A prova di bombe
Penetrazione del cristianesimo tra i nuba
Su un milione circa di abitanti della regione dei Monti Nuba, il 33% segue l’islam, il 35% il cristianesimo (di cui 65% cattolici), il 32,22% la religione tradizionale.
L’attività di evangelizzazione è stata condizionata dalle vicende storiche del paese, con lunghi periodi di interruzione: una storia esemplare di fedeltà e martirio. Solo ora si è riaperta la possibilità di una evangelizzazione più efficace.
Il 1871 potrebbe essere la data dell’inizio della penetrazione del cristianesimo tra i nuba, con l’apertura di una stazione di missione a El Obeid per opera di Daniele Comboni. La località doveva diventare la base di lancio per portare il vangelo nel cuore dell’Africa e continuare la sua lotta contro lo schiavismo. La strada attraverso la regione dei nuba era preferibile a quella del Nilo, per raggiungere le popolazioni più meridionali del Sudan, denka e shilluk.
Nel 1874, infatti, a Delen (oggi Dilling, sei giornate di cammino a sud di El Obeid), fu aperta una stazione di missione, la prima tra i Monti Nuba. Il lavoro missionario ebbe un rapido sviluppo, anche se la missione dovette chiudere i battenti per due anni, dal 1875 al 1877, per l’ostilità dei mercanti arabi. Nel maggio 1881, mons. Comboni visitò per l’ultima volta la missione di Dilling, dove ebbe la gioia di battezzare i primi 40 nuba. Il quel viaggio visitò altre zone dei Monti Nuba e progettò l’apertura di una seconda stazione missionaria, per intensificare l’opera di evangelizzazione e la lotta contro gli schiavisti.
Di ritorno dal viaggio, così scriveva a Roma: «F ra un anno, o anche meno, l’abolizione totale della schiavitù presso i nuba sarà un fatto compiuto. Non si possono descrivere la gioia e l’entusiasmo delle popolazioni che, dopo la mia visita, non si sono visti strappare né un figlio, né una figlia, né una mucca, né una capra; riconoscono unanimemente che li ha liberati la chiesa cattolica».
Quello stesso anno, però, il Comboni moriva (ottobre 1881, a soli 50 anni) e in Sudan scoppiava la rivolta di Mohammed Ahmed Mahdi. E fu la catastrofe. Nel 1882 la missione di Dilling venne distrutta, i missionari (2 padri, 2 fratelli, 3 suore) furono fatti prigionieri. Avrebbero voluto portare con sé i loro cristiani «un centinaio tra donne e ragazzi», ma non vi riuscirono: la piccola comunità cristiana fu risucchiata nel vortice mahdista, come il resto della popolazione. La stessa sorte toccò ai missionari e missionarie presenti a El Obeid.
Quando le truppe anglo-egiziane, nel 1898, riconquistarono il Sudan, ponendo fine al regime mahdista, i missionari poterono ritornare e riprendere il lavoro missionario interrotto da 18 anni. I primi comboniani arrivarono a Ondurman nel 1899, ma mutarono strategia: invece di riprendere la strada dei Monti Nuba, per avanzare verso la regione dei Grandi Laghi, scelsero la via del Nilo. Anche perché il governo non permetteva attività missionaria nelle regioni abitate dalle popolazioni africane, classificate come «distretti chiusi», in cui era compresa anche la regione dei Monti Nuba.
Nel 1913 alcuni missionari del vicariato di Khartoum riaprirono la missione di Dilling, ma l’anno seguente i missionari furono inteati in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale.
Dieci anni dopo, si presentò una nuova opportunità, quando il governatore inglese del Kordofan domandò al nuovo vicario apostolico di Khartoum, mons. Paolo Tranquillo Silvestri, se intendeva riprendere possesso dei terreni della missione di Dilling e El Obeid, ma monsignore rinunciò spontaneamente, per intensificare l’evangelizzazione al sud, presso gli shilluk, nuer e denka. I nuba furono dimenticati per altri 20 anni.
Nel frattempo, però, in seguito al rifiuto di mons. Silvestri, il governo di Khartoum si rivolse ai protestanti perché lavorassero tra le popolazioni dei Monti Nuba. Alcuni membri australiani della Sudan Interior Mission accettarono subito l’invito e, nel 1930, aprirono il loro primo centro missionario a Heiban, per poi estendere la loro presenza nella parte orientale della regione.
La parte occidentale, invece, fu occupata dagli anglicani della Church Missionary Society, che nel 1933 aprirono il loro primo centro a Sellara, vicino a Dilling, e 10 anni dopo a Katcha.
Aiutati dal governo, i centri protestanti aprirono scuole elementari e varie «bush schools» (scuolette nella foresta) affidate ai catechisti. Se si eccettua le due scuole medie aperte a Katcha e Sellara, i protestanti fecero ben poco per offrire ai nuba una formazione superiore.
Parallelamente all’attività scolastica cercarono di portare avanti anche un certo lavoro di evangelizzazione, senza però offrire una profonda formazione cristiana: l’istruzione si riduceva spesso alla presentazione di qualche brano della bibbia. Nonostante il sostegno governativo e la lunga permanenza nella regione, i risultati furono deludenti, specialmente tra gli evangelici della Sudan Interior Mission: il loro rigorismo calvinista, che proibiva ogni bevanda inebriante e perfino le danze tradizionali, non attirava i nuba alla fede cristiana. Per cui, pochi furono i battezzati, rari i cristiani formati con una educazione secondaria o universitaria, capaci di impegnarsi nel campo politico e sociale.
