La parabola del «figliol prodigo» (12) Un viaggio di schiavitù: dalla casa al porcile

«Per la libertà Cristo ci liberò: non sottomettetevi di nuovo al giogo della schiavitù» (Gal 5,1)

15E dopo essersi messo in viaggio andò a servizio di (lett.: si incollò, attaccò a) uno degli abitanti di quella regione, e (= che) lo inviò/mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno glie(ne) dava.

D ei 16 affreschi elencati nella puntata n. 10 dedicata alla parabola (cf MC maggio 2007) ne abbiamo preso in considerazione 10; ora ci apprestiamo a riflettere sui restanti 6. Li riportiamo di nuovo per facilitare la lettura e la riflessione:
11.    Colui che era figlio ora diventa servo (si mise a servizio).
12.    Il figlio sostituisce il padre con «uno qualsiasi» (uno degli abitanti di quella regione).
13.    Il viaggio intrapreso dal figlio porta ad un abisso di impurità (lo mandò nei campi a pascolare i porci).
14.    Colui che si credeva ricco perché aveva «tutto» non ha neanche gli avanzi di carrube (avrebbe voluto saziarsi con le carrube).
15.    Colui che era stato commensale del padre, ora è a mensa con i porci (che mangiavano i porci).
16.    Colui che fu il prediletto del padre è rifiutato anche dai porci (nessuno gliene dava).

Dopo essersi messo in viaggio
Il giovane figlio era partito da casa verso un paese lontano, a lungo sognato come regno della libertà, mèta della sua realizzazione: ora deve ripartire di nuovo. Non è ancora arrivato che deve ripartire: il viaggio fatto è già inutile. Anche se per raggiungere un obiettivo si percorre molta strada non significa che si approda a una mèta, perché questa deve coincidere con l’obiettivo del cuore, del proprio essere intimo. Il viaggio della maturità non è vagare a zonzo. Il giovane figlio è scollato dentro di sé perché non ha più punti di riferimento e la sua vita è stravolta perché sono crollati gli appigli che aveva scambiato per sicurezza: ricchezza, compagni, divertimento.
Immerso nella più totale solitarietà, è incapace di percepire la direzione della sua vita. La tracotanza diventa dispersione e la presunzione disperazione. Il giovane figlio non fa l’esperienza della solitudine che è l’abitudine a stare con la propria intimità, nel silenzio e in compagnia di Dio. L’essere solitario è il vuoto attorno a sé anche in mezzo a una folla: è il terrore.

In cammino o andare a zonzo. Aveva disperso «tutto» con allegria e si ritrova di nuovo sulla strada non più in cammino verso una mèta, ma in viaggio spinto dalla sopravvivenza e dalla fame, unica compagna rimastagli. Camminare è un atto religioso di pellegrinaggio, che conduce a uno scopo già conosciuto perché lo si è visitato nel proprio cuore: si cammina verso il proprio io profondo, verso l’amore, verso un amico, un’amica, verso Dio, anche verso la morte e oltre la morte. Qui, il figlio «senza salvezza», dissoluto, cioè sciolto e smembrato due volte, invece, si mette solo in viaggio perché non sa dove andare e alla fine prenderà quello che capiterà. Non guida più gli eventi, ora sono gli eventi anche occasionali e imprevisti che lo sovrastano.

Nota spirituale. Qui potremmo vedere la descrizione della nostra storia di fede: crediamo di essere in cammino, invece andiamo solo lontano; pensiamo di pregare, invece parliamo solo con noi stessi; c’illudiamo di avere Abramo come padre (Gv 8,39), mentre siamo solo figli senza storia. A volte succede di avere la presunzione di essere nella volontà di Dio solo perché siamo battezzati, consacrati, credenti; invece siamo solo «incollati a… uno qualsiasi» degli idoli che popolano il nostro orizzonte di vita e verso i quali viaggiamo spediti, allontanandoci, anche senza avee coscienza, sempre più dalla sorgente di vita che è pateità.
Il figlio giovane è spesso la fotografia a colori della nostra situazione precaria che si lascia riempire di cose e compagnie occasionali, ma si priva della relazione essenziale dell’amore che è sempre «mettersi in cammino verso…», non un «allontanarsi da…». Possiamo moltiplicare le nostre preghiere, esse spesso sono solo formule che ingannano noi e non commuovono Dio, perché siamo lontani, incollati a una terra dove nemmeno a Dio permettiamo di entrare. Tutto è confinato: noi lontano dalle nostre origini, Dio lontano dal nostro orizzonte, fratelli e sorelle lontani dal nostro amore. Possiamo fare finta, illudere la nostra illusione, non possiamo mai ingannare la nostra coscienza e lo Spirito che, anche se sepolto, è presente in noi e nelle nostre scelte.
A volte pensiamo di dare gloria a Dio, mentre invece celebriamo solo noi stessi. Non basta celebrare liturgie «perfette» e vestire panni liturgici sgargianti, od osservare materialmente regole, prescrizioni e orari; non è sufficiente essere preti, religiosi, osservanti e pii per essere «incollati» al Padre, al Figlio e allo Spirito fin nelle fibre più intime del nostro cuore.
Dentro di noi si agita un figlio che cerca salvezza, ma volendo salvarsi da solo, si ritrova a dissipare il «tutto» che è e che ha come se fosse «senza salvezza, da dissoluto: perduto due volte».

