L’ombelico del mondo

Reportage dall’isola di Pasqua

Rapa Nui (grande roccia, in lingua nativa) o Isola di Pasqua (così fu ribattezzata dal primo scopritore europeo) è una delle isole abitate più isolate del mondo, sperduta nel Pacifico meridionale a 3.750 km dal Cile e 5.000 km da Tahiti. I nativi, arrivati dalla Polinesia verso il x secolo, hanno conservato buona parte della loro cultura originaria, ricca di fascino e di mistero.

Gioo di pasqua, anno 1722. La nave del capitano olandese Jacob Roggeween, dopo giorni di navigazione in mare aperto, s’imbatte in un’isoletta in mezzo al Pacifico, apparentemente disabitata. Sbarcati al tramonto, gli uomini dell’equipaggio cadono in un sonno profondo sulla spiaggia.
Al loro risveglio, ciò che si trovano davanti agli occhi li lascia senza parole: in un’alba infuocata, decine di uomini, con i lobi delle orecchie lunghissimi, si muovono in danze sfrenate, adorando il sole che sta per nascere, ma soprattutto gettandosi ai piedi di gigantesche creature di pietra con volto umano e in testa uno strano cappello di pietra rossa. Il capitano Roggeween e la sua ciurma avevano trovato Rapa Nui, ribattezzata col nome di Isola di Pasqua; le statue non erano altro che i moai, figure oggi in lizza per diventare una delle «nuove» sette meraviglie del mondo.
Rispettosi, e forse spaventati dai costumi dei nativi, i marinai fecero ritorno a casa, e solo nel 1774 qualcun altro ritoò sull’isola: era il famoso avventuriero James Cook, con l’obiettivo di conoscere i segreti di quella popolazione, che già allora era oggetto di più di una leggenda. «Sono bassi, magri, hanno sguardo deciso e pelle che sembra pergamena» diceva Cook.

Gioo di pasqua, anno 2007. I nativi dell’isola ricalcano alla perfezione il ritratto tracciato dall’avventuriero. Sono rimasti in 1.500 sull’isola, tanti quanti gli «stranieri», arrivati dall’Oceania, Europa e America Latina. Sì, perché oggi l’isola di Rapa Nui batte bandiera cilena e solo con un volo dal Cile ci si può arrivare, nonostante che per la sua posizione in mezzo al Pacifico assomigli più alla Polinesia che non al continente sudamericano.
Non si tratta di una dipendenza inumana, come quella dei secoli passati, tutt’altro. Schiavizzati in massa dai conquistadores  e ridotti a soli 110 abitanti a metà secolo xix, i nativi hanno potuto portare avanti le loro tradizioni grazie all’annessione cilena, avvenuta nel 1888.
Oggi Rapa Nui, isolotto brullo, a forma triangolare, con un’estensione di poco più di 160 kmq, prospera grazie a un turismo attento, non di massa, che preserva le sue bellezze. Gli abitanti originari, concentrati in un’unica cittadina, Hanga Roa, vivono di pesca e artigianato.

Tra gli aspetti più significativi della vita e della cultura degli indigeni dell’isola c’è soprattutto la tradizione religiosa da loro conservata, anche se caratterizzata da un sincretismo senza eguali. «Il culto del sole, professato fin dal secolo iv, sotto il regno del re Hotu-Mata, è ancora vivo» dice Riccardo, studioso dell’isola e uno dei gestori del piccolo museo antropologico, pieno di reperti, posto in riva all’oceano.
«Però – prosegue Riccardo – colui che nel corso dei secoli è stato più venerato rimane il Tangata-Manu, l’uomo uccello. Ancora oggi viene ricordato con canti e balli solenni nel Tapati, una festa che dura 10 giorni a febbraio e coinvolge tutta l’isola».
Il Tangata-Manu era un semidio, che prendeva sembianze umane ogni anno differenti: colui che nel giorno prestabilito trovava un uovo della specie locale di gabbianella diventava uomo uccello per dodici mesi e comandava l’isola. Di pietre raffiguranti il Tangata-Manu ce ne sono a decine sparse in tutta l’isola, tante quante le statue dei moai. Queste ultime, rovesciate a terra da terremoti e lotte intestine, sono state rimesse al loro posto, grazie al lavoro di archeologi di tutto il mondo.
Il sincretismo religioso, caratteristica dell’Isola di Pasqua, ha raggiunto il culmine con l’arrivo dei primi cileni e della religione cristiana, soprattutto cattolica. A Rapa Nui cristianesimo e religione ancestrale si sposarono da subito, senza alcun contrasto o prevalenza dell’uno sull’altra. L’esempio che meglio rappresenta tale connubio è la celebrazione della messa, soprattutto nei riti della settimana santa e della pasqua.
Padre Andrés, cileno ma con la pelle indigena, per quasi tutta la durata della celebrazione rimane in mezzo ai fedeli, provocandoli a intervenire durante l’omelia e stimolandoli a proporre intenzioni di preghiera. La liturgia è bilingue, ma i due idiomi, castigliano (spagnolo) e rapanui, si alternano e s’intrecciano con naturalezza, provocando un effetto sorprendente e affascinante anche nelle persone di passaggio sull’isola, facendole sentire a proprio agio fra culture così diverse, eppure così compenetrate.
La domenica delle palme è un tripudio di colori e suoni: tutti cantano, portando con sé lunghe foglie prese dalle palme, banani, alberi di papaia e altre piante della locale vegetazione tropicale.

«La festa è per noi un momento in cui ricordiamo i nostri antenati» dice Wilma, signora tanto anziana quanto energica, mentre sorseggia un bicchiere di vino rosso nel piccolo bar a fianco della chiesa. «Anche se, in realtà, non si sa bene come siano finite le prime civiltà dell’isola» sussurra la donna in uno spagnolo tanto zoppicante quanto divertente.
Ciò che dice Wilma è vero: l’Isola di Pasqua è piena di misteri, il primo dei quali riguarda la sua popolazione originaria, quella che costruì gli stessi moai, prima dell’arrivo dell’olandese Roggeween.
Secondo quanto gli studiosi sono riusciti a ricostruire, attorno al 1100 d.C. la cultura originale dell’isola s’interruppe bruscamente: scomparvero gli adoratori del sole; furono rovesciati a terra tutti i giganteschi moai e rimasero a metà quelli che si stavano costruendo ai piedi del Rano Raraku, uno dei tre grossi vulcani dell’isola. In tale stato furono trovati dai turisti: immersi nella vegetazione e da essa in parte ricoperti.
Cosa è successo? Forse una catastrofe naturale, come un’eruzione vulcanica o un terremoto. Qualcuno sostiene che le decine di tribù dell’isola, trovatesi in soprannumero rispetto alle possibilità di cibo offerto dall’isola, cominciarono a farsi guerra tra loro, e in questo modo si estinsero quasi del tutto.
A tale estinzione contribuirono di certo anche gruppi di «orecchie corte» (gente proveniente dalle isole occidentali), che, dice la leggenda, sterminarono tutti gli uomini dalle «orecchie lunghe» (i rapanui), tranne uno, Ororoina, che così riuscì a conservare la specie.
«Anche se abbiamo perso l’usanza di allungare i lobi delle orecchie e di incidere le nostre leggende nelle tavolette ronga-ronga, siamo i diretti discendenti di Ororoina» afferma Cesar, artigiano che abita con la moglie e i due figli in un grande casolare all’estremità di Hanga Roa. «Come i nostri antenati, siamo esperti pescatori» aggiunge Ana, la moglie dell’artigiano. «Cesar, dimostraglielo» aggiunge la donna.
Detto fatto. L’uomo esce di casa, sale sulla piccola barca ormeggiata a pochi metri dall’abitazione, s’inoltra nell’oceano per una buona mezz’ora e torna con due bianchissimi tonni, una delle specialità dell’isola, esportata in tutto il mondo. Roba da non credere, anche per la squisitezza.

Cesar, Ana e la maggior parte degli abitanti di Rapa Nui sono orgogliosi di quello che hanno, anche se sembrano arrabbiati al punto giusto con la madrepatria. «I generi alimentari, che arrivano una volta alla settimana con i container dalla terra ferma, hanno i prezzi raddoppiati rispetto al Cile» lamenta Cesar; ed è vero. Tuttavia sono ben contenti di essere legati al continente, soprattutto per l’indotto derivante dal turismo. Inoltre, la distanza dalle coste americane permette di mantenere salda la propria identità, di cui sono orgogliosi. E non ne fanno mistero nei loro discorsi.
«Siamo l’ombelico del mondo» dice Huki, effervescente archeologo che, oltre a far conoscere la cultura dell’isola nei vari incontri inteazionali in cui viene invitato (è stato più volte ospite anche della Biennale di Venezia), gestisce il Kona Tau, uno degli alberghetti più affascinanti dell’isola.
Huki, comunque, dice sul serio: Te-Pito-Te-Henua, in lingua rapanui, significa proprio «ombelico del mondo». «Su una spiaggia dell’isola – spiega Huki – c’è una grossa pietra tonda che, secondo la leggenda, è caduta dal cielo all’inizio dei nostri giorni, mandata dalla divinità ancestrale dei nostri antenati, il Make-Make, il creatore del mondo».
La particolarità della pietra, a cui si può accedere liberamente, risiede nel fatto che, in ogni momento della giornata e in qualunque condizione atmosferica, emana un calore costante. Per questo motivo, è considerato, non solo dai nativi ma anche da vari studiosi stranieri, uno dei centri di energia del pianeta, a conferma del suo nome.
Huki si sofferma poi su un altro grande mistero di Rapa Nui: il trasporto dei moai. È certo che essi furono «fabbricati» alle pendici del vulcano con pietra nera per il volto e pietra rossa per l’eccentrico cappello; ma come sono arrivati e installati sulle coste del mare? «È opera degli alieni – scherza Huki sorridendo, per poi riprendere il discorso seriamente -. Non si sa con certezza. L’ipotesi che noi studiosi diamo per favorita è questa: ogni moai è stato scolpito con le rocce del vulcano, poi è stato deposto su grossi tronchi d’albero e fatto rotolare a valle fino al luogo desiderato».
Un’opera ingegnosa, soprattutto se si pensa a quante persone dovevano lavorare all’unisono. «Diverse centinaia, forse migliaia» aggiunge l’archeologo.
Ma chi rappresentavano queste figure dal volto lungo e stretto e le orecchie da gigante? «Sono gli antenati delle varie famiglie – spiega Huki -. Alla loro morte, le statue, fatte a loro sembianza, venivano poste a poche decine di metri dal mare, rivolte verso l’interno, per essere venerate e come strumento di protezione dal mare e dagli attacchi estei».

Moai, Tangata-Manu, Te-Pito-Te-Henua e, soprattutto, sincretismo religioso: l’Isola di Pasqua è un luogo magico; metterci piede significa percorrere secoli di storia in pochi chilometri quadrati. Lo sa bene il sindaco dell’isola, Pedro Paoa, che da anni lotta con il governo cileno per garantire all’isola un riconoscimento maggiore rispetto all’attuale. «Non vogliamo l’indipendenza, ma una maggiore autonomia – afferma Paoa -; dopotutto, per cultura e tradizioni siamo diversi dalla madrepatria; anzi, direi che siamo quasi più polinesiani».
La sfida lanciata dal sindaco ha di recente lasciato il segno nelle alte sfere cilene: il 2 maggio 2006, il Senato ha iniziato un iter legislativo per riconoscere a Rapa Nui uno status particolare, simile a quello delle regioni italiane a statuto speciale. «Che facciano in fretta; non vogliamo più dipendere così tanto dal Cile» dice Paoa rivolto ai politici cileni.
A prima vista, il sindaco dell’ombelico del mondo ne avrebbe tutte le ragioni. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Quando il ritardo è fatale

Malattie dimenticate (11): tripanosomiasi (malattia del sonno)

Sono ancora decine di migliaia i pazienti con la malattia del sonno, decine di milioni le persone che rischiano di ammalarsi.

Migrazioni, guerra, povertà. Tre elementi strettamente collegati alla malattia del sonno. Una malattia mortale, se non trattata, che continua a imperversare nelle zone dell’Africa subsahariana, la cui diffusione, e il riemergere di epidemie, viene spesso collegata ai conflitti.
Non sono note le cifre precise sul numero di malati, ma secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), potrebbero variare da 50 mila a 70 mila le persone infettate, mentre sarebbero 60 milioni quelle che vivono in zone a rischio e potrebbero ammalarsi.

Due differenti possibilità, stesso destino
La tripanosomiasi umana africana, più conosciuta come malattia del sonno, è diffusa in 36 paesi nell’Africa subsahariana, dove è presente la mosca tse tse, che con il suo morso può trasmettere l’infezione: una zona di oltre 9 milioni di chilometri quadrati, pari a circa un terzo dell’intera superficie del continente africano.
Il responsabile è un tripanosoma, che può essere di due tipi, con una distribuzione geografica, e caratteristiche temporali differenti della malattia. Il Trypanosoma brucei gambiense, cui vengono attribuiti 9 casi su 10 di malattia del sonno, è diffuso nell’Africa occidentale e centrale e causa un’infezione cronica: possono passare mesi o anni prima della comparsa dei segni e sintomi più gravi, che segnalano lo stadio avanzato della malattia, con coinvolgimento del sistema nervoso centrale.
Invece, il Trypanosoma brucei rhodesiense viene localizzato a oriente e nel sud dell’Africa e causa una malattia assai più rapida, che si manifesta nel giro di pochi mesi o anche settimane e si diffonde al sistema nervoso centrale.

Dal sangue al cervello
Il tripanosoma viene trasmesso dalla puntura della mosca tse tse, che predilige vivere in zone ricche di vegetazione vicino a fiumi e laghi, in ambienti umidi, con penombra e temperature alte. Nel caso del Trypanosoma rhodesiense, animali quali antilopi, iene, pecore e bovini possono fungere da «serbatornio» della malattia, da cui la mosca tse tse può prendere il tripanosoma che poi trasmette all’uomo con la sua puntura.
La mosca tse tse, e con essa la malattia del sonno, è recentemente salita all’attenzione dei media per la sua «passione» nei confronti dei colori nerazzurri, caratteristici delle maglie di alcune squadre di calcio italiane. Sembra infatti che le mosche tse tse siano attirate da questa combinazione di colori, utilizzata per la costruzione di trappole in cui attirarle.
Una volta entrato nell’organismo, il tripanosoma si diffonde nei tessuti sotto la pelle, nel sangue e nel sistema linfatico, per poi superare la barriera ematoencefalica e arrivare al sistema nervoso centrale. Vengono lasciate aperte altre possibilità di passaggio dell’infezione, come dalla madre al bambino in gravidanza, accidentale in laboratorio, attraverso trasfusioni e trapianti d’organo.
La malattia del sonno, se non viene riconosciuta e trattata, porta alla morte del paziente e le manifestazioni dell’infezione sono suddivise in due fasi. La prima, definita emolinfatica, con febbre e sintomi poco specifici, come mal di testa, dolori alle articolazioni e prurito (in un quarto dei casi vi può essere rigonfiamento dei linfonodi cervicali). La seconda, neurologica, si manifesta, come accennato prima, a intervalli di tempo differenti a seconda del tripanosoma responsabile, a seguito dell’arrivo dell’infezione al sistema nervoso centrale.
È caratterizzata dalla comparsa dei sintomi da cui prende il nome di malattia del sonno. Infatti, accanto a disturbi psichici e neurologici (come confusione, disturbi sensoriali e di cornordinazione), compaiono le alterazioni del ritmo sonno-veglia: i pazienti tendono a dormire di giorno e fanno fatica di notte.

Il ritorno della malattia
Le popolazioni a rischio di infezione sono quelle che vivono nelle zone rurali, dedicate ad agricoltura, pesca, allevamento o caccia. Altri fattori segnalati dall’Oms collegati alla diffusione della malattia sono gli spostamenti delle popolazioni, la guerra e la povertà.
Negli ultimi 100 anni sono state segnalate nel continente africano tre principali epidemie: fra il 1896 e il 1906, nel 1920 e nel 1970, quest’ultima non ancora sotto controllo.
In occasione dell’epidemia del 1920, l’utilizzo di squadre mobili per monitorare le popolazioni a rischio aveva permesso di arrivare al controllo della diffusione dell’infezione a metà degli anni ‘60. Ma il venir meno dei controlli ha permesso al tripanosoma di tornare a manifestarsi negli anni successivi in diverse regioni: i dati del 2005 contano fra i 50 mila e i 70 mila casi.
La diffusione della malattia varia fra i diversi paesi e, anche all’interno degli stessi, fra le diverse zone. Nel 2005 sono state segnalate epidemie importanti in Angola, Repubblica Democratica del Congo e Sudan, e la tripanosomiasi umana africana rimane un problema di salute pubblica per Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Guinea, Malawi, Uganda e Tanzania. In altri paesi il numero di casi riportati è più basso o non vi sono segnalazioni, ma non si hanno certezze, perché manca una sorveglianza adeguata con diagnosi dei possibili casi.
Vi sarebbero tuttavia segnali positivi: l’Oms riporta che gli sforzi da lei compiuti insieme con quelli dei governi e di organizzazioni non governative hanno permesso di interrompere la continua salita nel numero di nuovi casi.

Il ritardo
peggiora la prognosi
L’ambiente in cui è maggiore il rischio di essere infettati dal tripanosoma è anche quello che condiziona l’andamento peggiore della malattia. Infatti i malati spesso vivono in zone isolate, lontano dai centri sanitari e quindi dalla possibilità di essere visitati e di avere una diagnosi nelle prime fasi della malattia. Il ritardo nella diagnosi restringe le possibilità di cura, perché le prospettive di guarigione diminuiscono con il procedere dell’infezione.
Dal punto di vista terapeutico infatti, i farmaci indicati per la prima fase della malattia del sonno non solo sono più efficaci, ma hanno anche meno effetti collaterali dannosi per il paziente e sono più semplici da somministrare. Viceversa, una volta che il tripanosoma ha superato la barriera ematoencefalica ed è arrivato al sistema nervoso centrale, i farmaci a disposizione possono arrecare maggiore danno al paziente e sono anche più complicati come modalità di somministrazione. Uno, per esempio, è un derivato dall’arsenico e può causare un danno grave al cervello, che può essere mortale in una percentuale che varia dal 3 al 10% dei casi.
Proprio nell’ottica di migliorare la diagnosi e anticiparla si colloca l’annuncio, dato a febbraio del 2006 dall’Oms e dalla Fondazione per la diagnostica innovativa (Find, Foundation for Innovative New Diagnostic), della partenza di ricerche per arrivare a nuovi esami per la diagnosi. Infatti, nei primi stadi della malattia la diagnosi è più difficile per la presenza di pochi sintomi, tanto che si ritiene sia identificato correttamente solo un paziente su dieci.
Lo scopo delle nuove ricerche è arrivare a esami che migliorino le possibilità di una diagnosi precoce e con esse di un trattamento tempestivo e con maggiori possibilità di successo.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




«Le changement»

La rivoluzione guineana e l’uomo nuovo

Un anziano presidente in carica da 23 anni. L’inflazione al 50%, mancanza di acqua ed elettricità perfino nella capitale. Nonostante la varietà climatica, il suolo fertile e la ricchezza in minerali. Come un paese entra in profonda crisi economica e sociale e come cerca di uscie. Anche grazie alla società civile.

Conakry. Nel corso dei primi due mesi del 2007, la Guinea ha vissuto l’apice di una crisi economico-sociale che da molti anni attanagliava il Paese.
La causa principale è stata la pessima gestione dello stato e il crollo delle entrate minerarie, che hanno portato le casse del paese a una situazione insostenibile. Inoltre, a partire dal 2000, i donatori inteazionali hanno pressoché bloccato tutti gli aiuti alla Guinea, data l’impossibilità di garantie una gestione trasparente.
In questa situazione il governo è stato costretto a una politica economica basata sull’indebitamento e questo si è ripercosso sui prezzi (il tasso d’inflazione nel 2006 era del 50%) e quindi sulla popolazione. Il prezzo del sacco di riso, alimento di base per la popolazione, nel corso dell’anno è passato da 60.000 a 150.000 franchi guineani (circa 22 euro), che corrisponde al salario medio mensile nel paese.
Anche il corso della valuta locale ha seguito lo stesso cammino (da 2.500 franchi per 1 euro a inizio 2005 a 5.200 franchi per 1 euro all’inizio del 2006 a circa 7.900 ad aprile 2007), un colpo pressoché mortale per un paese che importa quasi tutto quello che consuma.
Lo stato non arriva a garantire i servizi di base neanche nella capitale (dove l’elettricità e l’acqua sono distribuiti per qualche ora al giorno, ma con, talvolta, giorni di interruzione completa). Il panorama è, ovviamente, ancora più desolante nelle regioni intee, dove questi servizi non sono assolutamente presenti,  la rete stradale è formata, per lo più, da sconnesse piste in terra battuta, impraticabili nella stagione delle piogge (tre, quattro mesi l’anno).

paese ricco per gente povera

Questa situazione disastrosa si ripercuote anche sul sistema sanitario e quello scolastico, che sono tra i peggiori dell’Africa dell’Ovest.
Questo quadro è ancora più difficile da accettare se si pensa alle potenzialità del paese: la diversità climatica (dalla foresta pluviale, alle zone secche, alle mangrovie lungo le coste) permette di coltivare una grande varietà di prodotti tutto l’anno. La Guinea è attraversata dai più grandi fiumi della regione, e bagnata da piogge abbondanti. Tutto quello che si coltiva cresce con facilità: riso, pomodori, patate, caffè, cacao, banane.
Nonostante ciò, anche l’agricoltura guineana è moribonda (è passata dal 90% del Pil negli anni successivi all’indipendenza al 20% di oggi). Uno dei segnali più evidenti di questo fenomeno è la «scomparsa» della banana come fonte di entrate della Guinea (mentre era il primo paese esportatore di questa frutta ai tempi delle colonie). 
In più, il suolo guineano è talmente ricco di minerali da essere definito uno «scandalo geologico» (secondo produttore di bauxite al mondo, vi si trovano anche oro, diamanti, ferro, ecc.). Ma anche queste risorse sono poco e male sfruttate (gran parte dei guadagni non restano in Guinea o finiscono nelle mani dei pochi).

la voce dei movimenti

In questo quadro fosco, i due principali sindacati dei lavoratori (l’Unione sindacale dei lavoratori di Guinea, Ustg e la Confederazione nazionale dei lavoratori di Guinea, Cntg) insieme al Collettivo nazionale delle organizzazioni della società civile (Cnosc), si sono fatti portavoce del malessere della popolazione.
Negli ultimi tre, quattro anni, la società civile guineana ha cominciato a organizzarsi in maniera più strutturata in tutto il paese. Si parla di movimento associativo di «seconda generazione», poiché in Guinea sino al 1984 (cioè alla fine del regime «socialistico-autoritario» di Sekou Touré) l’associazionismo non esisteva, tranne nelle forme organizzate dallo stato.
Questo fenomeno appare oggi molto giovane, ma dinamico e sostenuto anche da numerosi partners allo sviluppo.
Il Cnosc è nato nel febbraio 2002 con l’obiettivo di essere la struttura nazionale che potesse raggruppare tutti gli attori della società civile. Oggi si può dire che questo obiettivo sia stato in gran parte raggiunto e lo dimostra la forte adesione alle diverse fasi dello sciopero (tra fine 2006 e inizio 2007) indetto da loro e dai due principali sindacati.
L’adesione allo sciopero è stata infatti da subito massiccia: circolazione dei mezzi di trasporto pubblici quasi assente, rifoimento di benzina e gasolio nullo, banche e servizi chiusi, porte dei principali negozi sbarrate.
Nell’ultima fase della protesta le richieste del movimento popolare non erano più unicamente economiche, ma anche politiche tra cui la nomina di un «governo di unità nazionale» formato da tecnici esperti che potesse portare il paese fuori dalla crisi e una riduzione del costo della benzina e del sacco di riso.

cambio o non cambio?

Per svariate settimane (tra gennaio e febbraio 2007) in tutto il Paese si sono registrate manifestazioni popolari guidate dai sindacati e dal Collettivo della società civile che chiedevano «le changement et le départ» (il cambiamento e la partenza) del presidente Lansana Conté, al potere da 23 anni. Manifestazioni spesso represse violentemente da parte della polizia e della guardia presidenziale, provocando centinaia di morti e feriti. Il tutto nel silenzio pressoché totale della comunità internazionale.
La popolazione indignata e ferita, ha vissuto questo calvario con sentimenti di frustrazione, ingiustizia e  rivolta. Le numerose vittime vengono martirizzate e i giovani continuavano a dirsi pronti a morire per il proprio paese.
Quando a inizio febbraio il presidente Conté accettò la richiesta dei sindacati di cedere parte del suo potere ad un primo ministro di largo consenso, la crisi sembrava essersi risolta.
Dopo alcune settimane di attesa, il presidente tenta un colpo di mano. Il 9 febbraio nomina alla primatura Eugene Camara, suo fedele alleato e da tempo al suo fianco anche nei precedenti governi già contestati.
È subito indignazione. I giovani invadono le strade in quasi tutto il paese per manifestare il loro sdegno: pneumatici bruciati, negozi razziati, creazione di barricate per impedire l’ingresso e l’uscita ai veicoli.
Gli edifici pubblici sono stati saccheggiati e completamente distrutti e molti prefetti e governatori sono stati costretti alla fuga.

scontro generazionale

Atti di violenza unica, senza il minimo controllo sociale, in cui anche i sindacati e la società civile hanno perso il controllo della situazione.
I giovani agivano irrazionalmente, spinti da un’incontrollabile voglia di distruggere qualsiasi simbolo del governo, cercando di ricavare anche un minimo beneficio dalla situazione.
Inutile il difficile compito degli anziani (i saggi) e dei capi religiosi che cercavano di dialogare con i rivoltosi, nel tentativo di far capire loro che ciò che stavano distruggendo erano dei propri beni.
El Hadji Barry, segretario della lega islamica di Mamou (città dell’interno), ci ha detto:  «Ho vissuto giorni veramente difficili, vedevo i miei “figli” distruggere quel poco che abbiamo e nonostante le innumerevoli ore passate in moschea nella speranza di dissuaderli, loro continuavano. La sera ci avevano promesso di non attaccare l’edificio del comune e il mattino seguente tutto era distrutto. Ci dicevano che noi non li capiamo, che anche noi siamo stati corrotti dal governo». «Siamo stati di fronte ad una profonda crisi politica e sociale», continua El Hadji «non c’era né religione, né ragione che tenesse. Questo che abbiamo vissuto è anche uno scontro generazionale, i giovani vogliono un cambiamento totale poiché nel quadro attuale non vedono alcuna possibilità d’inserimento per loro nella gestione dello stato e del suo futuro».
Dopo questi avvenimenti i diversi attori hanno cercato di riprendere in mano la situazione, ognuno con le proprie modalità. Il governo è intervenuto nuovamente con le armi e poi con la dichiarazione dello «stato d’assedio» (12 febbraio) per i successivi dodici giorni, periodo in cui il pieno potere era passato nelle mani dei militari al fine di riportare l’ordine e la tranquillità nel paese.
Durante questo periodo sono stati registrati saccheggi e violenze a opera delle forze armate, che avendo piena autorità ne approfittavano per «vendicarsi» della sommossa popolare, con il bene placito dei loro superiori (tutti entourage del presidente Conté).
Questa situazione di grande instabilità con un grave rischio di guerra civile ha portato la comunità Internazionale a reagire attraverso alcune missioni della Cedeao (Comunità economica dei paesi dell’Africa occidentale) per fare pressioni sul  regime di Lansana Conté.
Sindacati, società civile, autorità religiose  e rappresentanti del governo si sono più volte incontrati, finché questa complessa fase di negoziazione ha portato il presidente  a cedere alla volontà popolare.

L’uomo della soluzione?

Il primo marzo Lansana Kouyaté, un tecnico di grande esperienza internazionale proposto dagli attori della società civile, ha preso ufficialmente funzione a Conakry come primo ministro.
Kouyaté ha ricoperto cariche diplomatiche di alto livello: da ambasciatore in Egitto a rappresentante della Guinea all’Onu, e poi sotto segretario generale delle Nazioni Unite per l’Africa, l’Asia dell’ovest e il Medio Oriente dal ‘94 e segretario esecutivo della Cedeao dal ‘97 (posto questo che gli ha permesso di tessere legami con tutti i capi di stato della regione).
Dal 2003 era rappresentante dell’Organizzazione della Francofonia nella mediazione della crisi in Costa d’Avorio.
A un mese dalla sua nomina, il primo ministro ha formato un governo di largo consenso in un clima di gioia manifestata da tutta la popolazione.
Ecco uno stralcio del suo discorso introduttivo alla nazione: «Cari compatrioti, io prometto di consacrare tutte le mie energie e la mia piena volontà al fine di rimettere la Guinea in piedi, in un clima di pace dopo un’esplosione sociale senza precedenti (… ) che il sangue versato durante i giorni di crisi serva come seme per la nostra speranza e la nostra giustizia…».
La nuova équipe governativa si è messa subito all’opera cercando di dare all’opinione pubblica dei segnali di cambiamento. Queste azioni vanno dalle piccole cose, come quella di un maggior controllo sull’utilizzo dei beni dei ministeri (ad esempio le auto che precedentemente erano utilizzate a scopi privati) a degli impegni di grande spessore di politica economica.
Tra questi sono da sottolineare il blocco dato alle esportazioni di prodotti agricoli (tra cui il riso, alimento principale per i guineani) con lo scopo di fae abbassare il prezzo sul mercato nazionale e la volontà di rivedere tutte le concessioni date alle imprese multinazionali per sfruttare le risorse minerarie guineane.
Oggi si possono già constatare piccoli cambiamenti, soprattutto la diminuzione dei prezzi dei beni di prima necessità.
La Guinea sta vivendo un momento «storico», nel quale la volontà di cambiamento della popolazione ha potuto prevalere sul presidente e sul suo clan, seppur pagandolo con il sangue di centinaia di vittime. 

Di Fabio Ricci e Monica del Sarto

Geppetto di Guinea

Non avevo mai pensato che un giorno sarei arrivato in Africa. Quando dopo sei mesi di anno sabbatico nella comunità cattolica San Giovanni vicino a Vienna, il priore mi ha fatto la proposta di andare in Guinea, dovevo cercare sulla carta geografica questo paese a me sconosciuto. La comunità San Giovanni è stata fondata in Francia negli anni Settanta dal domenicano Dominique Philippe, docente di filosofia a Fribourg in Svizzera, e un gruppo di suoi allievi.
La nuova congregazione è cresciuta velocemente e nel 1993 è stata chiamata da monsignor Robert Sarah, in quei tempi arcivescovo di Conakry, per aprire un’attività missionaria in Guinea. Alcuni anni fa monsignor Sarah si è trasferito in Vaticano, alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Robert Sarah continua a essere una personalità molto stimata e rispettata in Guinea, anche da parte dei musulmani, per il suo coraggio e la sua voce incorruttibile nel denunciare le ingiustizie nel paese.
La chiesa cattolica della Guinea è da tempo quasi completamente africanizzata e il numero di  sacerdoti stranieri nel paese è molto ridotto. La chiesa cattolica in generale è molto rispettata da tutti  e la convivenza con l’islam è buona. La comunità San Giovanni in Guinea ha aperto una missione vicino a Coyah, una piccola città a 60 km di distanza dalla capitale Conakry. È stata chiamata Mariamayah, che in lingua sussu, l’etnia locale, significa «là dove abita Maria».  Avevano bisogno di un falegname e quindi ho accettato la proposta del priore in Austria. L’ho accolta nella fede, non senza timori, come una chiamata del Signore, con spirito di curiosità e voglia di vivere un’avventura.

Arrivai in Guinea da solo alla fine del mese di novembre 1998. Conakry era tutta nascosta nel buio della notte appena cominciata. Ma il primo impatto rimane indimenticabile: l’umidità dell’aria calda e piena di profumi e odori mai sentiti e l’attività caotica nel piccolo aeroporto. C’era John Jesus, un frate irlandese, ad accogliermi. Questo frate meraviglioso, molto amato dalla popolazione per la sua giorniosa semplicità e umiltà, sarebbe poi diventato il mio punto di riferimento, nei primi sei mesi, prima del suo trasferimento nel Camerun.
I primi mesi furono difficili, anche perché non sapevo ancora parlare bene il francese. Mi diedero subito la responsabilità della falegnameria, che faceva parte di una società di costruzioni gestita dai frati. Tutti gli edifici della missione – chiesa, i conventi – erano stati costruiti con l’aiuto di artigiani locali. Alla fine dei lavori i frati avevano deciso di creare una ditta per garantire a questi artigiani un lavoro, ma anche fornire formazione artigianale ai giovani. All’inizio dovetti gestire otto persone, numero che crebbe fino a 25 artigiani.
La Guinea è in grande maggioranza musulmana e i cristiani si trovano soprattutto nella zona forestale nel sud del paese. I falegnami erano quasi tutti di fede musulmana. Il rapporto con loro fu uno dei modi migliori per conoscere le difficoltà della gente. Una volta conquistata la loro fiducia, venivano spesso da me per chiedere aiuto, per esempio piccoli prestiti  per comprare farmaci in una situazione di emergenza familiare o solo per  arrivare a fine mese. Una scuola di ascolto, certo, ma dovetti anche imparare a dire «no».

Il lavoro in falegnameria ogni giorno era una sfida. Di fronte alla continua mancanza di attrezzi o ai guasti dei macchinari era spesso necessario improvvisare o avere pazienza, talvolta perché il lavoro andava a rilento oppure non si riusciva a far nulla.
Un concetto importante da capire è che in generale, per l’africano il lavoro è sempre secondario agli impegni familiari, anche nell’ambito della famiglia allargata.
Alla comunità San Giovanni sono state affidate anche due parrocchie, Coyah e Forecariah. La vita parrocchiale era una buona occasione per creare contatti con la gente e amicizie con altri giovani. Prendevo l’abitudine di fare regolarmente visita a diverse famiglie, godendo della loro calorosa accoglienza e gentilezza. Dopo un anno e mezzo di presenza in Guinea queste amicizie facevano parte delle esperienze più preziose che ho portato con me al momento del ritorno in Italia.

Particolarmente importante sarebbe stata l’amicizia con Odilon, il mio assistente falegname, un uomo di più di quarant’anni con moglie e figli. Era cristiano, di etnia guerzé e originario della Guinea forestale. È stato nell’occasione del viaggio con lui nel suo villaggio natale Gouécké, vicino a Nzérékoré, che ho conosciuto l’orfanotrofio St. Kisito. Qui vengono accolti bimbi che hanno perso la madre durante il parto.
Nella mentalità della popolazione della zona questi bambini sono maledetti e quindi abbandonati. In generale nella famiglia allargata africana gli orfani sono sempre accolti da un parente, ma in questo caso la paura è troppo grande. Dopo il mio ritorno in Alto Adige le suore africane, che gestiscono l’orfanotrofio, in un momento di emergenza (diffusione di malattie mortali) si sono rivolte a me per chiedere aiuto. È così che ho organizzato una piccola rete di donatori per appoggiare St. Kisito, in particolare nella prevenzione sanitaria.
Sono tornato nel 2002 e poi nel 2006 per fare visita all’orfanotrofio. La cosa più bella del viaggio era l’essere tra amici dal primo fino all’ultimo momento. Già all’aeroporto mi ha accolto un’amica che subito mi ha fatto riposare in una stanzetta riservata, grazie a sue conoscenze nella guardia doganale.

Il viaggio da Conakry a Gouécké dura normalmente circa 22 ore in taxi brousse, ma l’ultima volta ne abbiamo impiegate 30. La ragione fu un guasto al motore dopo dieci ore di viaggio. Per fortuna il guasto si è verificato in una città, quindi anche alle dieci di sera è stato possibile trovare un meccanico. Il resto fa parte delle esperienze incredibili, che ti lasciano stupefatto per la capacità di improvvisare e di arrangiarsi con i mezzi più semplici: un bastone di legno, appena sufficientemente solido, e una corda per smontare il motore dalla macchina, una decina di attrezzi di base per ripararlo, sotto l’illuminazione debole di una torcia scadente, e rimontarlo, infine, alle cinque di mattina! 
A Nzérékoré assieme a suor Cathérine Thea, la responsabile dell’orfanotrofio, ho fatto una visita al vescovo monsignor Vincent Kouroumah. Mi ha spiegato la situazione delicata degli orfani. È difficile integrarli nella famiglia di provenienza o anche trovare famiglie coraggiose per accoglierli. Il vescovo è riuscito a far nascere un’attività di accoglienza di questi bambini.

Ogni viaggio in Guinea e l’incontro con gli amici mi fa partecipare alle sofferenze di un paese totalmente assente dai nostri media. Da anni l’inflazione crescente continua a schiacciare la popolazione in modo pesante. Ad esempio il prezzo del riso, alimento base, è aumentato enormemente. Le infrastrutture stradali continuano ad essere scadenti e il costo del trasporto influisce  sull’attività economica, anche per il prezzo del carburante.
La Guinea è circondata da paesi che negli ultimi anni hanno vissuto crisi violente e guerre civili terribili: Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau. La Guinea ha generosamente accolto numerosi rifugiati da questi paesi, dove spesso vivono le stesse etnie.
La popolazione della Guinea ha accettato per anni, con pazienza e un certo fatalismo, il governo forte e autoritario di Lansana Conté, arrivato al potere nel 1984 e tuttora in carica. «Poveri, ma almeno  in pace», era ed è un pensiero comune.
Solo recentemente, di fronte al continuo peggioramento della situazione economica e la vecchiaia del presidente, attraverso ripetuti scioperi generali il popolo ha cominciato a rivendicare dei cambiamenti. Nel paese vivono più di trenta diversi gruppi etnici, (alcuni maggioritari, vedi scheda), ma spero nel sentimento di unità e orgoglio nazionale, che i guineani hanno fatto loro dopo il radicale distacco dalla Francia, con il governo autoritario di Sekou Touré. Regime segnato da oppressione e terrore, ma che ha esaltato e valorizzato la tradizione e la cultura africana.
Non so quanto io abbia potuto aiutare durante il mio soggiorno in Guinea, ma so che per me questa esperienza è stata un grande privilegio e una tappa fondamentale per la mia crescita personale, professionale e spirituale. Infatti, ho poi deciso di riprendere gli studi e mi sto laureando in Studi europei e inteazionali con l’obiettivo di lavorare nella cooperazione allo sviluppo.

di Andreas Lochmann

Come ti riconverto il debito

Dal settembre 2005 un consorzio di due Ong Italiane (Lvia e Cisv) ha accettato la sfida di contribuire attivamente allo sviluppo di una vera partecipazione della società civile guineana al processo di lotta contro la povertà. Questa presenza è stata avviata in appoggio all’azione del Foguired (Fondo Guineo-Italiano per la riconversione del debito).
L’azione del Foguired nasce dalla «Campagna per la riduzione del debito estero dei paesi più poveri» (promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 2000, anno giubilare) e dalla firma, avvenuta nell’aprile 2003, di un accordo bilaterale tra governo italiano e governo guineano.
Le due Ong avevano già attivamente collaborato alla campagna di sensibilizzazione in Italia sul problema del debito, promossa dalla chiesa italiana, in occasione del Giubileo del 2000.
Dopo una missione congiunta Cisv, Lvia, Foguired realizzata nell’aprile 2005, le due Ong hanno elaborato un progetto di appoggio alla società civile nell’ambito del fondo per la riconversione del debito.

Per l’azione del Foguired sono state individuate, le cinque prefetture «più povere» della Guinea come zone privilegiate. In queste zone si è puntato ad appoggiare le popolazioni direttamente alla base, mediante la promozione di opportunità di accesso ai finanziamenti per un ampio ventaglio di organizzazioni della società civile, anche quelle poco strutturate, soprattutto organizzazioni contadine. Questa strategia ha portato al finanziamento di quasi 600 microprogetti.
Uno dei bisogni primari di queste piccole associazioni, che hanno ricevuto il finanziamento è quella di un accompagnamento per realizzare il proprio progetto e garantie la sostenibilità, garanzia di prosecuzione nel tempo dell’azione di lotta alla povertà.
Per svolgere questo ruolo di accompagnamento e monitoraggio delle azioni, il Foguired, (sempre nell’ottica di appoggio alle realtà della società civile guineana), ha scelto tre «giovani» Ong locali originarie delle zone d’intervento.
Questa scelta ha messo in luce il bisogno di appoggio e formazione delle Ong locali.
È in questo quadro che si è inserita l’azione del consorzio Cisv-Lvia. Azione che ha avuto come obiettivo quello di rafforzare, con percorsi di formazione, e accompagnare le tre strutture incaricate di monitorare i progetti gestiti dalle associazioni di base, affinché questi diventino delle esperienze forti e durature di sviluppo locale.

Il progetto ha previsto la creazione di strumenti per il monitoraggio (schede e rapporti), ma anche l’organizzazione di occasioni di incontro e confronto nelle prefetture, sulle tematiche importanti per la popolazione che beneficia dei progetti Foguired (come si gestisce un progetto, incontri «filiera», cioè tra tutti i gruppi di produttori con problematiche simili, l’analisi partecipativa del territorio e delle priorità necessarie per il suo sviluppo).
Inoltre, l’azione del consorzio formato dalle due Ong italiane ha permesso di promuovere la creazione di reti tra gruppi che si occupano dello stesso settore, con particolare attenzione alle associazioni di agricoltori e allevatori. Di grande importanza, nella realizzazione di questo progetto, è stato, anche l’avvio di una fruttuosa collaborazione con la Cnop-g (Confederazione nazionale delle organizzazioni contadine di Guinea), la più importante organizzazione di agricoltori del paese.
L’obiettivo finale è stato quello di stimolare delle dinamiche «virtuose» nelle quali gli attori della società civile possano, a partire dall’aiuto ricevuto grazie alla conversione del debito estero, prendere in mano il difficile cammino della lotta alla povertà.
L’esperienza del progetto Foguired è stata molto positiva per le Ong italiane. Essa ha permesso di avviare un percorso di collaborazione con alcuni attori della società civile guineana, con i quali sono stati sviluppati nuovi progetti.

