Faccia a faccia con due leader islamici
Uno è sunnita, l’altro sciita: entrambi sono particolarmente rappresentativi delle loro comunità. E sorprendentemente molto vicini su alcuni temi cruciali dell’incontro islamo-cristiano.
All’ingresso del suo ufficio, appesa al muro, è incoiciata la sura del Corano dell’Al-mâ’ida (La tavola imbandita, 82): «Troverai che i più affini a coloro che credono sono quelli che dicono: “In verità siamo cristiani”, perché tra loro ci sono uomini dediti allo studio e monaci che non hanno alcuna superbia». Ci tiene a mostrarlo subito quel quadro, il professor Mohammed Sammak, così come la foto che lo ritrae con Giovanni Paolo ii in Vaticano. Poco distante, invece, c’è quella con l’ex primo ministro Rafic Hariri, assassinato il 14 febbraio 2006.
Il professor Sammak era suo consigliere, così come lo è attualmente del figlio Saad. Ma è anche consigliere politico del gran mufti del Libano. Sino a poco tempo fa, ha insegnato presso l’università dei gesuiti Saint Joseph di Beirut, oltre che negli Stati Uniti. Musulmano sunnita, autenticamente libanese e al tempo stesso cosmopolita, Mohammed Sammak è oggi, anzitutto, un uomo del dialogo. A molti livelli. Anche sul piano interreligioso.
È, infatti, segretario generale del Comitato nazionale per il dialogo islamo-cristiano e segretario del Gruppo arabo per il dialogo arabo-cristiano. Ha preso parte più volte agli incontri «Uomini e religioni», organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio e, nel 1995, ha partecipato, in rappresentanza della comunità sunnita, al Sinodo speciale per il Libano, convocato in Vaticano da Giovanni Paolo ii.
Sammak ha una grande ammirazione per papa Woityla e lo cita volentieri. A cominciare, lui pure, dalla celebre metafora del «paese-messaggio».
INVENTARE LA SPERANZA
«Questa terra – spiega – è in sé un esempio di tolleranza e coesistenza tra cristiani e musulmani. Non potrebbe essere altrimenti. La libertà, intesa anche come libertà religiosa, e il pluralismo sono una condizione necessaria, perché altrimenti il Libano non potrebbe esistere. I problemi nascono quando si mischiano religione e politica e si fa un uso strumentale della religione per altri fini. Ma il messaggio resta. Ed è un messaggio positivo, incoraggiante, sia a livello di principio che nella prassi. Un messaggio che vale non solo per il nostro paese, ma per tutta la regione».
La storia del Libano, tiene a precisare il professore, è una storia di conflitti che hanno interessato tutto il Medio Oriente. Ma è anche la storia di un paese dove, diversamente da tutti gli altri della regione, sono garantite la libertà di espressione e di religione, il livello di scolarizzazione è molto alto e i diritti umani, in generale, e quelli delle donne, in particolare, sono sostanzialmente salvaguardati.
La guerra civile e le aggressioni estee hanno più volte messo in difficoltà questo sistema complesso e fragile, senza peraltro riuscire a scardinarlo completamente. «Nelle crisi libanesi – avverte Sammak – non c’entrano cristianesimo e islam. Personalmente sono convinto che la religione vada usata per risolvere i problemi, non per crearli. È quello che cerchiamo di far capire alla gente. Dobbiamo imparare a prenderci cura l’uno dell’altro e a far sì che si rispettino le differenze. Soprattutto dobbiamo imparare, sempre di nuovo, a inventare la speranza».
PARTIRE DA CIÒ CHE UNISCE
Il professore evoca la responsabilità di ciascuno nel giocare la propria parte fino in fondo. Sia in campo musulmano che cristiano. Ma, in prima istanza, è necessario promuovere la conoscenza reciproca e individuare i livelli su cui è possibile instaurare un dialogo.
«Se partiamo dalla teologia – avverte – forse non andremo molto lontano. Dobbiamo partire da ciò che ci unisce e creare le condizioni affinché, in un contesto di rispetto reciproco e pluralismo, cristiani e musulmani possano innanzitutto vivere insieme, avere buone relazioni di vicinanza e di solidarietà. Questo è fondamentale anche per il futuro del Libano come nazione. E può essere d’esempio per una migliore conoscenza e comprensione tra musulmani e cristiani a livello internazionale».
La visione del professor Sammak potrebbe apparire alquanto ambiziosa, al limite dell’utopia. In fondo – si potrebbe pensare – il Libano non è che un piccolo paese, 4 milioni di abitanti, divisi al loro interno e spesso istigati alla divisione e «calpestati» dai vicini. Ma forse, proprio nella sua fragilità, il popolo libanese trova un punto di forza. Dialogare è la prima condizione per esistere.
