Piccoli uomini, grandi inquietudini
Pigmei: la difficile via dell’integrazione
I pigmei sono stati tenuti per secoli in stato di emarginazione e servaggio dalle popolazioni bantu. Negli ultimi decenni è cominciato il loro inserimento nella società congolese, grazie anche a organizzazioni non governative (ong) locali. Un processo lento, che richiede il riconoscimento della cultura e maggiore rispetto dei diritti umani di più abitanti delle foreste equatoriali africane.
Goma, estremo est della Repubblica Democratica del Congo, al confine con il Rwanda. Il nome della città evoca disastri, dalle ondate di profughi in fuga dal genocidio rwandese alla terribile eruzione del vulcano Niyragongo, che nel 2002 rase al suolo il centro abitato. I suoi segni sono tutt’ora visibili nello spesso strato di lava nera che ricopre tutto e su cui la gente ha ricostruito le proprie povere abitazioni.
Difficile fare un elenco delle priorità, in questo angolo di Congo: le numerose ong si occupano di povertà, istruzione, sanità, recupero delle vittime di guerra. Passa così in secondo piano un’altra realtà, di cui pochi si interessano: la situazione delle popolazioni pigmee, poveri tra i poveri e spesso discriminati dalle popolazioni bantu.
Esistono tuttavia alcune piccole ong locali che tentano interventi in favore dei più antichi abitanti di questa parte d’Africa: attività gestite da congolesi bantu che cercano di contrastare la mentalità dominante che emargina i pigmei. Certo, mancano i mezzi, ma soprattutto a volte manca una reale conoscenza della cultura pigmea. Con il rischio di fare danni, pur con le migliori intenzioni.
la Uefa
I ncontriamo l’associazione Union pour l’Emancipation de la Femme Autoctone (Uefa) nella propria sede, una piccolissima stanza in un edificio sull’unica strada asfaltata di Goma. Il personale si mostra un po’ titubante, ma qualcuno accetta di raccontarci delle loro attività.
Le parole della segretaria (che non vuole darci il nome) sono molto significative e rivelano il loro tipo di approccio: «Lavoriamo in sei luoghi nei dintorni di Goma. Il nostro obiettivo principale è l’integrazione: quella pigmea è una popolazione miserabile, che vive di elemosina. Non vogliono più fare la vita nomade, quindi insegniamo loro l’agricoltura e spieghiamo come lavorare con i non pigmei. Abbiamo assistenti sociali sul terreno e ci adoperiamo anche per le donne vittime di violenza, che accompagniamo al centro più vicino di salute».
La Uefa sopravvive con finanziamenti dal Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) per i progetti sull’agricoltura e dall’Irc (Italian Resuscitation Council) per la parte medica. Con questi fondi, foiscono alle donne violate anche un aiuto economico, comprando loro maiali e vacche, in modo che possano avviare un’attività. La sede principale dell’ong è nella città di Bukavu, più a sud. A Goma le loro attività sono iniziate tre anni fa, dopo l’eruzione.
Tanta buona volontà e spesso anche con buoni esiti, ma la mentalità di fondo non si discosta troppo dalla cultura generale. Prosegue infatti la donna: «Non è facile lavorare con i pigmei, sono primitivi. Ora che vivono coi non pigmei, cominciano a integrarsi, ma non vogliono studiare. Grazie al lavoro di alcuni educatori popolari che si occupano di alfabetizzazione degli adulti, cerchiamo di far loro capire che l’istruzione è importante».
E conclude notando che i pigmei cominciano a perdere la loro cultura tradizionale, perché non possono più mantenere il loro stile di vita, basato sulla caccia e la raccolta dei frutti. Ad esempio non possono più entrare nel parco nazionale del Virunga: troppo alti i rischi legati all’insicurezza, come dimostrano i pigmei sfollati presso il Lago Verde. «Lo stato ha da tempo deciso che non possono più vivere come animali: sono persone e devono vivere come gli altri» conclude la donna.