Nel 1954, due anni prima dell’indipendenza del Sudan (1956), il vescovo di Khartoum riuscì ad ottenere dal governo il permesso di aprire due centri: Dilling e Kadugli. Bisognò cominciare tutto da capo. Poi, con lo scoppio della guerra tra il governo di Khartoum e le popolazioni del Sud Sudan, tutti i missionari stranieri furono espulsi dal paese.
Nel frattempo, El Obeid era diventata sede vescovile (1960), con la creazione dell’omonimo vicariato apostolico, distaccato da quello di Khartoum, successivamente fu elevato a diocesi (1974).
A partire dal 1969, la concessione di qualche autonomia amministrativa a territori meridionali, il clima politico divenne più sereno e fu possibile imprimere nuovo slancio all’attività missionaria: fu possibile aumentare il numero del personale (missionari e suore) e operare liberamente su vasto raggio e senza paura.
Mentre tra i Monti Nuba l’attività missionaria procedeva a singhiozzo e tra innumerevoli ostacoli, essa riscuoteva maggiore successo tra i nuba emigrati nelle grandi città del Nord Sudan, come El Obeid, Kosti, Khartoum. Relegati nelle periferie, impiegati nei lavori più umili, essi furono da sempre al centro dell’interesse e del lavoro di evangelizzazione.
A Khartoum, soprattutto fu molto attivo padre Muratori, fino alla sua morte, avvenuta nel 1959. Egli scrisse catechismi nelle più diffuse lingue nubane, istruì e battezzò centinaia di nuba e si dedicò alla preparazione di maestri e catechisti dei più importanti gruppi nubani. Tale lavoro, imitato da altri missionari, specie nella diocesi di El Obeid, è stato provvidenziale per la chiesa sui Monti Nuba: maestri e catechisti ne sono diventati la «spina dorsale», come afferma mons. Macram Max Gassis, vescovo della stessa diocesi.
Con la ripresa della guerra civile tra Nord e Sud Sudan, nel 1983, buona parte dei Monti Nuba si venne a trovare sotto il controllo dell’Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla) e gli abitanti (cristiani e musulmani compresi) si unirono ai ribelli. Per quasi 10 anni le comunità cristiane rimasero praticamente senza preti e senza vescovo, costretto all’esilio, per le sue prese di posizione contro l’arabizzazione e islamizzazione forzata imposta dal governo di Khartoum.
Per tutta la durata del conflitto, i nuba furono oggetto di una repressione così feroce da sfociare nella «pulizia etnica». Bombardamenti sistematici hanno distrutto scuole, ospedali e tutti i luoghi di culto cristiani nei Monti Nuba e varie moschee, poiché i musulmani nuba erano considerati eretici perché si opponevano all’imposizione della sharia (legge islamica). Le incursioni militari si sono accanite soprattutto contro i cristiani, facendo parecchi martiri.
I documenti raccolti da Human Rights provano che, dal 1993 al 1995, sono «scomparsi» circa 200 mila nuba, vittime di «genocidio». Bombardamenti, incursioni e rappresaglie governative sono continuate anche negli anni seguenti.
Nonostante l’isolamento, il terrore e la persecuzione, tre diaconi, un gruppo di catechisti e altri leader laici, hanno mantenuto vivo il messaggio cristiano anche in assenza dei sacerdoti. Hanno amministrato e registrato centinaia e centinaia di battesimi di adulti e fondato nuove comunità in villaggi lontani, dove l’annuncio del vangelo non era mai arrivato. In alcuni luoghi i diaconi hanno inventato un «surrogato» dell’eucaristia (vedi riquadro).
Con la firma del cessate il fuoco nel 2001 e dell’accordo di pace nel 2005, missionari, preti locali e suore sono tornati a Gidel, Kauda, Lumon e altre missioni distrutte durante la guerra civile. È cominciata la ricostruzione di chiese, scuole, ospedali, insieme all’attività di evangelizzazione.
Oggi, su un milione circa di abitanti presenti tra i Monti Nuba, 330 mila sono musulmani (33%), 320 mila seguono la religione tradizionale (32,22) e 350 mila sono cristiani (35%), cui 65% cattolici.
Il fatto più straordinario dal punto di vista umano e cristiano è che musulmani, cristiani protestanti e cattolici, seguaci delle religioni tradizionali convivono in pace e nel mutuo rispetto per tutte le religioni. Non di rado si incontrano famigli formate da genitori musulmani, due figli cristiani, due figli di religione tradizionale, altri due o tre figli che seguono l’islam. E tutto ciò senza che costituisse un problema per nessuno.
Una grande lezione di civiltà, in un mondo dove si cerca di fare diventare Dio un Dio di parte e le religioni vengono usate per dividere più che per unire.
La chiesa cattolica ha sempre goduto di stima e prestigio tra la popolazione nuba, grazie alle sue attività in favore della pace e della promozione umana. Ora che è tornata la libertà di azione e di movimento, si moltiplicano le iniziative di promozione umana e sociale, tanto che il governatore della regione di Gidel, Abdel Aziz, musulmano e uno dei leader dello Spla, ha detto al vescovo di El Obeid: «La chiesa è la nostra speranza».
Benedetto Bellesi