occasione, la presenza nella costituente di rappresentanti dei popoli indigeni fu elemento decisivo affinché venissero riconosciuti i loro diritti, soprattutto quando nessuno se lo aspettava. Dopo quel riconoscimento oggi si può parlare dell’esistenza di 20 gruppi etnici in Argentina».
Questi gruppi etnici dove sono dislocati principalmente?
«In buona parte delle province, da Nord a Sud, dalla Patagonia a Salta. Cominciando dal Sud, incontriamo i Mapuches (Neuquen, Rio Negro, Santa Cruz); i Wichis a Formosa; i Guaranies a Misiones; i Tobas nel Chaco; gli Ona, i Kolla, i Tehuelche, i Quilmes…».
Quilmes è una famosa marca di birra, è una città della Gran Buenos Aires…
«Ma è soprattutto il nome di un popolo indigeno. Anzi, è il nome del popolo indigeno che più ha sofferto nella storia dell’Argentina… Dopo essere stati sconfitti dai conquistatori spagnoli (1666), tutta la comunità fu deportata nella provincia di Buenos Aires, a 1.500 chilometri da Tucumán, suo luogo natale».
Dallo sterminio al riconoscimento del 1994
In generale, c’è una condizione particolare che caratterizza tutte queste popolazioni indigene dell’Argentina? Voglio dire: sono sempre state, come sembra dalle sue parole, popolazioni umiliate oppure questo, qui in Argentina, non è accaduto?
«Basta un esempio: la famosa “conquista del deserto” (1875-1884), portata avanti con piena coscienza dallo stato attraverso il generale Julio A. Roca, che tendeva semplicemente a sterminare gli indigeni per fare posto agli emigranti che arrivavano da altri paesi, dall’Europa in particolare. Quindi, c’è stata una lunga storia di ingiustizia verso questi popoli indigeni. Addirittura, se analizziamo l’articolo dove si parlava di indigeni, non c’è niente di lusinghiero. La costituzione affermava infatti che bisognava…».
Mi scusi, padre, stiamo parlando della costituzione del 1853?
«Sì, quella prima della riforma. Essa diceva che bisognava difendersi dagli indigeni, quasi fossero il nemico numero uno dello stato. E, per coronare il tutto, convertirli al cattolicesimo. Una contraddizione tremenda».
«Convertirli al cattolicesimo…» Posso scrivere proprio così?
«Lo può scrivere, perché proprio questo diceva quella Costituzione…».
Per fortuna, la revisione costituzionale del 1994 ha introdotto l’articolo 75…
«Sì. È un articolo veramente completo: riconosce la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni argentini, rispetto alla stessa formazione dello stato nazionale; riconosce i diritti alla proprietà comunitaria delle terre che storicamente occupano; riconosce il diritto alla propria organizzazione e all’insegnamento delle proprie lingue, il diritto ad essere informati su questioni che li interessano direttamente. Questo è l’articolo n. 75 comma 17 della Costituzione del 1994».
La terra: un diritto per pochi?
Torniamo alle sue esperienze. In precedenza, ha detto di aver lavorato molti anni con gli indigeni tobas. Che tipo di esperienza fu?
«Arrivai a Machagai, nel Chaco, alla fine dell’anno 1983, quando ricominciava la democrazia in Argentina. Il territorio della mia parrocchia aveva una configurazione molto ricca, nella quale appariva evidente la realtà indigena, come nella vicina Colonia Aborigen Chaco. Terminato il mio servizio di parroco, chiesi all’istituto di vivere direttamente nella stessa comunità. Non fu facile, ma, mi fu concesso. Nel maggio 1991 cominciai la nuova esperienza fino all’ottobre del 2000, vivendo lì prima da solo, poi con l’aiuto di un confratello e alla fine con le suore della Consolata. Si costituì una piccola équipe e riuscimmo a portare avanti un lavoro organizzato. A livello di promozione umana cercammo di impostare lavori comunitari centrati su tre aspetti: la comunicazione, ovvero strade interne perché la gente potesse muoversi con più agilità verso scuole, ospedali o la città di Machagai; la formazione di centri comunitari; terzo, un progetto abitativo, però con aiuto, lavoro e costruzione comunitari».
Tuttavia, la battaglia più importante e difficile era un’altra, vero?
«Il reclamo fondamentale era quello per la terra. Si riuscì ad avere il titolo comunitario di proprietà nell’anno 1996 con molte difficoltà».
Quanti sono i Tobas?
«Lì, nella colonia sono circa 4 mila persone».
Parlano ovviamente una loro lingua?
«Sì, c’è un processo di recupero della lingua. Sono stato responsabile di un’équipe diocesana di pastorale indigena, che si occupava proprio della preparazione di docenti aborigeni, che potessero insegnare nella loro lingua».
La regione del Chaco che tipo di caratteristiche fisiche e soprattutto sociali presenta rispetto ad altre province argentine?
«Più o meno ha le caratteristiche di tutto il Nord: fondamentalmente povero, ma con risorse forestali immense, in questi anni saccheggiate da imprese multinazionali con la connivenza del governo che lascia fare. Personalmente, ho assistito a momenti di grande siccità e a grandi inondazioni provocate proprio dall’uso indiscriminato delle risorse naturali».
Chi è il colpevole di aver venduto tutta la terra alle multinazionali straniere?
«Senz’altro l’indiziato primo è lo stato stesso. Nel Chaco, la prima tappa si ebbe all’inizio del secolo con le piantagioni di cotone, per far posto alle quali si disboscò una grande quantità di terreno usando manodopera indigena schiava, come d’altra parte nelle vicine miniere. Nell’anno 1924 ci fu un eccidio, uno sterminio di circa 500 indigeni tobas nella zona Aborigen Chaco, che è ricordato come la “matanza di Napalpí”. Un migliaio di indigeni tobas iniziò uno sciopero della raccolta del cotone. La repressione fu feroce: il 19 luglio un centinaio di poliziotti armati di fucili Mauser e Winchester uccise senza pietà circa 500 Tobas indifesi.
E dopo il cotone, arrivò l’allevamento del bestiame. Insomma, ogni progetto era buono per ampliare l’area coltivabile a danno dell’area boscosa. L’equilibrio naturale si ruppe, come dimostravano l’alternanza di inondazioni e siccità».
Morire per fame (nel granaio del mondo)
Dopo i 10 anni di Carlos Menem, l’Argentina sprofondò in una paurosa crisi economica, che culminò con la rivolta del dicembre 2001. Come si manifestò quella crisi nelle regioni del Nord?
«Dalla povertà si passò alla miseria, per dirlo in forma molto sintetica. Si vissero 10 anni di illusione e di inganno. Si parlava di un’Argentina da primo mondo, però solo in alcuni ambienti. A Buenos Aires si perse la cultura del lavoro e della solidarietà e venne imposta la cultura del “si salvi chi può in qualsiasi modo”».
Nel 2002, nelle province di Tucuman e Misiones ci furono decine di bambini morti per fame. Una cosa che ha dell’incredibile per un paese come l’Argentina, no?
«Certamente, soprattutto se si considera che quelle province avevano ed hanno risorse sufficienti per tutti purché equamente distribuite. Tra l’altro, la denutrizione è un problema ancora attuale, che sarà difficile sradicare in poco tempo».
A proposito di alimenti, anche nel Nord dell’Argentina si è avuta la diffusione delle coltivazioni di soia?
«Nella provincia di Salta, dove io lavoro, la tendenza è quella di ampliare sempre di più le aree coltivate a soia».
Perché la soia? Dicono, si dice, che abbia portato molta ricchezza al paese, ma anche molti svantaggi, legati al fatto di essere soia transgenica.
«Oggi la soia è un prodotto per l’arricchimento facile e immediato di molte imprese. Ma è soprattutto un prodotto che impoverisce la terra. Anzi, secondo alcuni è una causa scatenante dei problemi alimentari del paese».
Percorrendo le terre attorno alla grande Buenos Aires, ho visto molti campi racchiusi dietro barriere di filo spinato ed ognuno aveva la sua marca: Cargill, Monsanto, eccetera. Cosa significa questo esattamente?
«Significa che in quei terreni sono stati utilizzati prodotti agro-chimici per “migliorare” (tra virgolette) le coltivazioni stesse. I nomi sono quelli dei gruppi industriali internazionali che sfruttano queste terre per lasciarle, un domani non molto lontano, senza sostanze. Un deserto».
Guaraní contro Seaboard Corporation
Dal Chaco lei è passato ad Oran, nella provincia di Salta. Con chi sta lavorando?
«La parrocchia di San José si trova in una zona urbano-periferica di Oran. Comprende quartieri degradati in una città che di per sé è povera, anche se ricca di risorse. Oltre alla popolazione urbana, ci occupiamo di 4 comunità di indigeni kollas che vivono sulle montagne. Vivono lontani dalla città, per cui li raggiungiamo ogni fine mese per una settimana e soltanto da maggio ad ottobre quando non piove. Da qualche anno lavoro inoltre nella commissione diocesana di pastorale sociale, che si occupa soprattutto di “terra”, l’asse attorno a cui girano tutti i problemi di Oran. Con diverse pastorali – aborigena, della carità, della sociale, della salute – si è formata una commissione interpastorale con un’équipe giuridico, un gruppo di avvocati volontari che si sono presi a cuore i problemi della terra».
Ancora una volta conflitti per la terra. Sembra un problema infinito…
«In questo momento ci sono 6-7 casi di cui uno di non indigeni, di criolos. Il caso più conosciuto è quello della comunità di Iguopeigenda (in lingua spagnola, Rio Blanco Banda Sur), composta da indios tupí-guaraní. La comunità si sta confrontando con un “mostro”, l’industria zuccheriera Tabacal, che dal 1996 è proprietà della multinazionale statunitense Seaboard Corporation.
Questa ha comprato dai Costas, la famiglia di latifondisti già proprietaria di Tabacal, una grande quantità di terreno, circa 1 milione di ettari».
Dunque, siete in lotta addirittura con una multinazionale. Un confronto impari…
«Sono già 3 anni che ci troviamo a lottare con la multinazionale statunitense. Gli indios di Iguopigenda erano sotto minaccia di sfratto dalla terra che occupavano da tempo. Intervennero i nostri avvocati che presentarono istanza alla giustizia per reclamare il diritto al possesso di quella terra. Nel frattempo, ci furono minacce alla comunità e a noi. Dopo 2 anni, il giudice, una donna, ha deciso di accogliere la richiesta degli indigeni, riconoscendo alla comunità il diritto di poter recuperare 224 ettari».
Parliamo di 224 ettari su un’estensione di 1 milione…
Una comunità composta di 60 famiglie (una media per ogni famiglia di 5-6 persone), che vogliono vivere del lavoro della terra. Un lavoro peraltro rispettoso, nel senso che non distrugge, ma produce lo stretto necessario per poter vivere e vendere i frutti della terra. Favorendo anche la società, riuscendo cioè a vendere ad un prezzo non esagerato. In questo momento siamo in attesa che i nostri avvocati richiedano l’esecuzione della sentenza».
Perché una compagnia con tanto terreno nelle proprie mani non capisce quanto irrilevante sia, rispetto alla sua attività economica, un pezzettino di terra di pochi ettari? Come mai accanirsi contro 60 famiglie, che con quella terra sopravvivono?
«Da una parte, la compagnia statunitense si fa forza di un pezzo di carta che le accredita la proprietà della terra, approfittando del fatto che i popoli indigeni non si sono mai preoccupati delle cose formali. Abitano le terre senza definire i confini del territorio che occupavano o che occupano. Dall’altra parte, alla Seaboard Corporation, come a tutte le multinazionali, interessa soltanto il profitto, da perseguire ad ogni costo. Salvo poi presentarsi ai cittadini con il suo lato positivo-umanitario con donazioni a istituzioni pubbliche che le consentono di apparire sui media come un’associazione benefica. Una vergogna in tutti i sensi».
L’Argentina di Kirchner e la sete di potere
Lasciamo un attimo gli indigeni, per parlare dell’Argentina di Nestor Kirchner. Il suo parere su questa presidenza.
«Si è cercato di riordinare la cosa pubblica in diversi aspetti, ma non si può nascondere la sete di potere che sta invadendo un po’ tutti i politici, a cominciare dall’attuale governo che pretende di continuare al potere».
La sete di potere è una caratteristica del peronismo…
«E non solo, perché anche partiti diversi, che governano in altre province, hanno la stessa tendenza. Abbiamo avuto un caso significativo nella provincia di Misiones dove il governatore Carlos Rovira pretendeva di cambiare la costituzione solo per essere rieletto in forma indefinita. La stessa popolazione ha chiesto a mons. Piña, vescovo in pensione, di mettersi alla testa del reclamo popolare. Così è entrato nella costituente, per evitare che si riformasse l’articolo che avrebbe permesso al governatore di essere rieletto indefinitamente. La risposta è stata tale che, per una volta, la gente ha sconfitto la mania dei politici di sentirsi padroni del potere».
Mi sembra di capire che la sua fiducia del cambiamento è una fiducia condizionata.
«Sì, anche perché uno continua a sentire discorsi ambigui, che possono facilmente trasformarsi in un nuovo inganno per la gente, troppo spesso utilizzata per i fini del governante di tuo».
Per lei che ha lavorato con popolazioni indigene per molti anni, cosa significa l’esperienza della Bolivia, dove c’è da poco un presidente aymara? Mi riferisco ovviamente a Evo Morales.
«È stato un passo importante, ma anche qui bisogna stare attenti. Far sì che ci sia una vera partecipazione popolare e che non si cada in eccessi demagogici, che possono essere pericolosi. Certamente è fondamentale che sia stato eletto un presidente indigeno, con la forza dei popoli indigeni, che sono la gran maggioranza della popolazione».
Dopo 30 anni in Argentina, che sensazione personale si porta dentro?
«Senz’altro di arricchimento umano, culturale, un grande insegnamento che ho ricevuto nei diversi posti, in particolare nel Chaco. Anche le altre tappe sono state importanti, di preparazione per vivere il grande amore che è stato l’incontrare la realtà indigena che peraltro io non ho mai idealizzato. Come tutti gli esseri umani, anche gli indigeni hanno pregi e difetti».
(fine 6.a puntata – continua)
Paolo Moiola
Paolo Moiola