Conoscere ciò che si cerca. È un momento drammatico nella vita del figlio giovane. Egli ancora una volta si allontana dalla mèta che si era prefissato e che avrebbe dovuto essere la sua nuova casa: egli che già si trova in un «paese lontano», va oltre, ponendo un abisso tra lui e suo padre. Non ha trovato ciò che cercava, perché non sapeva cosa voleva. La persona matura che si mette in cammino sa sempre quello che cerca.
Questo supplemento di viaggio significa un allontanamento ancora più radicale da suo padre e dalla sua casa, la cui distanza aumenta, mentre proporzionalmente diminuiscono le possibilità di un ritorno. Sembrerebbe che l’evangelista volesse dirci che questo figliolo ha oltrepassato il punto di non ritorno, le colonne d’Ercole della sua consistenza. Cosa c’è più lontano di un «paese lontano»? C’è solo l’abisso dell’inferno, dove sta entrando il «figlio più giovane» che pretese la vita del Padre per dilapidarla in un commercio dissoluto senza salvezza.

Andò a servizio di (lett.: si incollò/attaccò a)
uno degli abitanti di quella regione
Senza padre, senza terra, senza eredità, senza ricchezza, senza prospettiva, senza dignità: egli semplicemente «non è». A lui si attanaglia a pennello la rassegnata dannazione del poeta: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti… Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale, Ossi di Seppia, «Non chiederci la parola»).
Non esiste la formula magica per scoprire mondi nuovi e lontani perché, se chi si mette in cammino non sa dove andare, può solo incontrare «ciò che non è, ciò che non sa» e non gli rimane che l’ultima spiaggia: aggrapparsi a «uno degli abitanti». Egli che voleva avere consapevolezza del proprio destino, dalla vita stessa è scaraventato nell’oblio dell’anonimato che è l’essenza del non-essere e il vertice del non-sapere.
«Uno degli abitanti»: non ha nome, né identità; addirittura non si dice che è «un uomo», ma che era solo «uno tra i tanti abitanti», un numero nella folla. Il testo greco è terribile nella finezza psicologica: usa il verbo kollàō, che significa «m’incollo/congiungo/aderisco/unisco».

Incollarsi alla vita. Il verbo è forte: indica una profonda intimità di condivisione di vita ed esprime anche il rapporto coniugale tra uomo e donna, per definire la fusione sponsale, che elimina la dualità di maschio e di femmina, per fare l’unità del nuovo soggetto coniugale. Il verbo kollàō elimina l’io e il tu per dare vita alla novità del noi: è un verbo che fa nascere una nuova personalità. In questo senso lo usa Matteo per affermare il principio della creazione, nella Genesi, che narra come l’uomo abbandona/si separa da suo padre e madre (cioè dalle relazioni esistenziali ed essenziali alla vita) per «lasciarsi incollare» alla propria donna ed essere così «due in una carne sola» (Mt 19,5; cf Gen 2,24). Qui il verbo esprime il suo significato più profondo, perché l’adesione dell’uomo alla donna produce l’unità più radicale della natura umana.
Luca stesso usa questo verbo per descrivere la polvere «che si è incollata/attaccata» ai piedi degli apostoli, divenendo parte di essi (Lc 10,11). In At 8,29 lo Spirito suggerisce a Filippo di «incollarsi al carro» dell’etiope sovrintendente della regina Candàce, per spiegargli l’identità del Servo. In At 17,34 lo stesso verbo è usato per descrivere l’adesione alla fede predicata da Paolo: «Ma alcuni uomini, essendosi incollati a lui, credettero». In Ap 18,5 invece è usato per indicare i peccati di Babilonia che «si sono incollati al cielo».
Questi pochi esempi sono sufficienti per soffermare la nostra attenzione su questo verbo che ha un senso decisivo e pone in atto un contrasto radicale tra la situazione di prima e quella di dopo. Non si tratta solo di mettersi a servizio per sbarcare il lunario in un tempo di carestia. La posta in gioco è molto più alta.

Conoscenza o anonimato. L’evangelista parla di un rapporto d’intimità che riguarda la vita e il suo destino, anzi le condizioni della vita stessa: colui che era figlio, ora è schiavo; colui che era libero di amare e di essere amato, ora è «incollato» a un anonimo; colui che voleva vivere a modo suo, ora è costretto a vivere a modo di un altro. Si è liberato di un padre, uccidendolo anzitempo per trovare un padrone a cui non esita di affidarsi incondiziona-tamente, incollando la sua vita a quella sua, instaurando, cioè, con lui una conoscenza così profonda da alienarsi per sempre: diventerà anonimo anche lui non solo per gli abitanti di quella regione, ma anche per gli animali, per i porci che non lo riconoscono.
La tragedia di questo figlio è terribile, se rapportata a quella dei suoi antenati, anch’essi in terra lontana (in esilio), che preferiscono morire, piuttosto che deturpare il nome e i canti di Gerusalemme: «Possa incollarmisi (kollàō) al palato la lingua, se non mi ricordassi di te (Gerusalemme)» (Sal 137/136,6). L’esule a Babilonia si strugge per essere stato costretto a separarsi dalla sua casa che è anche l’abitazione di Dio; mentre il giovane figlio ha scelto di separarsi dalla casa del padre per aderire/attaccarsi al vuoto del suo futuro senza salvezza. Egli si strappa dalla consacrazione al Dio di Gerusalemme e s’incolla, cioè si consacra a un padrone di morte. Essere incollato a uno qualsiasi degli abitanti di quella regione ha in questo contesto un valore profondamente religioso perché corrisponde anche a un atto di fede: egli accetta la legge, regole e comandamenti di «uno qualsiasi», compiendo un atto di apostasia dal suo Dio e dalla fede di suo padre. «Incollarsi a qualcuno» è accettae la prospettiva e dimensione di vita, quindi diventare come lui.

Lontano dalla Shekinàh. Non va verso l’anonimo come espediente per sopravvivere, ma è una conversione alla rovescia: abdicare da figlio d’Israele per diventare suddito di «uno degli abitanti di quella regione»; rinunciare alla sua identità di figlio del Dio di Abramo per essere servo di un impuro e sfruttatore; abbandonare le norme religiose del suo popolo per essere immondo e senza salvezza «in quella regione» che è «lontana» dal tempio, da Gerusalemme, dalla Toràh, dalla Shekinàh/Dimora del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Nel giovane figlio Adam ed Eva hanno toccato il fondo del loro costante e sistematico allontanamento dall’Eden.
Abramo credette contro ogni speranza; il giovane figlio rinnega con tracotanza; Isacco si offre in olocausto e si fa legare all’altare del sacrificio pur di restare fedele al padre suo e al Dio di suo padre; il figlio della parabola si scioglie da ogni obbligo e lega il padre all’altare del suo egoismo; Giacobbe si mette al servizio (gr.: doulèuō/io servo: il verbo conserva ancora un senso di dignità) di Labano per avere Lia e Rachele come mogli, restando distinto dal suocero e contestandone l’arroganza perfida (Gen 29,25.30), al contrario del giovane figlio, che invece prende l’iniziativa per vendere se stesso, abdicando alla sua stessa esistenza e alla sua dignità di persona. Lontano dal Dio d’Israele, come può essere vicino al senso della sua identità? Voleva vivere da parassita, ora è a rischio la sua stessa esistenza che non-vita.

E lo inviò/mandò nei suoi campi a pascolare i porci
Da un punto di vista letterario il versetto 15 contiene un «anacoluto», cioè viene cambiato il soggetto logico. Si sta parlando del figlio giovane che s’incolla a un abitante della regione e il versetto continua trasformando quest’ultimo in soggetto, contro ogni logica grammaticale: «Andò (il giovane è il soggetto) a servizio di uno degli abitanti della regione e lo mandò (uno degli abitanti è il nuovo soggetto) nei suoi campi a pascolare i porci».

