«Piccola casa», grande amore
Ritoo alla missione della Piccola Casa, sulle orme delle pioniere
Nel 1972 la Piccola Casa è ritornata in Kenya, nella missione di Tuuru, al fine di dare una continuità
ed un valore sempre attuale alla testimonianza di tante suore, che cinquant’anni prima avevano dato la loro vita per dissodare il terreno di una cultura ancora totalmente ignara del Vangelo.
A ll’inizio del xx secolo la Piccola Casa fu contattata dal beato Giuseppe Allamano, che si trovò nella necessità di avere suore da mandare nelle neonate missioni della Consolata, quando ancora egli non aveva alcun progetto per la fondazione di una congregazione femminile. La richiesta fu accolta e per un ventennio (1903-1925) le suore Vincenzine del Cottolengo lavorarono in Kenya al fianco dei primi padri e fratelli della Consolata.
dissodarono il campo
Mons. Perlo desiderava prima di tutto avere delle «buone massaie», che fossero in grado di occuparsi del corretto andamento delle missioni. Progressivamente però esse furono investite di ruoli di primo piano nella evangelizzazione come la visita ai villaggi, l’assistenza agli ammalati e ai morenti, la cura pastorale dei piccoli per mezzo di asili infantili e il catecumenato delle ragazze.
Le Vincenzine si dedicarono anche ai bambini abbandonati, curandoli e allevandoli. Da tale attività nacquero i primi orfanotrofi.
Durante la Prima guerra mondiale vediamo le suore cottolenghine sparse in diverse parti dell’Africa Orientale per prestare la loro opera infermieristica e caritativa in vari ospedali da campo organizzati per lenire le sofferenze della popolazione indigena, coinvolta nelle ostilità senza peraltro conoscee il motivo.
Non mancarono le difficoltà, dovute alla lingua e al fatto che le suore erano preparate per il servizio del povero e dell’infermo, mentre fin dall’inizio furono impiegate per attività di catechesi diretta, per la quale non erano ancora pronte.
La difficoltà di comunicazione con la casa madre fece sorgere nella Piccola Casa un certo timore che le suore potessero in qualche modo perdere l’ispirazione carismatica originale, diventando poi di fatto una congregazione religiosa separata.
Un altro elemento che per certo creò notevoli difficoltà fu lo stile di vita imposto da mons. Perlo alle suore, ai padri e ai fratelli, fatto di privazioni eccessive e difficilmente sopportabili. Egli era un uomo radicale, esigentissimo con se stesso e anche un po’ troppo duro con gli altri che non erano fatti con il suo stesso stampo e rischiavano di ammalarsi conducendo un’esistenza modellata sulla sua.
Nel 1910 l’Allamano fondò le suore missionarie della Consolata che, finita la guerra, sostituirono gradualmente le suore Vincenzine. Queste lasciarono alle nuove venute i frutti del loro apostolato: case avviate, chiese ricche di ricami e paramenti e soprattutto delle comunità cristiane già iniziate, anche se ancora in tenera età e quindi bisognose di cure per crescere sane e robuste.
Le Vincenzine hanno dissodato il terreno. Non hanno potuto vedere molte conversioni e battesimi, ma i successi riportati nei decenni seguenti affondano le radici nel loro sacrificio di consacrate. Esse hanno «seminato nel pianto» lasciando poi ad altri la gioia di raccogliere «i loro covoni».
eredità ripresa
Sotto la spinta del rinnovamento impressa dal Concilio Vaticano II la Piccola Casa è ritornata in terra d’Africa. Il Cottolengo riprese coscienza che il seme sparso da tante sorelle in missione, era ormai pronto a germinare e a fare frutto: quando si trattò di decidere in quale parte del mondo iniziare, fu chiaro per i superiori della Piccola Casa che la nostra avventura missionaria avrebbe dovuto ricominciare là dove, per motivi storici, era stata interrotta. Mancava soltanto l’occasione per partire, o un segno particolare della divina Provvidenza, che aiutasse a capire in che modo il Cottolengo potesse reinserirsi nella chiesa del Kenya.