Il Cidopy
Sulla strada che attraversa Goma da nord a sud sorge la sede del Centre d’information et de documentation pygmees (Cidopy), un’altra ong locale. Qui l’atteggiamento è diverso. Ci spiega Achille Biffumbu, il responsabile: «Collaboriamo con una fondazione olandese, che dal 1989 lavora coi pigmei della regione settentrionale dell’Ituri: con la guerra loro sono stati obbligati a sospendere le loro attività dirette e hanno preso contatti con noi. Qui a Goma lavoriamo dal 2005. Statistiche sui pigmei non ce ne sono; esistono delle stime che parlano di 15 mila pigmei qui nel Kivu e 60 mila in Ituri. Abbiamo cominciato il nostro lavoro dalla salute, dalla scolarizzazione dei bambini e da attività agricole; ma incontravamo molte difficoltà. È così che siamo arrivati a comprendere che la cultura pigmea si sta perdendo non per il contatto con i bantu, ma per il modo che si ha di lavorare con loro».
Gli esempi non mancano: più a nord un missionario ha costruito piccole case in tolla per loro; ma, dietro la casa, i pigmei costruiscono ugualmente le loro capanne. O ancora: i pigmei sfollati presso il Lago Verde hanno chiesto legno per costruire delle case, ma poi l’hanno venduto.
«È difficile capire – prosegue Achille -. Per questo preferiamo lavorare con loro, adattandoci alla loro cultura e facendo un’analisi antropologica dei loro bisogni».
Lo stesso vale anche per il lavoro coi bambini, che hanno un modo diverso di studiare: quando è il periodo della caccia o della raccolta del miele, vanno in foresta con la famiglia. Allora, bisogna adattare il calendario scolastico ai loro bisogni.
In questo il Cidopy si è avvalso di un programma di scambio con altre ong che lavorano coi pigmei in Camerun e l’anno scorso hanno organizzato una sessione di aggioamento per gli insegnanti delle scuole in cui ci sono bimbi pigmei. Nel Kivu la composizione delle classi è mista: il 25% dei bambini sono bantu e molti non sono facilmente distinguibili, segno di una commistione tra bantu e pigmei.
«Il problema fondamentale di cui ci siamo resi conto – prosegue Achille – è che molta gente lavora con loro senza conoscee la cultura. Prendiamo il settore sanitario: i pigmei hanno difficoltà a frequentare i centri di salute, per vari motivi: se non li capiamo, pensiamo che siano refrattari. Se dite a un pigmeo di andare all’ospedale, ci andrà tutto il villaggio. Un pigmeo non passa la notte in un letto. Allora, noi costruiamo una casa in tolla o in foglie di fianco all’ospedale, dove possono trascorrere la notte facendo il fuoco. Abbiamo pensato di creare piccole équipes mobili per la sensibilizzazione sanitaria e da alcuni mesi è in funzione una clinica mobile».
Attualmente non esistono direttive politiche; ma durante la dittatura Mobutu ne aveva deciso l’integrazione forzata: tutti i pigmei dovevano lasciare le foreste e vivere ai margini della strada. Dunque, la mentalità che ancora esiste nelle popolazioni bantu che vedono i pigmei come «primitivi» da «normalizzare» è un’eredità di Mobutu.
Oggi che la situazione politica del paese è cambiata e si sono finalmente avute le prime elezioni multipartitiche dal 1960, qualcosa è mutato anche per i pigmei. In occasione della giornata mondiale delle popolazioni autoctone, è stata resa pubblica una loro dichiarazione nei confronti del governo: sono senza terra e non protetti dalla legge; vengono cacciati perché nessuno se ne occupa.
In un paese come il Congo, con tante emergenze, non vengono considerati una priorità. Così il Cidopy, grazie a un finanziamento olandese, ha steso un progetto per ottenere il riconoscimento formale delle terre dei pigmei e ha approntato l’accompagnamento giuridico necessario.
Quanto alla politica, Achille spiega: «Esistono rappresentanti pigmei, ma c’è un problema di leadership tra di loro. In Rwanda i pigmei sono ben organizzati; in Burundi una di loro, Liberate Nichayenzi, è diventata deputata e si sta dimostrando in gamba. Qui invece ci sono molti opportunisti, sia bantu che pigmei, che cercano di trarre profitto personale da una posizione di leadership. Resta aperta la questione di come trovare rappresentanti validi: non abbiamo ancora una risposta, ma ci stiamo lavorando, perché sappiamo quanto sia importante dar loro voce nelle istituzioni democratiche che stanno nascendo».
Giusy Baioni