Figlio di Beelzebùl. Pascolare i porci è proibito a un ebreo dalla Toràh: «Fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa, non mangerete i seguenti… il porco, perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo» (Lv 11,4.7; Dt 14,3-5.7-8).
Tale proibizione, più che a un motivo di igiene (il porco si nutre di ogni immondezza), si deva a una ragione mitologica: nella mitologia antica, il porco è associato al diavolo, è l’incarnazione di Beelzebùl (ancora oggi nella iconografia il diavolo viene raffigurato spesso con il piede di porco), che è la fonte dell’idolatria e impurità, perché egli è l’opposto di Dio, anzi il nemico. Il suo nome in babilonese è «Baal Zebul», cioè «Signore/Padrone della casa», che gli Ebrei storpiarono in «Baal Zebub – Signore delle mosche» (cioè degli escrementi). Un indizio forte di ciò lo troviamo nei vangeli sinottici, quando Gesù libera l’indemoniato addirittura da una «legione» di spiriti maligni, i quali dopo essersi arresi chiedono il permesso, che Gesù concede, di traslocare in un branco di circa duemila porci (Mt 8,28-34; Mc 5,1-14; Lc 8,26-34).

L’impurità sessuale. Pascolare i porci significa quindi mettersi sotto il dominio di Satana e del suo influsso malefico, accettare di passare dalla fede in Dio alla religione del maligno, dal comandamento della Toràh alla legge dell’ateismo. Nel 2° libro dei Maccabei si narra del vecchio scriba Eleazaro, che, viene costretto a mangiare carne di porco per avere salva la vita, preferisce la morte atroce e lasciare un esempio di fedeltà al Dio dei padri che avere salva la vita e condannare le generazioni future con un esempio di morte (2 Mc 6,18-31). Lo stesso avviene per i sette fratelli figli dell’eroica madre che preferisce lei stessa consegnare i figli alla morte pur di non trasgredire la legge di Dio (2 Mc 7,1-41, specialmente i vv. 1-3).
Il giovane della parabola accetta addirittura di «pascolare» i porci, cioè di allevarli per altri, e quindi partecipa alla corruzione del futuro, diventando strumento di morte anche per le generazioni seguenti. Un altro elemento di impurità del porco dipende dalla cultura greca che lo associa alla sfrenatezza sessuale (Aristotele, Historia animalium, V,14,546a,8-28).
Siamo sicuri che sia questo il contesto del vangelo di Luca, perché troviamo anche nella tradizione rabbinica la controprova che al tempo della chiesa nascente, questo era il sentire ebraico. La Mishnàh, infatti, prescrive che «nessuno può allevare porci in qualsiasi posto (beqòl maqòm)» (trattato Baba Kama/Prima Porta 7,7), mentre nel Talmud di Babilonia in modo ancora più esplicito si commina la maledizione a chi alleva porci e diffonde i costumi della cultura greca, mettendo così in stretta correlazione il porco e il pensiero greco, associandolo alla sfrenatezza sessuale: «Maledetto sia l’uomo che alleva porci e chiunque insegna la saggezza greca» (trattato Bekoròt/Primogeniti 82b).

La carruba e la speranza. Il giovane figlio non poteva cadere più in basso di così: dalla casa patea alla porcilaia, dal tempio all’impurità totale, dalla terra promessa benedetta alla maledizione in terra straniera, dall’obbedienza della parola di Dio alla schiavitù di un anonimo qualsiasi, dalla dignità di figlio alla schiavitù in terra lontana, dai sogni di grandezza all’abisso dell’abiezione.
Lui che era pastore di greggi nella casa del padre, ora è schiavo di porci che non gli riconoscono nemmeno la dignità di commensale. Volle affrancarsi dall’obbedienza del padre, per scrollarsi qualsiasi forma di dipendenza, e si trova davanti un padrone che «lo inviò nei suoi campi» e accetta la «missione» di essere impuro, senza protesta, alimentando l’impurità e sprofondando in essa sotto il peso della maledizione del suo popolo.
Lui che aveva aspirato a desideri di libertà, tanto da comprarla con la ricchezza iniqua, ora aspira a un solo desiderio: sfamarsi delle carrube che implora dai porci stessi al cui livello ormai si considera, ma i porci lo escludono dalla loro intimità e non lo vogliono nel loro porcile, perché egli è andato oltre l’abisso e ogni speranza che nessuna carruba potrà mai sfamare. Oltre l’immondezza della porcilaia, c’è appunto il giovane figlio che ha degradato la vita del padre incollandola a quella di un impuro e senza Dio. Non resta che una prospettiva, l’unica soluzione, la sola possibilità: la morte come pietra tombale sul vuoto che soffoca anche il desiderio di essere porco tra i porci. Come è lontano il padre adesso! Come è lontano il figlio da se stesso!  (continua – 12).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella