Mosaico incompiuto

Anatomia di un paese dalle molte anime

Pur segnato da conflitti e instabilità, il Libano rimane l’unica terra di libertà e pluralismo all’interno del Medio Oriente. Viaggio in un paese frammentato e inquieto.

Strano destino quello del Libano. Aperto al mare, aggrappato alle sue montagne, è stato sin dalla più remota antichità una terra di mezzo. Terra di molti e terra di nessuno. I fenici, navigatori abilissimi, si insediarono qui tre millenni avanti Cristo; svilupparono l’alfabeto lineare e lo diffusero in tutto il Mediterraneo, fondando colonie da Cipro alla Sicilia, dalla Sardegna al Nord Africa, sino alla Spagna. Come non riconoscere ancora oggi un residuo di quello spirito fenicio in questo popolo di migranti sparso in tutto il mondo?
Dopo i fenici passarono di qui anche i persiani di Dario, artefici di un significativo processo di assimilazione culturale, prima di essere sconfitti dai macedoni di Alessandro Magno. Quindi arrivarono i romani, che annessero il Libano alla provincia di Siria e vi introdussero il cristianesimo in seguito alla conversione dell’imperatore Costantino (313).

IL LIBANO NASCE CRISTIANO
Ma i libanesi seppero trasformare anche questa vicissitudine religiosa in una storia propria, del tutto singolare. Una storia che risale al v secolo e alla vicenda dell’anacoreta Marone, sulla cui tomba, ad Apamea (oggi in Siria), lungo il fiume Oronte, venne costruito un monastero, meta dei fedeli di quelle terre.
Da qui ebbe origine la comunità dei maroniti, che nel vii secolo si insediarono nell’attuale Libano, dove mantennero – e mantengono ancora oggi, pur essendo cattolici – una sostanziale autonomia e un proprio rito. E dove continuano a rappresentare la comunità cristiana più numerosa e influente del paese, non solo dal punto di vista religioso, ma anche politico, sociale ed economico.
Ma la storia del Libano è stata ed è fortemente segnata anche dalla presenza dell’islam. Gli eserciti musulmani vi penetrarono diretti a Gerusalemme, che cadde nel 638. In Libano, tuttavia, dovettero fare i conti con la particolare conformazione montuosa del paese e con la resistenza dei cristiani, e in particolare dei maroniti.
Tutto l’ultimo millennio di storia libanese – dalle crociate ai giorni nostri – è segnato dallo scontro e dalla dialettica tra le varie componenti religiose che fanno del paese un mosaico ricchissimo e incompiuto, le cui tessere continuano a cambiare di mano e di posizione.
Così anche negli anni più recenti. Dopo la caduta dell’impero ottomano e i primi scontri tra i maroniti e le popolazioni druse che abitano le montagne dello Chouf – e che, pur essendo islamiche, conservano gelosamente le loro tradizioni -, la Francia comincia a far sentire con maggior forza il proprio peso nella regione. Vicino alla causa maronita, il governo di Parigi promuove l’indipendenza del Libano.

GIOCO DI EQUILIBRIO
Dopo la prima guerra mondiale, durante il mandato francese, è promulgata una Costituzione che tiene conto degli equilibri religiosi del paese. Nel 1932 viene realizzato il primo e, fin qui l’unico, censimento della popolazione libanese. Ne emerge un quadro religioso sostanzialmente equilibrato: il 51% della popolazione cristiana (di cui il 29% maronita), il 49% musulmana e l’1% di altri gruppi, tra cui anche una piccola comunità ebraica.
Sulla base di tale censimento viene stipulato, nel 1943, il cosiddetto «Patto nazionale», in base al quale tutte le cariche politiche e istituzionali devono essere distribuite in percentuali ben precise alle diverse confessioni religiose. I seggi parlamentari, poi, dovevano essere assegnati con una proporzione di 6 a 5 a favore dei cristiani. Il presidente sarebbe sempre stato un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente del Parlamento un musulmano sciita.
Questo ordinamento è tuttora in vigore, anche se sono state modificate le percentuali dei deputati, che oggi sono metà musulmani e metà cristiani. Una suddivisione che probabilmente non rispecchia più la composizione sociale, visto che i musulmani sono certamente più numerosi dei cristiani, sia per il più elevato tasso di natalità, sia per la tendenza di molti cristiani a emigrare all’estero. Sta di fatto, però, che per il momento nessuno osa invocare un nuovo censimento, che sconvolgerebbe il già precario equilibrio, su cui cerca faticosamente di reggersi il Libano.
Non che questa particolarissima ed esplosiva commistione tra politica e religione abbia mai veramente funzionato: nei mesi scorsi ha letteralmente bloccato tutte le istituzioni del paese. Ma in passato è stata spesso causa di sanguinosi conflitti. Eppure nessuno pare intravedere o vuole promuovere una ragionevole alternativa.