Nell’Africa equatoriale, e in particolare in Kenya, la poliomielite era, ed è tuttora, una fonte di grandi problematiche sociali, in quanto normalmente non uccide le persone affette, ma le rende gravemente handicappate, impedendo loro sia una vita autonoma, sia la possibilità di lavorare per provvedere alla famiglia.
Nel 1963, padre Franco Soldati, missionario della Consolata, cominciò a raccogliere i piccoli poliomielitici della zona di Tuuru, nel distretto di Meru. L’opera prosperò notevolmente e la struttura dovette essere ampliata, fino ad una capienza di 250 posti letto: assieme ai poliomielitici venivano accolti anche portatori di handicap mentale e affetti da paralisi spastiche.
Ingenti erano le spese di mantenimento. A questo si aggiunse il problema dell’approvvigionamento idrico: l’acqua veniva raccolta in un vicino corso d’acqua e trasportata alla missione con taniche caricate sulla Land Rover. Tale problema trovò soluzione a partire dal 1971, ad opera di fratel Giuseppe Argese, che riuscì a costruire un gigantesco acquedotto, ancora oggi considerato una meraviglia dell’ingegno umano.
L’opera diventava sempre più difficile da gestire per cui padre Soldati chiese la collaborazione della Piccola Casa. Padre Luigi Borsarelli, ai tempi padre Generale del Cottolengo, e madre Bianca Crivelli si dimostrarono molto interessati alla proposta e, dopo aver visitato la missione, conclusero che «quello era pane per i loro denti».
Nella lettera circolare che madre Bianca inviò a tutte le suore si legge: «Dopo esserci consigliate, aver pregato e fatto pregare, abbiamo optato per il nostro ritorno nelle terre già santificate dal lavoro, dalle fatiche e dagli eroismi delle nostre sorelle. Non potremmo fare a meno di ritornare là, perché la compianta madre Scolastica, chiudendo le memorie di suor Maria Carola, la pregava di intercedere affinché “quella fiaccola accesa con sacrifici eroici delle nostre sorelle non si spenga prima che altre sorelle giungano a riprendere il solco da lei lasciato interrotto”… Desideriamo tornare là dove il nostro santo Cottolengo è ancora conosciuto e amato, dove sono ancora di casa le sembianze delle nostre care sorelle».
Le prime cinque suore del Cottolengo giunsero a Tuuru l’11 marzo 1972. Tutte erano infermiere professionali, ad eccezione di una specializzata in fisioterapia. L’idea era quella di trasformare Tuuru in un vero e proprio centro di riabilitazione e di recupero per i poliomielitici, avvalendosi anche della collaborazione del prof. Operti, che si era nel frattempo reso disponibile a una preziosa opera di volontariato come chirurgo; la riabilitazione sarebbe stata affidata alle suore cottolenghine.
missione cottolenghina
Insieme al secondo gruppo di suore, partirono anche due fratelli cottolenghini che si inserirono gradualmente nell’organico lavoro della missione di Tuuru. Fratel Lodovico iniziò il proprio servizio al dispensario, dove ogni giorno affluivano circa 200 persone, affette da vari tipi di malattie, e collaborava con il prof. Operti per gli interventi chirurgici ai bambini polio ricoverati nella missione.
Fratel Umberto ben presto imparò l’arte di confezionare scarpe ortopediche e calipers per i piccoli handicappati di Tuuru. In seguito altri fratelli si unirono al nucleo originario dedicandosi chi al lavoro nella calzoleria e nell’officina ortopedica e chi alla formazione dei giovani aspiranti alla vita religiosa dei fratelli.