«Il dialogo è un sogno e una sfida. Bisogna crederci perché si realizzi. E bisogna praticarlo a cominciare dalla vita quotidiana, dove le diversità non devono necessariamente tradursi in ostilità. Lo sforzo da fare è quello di mettersi dalla parte dell’altro, cercare di capire il suo punto di vista. E non ridurre tutto alla religione. Il dialogo mette in gioco molti aspetti: implica un confronto tra culture, opinioni, mentalità, visioni politiche, retaggi storici… Senza voler imporre una verità. Per questo, il dialogo può assumere diverse forme. È, innanzitutto, dialogo della vita, in cui ci si riconosce e ci si prende cura reciprocamente. È dialogo dell’azione e della solidarietà, soprattutto in ambito sociale ed educativo. È anche dialogo teologico, che deve però tenere come punto fermo il rispetto di chi, pur appartenendo a un’altra religione, può adorare Dio, lo stesso Dio, in modo diverso.
DIVERSITÀ: RICCHEZZA DEL LIBANO
«Questa è l’epoca del dialogo della vita. Tra persone, tra esseri umani che abitano nello stesso mondo e affrontano le stesse sfide». È quasi sorprendente ritrovare parole analoghe in ambito sciita. Eppure, Ibrahim Shamseddine non si discosta di molto dal punto di vista del professor Sammak.
Anche se proviene da tutt’altro orizzonte: figlio di Mohammed Mehdi Shamseddine, leader spirituale dei musulmani sciiti del Libano, deceduto nel gennaio 2001, Ibrahim sta seguendo le orme del padre, almeno per quanto riguarda la promozione di una pacifica convivenza fra cristiani e musulmani.
Presidente del Centro culturale e sociale islamico di Beirut, ci accoglie nel suo studio, che dà sul cortile di una grande moschea. L’abbigliamento è occidentale, ma i modi sono propri di un leader sciita. E ci tiene a sottolinearlo. Come a dire, l’apparenza è una cosa, la sostanza è un’altra. Così come tiene a mettere subito in chiaro che «gli sciiti del Libano non sono Hezbollah, né tanto meno il contrario. A volte si è accecati e non si vedono le differenze. Gli sciiti non sono mai stati e non potranno mai essere – proprio in quanto sciiti – un partito politico. Non si può ridurre la comunità sciita a Hezbollah. Ho la responsabilità e la legittimità, in quanto figlio di Mohammed Mehdi Shamseddine, di dirlo. La mia opinione è rispettata, ma non necessariamente accettata».
Insomma, politica e religione non sono esattamente la stessa cosa, anzi. Eppure, deve ammetterlo, nel contesto libanese le due cose spesso si mischiano pericolosamente. E allora, il dialogo diventa talvolta arduo. Non solo tra cristiani e musulmani, ma all’interno della stessa comunità religiosa.
«Il nostro sistema politico – sostiene Shamseddine – tiene conto del pluralismo culturale e religioso del paese. Il Libano, tuttavia, non dovrebbe essere uno stato spartito tra le religioni, ma uno stato che si prende cura delle diverse comunità. Purtroppo, però, le comunità religiose hanno spesso cercato di conquistare il potere. E quando lo stato diventa debole, tutti perdono. Potenzialmente la più grande ricchezza del Libano è la sua diversità. Ma abbiamo bisogno di vivere in pace e di essere lasciati in pace per sviluppare le nostre reali potenzialità». Il riferimento, ancora una volta, è soprattutto a Hezbollah, il «Partito di Dio», inconcepibile nell’islam, secondo Shamseddine, oltre che già di per sé escludente. Ma è anche ai paesi vicini, che «usano» Hezbollah – e non solo – per i loro giochi di potere.
«La religione può essere uno strumento molto efficace per affascinare le persone e per controllarle – ammonisce -. È quello che fanno i politici e i potenti. Ma le persone sagge dovrebbero piuttosto dedicarsi a informare e formare la gente correttamente. Io dico: “Dio ti ha creato libero: perché mi ritorni schiavo?”».
È una chiara denuncia dell’oppressione attraverso la religione, quella di Shamseddine. Che tuttavia mette in guardia anche sul confondere e mischiare le cose. Soprattutto quando si tratta di dialogo interreligioso.
«Il dialogo non è convertire, ma accettare le differenze. Io, come musulmano, non potrò mai credere in alcune verità del cristianesimo. Viceversa, non ho bisogno che i cristiani credano nelle verità dell’islam. Ma ho bisogno di vivere e cornoperare con loro. Le nostre diversità non significano che non possiamo lavorare insieme, essere amici e buoni vicini, condividere gesti di solidarietà. Quello che dovremmo fare è affrontare insieme alcuni fenomeni di quest’epoca e provare a trovare delle soluzioni ai problemi reali della gente».
SFIDE DA AFFRONTARE INSIEME
La cooperazione tra islam e cristianesimo può diventare così non solo uno spazio di mutua conoscenza e comprensione, ma anche un’occasione per affrontare alcune sfide globali di questi tempi. Shamseddine ne cita due come cruciali: la difesa della famiglia e la bioetica.
«Viviamo sui due argini dello stesso fiume – è la metafora che usa -. Non si può immaginare un fiume senza entrambe le rive. Per questo dobbiamo sforzarci di costruire un ponte che le unisca. Per me, come musulmano, sarebbe triste perdere il mio fratello cristiano che sta dall’altra parte. Per questo il dialogo è una via di vita e per la vita. Ed è per questo che la religione non può e non deve diventare fonte di guerre».
Anna Pozzi