Fabio Ricci e Monica del Sarto
www.cisvto.org
www.lvia.it

Fabio Ricci e Monica del Sarto




Cari missionari

Diamanti sporchi

Spett.le Redazione,
innanzitutto complimenti per l’ottima rivista, siete davvero un faro in mezzo alla tempesta! Leggervi mi fa sempre venire voglia di «combattere»!
Vorrei segnalarvi questo: su «Venti4uattro», rivista in allegato al Sole 24 Ore di sabato 14 aprile, era riportato un articolo nel quale una nota società, che opera nel commercio e nella lavorazione dei diamanti, veniva elogiata dai giornalisti in quanto, grazie al suo operato, la regione in cui sorge la miniera prospera, le donne trovano lavoro, vengono costruite scuole, gli animali sono protetti, ecc., ecc…
Onestamente la cosa mi suona un po’ come retorica propagandista, forse in contrapposizione ai recenti scandali che il trattato di Kimberley ha tentato di arginare. Vi allego pertanto copia dell’articolo suddetto, per sottoporlo alla vostra competenza che senz’altro è ben più meritoria della mia! Se lo riterrete opportuno, potreste inserire un piccolo dibattito nella rivista…!
Cordiali saluti e… continuate così!
Carlo Occhiena
Genova

La joint venture tra Botswana, dove si trova la miniera citata, e De Beers, la compagnia che vi sfrutta tre miniere diamantifere, viene presentata come modello di cooperazione per lo sviluppo del paese. Speriamo che sia così. Nel passato, però, la suddetta compagnia ha fatto affari con i «diamanti insanguinati», sfruttando e alimentando la guerra in vari paesi africani (Angola, Congo-Zaire, Sierra Leone…). Che «il Kimberley Process abbia azzerato la circolazione dei cosiddetti blood diamonds», come afferma il giornalista, è da dimostrare. Se ne può discutere.

Diamanti… veri

Gentile Direttore,
da quando ho capito che quello di cui ci chiederà conto il Signore sarà cosa avremo fatto per il prossimo sofferente, il mio impegno è rivolto soprattutto verso i missionari, vera punta di diamante della chiesa, che testimoniano il Signore con la parola e con l’esempio. Devo dire che il suo periodico è fra i migliori, se non il migliore, di quelli missionari per la ricchezza di argomenti, la chiarezza e indipendenza nella denuncia dei misfatti e ingiustizie contro i poveri nel mondo.
Mi sorprende molto il fatto che qualche volta ci siano lettori che, solo perché un articolo denuncia la sopraffazione dei potenti e dei ricchi sulla povera gente, tacciano l’autore come comunista, cattocomunista, prete compagno, ecc.
Mi chiedo: «Ma non sono i cristiani quelli che si devono occupare e combattere per primi per la giustizia sociale di aiutare i bisognosi?».
Caro direttore, vada avanti tranquillo, Missioni Consolata dà forza ai coraggiosi e scuote le coscienze degli indifferenti.
Buon lavoro. Con stima.
Dante Bersetti
Montemarciano (AN)

Grazie per la stima e incoraggiamenti! Andremo avanti come sempre, senza guardare né a «destra» né a «sinistra».

Legge sull’amianto

Gentile Redazione,
ho letto e apprezzato l’articolo del dott. Roberto Topino e della dott.sa Rosanna Novara nel numero di Maggio 2007 dal titolo: «Quelle infide fibre d’amianto». Nell’articolo, a proposito delle coperture in eternit, è scritto che,    «…. quando i danni del materiale sono evidenti, la legge prevede la bonifica e la sostituzione delle coperture…». Sapreste indicarmi nello specifico quale legge?
Colgo l’occasione per fare i miei complimenti a tutta la redazione e augurarvi un buon proseguimento di lavoro.
Giuseppe D’Amico
Via e-mail

Risponde il dott. Topino: «Si tratta del Decreto ministeriale 06/09/1994. Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, e dell’art. 12, comma 2, della legge 27 marzo 1992, n. 257, relativa alla cessazione dell’impiego dell’amianto. La legge è molto dettagliata e precisa, purtroppo raramente viene applicata in modo corretto». L’intero testo del «Decreto ministeriale del 06/09/1994» è reperibile su internet.

Uno solo è il maestro

Cari missionari,
anche se non ne hanno bisogno, desidero ugualmente esprimere al dott. Topino e alla dott.sa Novara il mio apprezzamento per il loro dossier «Tira proprio una brutta aria» (M.C. n.2/2007) e la mia solidarietà, dopo le aspre critiche, dall’avvocato di Palermo (cf. M.C. n.4/2007 p.7).
A mio modo di vedere, il chiamarsi Veronesi, Rossi, Bianchi o Topino non dice nulla sul valore di un professionista della sanità e sulla capacità di contribuire al miglioramento delle condizioni di vita di un individuo, di una città, di una nazione. A fare la differenza non sono i cognomi, numero di libri e articoli pubblicati e, men che meno, quello delle apparizioni televisive, ma le azioni sul campo, i comportamenti quotidiani, la fedeltà al codice deontologico e agli impegni che si sono presi davanti a Dio e alla collettività.
In particolare, chi è medico dovrebbe cercare di mantenersi il più possibile fedele al Giuramento di Ippocrate e, di conseguenza, anche a quel passo che dice: «A chiunque mi chiederà un veleno glielo rifiuterò, come pure mi guarderò dal consigliarglielo. Non darò a nessuna donna dei farmaci antifecondativi o abortivi».
Ora, se il Veronesi a cui fa riferimento l’avv. Cuccia è il professor Umberto Veronesi, luminare di fama internazionale, non mi pare che, almeno per ciò che riguarda aborto e contraccezione, la sua fedeltà al Giuramento di Ippocrate sia il non plus ultra. Al contrario, innumerevoli sono state le volte che è intervenuto per esprimere la sua posizione favorevole all’interruzione volontaria della gravidanza, all’uso delle pillole abortive (come la devastante RU 486, prodotta, guarda caso, da quella stessa Roussel Uclaf che, durante la II Guerra mondiale, metteva a disposizione dei nazisti le sostanze tossiche da impiegare nelle camere a gas, che causarono la morte di centinaia di migliaia di innocenti…), favorevole alla sperimentazione con cellule staminali ricavate da embrioni umani appositamente uccisi.
Ora, se c’è la libertà, per chi porta cognomi così altisonanti, di esprimere queste convinzioni, immagino ci sia anche quella di dire che per un cattolico che vuol restare fedele a Cristo, al vangelo, alla legge naturale e al magistero della chiesa, un uomo come il pur rispettabilissimo prof. Veronesi non può costituire un punto di riferimento affidabile.
Quindi, se il prof. Veronesi non possiamo considerarlo un buon maestro per ciò che riguarda la tutela della vita nascente, se non ci piacciono le sue posizioni in materia di eutanasia, perché dovremmo considerarlo infallibile quando si pronuncia su altri temi, quali le polveri sottili e i cambiamenti climatici?
Per me, Veronesi (potrei dire anche Zichichi, Dulbecco, Levi Montalcini, Rubbia) è una persona come tante altre, che ora dice cose giuste, ora meno giuste. È allo Spirito Santo che dobbiamo affidarci per esercitare la difficile, ma irrinunciabile, arte del discernimento. Solo lo Spirito Santo può condurci alla verità tutta intera.
Domenico Di Roberto Ancona

Diciamo no … ai nuovi Claudio e nuovi Torlonia

Dopo aver letto le affermazioni dell’avvocato palermitano sugli anandroecologisti che, secondo lui, «se ci fossero stati al tempo dei romani non avremmo il Colosseo e l’acquedotto», desidero fare alcuni rilievi.
1° Gli ecologisti non hanno mai avuto nulla in contrario agli acquedotti; anzi, sono in prima linea nel denunciare le carenze delle reti idriche (abbiamo acquedotti che perdono fino al 70% dell’acqua) e nel chiedere che i fondi per le grandi opere pubbliche vengano innanzitutto impiegati per garantire un’efficiente distribuzione dell’acqua potabile.
2° Se è vero che gli acquedotti costruiti dai romani godono dell’ammirazione universale, è altrettanto vero che non tutte le opere idrauliche da essi realizzate furono cose buone e giuste. Mi riferisco ad esempio agli sciagurati interventi sul Fucino, le cui disgrazie, come ci racconta Tacito nei suoi Annales, iniziarono proprio sotto gli imperatori romani, in particolare sotto Claudio. Il disastro fu poi completato nella seconda metà del xix secolo dal banchiere Alessandro Torlonia.
Per molto tempo si è creduto che il prosciugamento del Fucino (per estensione era il terzo lago italiano) fosse una cosa oltremodo necessaria; ricordo benissimo gli anni in cui i testi scolastici tessevano le lodi del principe Torlonia e degli uomini che lavorarono per trasformare la grande conca in una zona agricola di pregio, dopo averla liberata dalle zanzare, dalla malaria, ecc… Poi, uno studio più attento degli scrittori classici e l’evoluzione di una coscienza civile, meno succube dei miti del passato, hanno aiutato a capire che gli interventi sul Fucino furono un gravissimo errore, perché costarono la perdita di un patrimonio idrico, biologico e naturalistico di incalcolabile valore. Tra l’altro, è falso che le acque del povero lago fossero sozze e malsane. Virgilio, per esempio, parla di «vitrea unda» (onda cristallina) del Fucino (Eneide vii,759) e i curatori del Dizionario enciclopedico italiano assicurano che, prima di essere strapazzato dagli uomini, il Fucino «non era affatto un lago malarico». Esondazioni, febbri e altri problemi legati alla presenza del Lago Fucino erano solo conseguenza degli abusi patiti dal territorio nel corso dei secoli.
3° Il Colosseo non è solo una grande opera architettonica di indiscutibile originalità. È anche il luogo dove migliaia di persone venivano barbaramente uccise o fatte uccidere dalle belve (che a loro volta morivano tra atroci sofferenze per soddisfare gli insaziabili capricci dei potenti di Roma), perché si rifiutavano di tributare agli imperatori quell’adorazione che credevano di dover riservare solo al Dio di Gesù Cristo. Se il loro martirio ci ha insegnato qualcosa, cerchiamo anche noi di dare sempre a Dio quel che è di Dio, negando ai modei Cesari quel che non è e non potrà mai essere dei Cesari. E, quando vediamo l’immagine del Colosseo impressa sul retro della monetina da 0.05 euro, ricordiamoci che si tratta pur sempre di opere di uomo e che Dio sa fare di meglio, di molto meglio.

P ensiamo a tutte le stragi inutili di uomini e animali che provochiamo in nome delle grandi opere pubbliche, dello sviluppo, della ricerca scientifica, ma anche in nome della sicurezza, lotta al terrorismo e difesa della nostra civiltà.
Ristabiliamo rapporti corretti con il mondo naturale e con i nostri simili, vicini e lontani. Diciamo NO ai nuovi Claudio e nuovi Torlonia, che pretendono di trattare laghi, fiumi, montagne, foreste, abissi oceanici, spazi aerei… come se fossero loro proprietà privata.
Francesco Rondina
Fano (PU)




Latitud Barrilete

Viaggiando in America Latina

È possibile descrivere l’America Latina partendo dalla quotidianità della gente?
Sì, è possibile, come dimostra l’esperienza di Martin Flores e Ana Sofia Quintana.

Nell’immaginario di ciascuno di noi ci sono luoghi pericolosi e dunque poco indicati per essere visitati o esplorati. Proprio da quest’immaginario nasce la paura per le strade e i sentirneri dell’America Latina. Per confutare tale visione, ho parlato con Martin Flores e Ana Sofia Quintana, due viaggiatori che, partendo da una proposta di giornalismo alternativo chiamato «Latitud Barrilete», ci regalano una visione meno stereotipata del continente latinoamericano.
Parlando con loro, prima di ogni altra cosa cerco di sapere in cosa consiste il loro progetto e quando è nata l’idea. Risponde Martin: «Latitud Barrilete è, prima di tutto, il desiderio di avvicinarsi alla gente che fa la storia, giorno dopo giorno. In pratica, vuole essere un progetto di giornalismo poetico-documentale senza fini di lucro, che si propone di testimoniare le problematiche esistenti nella nostra America Latina e soprattutto i modi in cui esse sono affrontate dalla gente. Noi cerchiamo di fare un lavoro sul campo. Ci avviciniamo ai barrios e alle comunità e cerchiamo di convivere con le persone, in modo da poter capire la loro realtà e quotidianità. Il progetto nasce durante un lungo viaggio attraverso la Patagonia effettuato tra il 2005 e il 2006, quando ci proponemmo di diffondere nei grandi centri urbani le realtà che non diventano notizia. Ci ha profondamente coinvolti essere testimoni di avvenimenti che, per una ragione o per l’altra, il sistema nasconde o falsifica. Anche se avevamo sulle spalle già 10 anni di viaggi per l’America Latina, sempre confrontandoci con la storia e con la gente, fu là nel Sud che cominciò a prendere forma quello che più tardi chiamammo Latitud Barrilete».
Ascoltando Martin e Ana Sofia mi coglie una sorta di «invidia», soprattutto venendo a conoscere i territori che i due viaggiatori hanno percorso (magari gli stessi che, per paura, io non sperimentai quando ancora vivevo in Colombia). Continua Martin: «I nostri viaggi sono stati come onde che crescono e poi si rompono, ogni volta più grandi, ogni volta più lontane. Ogni volta cercando di raggiungere una visione propria e di conoscere i protagonisti dei fatti che non diventano notizia per un sistema che produce soltanto solitudine e paura».
Martin e Ana Sofia hanno viaggiato attraverso il Cono Sud (Argentina, Cile, Uruguay) e la regione andina (Bolivia, Perù, Ecuador), ma si sono spinti anche in Colombia, Venezuela e Brasile. Hanno viaggiato senza programmare una via precisa. Sono andati e tornati varie volte, ma sempre avendo Buenos Aires come base che permette a loro di lavorare, studiare, diffondere ciò che fanno.

Come ognuno di noi, anche Martin e Ana Sofia hanno una loro idea sulla propria terra d’origine, un’idea molto bella: «L’America Latina rappresenta uno scenario unico nel mondo, poiché qui si sono sviluppati processi storici che non si sono visti in altri angoli del pianeta. Per lo scontro tanto drastico tra due culture che non si conoscevano; per il processo di meticciamento tra indigeni, africani ed europei, che ha prodotto una realtà vasta e profonda. Senza dimenticare la sua quotidianità donchisciottesca, la forza unica della sua cultura, la sua natura esuberante; e, dall’altro lato, le sue musiche, i suoi balli e i suoi colori, che fanno di questa terra una metafora collettiva, sempre cangiante, rinnovata e feconda».
A questo punto, non posso non chiedere a Martin e Ana Sofia cosa pensano dei fenomeni sociali latinoamericani dei quali siamo stati testimoni in questi anni: «L’America non si rassegna a quella visione tradizionale che le hanno attribuito, quella cioè di continente satellite dei grandi centri mondiali. Non siamo stati sconfitti, né siamo un continente povero. Se finora non abbiamo ottenuto ciò che cercavamo non è perché siamo rassegnati, ma perché ci siamo persi lungo la strada. Tuttavia, se c’è una qualità che ci distingue come latinoamericani, è la nostra volontà di cominciare di nuovo».
«Davanti alle continue convulsioni sociali e alla resistenza della gente, i nuovi governi adattano le loro strategie apparentemente per generare aspettative di cambiamento, ma in realtà perché tutto rimanga eguale: il saccheggio delle risorse, la disoccupazione, la distruzione dell’istruzione (pubblica), con il conseguente risultato della povertà e della marginalità. In ogni caso, è confortante vedere come la gente risponde a questa ripetizione di un modello oramai esaurito. L’organizzazione autonoma, orizzontale e partecipativa cresce nei barrios e nelle comunità, perché una parte sempre maggiore della popolazione non crede nella capacità della politica tradizionale di trasformare la realtà».

A chiusura del nostro incontro, Martin e Ana Sofia mi confermano con felicità che, dopo aver viaggiato per tanto tempo, hanno avuto la conferma che la gente più amabile è quella più umile. «È una costante – spiegano -: la solidarietà si trova maggiormente tra le persone che possiedono meno. È molto comune che qualcuno ti ceda il proprio letto o ti chieda di dividere con lei l’unico pezzo di pane che ha». 

Di Maria Helena Granada

Maria Helena Granada




Nella prigione del dollaro

El Salvador

Nei paesi in via di sviluppo, dollaro è quasi sempre sinonimo di ricchezza. Ma ci sono situazioni in cui la realtà è opposta, come nel caso della cosiddetta «dollarizzazione»…

A San Salvador, capitale del paese centroamericano,   tutte le mattine il centrocittà viene invaso da una marea di ambulanti, che occupano le strade tra povertà, cantilene e commerci, più o meno legali. Mentre il macellaio squarta la carne ai piedi della chiesa in stile coloniale, nella strada di fronte, accanto alla succursale della banca nazionale, s’improvvisa un ristorante all’aperto di piatti tipici, largo quanto il marciapiede. Il centro storico e questo mercato improvvisato sono diventati un tutt’uno, immersi in una moltitudine ondeggiante, che si muove come al ritmo d’un vecchio bolero popolare salvadoregno.
In Salvador, la dollarizzazione dell’economia è arrivata il 1o gennaio 2001, accompagnata da varie promesse, come l’aumento degli investimenti stranieri e delle esportazioni di prodotti nazionali. Da allora invece sono aumentati soltanto il costo della vita e la disoccupazione, con sullo sfondo un paesaggio sociale che si deteriora giorno dopo giorno. La mancanza di lavoro si è tradotta in un aumento del settore informale, che evidenzia la incongruenza tra la dollarizzazione e il Dna di un paese povero come El Salvador. Come risposta ai problemi economici, il governo di Elías Antonio Saca ha approvato il tanto discusso «articolo 15» che penalizza la vendita informale. A metà maggio, i 17.000 ambulanti della capitale hanno realizzato manifestazioni di protesta, chiedendo l’abrogazione della legge e la liberazione di Vicente Ramirez (dirigente dell’«Associazione dei lavoratori, venditori e piccoli commercianti salvadoregni», accusato di atti terroristici) sotto lo slogan «Siamo venditori, non terroristi».
In un paese come questo, la dollarizzazione ha significato non soltanto la moltiplicazione della povertà, ma anche l’impossibilità di svalutare la valuta nazionale. Pertanto, l’unico modo per accrescere la competitività del paese a livello internazionale (cioè per aumentare le esportazioni) è quello della «deflazione» (ridurre i prezzi delle merci). Per diminuire i prezzi delle merci occorre però precarizzare ancora di più le condizioni dei lavoratori, dando sempre più potere alle maquilas del settore tessile e alle multinazionali della frutta, che non pagano neppure il salario minimo. Nella situazione attuale, con le importazioni che superano le esportazioni, il mercato nazionale è letteralmente invaso da prodotti importati, specialmente nordamericani, dalle scarpe fino ai prodotti cerealicoli a basso prezzo (perché sovvenzionati) e geneticamente modificati. Questa invasione ha spazzato via l’autosufficienza alimentare: i contadini salvadoregni non producono più per il mercato interno, perché i cereali importati costano meno; questa situazione spinge i contadini ad abbandonare le campagne (dove ormai si concentra il 97% della povertà). D’altra parte, migliaia di artigiani e di piccoli produttori del settore calzaturiero sono rimasti disoccupati: le scarpe statunitensi costano meno, perché sono prodotte in quantitativi enormi e quasi sempre in Asia, dove i salari sono ancora più bassi che nel Salvador.

Sugli effetti quotidiani prodotti dalla dollarizzazione parliamo con la dottoressa Beatrice Alamanni de Carrillo, procuratore generale per i diritti umani della Repubblica del Salvador. «Come difensore dei diritti umani in Salvador – ci spiega – posso dirle che, per la gente, la dollarizzazione è stato un colpo terribile che si è ripercosso sulla vita quotidiana di ognuno. In pratica, si è passati all’equivalenza tra colon salvadoregno e dollaro Usa, una cosa insostenibile, perché le retribuzioni sono sempre calcolate in colones. Questo significa che i salari hanno perso 8 volte di valore, un fatto insostenibile per la gran maggioranza della popolazione. Con un salario minimo pari a 140 dollari è impossibile sopravvivere. Purtroppo, la tragedia della dollarizzazione pare un fatto irreversibile. Occorre affrontarla con interventi economici adeguati e con molta creatività».
La minoranza ricca del Salvador, assieme alla classe politica attualmente al potere, hanno voluto a tutti i costi la dollarizzazione dell’economia, per tutelarsi da un’eventuale salita al potere del Fmln («Farabundo Martì per la liberazione nazionale», la ex guerriglia ora diventata un partito politico di opposizione). Attraverso la dollarizzazione costoro possono controllare il paese anche dall’esterno, manovrando i flussi e deflussi di capitale. In sintesi, la dollarizzazione dell’economia non ha fatto che accrescere gli squilibri preesistenti, traducendosi a livello di macroeconomia in una camicia di forza, dato che l’economia salvadoregna ormai funziona come un «pilota automatico» alle dipendenze dei poteri economici statunitensi. 

Di Carlos Bonino

Carlos Bonino




Banche e traffici nel paese del canale

Panama: reportage dal paese centroamericano

Paese piccolo ma importante per la sua posizione di cerniera tra nord e sud America, Panamá era conosciuto soprattutto per il suo canale (per lungo tempo affittato agli Stati Uniti) e per le banane. Oggi il paese possiede una delle flotte mercantili più grandi del mondo (ma in mani straniere) ed è una piazza finanziaria rilevante (ma molto discussa). In questo contesto, siamo andati a vedere come vivono le popolazioni indigene sopravvissute all’invasione bianca.

Abbondanza di farfalle, alberi e fiori: questo il significato di Panamá, nome indigeno del piccolo paese situato in posizione strategica tra il nord e il sud America. Un luogo speciale, dove è avvenuto l’incontro non soltanto di culture indigene ma anche di specie animali e vegetali.
La popolazione di Panamá comprende, oltre alla maggioranza di mestizos, un 10% di origine cinese, una comunità nera che vive sulla costa caraibica e alcune tribù indie.
La capitale, che è stata la prima città fondata da europei sull’oceano Pacifico, si presenta come una modea metropoli con un grosso nucleo di alti edifici in cemento, parchi, monumenti e chiese. Famoso centro finanziario internazionale, accoglie circa 400 banche, dove pare venga riciclato il denaro proveniente dal traffico della droga. I colombiani sono coinvolti in numerose attività, dagli alberghi ai casinò, ma soprattutto nell’impresa edile, in forte espansione in città e anche sulle coste del pacifico, dove sorgono centri turistici per i nordamericani in vacanza.
Tutti i complessi di lusso sono protetti da muri e guardie armate, ma il filo spinato e le inferriate alle finestre le notiamo anche sulle modeste case dei quartieri poveri. Questa è una costante nei paesi dell’America Latina, che dimostra quanto gravi siano i problemi della violenza metropolitana.
Dell’antica città fondata dagli spagnoli nel 1519 (come avamposto per i traffici con le ricche colonie del Pacifico) rimane un complesso di ruderi circondato dalla foresta e dal mare, che durante la marea si ritira lasciando un vasto spazio fangoso. I vascelli carichi dell’oro peruviano si fermavano al largo e il prezioso carico veniva immagazzinato sull’isola di Perico, una delle 4 che chiudono il golfo e che ora sono unite da una strada costruita con il materiale estratto dal canale. La città, ricca di palazzi e conventi ma non protetta da mura,  venne rasa al suolo dal pirata Morgan nel secolo successivo. Gli spagnoli ricostruirono la città dall’altra parte della baia, in posizione più difendibile e oggi è un giorniello di architettura coloniale, in via di restauro. In uno dei palazzi più belli, costruito dai francesi a fine ‘800, visiteremo il museo del Canale di Panamá, dedicato alla sua tormentata storia, dai primi progetti fatti dai francesi, fino alla sua realizzazione da parte degli statunitensi, avvenuta tra il 1903 e il 1914, anno dell’apertura.

Il canale delle Americhe:
una risorsa contesa

Ci imbarchiamo sul battello che da Gamboa percorre il canale e attraversa le chiuse che permettono alle navi di scendere dal lago Gatun, un invaso artificiale riempito dalle acque del rio Chagres, al livello del Pacifico. Navighiamo seguiti da un grosso bastimento, in un contesto naturale di fitte foreste. I lavori di mantenimento e allargamento del canale continuano senza sosta per rendere più agevole il passaggio delle navi, che a volte devono attendere giorni per passare. ll nuovo progetto di allargamento del canale, del costo di 5,25 miliardi di dollari, sarà anche finanziato dai cinesi, interessati all’espansione del loro commercio. Una terza corsia sarà costruita con chiuse più grandi, in grado di contenere i giganteschi cargo da 12.000 containers, che superano le misure Panamax (con questa sigla si indicano le navi le cui dimensioni permettono il passaggio attraverso le chiuse del canale di Panamá, ndr).
Prima di uscire in mare aperto passiamo sotto il ponte delle due Americhe, percorso dalla Panamericana (la strada che parte dall’Alaska e corre per migliaia di chilometri fino a raggiungere i fiordi cileni) presso il quale i cinesi hanno costruito un monumento in memoria dei connazionali morti durante i lavori di costruzione del canale. La metà dei 45.000 lavoratori, reclutati in tutto il mondo, anche tra i neri delle colonie caraibiche, morirono per incidenti e malattie, febbre gialla e malaria.

Gli emberá del Darién:
da cacciatori a guide

A Panamá la Panamericana si ferma davanti a una foresta impenetrabile. Una regione selvaggia, il Darién, percorsa da canali, paludi, montagne,  fiumi e cascate, abitata dagli indigeni e conosciuta solo da narcotrafficanti e guerriglieri colombiani. Il Tapòn del Darién è un tappo che chiude ogni comunicazione via terra tra nord e sud America. Chi vuole  raggiungere la Colombia, deve prendere l’aereo. Il Darién è anche una preziosa riserva della biosfera, la più vasta area protetta del Centro America con una biodiversità eccezionale. Alcune tribù di indigeni emberá, che vivevano isolati in questa regione (conducendo una vita durissima, data l’impossibilità di commerciare i loro prodotti) una trentina di anni fa chiesero di essere trasferiti a Panamá. La difficoltà di inserimento in un contesto urbano spinse il loro capo (cachique) a chiedere al governo di potersi installare nella regione del fiume Chagres, ricca di foreste e acqua, lo stesso fiume che fornisce l’acqua al canale. Gli emberá continuarono a condurre così la loro vita di cacciatori, con arco e frecce,  vivendo anche grazie alla pesca, alla semina di yucca, fagioli e mais e a qualche animale da cortile. Da quando il Chagres è diventato parco protetto tutto questo è interdetto, per cui sono stati aiutati dal governo a prepararsi ad accogliere i turisti curiosi di avvicinare le popolazioni indigene.
Ora la loro vita sta cambiando, hanno scuole primarie e sanità, ma cercano di mantenere il più possibile le tradizioni. Anche noi facciamo l’esperienza emberá, risalendo il fiume sulle loro primitive imbarcazioni, guidate da uomini seminudi, col perizoma rosso. Veniamo ospitati in un villaggio di case costruite su palafitte, condividendo il pranzo con le loro famiglie. Parlando col capo villaggio, vengo a sapere che suo nonno era quell’Emiliano che lasciò il Darién per lavorare nel cantiere del Canale. La sua storia sta scritta nel museo di Panamá: era uno degli indigeni che lavorò alla costruzione delle canoe espandé (a un solo albero) usate durante i lavori. Fu lui che negli anni ‘70 scelse di trasferire la tribù in questa regione, sul sito dove sorgeva una base scientifica americana. Morì in questo villaggio a 96 anni.
L’artigianato che viene offerto in vendita è molto raffinato. Si tratta di lavori in un legno pregiato, il cocobolo, preziosi intagli in avorio vegetale, dato dalla  noce di una specie di palma. Lavorando una rafia molto soffice e lucida, tinta con colori vegetali,  gli emberá fanno un tipo di cesteria e di maschere molto belle. Queste sono usate dagli chamán (il personaggio più importante, che sovrintende alla salute della tribù) per le guarigioni. Nel villaggio vi è la scuola, costruita dagli indigeni sulla base della struttura donata dal governo. Nascoste dagli alberi sono  due chiese protestanti, frequentate dagli abitanti, che comunque rimangono animisti. Nella foresta dove tutto è sacro si trovano cibo e medicamenti e il botanico è un personaggio importante, di supporto allo chamán.
La nomina a chamán viene fatta nei primissimi anni di vita di un bambino. Segni premonitori lo indicano come il futuro chamán del villaggio, sin dalla nascita. La luna piena, un terremoto, un avvenimento speciale durante la gestazione, il modo in cui è venuto alla luce, i primi movimenti. Sovente il fanciullo tenta di rifiutare questo ruolo impegnativo, vorrebbe essere un bambino normale, come tutti. Dopo una lunga, impegnativa preparazione, a 15 anni viene  mandato nella foresta, dove dovrà passare 5 anni solo e nudo. Si unirà profondamente alla natura, utilizzando le conoscenze acquisite dagli anziani, approfondendole e vivendo in stretta comunicazione con il mondo selvaggio.

I kuna di San Blas:
una società matriarcale

Hanno dovuto fare guerra al governo, negli anni ’20, per ottenere l’autonomia della loro Comarca (distretto). I kuna sono indigeni  provenienti dalla Colombia che trovarono rifugio nei secoli scorsi sulla sottile striscia di terra che si affaccia sul mare dei Caraibi e sulle isole che gli spagnoli chiamarono di San Blas.
Piccoli di statura ma molto forti e determinati, hanno un loro governo autonomo e cercano con fermezza di mantenere i loro costumi e le tradizioni. La società dei kuna è matriarcale, anche l’eredità passa per via femminile. Quando una ragazza si sposa è il marito a trasferirsi nella casa dei suoceri e in caso di divorzio deve andarsene. Le donne sono molto laboriose e forti come i loro uomini e oggi riescono a guadagnare  denaro dalla vendita dei molas, ricami tradizionali usati per decorare le loro camicette. Sono intagli e applicazioni in stoffa colorata, dal disegno naturalistico ma anche geometrico, molto raffinato, stilizzato e simile a un labirinto, in cui si riescono ad identificare forme di uccelli, animali, angeli…
Le isole abitate sono solo 40 su circa 400. Ogni villaggio ha il suo sahila, eletto dal popolo, che dirime le controversie,  convoca le assemblee e in alcuni giorni chiama all’alba gli uomini al lavoro nei campi di terraferma. I kuna si sono finora difesi molto bene dall’aggressione del turismo di massa. La terra non si vende, gli operatori stranieri non sono accettati e chi vuole godere della magnifica natura delle loro isole  deve pagare una tassa alla famiglia che li ospita e adattarsi ad abitare strutture molto semplici. Ci fermiamo alcuni giorni in un’isola abitata da circa trecento persone e dormiamo nell’unico albergo, una modesta capanna, uguale alle loro, fatta di legno e bambù, con leggeri tramezzi che separano le camere.
Con una imbarcazione scavata nel tronco di un albero e munita di motore ogni mattina raggiungiamo altre isole, piccole lingue di sabbia corallina coperte da palmeti. Alcune disabitate, altre abitate da una sola famiglia, cui dobbiamo un dollaro per il permesso di sostare, bagnarsi e ammirare i coralli e i pesci colorati.
Durante questo soggiorno, a stretto contatto con la gente dell’isola, abbiamo  tempo per capire che le cose stanno lentamente cambiando anche per i kuna.

Le paure (giustificate)
del pastore Attilio

Ne abbiamo conferma parlando con Attilio, pastore della Iglesia de Christo che mi riceve nella sua chiesa, una tettornia con vista mare, con le panche e il leggio, accanto alla capanna della scuola biblica e al recinto dove grugniscono i maiali coi loro piccoli. Attilio è nato qui, 42 anni fa. Da ragazzino era rimasto affascinato dal racconto delle scritture fatto dai missionari americani giunti sull’isola.  Nella loro tradizione religiosa, i kuna hanno sempre creduto in un unico Dio creatore e in un profeta inviato per annunciare la buona novella, per cui la parola del Vangelo venne accolta bene.
Era un ragazzo studioso e dopo le elementari fu mandato a Panamá a frequentare il liceo, poi in seminario per approfondire lo studio che più lo interessava. La sua chiesa lo inviò poi in alcune regioni del paese (Bocas del Toro, Chiriguì, Veraguas) per un periodo di formazione durato un anno e mezzo.
Da 19 anni Attilio regge questa parrocchia, abita una casa come le altre, una capanna con il tetto di paglia, dove si trovano il fornello  e le amache per dormire. La moglie è una donna bella e gentile, di cui posso ammirare il lavoro preciso e raffinato del ricamo delle sue camicette,  ben superiore come qualità ai pezzi che ho visto in vendita presso altre case del villaggio.
«I giovani non hanno più voglia di lavorare – ci spiega Attilio -. Un tempo le barche andavano solo a remi o a vela e gli uomini lavoravano la terra che abbiamo sulla costa, piantavano manioca, yucca, fagioli e banane. Oggi a lavorare sono rimasti solo i più anziani, tra i quali è comune il vizio dell’alcornol». Attilio crede che molti si avvicinino alla chiesa solo per farsi aiutare, specialmente con i  missionari battisti,  arrivati da due anni dagli Usa con molto denaro. «Noi della Iglesia de Christo ci aiutiamo in caso di bisogno, ma io ci tengo ad avere fedeli con una fede sincera», insiste Attilio. Pare che anche la figura del sahila si sia sbiadita. Nessuno vuole avere la responsabilità che comporta la posizione di capo villaggio. «Abbiamo dovuto ripiegare su una persona di poco valore, che ama troppo bere e la vita comoda. D’altra parte nessuno voleva accettare l’incarico».
Oggi gli studenti migliori delle elementari sono mandati a studiare a Città di Panamá, dove trovano alloggio in casa di parenti, nelle periferie della capitale, pericolose per la delinquenza.
Passeggiando per la via Central, la più commerciale e animata, avevamo notato molte donne kuna in costume, con le braccia e le gambe fasciate da file di perline colorate, il fazzoletto rosso e giallo in capo e l’anello d’oro al naso. Vengono in città per comprare i tessuti per i loro «molas», ma anche per guadagnare qualcosa in più e mantenere i figli agli studi.
Anche Attilio ha due dei suoi 4 figli a Panamá e deve ammettere che il suo mondo, quello che ha sempre cercato di preservare e difendere, è destinato prima o poi a scomparire. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




A prova di bombe

Penetrazione del cristianesimo tra i nuba

Su un milione circa di abitanti della regione dei Monti Nuba, il 33% segue l’islam, il 35% il cristianesimo (di cui 65% cattolici), il 32,22% la religione tradizionale.
L’attività di evangelizzazione è stata condizionata dalle vicende storiche del paese, con lunghi periodi di interruzione: una storia esemplare di fedeltà e martirio. Solo ora si è riaperta la possibilità di una evangelizzazione più efficace.

Il 1871 potrebbe essere la data dell’inizio della penetrazione del cristianesimo tra i nuba, con l’apertura di una stazione di missione a El Obeid per opera di Daniele Comboni. La località doveva diventare la base di lancio per portare il vangelo nel cuore dell’Africa e continuare la sua lotta contro lo schiavismo. La strada attraverso la regione dei nuba era preferibile a quella del Nilo, per raggiungere le popolazioni più meridionali del Sudan, denka e shilluk.
Nel 1874, infatti, a Delen (oggi Dilling, sei giornate di cammino a sud di El Obeid), fu aperta una stazione di missione, la prima tra i Monti Nuba. Il lavoro missionario ebbe un rapido sviluppo, anche se la missione dovette chiudere i battenti per due anni, dal 1875 al 1877, per l’ostilità dei mercanti arabi. Nel maggio 1881, mons. Comboni visitò per l’ultima volta la missione di Dilling, dove ebbe la gioia di battezzare i primi 40 nuba. Il quel viaggio visitò altre zone dei Monti Nuba e progettò l’apertura di una seconda stazione missionaria, per intensificare l’opera di evangelizzazione e la lotta contro gli schiavisti.
Di ritorno dal viaggio, così scriveva a Roma: «F ra un anno, o anche meno, l’abolizione totale della schiavitù presso i nuba sarà un fatto compiuto. Non si possono descrivere la gioia e l’entusiasmo delle popolazioni che, dopo la mia visita, non si sono visti strappare né un figlio, né una figlia, né una mucca, né una capra; riconoscono unanimemente che li ha liberati la chiesa cattolica».
Quello stesso anno, però, il Comboni moriva (ottobre 1881, a soli 50 anni) e in Sudan scoppiava la rivolta di Mohammed Ahmed Mahdi. E fu la catastrofe. Nel 1882 la missione di Dilling venne distrutta, i missionari (2 padri, 2 fratelli, 3 suore) furono fatti prigionieri. Avrebbero voluto portare con sé i loro cristiani «un centinaio tra donne e ragazzi», ma non vi riuscirono: la piccola comunità cristiana fu risucchiata nel vortice mahdista, come il resto della popolazione. La stessa sorte toccò ai missionari e missionarie presenti a El Obeid. 

Quando le truppe anglo-egiziane, nel 1898, riconquistarono il Sudan, ponendo fine al regime mahdista, i missionari poterono ritornare e riprendere il lavoro missionario interrotto da 18 anni. I primi comboniani arrivarono a Ondurman nel 1899, ma mutarono strategia: invece di riprendere la strada dei Monti Nuba, per avanzare verso la regione dei Grandi Laghi, scelsero la via del Nilo. Anche perché il governo non permetteva attività missionaria nelle regioni abitate dalle popolazioni africane, classificate come «distretti chiusi», in cui era compresa anche la regione dei Monti Nuba.
Nel 1913 alcuni missionari del vicariato di Khartoum riaprirono la missione di Dilling, ma l’anno seguente i missionari furono inteati in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale.
Dieci anni dopo, si presentò una nuova opportunità, quando il governatore inglese del Kordofan domandò al nuovo vicario apostolico di Khartoum, mons. Paolo Tranquillo Silvestri, se intendeva riprendere possesso dei terreni della missione di Dilling e El Obeid, ma monsignore rinunciò spontaneamente, per intensificare l’evangelizzazione al sud, presso gli shilluk, nuer e denka. I nuba furono dimenticati per altri 20 anni.

Nel frattempo, però, in seguito al rifiuto di mons. Silvestri, il governo di Khartoum si rivolse ai protestanti perché lavorassero tra le popolazioni dei Monti Nuba. Alcuni membri australiani della Sudan Interior Mission accettarono subito l’invito e, nel 1930, aprirono il loro primo centro missionario a Heiban, per poi estendere la loro presenza nella parte orientale della regione.
La parte occidentale, invece, fu occupata dagli anglicani della  Church Missionary Society, che nel 1933 aprirono il loro primo centro a Sellara, vicino a Dilling, e 10 anni dopo a Katcha.
Aiutati dal governo, i centri protestanti aprirono scuole elementari e varie «bush schools» (scuolette nella foresta) affidate ai catechisti. Se si eccettua le due scuole medie aperte a Katcha e Sellara, i protestanti fecero ben poco per offrire ai nuba una formazione superiore.
Parallelamente all’attività scolastica cercarono di portare avanti anche un certo lavoro di evangelizzazione, senza però offrire una profonda formazione cristiana: l’istruzione si riduceva spesso alla presentazione di qualche brano della bibbia. Nonostante il sostegno governativo e la lunga permanenza nella regione, i risultati furono deludenti, specialmente tra gli evangelici della Sudan Interior Mission: il loro rigorismo calvinista, che proibiva ogni bevanda inebriante e perfino le danze tradizionali, non attirava i nuba alla fede cristiana. Per cui, pochi furono i battezzati, rari i cristiani formati con una educazione secondaria o universitaria, capaci di impegnarsi nel campo politico e sociale.

Nel 1954, due anni prima dell’indipendenza del Sudan (1956), il vescovo di Khartoum riuscì ad ottenere dal governo il permesso di aprire due centri: Dilling e Kadugli. Bisognò cominciare tutto da capo. Poi, con lo scoppio della guerra tra il governo di Khartoum e le popolazioni del Sud Sudan, tutti i missionari stranieri furono espulsi dal paese.
Nel frattempo, El Obeid era diventata sede vescovile (1960), con la creazione dell’omonimo vicariato apostolico, distaccato da quello di Khartoum, successivamente fu elevato a diocesi (1974).
A partire dal 1969, la concessione di qualche autonomia amministrativa a territori meridionali, il clima politico divenne più sereno e fu possibile imprimere nuovo slancio all’attività missionaria: fu possibile aumentare il numero del personale (missionari e suore) e operare liberamente su vasto raggio e senza paura.
Mentre tra i Monti Nuba l’attività missionaria procedeva a singhiozzo e tra innumerevoli ostacoli, essa riscuoteva maggiore successo tra i nuba emigrati nelle grandi città del Nord Sudan, come El Obeid, Kosti, Khartoum. Relegati nelle periferie, impiegati nei lavori più umili, essi furono da sempre al centro dell’interesse e del lavoro di evangelizzazione.
A Khartoum, soprattutto fu molto attivo padre Muratori, fino alla sua morte, avvenuta nel 1959. Egli scrisse catechismi nelle più diffuse lingue nubane, istruì e battezzò centinaia di nuba e si dedicò alla preparazione di maestri e catechisti dei più importanti gruppi nubani. Tale lavoro, imitato da altri missionari, specie nella diocesi di El Obeid, è stato provvidenziale per la chiesa sui Monti Nuba: maestri e catechisti ne sono diventati la «spina dorsale», come afferma mons. Macram Max Gassis, vescovo della stessa diocesi.

Con la ripresa della guerra civile tra Nord e Sud Sudan, nel 1983, buona parte dei Monti Nuba si venne a trovare sotto il controllo dell’Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla) e gli abitanti (cristiani e musulmani compresi) si unirono ai ribelli. Per quasi 10 anni le comunità cristiane rimasero praticamente senza preti e senza vescovo, costretto all’esilio, per le sue prese di posizione contro l’arabizzazione e islamizzazione forzata imposta dal governo di Khartoum.
Per tutta la durata del conflitto, i nuba furono oggetto di una repressione così feroce da sfociare nella «pulizia etnica». Bombardamenti sistematici hanno distrutto scuole, ospedali e tutti i luoghi di culto cristiani nei Monti Nuba e varie moschee, poiché i musulmani nuba erano considerati eretici perché si opponevano all’imposizione della sharia (legge islamica). Le incursioni militari si sono accanite soprattutto contro i cristiani, facendo parecchi martiri.
I documenti raccolti da Human Rights provano che, dal 1993 al 1995, sono «scomparsi» circa 200 mila nuba, vittime di «genocidio». Bombardamenti, incursioni e rappresaglie governative sono continuate anche negli anni seguenti. 
Nonostante l’isolamento, il terrore e la persecuzione, tre diaconi, un gruppo di catechisti e altri leader laici, hanno mantenuto vivo il messaggio cristiano anche in assenza dei sacerdoti. Hanno amministrato e registrato centinaia e centinaia di battesimi di adulti e fondato nuove comunità in villaggi lontani, dove l’annuncio del vangelo non era mai arrivato. In alcuni luoghi i diaconi hanno inventato un «surrogato» dell’eucaristia (vedi riquadro).
Con la firma del cessate il fuoco nel 2001 e dell’accordo di pace nel 2005, missionari, preti locali e suore sono tornati a Gidel, Kauda, Lumon e altre missioni distrutte durante la guerra civile. È cominciata la ricostruzione di chiese, scuole, ospedali, insieme all’attività di evangelizzazione.

Oggi, su un milione circa di abitanti presenti tra i Monti Nuba, 330 mila sono musulmani (33%), 320 mila seguono la religione tradizionale (32,22) e 350 mila sono cristiani (35%), cui 65% cattolici.
Il fatto più straordinario dal punto di vista umano e cristiano è che  musulmani, cristiani protestanti e cattolici, seguaci delle religioni tradizionali convivono in pace e nel mutuo rispetto per tutte le religioni. Non di rado si incontrano famigli formate da genitori musulmani, due figli cristiani, due figli di religione tradizionale, altri due o tre figli che seguono l’islam. E tutto ciò senza che costituisse un problema per nessuno.
Una grande lezione di civiltà, in un mondo dove si cerca di fare diventare Dio un Dio di parte e le religioni vengono usate per dividere più che per unire.
La chiesa cattolica ha sempre goduto di stima e prestigio tra la popolazione nuba, grazie alle sue attività in favore della pace e della promozione umana. Ora che è tornata la libertà di azione e di movimento, si moltiplicano le iniziative di promozione umana e sociale, tanto che il governatore della regione di Gidel, Abdel Aziz, musulmano e uno dei leader dello Spla, ha detto al vescovo di El Obeid: «La chiesa è la nostra speranza».

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Genocidio scongiurato?

Storia dei popoli nuba: tra aperture e resistenze

Origini oscure e babele di lingue e dialetti da fare impazzire gli antropologi, i nuba hanno lottato per secoli per la loro sopravvivenza fisica e culturale, prima contro gli schiavisti, poi contro l’islamizzazione forzata e, negli ultimi decenni, contro un «genocidio» strisciante. L’accordo di pace del 2005 tra governo e ribelli del Sud Sudan prevede una sistemazione autonoma per le popolazioni nuba: se son fiori, fioriranno.

Sono stati grandi fotografi, quali George Rodger e Leni Riefenstahl, a fare conoscere i Monti Nuba a tutto il mondo occidentale. Da essi, i popoli nuba sono stati utilizzati come l’icona della «africanità».
Fra queste montagne, questi osservatori privilegiati hanno cercato e costruito, attraverso l’obiettivo delle loro macchine fotografiche, l’immagine della «vera Africa»; la cui «purezza» è stata immortalata con il fine dichiarato di preservarla, in vista dell’inevitabile arrivo della modeità e la conseguente «perdita di innocenza».

provenienza dibattuta

I nuba sono una popolazione che abita una regione montuosa-collinare che da loro traggono il nome (Monti Nuba) e che si trova nella parte meridionale della provincia sudanese del Kordofan. Si tratta di terre relativamente fertili, adatte all’agricoltura stanziale.
Il milione circa di nuba, ancora presenti oggi, sono suddivisi in almeno 10 gruppi linguistici (koalib-moro, talodi-mesakin, lafofa-amira, tegali-tagoi, kadugli-korongo, temein, katla, nyimang, «hill nubian», daju), che a loro volta presentano divisioni in sottogruppi (che rende il numero delle lingue ancora maggiore).
Per quanto riguarda le origini, quelle dei nuba sono state inizialmente legate dai primi antropologi occidentali (e non solo) a quelle dei «nubiani», un popolo molto diverso e lontano geograficamente dai Monti Nuba e dal Kordofan. I nubiani, infatti, abitano le zone di confine tra Egitto e Sudan. In antropologia esistono diversi punti di vista sulle origini e sul legame reale o presunto tra nuba e nubiani.
Come per molti antichi stati africani, anche nel caso dei nuba, la carenza di fonti scritte pone un problema per la ricostruzione della vicenda storica di questo popolo. Molti restano i vuoti da riempire, almeno per quanto riguarda il periodo pre-islamico.
Infatti, le prime fonti che descrivono in maniera sistematica la statualità, usi e costumi dei nuba si devono agli arabi. La trasmissione orale, che pure è stata utile a «scrivere» la storia di grandi stati e popoli dell’Africa subsahariana, si è mostrata uno strumento poco utile nel caso dei nuba. Una storia orale è stata stabilita solo per il regno nuba di Tegali.
Certe attinenze di lingue nuba con quelle nubiane hanno condotto molti antropologi e storici a ritenere valida l’esistenza di un’affinità «razziale» tra i due popoli. Altri studiosi hanno scartato questa ipotesi, sulla base delle difformità dei due gruppi dal punto di vista culturale, dimostrando come l’influenza nubiana sia stata soltanto il risultato dell’immigrazione verso i Monti Nuba dei dongolawi in tempi troppo recenti per un’assimilazione vera e propria.
Tra coloro che ritengono esista una relazione diretta tra nuba e nubiani esistono due ulteriori scuole di pensiero. Da un lato, coloro che ritengono che i nubiani sono discendenti dei nuba; dall’altro quelli che sono convinti del contrario.
La tesi più accreditata oggi considera i nuba come un popolo autoctono (dei Monti), senza legami specifici con i nubiani, a parte quello dei «nobatae» (i nuba dei testi classici antichi), i quali portarono le lingue nuba a nord, fuori dal Kordofan verso la valle del Nilo, da cui deriverebbe il legame linguistico di cui sopra. In seguito questi nuba sarebbero stati «assorbiti» dai nubiani fino a scomparire.
Viceversa, i barabra (popoli nubiani inviati dagli arabi a conquistare Dongola e sottomettere gli abitanti dei Monti Nuba), non riuscirono a penetrare le popolazioni nuba: queste, se da un lato assimilarono certi aspetti della loro lingua, non furono influenzate in nessun altro modo nei costumi e cultura. Per cui, anche in questo caso l’ipotesi di un legame, sia «razziale» che culturale, è stata esclusa.
In conclusione, i nuba sarebbero il popolo originario del Kordofan meridionale. La stessa parola «Kordofan» sembrerebbe descrivere inoltre la storia antica di questa regione. «Kordu» significa uomo, «fan» paese: le due parole potrebbero essere state assemblate per significare «terra dell’uomo», cioè «paese abitato» e quindi «coltivato», il che presume una statualità antica, contemporanea a quella dell’Etiopia o di Meroe.
Tuttavia, bisogna tenere presente che i nuba non sono una popolazione omogenea e una statualità nuba non è mai esistita. I nuba si sono uniti solo militarmente e di recente (a partire dagli anni ’20 dell’Ottocento), per resistere alle ingerenze estee durante il dominio turco-egiziano, mahdista, anglo-egiziano e del governo del Sudan indipendente.
I Monti Nuba, potrebbero essere anche chiamati «Mondi Nuba» o, come ha fatto notare qualcuno, «Arcipelago Nuba», per via dell’indipendenza tra le storie delle diverse realtà nuba. Ogni montagna ha espresso delle statualità a sé stanti, che non comunicavano su basi sistematiche con le altre. Questa diversità «intra-nuba» spiega ulteriormente le difficoltà di trovare dei legami tra nuba e nubiani.

La religione nativa

Il «kujurismo» è la religione autoctona dei nuba. I nuba venerano i propri antenati e questa usanza è così persistente nella società, che la venerazione dello spirito dell’antenato è diventata una religione in sé stessa.
Secondo certi osservatori, il kujurismo spiegherebbe anche certi tratti del «patriottismo» dei nuba, la loro riluttanza a lasciare la terra dei padri (la patria, appunto), il loro rispetto per gli anziani e il culto dei morti da parte dei giovani. Il kujur è l’intercessore presso gli antenati e quindi lo Spirito o Dio. Il kujur può assumere nomi diversi, secondo il gruppo nuba a cui si fa riferimento.
I kujur si distinguono dalle figure sacerdotali di altre realtà africane per il fatto che, come intermediari, non cercano di controllare gli eventi, bensì di propiziarli a favore dei credenti; essi usano il proprio potere per indurre lo spirito antenato a benedire o punire, a seconda dei casi. La punizione o il premio dipende invece da Dio. I kujur sono dei «servi di Dio» o degli dei, secondo l’usanza di ciascuna delle comunità nuba.
In certi casi, attraverso il kujur si può anche intercedere presso gli spiriti «famigliari» (considerati spiriti minori rispetto a quello dell’antenato). Questo ha portato nel tempo a forti legami nella comunità i cui membri sono attenti a non contrariare i singoli spiriti famigliari (degli altri).
Gli spiriti delle diverse famiglie che formano una comunità possono essere richiamati dal gruppo per propiziare ciascuno un diverso evento: pioggia o guerra, caccia o raccolta, alberi o fertilità, ecc. A questi spiriti minori corrispondono kujur minori, che sottostanno tutti al grande kujur, il quale li cornordina, anche attraverso la consultazione.
Il grande kujur può anche presiedere il consiglio degli anziani di una comunità, diventando egli stesso una figura patriarcale (e politica). Il potere laico quindi si può fondere con quello religioso e questo si riscontra di più tra quei gruppi di nuba che hanno sviluppato forme di statualità di tipo «comunitaristico» (senza re o mukuk). Invece, la fusione di funzioni (religiosa e laica) è meno incombente tra quelle comunità che si sono costituite in regni (come i dilling, afitti, nyimang, kadero, kalero, ecc.), con un sovrano, casta regnante, gerarchie nobili, ecc. In questi casi il potere del grande kujur (spirituale) resta distinto da quello del re e dell’amministrazione (temporale).
I kujur sono figure sacre e conducono una vita appartata e solitaria; il loro ruolo non è ereditario e non è a vita (il ruolo può decadere e chiunque, spesso senza prerequisiti fissi, può assumere questo ruolo nella società). In alcuni casi anche alle donne è concesso di potere ricoprire tale carica, ma per loro, in genere, esiste il requisito della mateità e della successione (maritale o familiare). Dei segni distintivi, che cambiano da gruppo a gruppo, caratterizzano la dimora del grande kujur; essa deve essere contrassegnata da segni simbolici riconoscibili in quanto rappresenta anche la dimora dello spirito dell’antenato e un punto di riferimento per la comunità.
I nuba riconoscono e rispettano la proprietà privata, la parità tra i diritti di ciascuno, la santità del matrimonio, la vita umana, ecc. Se uno o più individui mettono a repentaglio le libertà altrui, tutta la comunità si sente automaticamente investita della violazione e da questa offesa deriva la sanzione. In casi di offesa grave, per esempio attraverso la messa a repentaglio delle regole stesse della comunità, è prevista anche la pena di morte. L’organizzazione politico-religiosa dei nuba è sopravvissuta dall’antichità fino ai giorni nostri, soprattutto tra quei gruppi che hanno saputo resistere maggiormente alla venuta dell’islam nel Sudan.

L’avvento dell’Islam

I nuba sono stati sottoposti a influenza islamica fino dal xvi secolo. Prima di allora, i nuba abitavano più o meno l’intero territorio dell’odierno Kordofan. Dopo il collasso dei regni cristiani, l’islam ha trionfato lungo tutta la vallata del Nilo e gruppi di musulmani, di probabile discendenza araba (almeno linguistica), hanno iniziato una migrazione verso sud che li ha portati a stabilirsi nel Kordofan, dove si sono stabiliti e amalgamati con le popolazioni autoctone entrando in contatto anche con i nuba.
Il risultato è stato l’islamizzazione e l’arabizzazione di una parte dei nuba, i quali in certi casi assumevano l’arabo come lingua oppure prendevano alcuni usi e costumi della civiltà araba. Tuttavia, in molti casi, la cultura araba è stata indigenizzata e gli arabi stessi sono stati assorbiti tra gli autoctoni nuba.
La tratta degli schiavi è stato uno dei fattori scatenanti la rapida islamizzazione dei nuba a partire dal xvi secolo. Le opzioni per sfuggire alla tratta erano due: ritirarsi nell’area collinare-montuosa, da cui ci si poteva difendere meglio dagli assalti a cavallo; oppure convertirsi all’islam, visto che un musulmano non può rendere in schiavitù un suo fratello.
Naturalmente i gruppi geograficamente ai margini della regione dei Monti e quindi più prossimi all’avanzata dell’islam e della tratta furono i primi a convertirsi. Quelli che si rifugiarono sulle cime delle montagne e più a sud furono in grado di preservare meglio la propria identità culturale e indipendenza politica.
Alcuni re nuba convertiti all’islam sono stati tra i protagonisti delle razzie fra gli stessi nuba. È stato il caso dei mukuk (sovrani) di Tegali, uno dei regni più importanti e potenti della storia dei nuba.
L’islam penetrò Tegali nel 1530, attraverso l’azione di Mohammed al-Ja’ali. Grazie alla tratta con gli arabi del nord, per due secoli, il regno divenne uno dei più potenti di tutta la regione dei nuba. Tegali è stato anche uno dei bastioni dell’islam tra i nuba, ma l’islam non ha mai penetrato tutta la società, perché qui (come altrove nella regione) vigeva una sostanziale libertà di culto.
Come in molti altri casi di società di «frontiera» del Sahel, i nuba musulmani hanno elaborato forme culturali e religiose proprie, ostili a imposizioni dall’esterno che potessero mettere in discussione la loro originalità. Per esempio, la resistenza armata nei confronti della sharia (legge islamica) è spiegabile in parte (perché vi era pure una questione legata alla terra) con questa refrattarietà a cambiare radicalmente certi tratti culturali autoctoni, come la tolleranza religiosa.
Il grado di islamizzazione e arabizzazione dei nuba varia da gruppo a gruppo o da monte a monte, con i capi di ciascuna comunità che hanno giocato un ruolo fondamentale nella conversione o resistenza all’islam di tutto il gruppo. Alcuni capi si sono convertiti per ragioni di opportunità politica o ambizioni personali (visto che l’islam coincideva con il potere in molte regioni dell’odierno Sudan), altri per convinzione e perché in essa intravedevano la maniera di modeizzare la propria collettività, facendola uscire dal relativo isolamento.
Nelle comunità dove esistevano figure reali, come i mukuk, o capi designati dal gruppo, l’islam è diventato piuttosto un simbolo dell’aristocrazia e un modo per rafforzare il potere. In queste comunità, i leaders politici hanno usato la propria autorità per imporre l’islam e, viceversa, l’islam per imporre la propria autorità.
La religione musulmana, tuttavia, ha apportato soltanto cambiamenti relativamente superficiali nell’organizzazione sociale, usi e costumi. Al contrario nelle comunità più sparsamente distribuite e dove vigevano forme di organizzazione di tipo comunitaristico, in cui non dominava né un re né un’aristocrazia o, in altre parole, dove non poteva esistere un capo che imponesse la sua volontà sugli altri membri della comunità, l’islam è penetrato di meno, sia qualitativamente che quantitativamente.
Durante la grande rivoluzione islamica sudanese di Muhammad Ahmad, detto il «Mahdi» («il guidato» della tradizione islamica), alla fine del xix secolo, partita proprio dal Kordofan, i nuba musulmani rimasero sempre cauti nei confronti della guerra santa del Mahdi.
Dal canto loro, i mahdisti vedevano nei nuba dei musulmani «incompleti». Da questi contrasti sono nate le conflittualità nei confronti del centro, rappresentato da Khartoum, che si sono protratte fino ai giorni nostri.
In conclusione, mentre all’interno della regione dei Monti Nuba, culture diverse sono convissute in maniera rispettosa le une delle altre, verso l’esterno, i nuba hanno sempre mantenuto delle posizioni ostili.

I nuba nel Sudan moderno

Dall’inizio dell’Ottocento, i Monti Nuba sono stati sottoposti a una doppia pressione che ha modificato in profondità gli equilibri regionali: da una parte quella dei nomadi baqqara, in cerca di pascoli per le loro mandrie; dall’altra quella dei turco-egiziani, alla ricerca di schiavi e pronti per questo a organizzare devastanti spedizioni stagionali.
Le zone più esposte dei Monti Nuba, come il regno di Tegali, dovettero scendere a patti con i nuovi invasori, pagando tributi in generi e schiavi, mentre quelle più remote riuscirono a mantenere la loro autonomia e resistere all’intrusione, spostandosi nelle zone più inaccessibili del territorio. Sebbene la tratta fosse stata praticata da secoli, fu solo con l’arrivo dei turco-egiziani che assunse dimensioni rilevanti.
Un’altra conseguenza dei maggiori contatti tra i Monti Nuba e il Sudan turco-egiziano è stata l’ulteriore espansione dell’islam che, agli inizi del xix secolo, interessava buona parte dell’area centrale e settentrionale.
A partire dagli anni ’70 del xix secolo, fecero la loro comparsa anche i missionari cattolici che aprirono a Dilling una piccola missione, introducendo nell’area una nuova variabile religiosa e sociale.
Le valli dei nuba hanno anche dato rifugio all’esercito del Mahdi, che da qui ha organizzato il famoso assedio di El Obeid, caduta nel 1883. Dal 1885 fino al 1891 i mahdisti hanno compiuto periodiche incursioni, poi la loro pressione è diventata meno costante.
Come nel periodo turco-egiziano, anche durante la mahdiyya, i Monti Nuba hanno continuato a fornire schiavi, che spesso erano inquadrati nell’esercito in unità speciali chiamate «jihadiyya». L’esercito è diventato così uno dei veicoli privilegiati del contatto fra nuba e resto del paese.
Durante il Condominio anglo-egiziano (1898-1956) le comunità nuba hanno continuato a dimostrare forti tendenze autonomiste, ma l’estrema eterogeneità della popolazione ha impedito il cornordinamento di queste aspirazioni e la loro organizzazione politica in senso nazionalistico.
Sfruttando questa fragilità, il governo coloniale anglo-egiziano ha limitato la propria azione a pochi interventi, volti a risolvere le situazioni più urgenti, tra i quali non era presente una «questione nuba». Malgrado ciò, un lento processo d’accorpamento territoriale è stato promosso al fine di riorganizzare l’amministrazione. Altri interventi hanno mirato a regolare i rapporti fra le comunità agricole e quelle nomadi per la gestione delle risorse naturali.
Seguendo una pratica consolidata, le autorità britanniche hanno limitato al minimo lo sviluppo del sistema educativo, delegandolo in buona parte alle società missionarie. Bisognerà aspettare il 1921 per assistere all’apertura delle prime scuole elementari governative, un ritardo che influenzerà negativamente la formazione di un’élite locale.
L’arabo non ebbe difficoltà a imporsi come lingua d’insegnamento e, gradualmente, le autorità coloniali diminuirono la profonda diffidenza nei confronti del processo di arabizzazione e islamizzazione. La regione rimase però un «closed district» fino al 1956.

I nuba e la guerra civile

Alle soglie dell’indipendenza del Sudan, malgrado la presenza di tensioni tra i nuba e le genti del nord, la regione non si mostrò particolarmente sensibile alle rivendicazioni che andavano prendendo forma nelle regioni meridionali. Quando nel Sud del paese scoppiò la guerra civile, nel 1955, i Monti Nuba si astennero dall’appoggiare i «ribelli».
Le politiche promosse dal governo del Sudan indipendente, più che riconoscere la specificità culturale delle diverse regioni del paese, hanno rafforzato il centralismo a tutto vantaggio della componente sociale arabo-musulmana, partita avvantaggiata nella competizione politica del post-indipendenza grazie al rapporto privilegiato con il colonizzatore britannico.
Malgrado ciò, accanto al sentimento di una distinta identità culturale, tra i nuba è sempre stata forte anche la percezione di un vincolo storico con la parte settentrionale del paese. Questo rapporto di incontro-scontro ha impedito un dialogo costruttivo fra nuba e i partiti settentrionali, a loro volta dominati dall’elemento arabo.
Per fare fronte allo strapotere dei partiti del Nord, nel 1964 è nato il General Union of Nuba Mountains (Gunm), la prima importante formazione politica, che si proponeva di rappresentare gli interessi dei nuba all’interno del sistema parlamentare del paese; partito durato fino al 1969, l’anno del colpo di Stato del colonnello Jafaar Nimeiri.
A livello economico, la decisione governativa di favorire nel Kordofan meridionale un’agricoltura di tipo estensivo (quando quella dominante tra i nuba era di sussistenza), ha prodotto dei forti cambiamenti nei rapporti sociali dell’area. In molte zone la proprietà della terra è stata riorganizzata, destinando alle grandi imprese agricole i terreni più fertili.
Naturalmente, a fare le spese del cambiamento sono stati principalmente i piccoli proprietari espropriati. Per larghe fasce della popolazione nuba, quindi, lo sviluppo economico si è tradotto in un sostanziale impoverimento, solo in parte compensato dall’aumento della domanda di lavoro salariato. La mancanza di investimenti governativi ha contribuito ad aumentare ulteriormente il disagio tra la popolazione.
I difficili equilibri, tra modeizzazione dell’agricoltura e resistenze degli agricoltori, sono stati ulteriormente esacerbati, a metà degli anni ’80, dalle carestie che hanno colpito il Sudan centrale. A fronte di una diminuzione dell’offerta di beni alimentari, l’agricoltura estensiva promossa dal governo è diventata l’oggetto centrale delle critiche.
La decisione di Khartoum di armare le milizie baqqara per contrastare il Sudan People’s Liberation Army (Spla), il movimento armato sudista anti-governativo, ha coinvolto negativamente anche i nuba, che si sono trovati a dover fronteggiare uno dei loro antagonisti tradizionali, i nomadi baqqara, in una posizione di palese svantaggio.
Sfruttando tale malessere lo Spla è riuscito a raccogliere i primi timidi consensi anche tra i nuba. La comparsa dello Spla, per quanto mai molto diffusa, ha provocato una violenta reazione da parte governativa che ha finito per alienare larghi settori della società da Khartoum.
Nel 1989 la creazione della New Kush Division (Nkd) dello Spla, destinata a operare permanentemente nella regione, ha aperto una nuova fase del conflitto. La guida della nuova unità è stata affidata a Yusif Kuwa Mekki che, già in precedenza, si era distinto nella difesa dei diritti del proprio popolo. Per annientare questa presenza il governo esercitò una costante pressione, culminata nella dichiarazione del jihad nel 1992.
La guerra che ne è seguita, è stata caratterizzata da un’estrema violenza. Il ricorso alla concentrazione della popolazione civile in grandi campi di raccolta è stato sistematico. Presentato come un provvedimento mirato alla protezione dei civili, la mossa voleva essenzialmente privare lo Spla del supporto popolare.
La manovra ha facilitato anche al governo islamico di Khartoum (presieduto dal generale Omar al-Bashir) la continuazione della politica d’esproprio delle terre coltivabili. I beneficiari dell’operazione sono stati naturalmente i sostenitori del governo e le grandi imprese agricole, desiderose di estendere il proprio controllo su territori relativamente fertili e con accesso a risorse idriche. Si calcola che, agli inizi del 2002, il 28% circa del territorio dei Monti Nuba sia stato destinato a questo tipo d’utilizzo (naturalmente la percentuale sul totale delle terre fertili è molto più alta).
L’acuirsi della repressione del governo centrale nei confronti dei nuba, nel 1992, ha messo a dura prova il Nkd. Nel 1996, grazie al sostegno dello Spla, le forze nuba anti-governative sono state in grado di passare alla controffensiva, riconquistando buona parte dei territori persi.
Ma un nuovo colpo all’unità e all’efficacia della resistenza nuba è venuto nel 2002, con la prematura scomparsa di Yusif Kuwa Mekki. Il movimento rimase orfano di un leader brillante, che, grazie al suo stile di governo collegiale, era riuscito ad acquistare una discreta credibilità a livello internazionale.
La questione dei Monti Nuba era ormai divenuta centrale nel processo di pace che si stava avviando. John Garang, il capo dello Spla, fautore di un Sudan unito ma riformato, si è rifiutato di separare le rivendicazioni del Sud da quelle di tutte le altre aree marginalizzate del paese, inclusi i Monti Nuba.

L a pace firmata a Nairobi, il 9 gennaio 2005, tra il governo centrale di Khartoum e lo Spla, dopo un lungo processo negoziale svoltosi nella località di Naivasha (Kenya) e promosso dall’Onu, dagli Usa e dall’Unione Europea, ha posto fine alla guerra. Infatti, il documento finale contiene una serie di articoli e clausole che riguardano la sistemazione dei Monti Nuba nel Sudan rappacificato.
Sostanzialmente, il destino dei Monti è separato da quello del resto del Sud e gli accordi di pace assicurano un governo regionale autonomo ai nuba, garantito dalla presenza di truppe dello Spla a fianco di quelle governative.

Di Massimo Zaccaria e Stefano Bellucci

Di Massimo Zaccaria e Stefano Bellucci




Un modello di convivenza religiosa

Introduzione

La prima volta sui nuba è un’esperienza che lascia il segno. Ancora oggi la difficoltà per arrivarci e la mancanza di infrastrutture e dei più normali servizi cui un uomo moderno è abituato, procura uno shock temporale ed emozionale. Riporta a tempi molto lontani, lascia affiorare sensazioni remote.
Il paesaggio dai contorni arrotondati, che sono quelli delle formazioni rocciose, delle capanne e dei volti della gente, rispecchia l’animo mite del popolo nuba, fatto di agricoltori e di pastori.
La regione dei Monti Nuba è oggi parte dello stato del Kordofan Meridionale, situato proprio al centro geografico del Sudan, terra di passaggio tra nord e sud, tra est ed ovest. Un’area grande tre volte e mezzo la Lombardia, con una popolazione di appena 1 milione e duecentomila unità, dalla natura generosa.
«Nuba» è un termine che evoca da solo molte suggestioni: richiami antropologici di un popolo che ha assorbito elementi diversi nel corso dei secoli, fondendoli in una identità unica che pure si esprime in 15 diversi idiomi e raccoglie 50 gruppi etnici; richiami fotografici impressi nella memoria grazie a George Rodger, Leni Riefenstahl e quei pochi altri che negli ultimi decenni hanno avuto il privilegio di recarsi su quelle alture; richiami umanitari per la vicenda drammatica che li ha sconvolti tra gli anni ‘80 e ‘90, quando l’isolamento totale dal resto del mondo ne ha messo a rischio la stessa sopravvivenza.

I nuba sono un esempio di convivenza religiosa tra musulmani, cristiani e seguaci delle religioni tradizionali; un piccolo laboratorio dove si sperimenta un modello che si vorrebbe vedere applicato al resto del paese. Un popolo fiero e orgoglioso e allo stesso tempo mite, come dimostra la tradizionale lotta che praticano, al termine della quale vincitore e vinto si abbracciano e si congratulano a vicenda.
La guerra ha lasciato un segno profondo nella coscienza e nel fisico di queste persone che adesso, con l’agognata pace, cercano dignitosamente di ricostruirsi un tessuto istituzionale ed economico che gli permetta un’esistenza  pacifica.

L’Italia si è molto impegnata a favore di questa area e di questa popolazione. Lo ha fatto con diverse iniziative governative e della società civile italiana, finanziando i primi aiuti inteazionali giunti dopo l’isolamento, allestendo campagne per i diritti umani, intervenendo con Ong, diocesi e amministrazioni locali italiane. Lo ha fatto e continua a farlo con la cooperazione italiana e i contributi alle agenzie delle Nazioni Unite attive nell’area, con le relazioni di amicizia e l’impegno dei missionari.
I nuba, come il resto del Sudan, hanno bisogno del supporto della comunità internazionale affinché la chance di rendere questa pace una realtà duratura non sia vanificata dal pessimismo, dalle paure e da pregiudizi legati all’esperienza troppe volte negativa di tanti stati africani. Riuscire a vedere la bellezza e la speranza che c’è in questo paese, in tutte le sue sfaccettature, può aiutarlo più di tanti proclami di buone intenzioni. Riconoscere l’unicità del popolo nuba, rispettarlo per la sua cultura e dignità è il primo passo per garantie la sopravvivenza in un futuro pacifico e rigoglioso.

Lorenzo Angeloni, ambasciatore d’Italia in Sudan

Lorenzo Angeloni