Giunsero quindi i primi sacerdoti cottolenghini che si dedicarono alla cura pastorale della parrocchia di Tuuru. Nel 1973, durante una visita canonica dei tre superiori della Piccola Casa si conclusero gli accordi con padre Soldati e con i superiori dei missionari della Consolata, per un passaggio definitivo del Centro e della parrocchia di Tuuru alla Piccola Casa. Sorsero poi anche le vocazioni locali: il primo sacerdote keniota fu don Filippo Ntonja, che aprì la strada a un nutrito gruppo di giovani che ora formano le nuove leve della società dei sacerdoti cottolenghini in Kenya.
Con la gestione del Centro di Tuuru da parte della Piccola Casa, venne dato un nuovo impulso all’edilizia con la costruzione di un reparto per i «buoni figli», una nuova casa per il ricovero delle bambine, la palestra, l’officina ortopedica, la calzoleria e il nuovo dispensario.
Il Centro sempre più si veniva qualificando come una struttura per la terapia chirurgica e riabilitativa dei bambini affetti da poliomielite. Il trattamento chirurgico veniva eseguito dal prof. Operti, che ogni anno giungeva in Kenya nel mese di febbraio, con l’incarico di operare tutti i bambini, che erano stati prescelti dalle suore nel corso dell’anno.
La parte di recupero funzionale era quindi lasciata alle sorelle fisioterapiste, che per molti mesi cercavano di recuperare motilità agli arti malformati, tramite una paziente e continua attività di rieducazione motoria. Tale attività è continuata fino al 1999, quando si è deciso di riconvertire l’attività della missione di Tuuru ai bambini spastici, cerebrolesi gravi. Tale scelta è nata dalla considerazione che dopo molti anni di campagne di vaccinazione antipolio, il numero dei bimbi affetti dalla malattia era radicalmente diminuito.
Da sempre Tuuru è stato anche un centro di accoglienza per i giovani «buoni figli», e ancora oggi accoglie un discreto numero di handicappati mentali, per lo più di sesso femminile. Tuuru è anche l’unica parrocchia cottolenghina in Kenya: è una parrocchia molto grande ed esigente, con un vasto numero di chiesette succursali, che vengono visitate regolarmente dai sacerdoti e dai catechisti. La missione, inoltre, ha costruito e gestisce una grande scuola elementare per i poveri, dove bambini bisognosi vengono accolti e seguiti nella loro educazione primaria.
nuova missione a chaaria
Sin dal 1983 si cominciò a sentire la necessità di una casa di formazione per i fratelli, che fosse più confacente alle necessità della loro crescita spirituale. Il vescovo di Meru offrì ai fratelli un terreno nella erigenda parrocchia di Chaaria, un piccolo mercato situato a circa 20 km da Meru.
La zona era semiarida e popolata da un esiguo numero di famiglie, per lo più dedite ad attività agricole per l’esclusivo sostentamento familiare. A Chaaria già esisteva una chiesetta, che però era succursale di una parrocchia alquanto lontana. Esistevano anche i locali di un piccolo dispensario costruito con le offerte della gente: dispensario che comunque non era mai stato attivato.
La costruzione del Cottolengo Centre di Chaaria proseguì velocemente e, nel giugno del 1985, il primo gruppo di candidati fratelli venne accolto nella nuova casa di formazione. In luglio vennero accolti i primi sette «buoni figli», tutti provenienti da Tuuru. Si trattava di giovanotti ormai adulti e diventati troppo pesanti per l’assistenza delle sole suore.
Il 19 gennaio 2001 a Chaaria sono giunte le suore cottolenghine: al momento sono solo due, ma i progetti della Piccola Casa prevedono l’ampliamento di questa comunità, al fine di dare un necessario taglio femminile al nostro servizio. Al momento suor Lucy si occupa di terapia occupazionale e della scuola speciale per gli handicappati. Inoltre si dedica ad attività di counselling per i pazienti affetti da HIV, e a programmi pastorali in parrocchia.
a servizio dei «buoni figli»
Fin dall’inizio fu attivato il servizio sanitario nel dispensario: il servizio copriva sei giorni alla settimana e riusciva ad assistere fino a 200 persone al giorno. Insieme alla terapia per varie malattie tropicali, si eseguiva prevenzione sia attraverso la vaccinazione dei bambini, sia attraverso le visite periodiche alle donne gravide.
Dal 1993 venne iniziata l’attività del mobile clinic, attraverso la quale si tentò di aiutare i pazienti provenienti da località molto remote. In giorni fissi il personale del dispensario usciva dal Centro, per raggiungere villaggi relativamente lontani, dove si organizzavano giornate di terapia e prevenzione, normalmente all’interno di alcune chiesette, che risultavano particolarmente adatte allo scopo.
Negli ultimi anni il dispensario è diventato un ospedale con 140 posti letto. La trasformazione si deve all’arrivo, nel 1997, di fratel Beppe Gaido, medico, la cui presenza consente al dispensario di fornire prestazioni di più ampia portata e attira un numero sempre maggiore di utenti con le patologie più varie, anche con carattere di urgenza o gravi; basti rilevare che nei primi sei mesi del 2003 il numero dei pazienti visitati gioalmente è giunto fino a 350 unità.
L’aumento dei pazienti è dovuto anche al fatto che essi sanno di venire curati adeguatamente, di poter trovare le medicine, un consiglio competente e un aiuto umano.
È da considerare poi che il servizio clinico dell’ospedale copre 24 ore su 24 anche le necessità sanitarie dei «buoni figli», con i quali si fa prevenzione, diagnosi di laboratorio e cure di vario genere. Inoltre, l’ospedaletto si prende cura di un certo numero di orfani, dalla nascita all’età di circa 6 mesi: tali orfani sono per lo più figli di donne decedute al momento del parto, tanto nel nostro ospedale, quanto in altri ospedali vicini.
Due volte al mese usciamo per il mobile clinic, e cerchiamo di portare le nostre prestazioni sanitarie più vicino alle persone che più ne hanno bisogno. Dal 1990 è presente un organizzato servizio dentistico supportato dal contributo di dentisti che vengono a Chaaria durante il mese di agosto. Dobbiamo veramente tanto ai volontari che hanno gradualmente elevato il livello delle prestazioni tecniche in ospedale: a loro dobbiamo l’inizio delle attività di ecografia diagnostica e l’attivazione dell’attività chirurgica.
Il Centro è attrezzato per 50 posti letto, al momento tutti occupati. Gli ospiti sono accuditi anche da un buon gruppo di personale dipendente, che ogni giorno segue le loro necessità personali. Oltre al quotidiano servizio domestico e alberghiero, esiste un’attività di apprendimento scolastico. Non sono mancati momenti di svago attraverso il gioco o le uscite dal Centro. Nel 2006 siamo riusciti a portare i «buoni figli» al Parco Nazionale per almeno due volte.
Il Centro è meta per visite guidate da parte di gruppi scolastici, parrocchiali ecc.
Quasi tutti gli ospiti hanno bisogno di interventi fisioterapici; esiste dunque una palestra totalmente dedita ad attività di riabilitazione per i «buoni figli». Anche nel Centro operano molti volontari che contribuiscono all’animazione dei ragazzi e alla normale gestione dei servizi.
C onoscere la storia è sempre importante, perché ci aiuta a capire il cammino percorso prima di noi, gli sforzi e i sacrifici che hanno contribuito a portare a compimento le opere che oggi vediamo e che spesso diamo per scontate.
È sempre utile per noi un ritorno alle origini, perché ci aiuta a collocarci meglio nello scorrere di una storia di cui effettivamente anche noi siamo un tassello e che sicuramente continuerà dopo di noi anche grazie al nostro contributo.
Beppe Gaido