VICINI SCOMODI E INVADENTI
L’esperienza del passato non è edificante. Ottenuta l’indipendenza – formalmente nel 1943, di fatto nel 1946, quando si ritirarono le truppe francesi – il Libano piomba in una serie di situazioni di crisi da cui non è ancora completamente uscito. Da un lato, paga le mai domate divergenze e spaccature intee; dall’altro, subisce le mire egemoniche di vicini invadenti (in tutti i sensi!) come Israele, Siria e Iran (ma anche Arabia Saudita ed Egitto). Per non parlare del fatto che – spesso suo malgrado – si ritrova al centro dei giochi di interesse e di potere delle grandi potenze inteazionali, a cominciare dalla Francia e, soprattutto, dagli Stati Uniti, oltre a subire le pesanti ripercussioni delle due guerre del Golfo e di svariati interventi e risoluzioni – spesso vani – delle Nazioni Unite.
Insomma, nella sua storia travagliata questo minuscolo paese che è il Libano non ha mai conosciuto realmente cosa significano nella loro pienezza parole come pace, indipendenza, sovranità nazionale…
Già all’indomani dell’indipendenza, in seguito alla guerra arabo-israeliana, scoppiata dopo il ritiro delle truppe britanniche dalla Palestina, il Libano ha dovuto sopportare l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi palestinesi, molti dei quali sono rimasti nel paese. Attualmente sono circa 350 mila, arrivati anche in momenti successivi e ammassati, in condizioni spesso miserabili, in enormi campi, dove un tempo trovava rifugio l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat, mentre oggi vengono facilmente infiltrati da organizzazioni filo-siriane o vicine ad Al Qa’ida.
È quanto è successo lo scorso maggio a Nahr al-Bared, nei pressi di Tripoli, uno dei 12 campi ancora presenti in Libano, dove il gruppo Fatah al-islam si è organizzato con uomini provenienti anche dall’estero e con armi pesanti ha attaccato l’esercito libanese. Un centinaio i morti tra gli integralisti islamici, militari libanesi e profughi palestinesi.
Il rischio è che la rivolta si estenda ad altri campi e ad altre città libanesi. Ma ancora una volta, per una battaglia che si svolge sul territorio del Libano, i responsabili vanno cercati fuori dal paese. Anche se alcuni ritengono il gruppo di Fatah al-islam vicino a Bin Laden, molti sospettano, rischiando facilmente di azzeccarci, lo zampino della Siria. Che mal sopporta un Libano fuori dal suo controllo.
La Siria, appunto, è uno dei grandi vicini scomodi del Libano, che da sempre ne condiziona pesantemente le sorti e mai ha rinunciato davvero ad annetterselo, perseguendo l’antico e inconfessabile sogno della «Grande Siria».
Sin dal ’76, con il pretesto di porre fine alla guerra civile scoppiata l’anno prima, i militari siriani, in seguito integrati alla Forza araba di dissuasione, sono stati massicciamente presenti nel paese sino all’aprile del 2005. Di fatto un’occupazione durata 30 anni, e accompagnata da forti condizionamenti politici, che in parte continuano.

GUERRA CIVILE DEVASTANTE
Intanto, però, un’altra grossa partita si è giocata sul fronte israeliano. Già la «Guerra dei sei giorni» del 1967, con l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, aveva provocato un nuovo massiccio afflusso di profughi palestinesi in Libano. I campi di raccolta si sono trasformati ben presto in centri di guerriglia anti-israeliana, oltre a rappresentare un serio problema interno al paese. Al punto da diventare il pretesto per lo scoppio della guerra civile, che dal ’75 al ’90 ha devastato il paese, opponendo in fasi diverse i maroniti della Falange libanese legata alla famiglia Gemayel (responsabili tra l’altro della famigerata strage nei campi di Sabra e Shatila), i drusi del Movimento nazionale di Kamal Jumblat (autori di massacri di cristiani sui monti Chouf), le milizie sciite di Amal e poi quelle di Hezbollah (protagonisti di numerosi attentati suicidi).
Gli israeliani, dal canto loro, sono intervenuti direttamente almeno otto volte, occupando fasce più o meno estese del territorio libanese. Le più devastanti sono quelle del marzo ‘78, quando hanno invaso il Libano meridionale, e del giugno ’82, quando invece si sono spinti sino a Beirut, dopo aver devastato le città del sud. La capitale, dove trovavano rifugio i dirigenti dell’Olp, è stata colpita per due mesi da pesanti bombardamenti che hanno provocato quasi 20 mila morti e 30 mila feriti.
Dopo il ritiro dell’esercito dal sud del Libano, oggi Israele controlla solo la zona delle fattorie di Shebaa, contese anche dalla Siria. E proprio questa occupazione è diventata il pretesto che la guerriglia di Hezbollah, il «Partito di Dio», usa per continuare la sua lotta armata. Movimento sciita, nato agli inizi degli anni Ottanta, Hezbollah aveva in parte avviato negli ultimi tempi un processo di riconversione in partito politico, che si è bruscamente interrotto la scorsa estate, quando, dopo ripetuti attacchi e il rapimento di due militari israeliani, l’esercito di Tel Aviv è nuovamente intervenuto in Libano, bombardando le città del sud, i quartieri sciiti di Beirut e molte infrastrutture del paese. La guerra, durata 33 giorni, è stata l’ennesima pesante batosta per il Libano: più di mille i morti, in gran parte civili, 4 mila feriti, 700 mila sfollati. Per non parlare di ponti, strade, infrastrutture abbattute e 130 mila abitazioni distrutte o danneggiate. Un danno pari a quasi 4 miliardi di dollari. Senza contare i circa 4 mila posti di lavoro persi, le 700 imprese chiuse o fallite e vaste zone agricole impraticabili a causa delle mine o degli ordigni inesplosi.
O ggi il Libano è un paese in bilico, profondamente diviso al suo interno, e pesantemente condizionato dagli interessi e dalle politiche regionali e inteazionali. «Unità e pace» sono le parole d’ordine che continua a ripetere il patriarca maronita Nasrallah Sfeir, la principale autorità religiosa cristiana del paese. Ma per raggiungerle c’è ancora molta strada da fare…

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi