Le metropoli brasiliane nella morsa del crimine organizzato
Statistiche e sondaggi d’opinione rivelano come la gente in Brasile si senta ogni giorno meno sicura. Narcotraffico, miseria e corruzione sono il cocktail esplosivo che impensierisce la vita quotidiana degli abitanti del colosso sudamericano.
I l problema della violenza è una realtà con cui individui e società hanno sempre dovuto fare i conti nel corso dei secoli. Anche in Brasile l’opinione pubblica rimane ripetutamente scioccata di fronte a episodi violenti compiuti da organizzazioni criminali, a cui rispondono le forze dell’ordine con azioni altrettanto violente. Per non parlare di chi, come gli squadroni della morte, si arroga il diritto di «fare un po’ di pulizia» per proprio conto (o per conto terzi), contribuendo così a fare impennare le statistiche degli omicidi e a riempire le pagine di cronaca nera.
Nella società contemporanea, grazie soprattutto al potere dei media, la violenza viene trasformata in spettacolo e, attraverso questo processo, viene giorno dopo giorno banalizzata. È impressionante vedere la forma con la quale alimenta le pagine dei giornali e guadagna spazi televisivi.
Crimine, paura, violenza, sofferenza, dolore e morte sono elementi imprescindibili dell’esperienza umana, che vorremmo veder rimossi, cancellati, ma che non riusciamo a eliminare totalmente. Servirebbe una cultura della pace, la quale dipende dalla promozione di valori positivi e dalla vigilanza che persone e istituzioni riescono a mantenere sulla dimensione contraria, ugualmente presente, fatta di rivalità, egoismo, esclusione.
Senza un equilibrio stabile nella coesistenza dei due opposti sarà sempre impossibile costruire una società che possa garantire una convivenza minimamente accettabile fra gli esseri umani. Se le istituzioni sono assenti, le organizzazioni criminali hanno buon gioco a conquistare il vuoto lasciato da esse.
CIFRE INQUIETANTI
Il Brasile non fa eccezione. In questi ultimi tempi sono stati diffusi nel paese svariati sondaggi, aventi come tema la violenza. L’ultimo di essi in ordine di tempo, realizzato dalle Agenzie CNT e Sensus e divulgato lo scorso 10 aprile, indica come il 90,9% degli intervistati noti un aumento significativo della violenza nel paese. Soltanto il 5,2% ha affermato di non avvertire nessun incremento in materia di violenza, mentre il 4% non ha saputo esprimere la propria opinione.
La povertà e la miseria sono indicate dal 24,1% delle persone intervistate come le cause principali della criminalità; il 19,1% la attribuisce alla cronica mancanza di giustizia; un altro 19% ritiene che il narcotraffico sia la causa principale; il 15% ha colpevolizzato un sistema legislativo ritenuto troppo garantista; l’11% ha puntato il dito contro l’endemica corruzione della polizia; il 7,6% dà la colpa alla debolezza e disorganizzazione delle forze dell’ordine. La percentuale mancante, infine, non ha saputo che cosa rispondere.
Il sondaggio, realizzato in 24 stati della federazione e fondato su più di duemila interviste, ha anche riportato ciò che la popolazione pensa essere la causa principale dell’insicurezza in cui vive il cittadino brasiliano. Il risultato è inquietante, in quanto se il 71,7% ha attribuito la responsabilità della violenza nel paese ai criminali, ben il 20% ha indicato come colpevole della situazione l’azione violenta della polizia.
I cittadini intervistati hanno indicato nella violenza urbana la causa numero uno di insicurezza, invocando un’azione congiunta di tutti gli organi preposti a difendere il vivere comune e la tranquillità della popolazione, partendo dal governo centrale, per scendere a quello federale e via via toccando più capillarmente la società con azioni che partano dalle stesse amministrazioni comunali.
La grande copertura mediatica che i fatti criminali hanno nel paese ha contribuito a creare nella gente una sensazione diffusa di insicurezza, che si unisce alla rabbia che scatta di fronte ai tanti casi di impunità goduta da chi delinque. Questa sensazione fa sì che l’opinione pubblica esiga pene sempre più severe per tutti coloro che infrangono la legge.
Oggi, più della metà dei brasiliani è favorevole alla pena di morte, nonostante venga riconosciuto il rischio di possibili errori giudiziari. A tanto portano la frustrazione e il senso di impotenza avvertito dalla maggior parte della popolazione.
Nella valutazione del sondaggio presentata dal direttore dell’agenzia Sensus, Ricardo Guedes, la percezione che la gente ha della violenza in genere è maggiore della violenza reale. Questo dato è rafforzato dal fatto che, sebbene il 90,9% della popolazione riconosce un aumento significativo della violenza, solo il 16,8%, in realtà, ritiene di vivere in una città violenta. Infatti, un individuo può vivere degli anni o tutta una vita in città come Rio de Janeiro o San Paolo senza vedere o subire personalmente nessun tipo di violenza. I mezzi di comunicazione si incaricano di creare uno scenario di violenza più grande, dando ampia copertura ai fatti delittuosi.
Visto dal di fuori, si ha l’impressione che basti che il turista metta il piede in una città per essere attaccato da qualche bandito.
RIO: UNA LUNGA STORIA
DI VIOLENZA
Paura e violenza a Rio de Janeiro hanno percorso insieme un lungo cammino nella storia della città, attraversato secoli, guadagnando nuovi scenari e scatenando vecchie reazioni. Ciò non deve stupire: la violenza è alle radici del processo di formazione nazionale del Brasile. Pensiamo, ad esempio, all’epoca del commercio illegale del pau-brasil (un legname pregiato destinato al mercato europeo), quando si è dato inizio alla decimazione dei popoli indigeni nativi; oppure alla corsa all’oro, causa di avidità e violenza anche in Brasile. Per non tacere del traffico di schiavi. Tutto entrava, partiva e veniva trafficato nel porto di Rio.
Il senso di insicurezza nella città di Rio de Janeiro pervase tutto il periodo coloniale, cominciando proprio dagli inizi. Nella seconda metà del 16° secolo, la regione era stata invasa dai francesi, occupazione destinata a durare poco tempo, visto che già nel 1565 i portoghesi riuscirono a scacciarli dalla colonia.
Costante era, soprattutto, il timore del pericolo «esterno»: paura delle malattie portate dal traffico degli schiavi, delle invasioni straniere, di essere attaccati dai nativi. Questa angoscia, presente nella popolazione «carioca», scatenava reazioni di panico e paura anche in situazioni apparentemente innocue, come il semplice avvicinarsi di imbarcazioni sconosciute alla baia di Rio.
Anni più tardi, i francesi pianificarono nuovi attacchi contro la città e nel 1711 riuscirono a sconfiggere i portoghesi. Durante questi avvenimenti, grande parte della popolazione urbana si rifugiò in altre regioni, mentre le autorità, non potendo resistere, si arresero agli attacchi nemici.
Anche il traffico degli schiavi contribuì a creare grande preoccupazione alla popolazione urbana di Rio. Molti schiavi rimanevano esposti in vetrine per essere venduti; ma coloro che non avevano acquirenti potevano rimanere in città per giorni, settimane e anche mesi.
Gli abitanti, che già dovevano convivere con il disordine e l’insicurezza causati dalla mancanza di ordine pubblico, avevano anche paura di essere contaminati da malattie provenienti dalla povertà di igiene, che accompagnava il commercio degli schiavi venduti in città. Delinquenti comuni, schiavi, schiavi liberati, schiavi fuggitivi, zingari… tutto rappresentava una minaccia agli occhi degli abitanti di Rio, soprattutto della componente bianca.
Infine, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, con la crescita rapida e disordinata della popolazione urbana, si iniziarono a formarsi le favelas, quartieri di insediamento spontaneo, talvolta forzato, quasi sempre abusivo. In alcune di queste aree le istituzioni dello stato non si sono mai rese presenti, facendo di conseguenza mancare all’immensa popolazione di questi settori i servizi più elementari.
Vista l’assenza dello stato sul territorio, con l’andare del tempo gruppi mafiosi, legati al traffico degli stupefacenti, hanno occupato lo spazio lasciato vacante dallo stato, istituendo un vero e proprio «governo-ombra» a base criminale. I trafficanti stessi si sono da sempre incaricati di mantenere l’ordine all’interno delle favelas, facendo di tutto per non attirare l’attenzione della polizia.
Non sono però mancate vere e proprie guerre fra gruppi rivali per il controllo delle aree strategiche come i morros, le cime delle colline, le parti più alte delle favelas, da cui è facile tenere tutto e tutti «sotto mira».
La polizia e l’esercito entrano periodicamente in queste aree per tentare di non perdere completamente il controllo della situazione e «far vedere i muscoli». Queste guerre tra bande di narcos, la polizia e in alcuni casi le milizie di vigilanti, terminano quasi sempre con la morte di qualcuno: siano essi criminali, poliziotti o civili innocenti.
Il numero di giovani morti nelle favelas a causa della violenza urbana supera quello offerto dai bollettini di molte zone di guerra. Secondo il B’tselem, un gruppo israeliano impegnato nella difesa dei diritti umani, nel periodo compreso fra il 2002 e il 2006, sono morti 729 minorenni israeliani e palestinesi a causa della violenza in Israele e nei territori occupati. Durante lo stesso periodo, secondo i dati foiti dall’Istituto di sicurezza pubblica brasiliano, nella sola Rio de Janeiro sono stati assassinati ben1.857 minorenni.
Recentemente, il governatore dello stato di Rio de Janeiro, Sergio Cabral, ha chiesto al presidente Lula «l’uso delle forze armate per il periodo di un anno, al fine di garantire la legge e l’ordine nello stato, nella regione metropolitana e nella città di Rio de Janeiro». Nella dichiarazione pubblica resa dal governatore, si rileva come, «nonostante i ripetuti sforzi svolti in quest’area dal servizio pubblico, sia stato finora molto difficile, con le risorse disponibili, far fronte all’avanzata della criminalità che minaccia l’ordine pubblico e l’incolumità delle persone e del loro patrimonio».
L’appello è più che mai urgente in questo periodo in cui Rio si prepara ad essere la sede dei giochi panamericani, che avranno luogo nella metropoli «carioca» dal 13 al 29 luglio prossimo. L’avvenimento, che avrà per giunta un’attenzione speciale da parte dei media, esigirà un rinforzo significativo della pubblica sicurezza.
Si può dire che la Rio di oggi sia una miscela paradossale. Se da un lato fa sfoggio di bellissimi paesaggi e spiagge che portano in città milioni di turisti ogni anno, dall’altro assiste all’aumento esponenziale delle favelas, ubicate soprattutto sulle colline che circondano la città. La più famosa di esse è la Favela de Rocinha, la più grande e popolosa del paese. La gioia e il colore della samba, presenti ogni anno nella sfilata del carnevale, si armonizzano con le storiche partite di calcio nello stadio del Maracaná, con la statua del Cristo Redentore, ma si scontrano con le tragiche conseguenze prodotte dalle attività della criminalità organizzata.
Soprannominata la «città meravigliosa», Rio convive oggi con la sfrontatezza di un’organizzazione mafiosa comandata da fazioni criminali come quella del «Terceiro comando» o del «Comando vermelho», organizzazioni criminali responsabili di delitti efferati e dello stato di permanente insicurezza della popolazione.
DALLE CARCERI
DI SAN PAOLO
In Brasile, il crimine organizzato si infiltra fra le maglie della società civile, approfittando della poca intesa politica fra i governanti e della corruzione diffusa, che ammorba e indebolisce le istituzioni che dovrebbero combattere il crimine. Se a Rio sono attive le milizie criminali, a San Paolo agiscono pressoché indisturbati (e quasi sempre con la connivenza della polizia) gli squadroni della morte.
Secondo l’avvocato Ariel de Castro Alves, cornordinatore del Movimento nazionale dei dirittti umani, per capire meglio i conflitti a Rio e la violenza quotidiana che colpisce oggi il paese, è importante ricordare quanto è capitato a San Paolo negli ultimi anni con l’avvento del gruppo criminale «Primeiro comando da capital» (Pcc), nato nel 1993 nei pressi della Casa circondariale di Taubaté.
L’idea originaria dei fondatori del gruppo era quella di organizzare i detenuti attraverso un partito o movimento politico, avente il fine di lottare contro gli episodi di ingiustizia e violenza che avvenivano quotidianamente all’interno delle prigioni brasiliane: torture, umiliazioni e assenza di diritti elementari nel sistema carcerario. Il Pcc chiedeva anche che venisse resa giustizia ai 111 prigionieri uccisi dalle forze speciali della polizia militare nell’episodio conosciuto come il «Massacro del Carandiru», del 1992.
Con il tempo, l’organizzazione si è fatta più complessa e ha deviato dalle finalità originarie postulate dai suoi fondatori, rafforzandosi rapidamente a causa della precarietà che caratterizza il sistema carcerario brasiliano e dalla mancanza di volontà politica di voler affrontare di petto il problema. Nello stesso periodo, le autorità hanno limitato la presenza delle organizzazioni umanitarie nelle strutture carcerarie, impedendo l’ingresso di molti loro rappresentanti all’interno delle prigioni.
Senza più controllo e monitoraggio di alcun tipo e facendosi forza della corruzione vigente a tutti i livelli del sistema carcerario, il Pcc si è presto trasformato in una potente organizzazione criminale. Il suo dominio si è venuto via via affermando grazie a crimini compiuti dentro e fuori le mura carcerarie, sfruttando e ricattando altri prigionieri e loro familiari, accumulando ricchezza grazie al traffico di droga, imponendo terrore e morte a coloro che li avversavano o che tradivano. Non è neppure mancato l’aiuto benevolo di avvocati, funzionari dello stato, membri delle forze dell’ordine e altre figure «utili» arruolate in svariati settori della società.
Invece di agire con fermezza, lo stato ha preferito procedere al riconoscimento di leader e portavoce del movimento, mantenendo aperto con il Pcc un dialogo fatto di negoziati e accordi reciproci. Era sembrata una buona strategia quella di negoziare con pochi esponenti del gruppo, in grado di esercitare un controllo sugli altri membri dell’organizzazione.
Questo sistema ha funzionato soltanto per qualche anno. Il crimine organizzato nelle prigioni è cresciuto rapidamente, sfuggendo totalmente al controllo delle istituzioni. La prova di forza più importante del gruppo criminale si è avuta con la ribellione del febbraio 2001, che ha coinvolto 29 stabilimenti carcerari nello stato di San Paolo. Il trasferimento di prigionieri dallo stato paulista in altri istituti di pena del Brasile ha contribuito a far sì che l’organizzazione creasse ramificazioni e avesse appoggi in tutto il paese.
Nel corso degli anni 2001-2003, svariati attacchi contro poliziotti e tribunali sono stati attribuiti al Pcc. Tuttavia, il fatto di cronaca più eclatante risale al 12 maggio dell’anno scorso, quando il crimine organizzato ha dato inizio alle esecuzioni sommarie di agenti dello stato. Tra maggio e agosto, l’organizzazione avrebbe ucciso ben 59 persone in 3 ondate di attentati (poliziotti, guardie civili, agenti di custodia e civili) e si sono contate ribellioni e sommosse in gran parte degli istituti di pena, inclusi vari carceri minorili.
Sebbene lo stato di San Paolo sia stato quello maggiormente colpito da questi avvenimenti di violenza e panico, si sono contati disordini anche in altri stati del paese, come Espírito Santo, Paraná e Mato Grosso.
Dopo l’ondata di attacchi del 12 maggio, si è assistito alla «ritorsione» orchestrata dalle forze dell’ordine e degli squadroni della morte, in un insieme di violenze che ha portato a vere e proprie esecuzioni sommarie e massacri. Secondo i risultati delle autorità, tra il 12 e il 20 maggio 2006 sarebbero morte in totale ben 492 persone.
Altri dati foiti dalla «Segreteria di pubblica sicurezza» hanno dimostrato che nel secondo trimestre del 2006 sono state assassinate a San Paolo 1.888 persone: una cifra che corrisponde a più del doppio delle vittime avutesi in Iraq nello stesso periodo. Il terrore ha invaso la più grande metropoli dell’America Latina. La polizia ritiene che, in almeno 82 episodi, gli squadroni della morte si siano resi responsabili di omicidi e sparizioni, ma nessuno di questi casi è stato ufficialmente chiarito da polizia o magistratura. Le notizie sono negate dalle autorità e il Pubblico ministero ha finora avuto grandi difficoltà a reperire dati ufficiali e informazioni.
I testimoni temono ritorsioni e non credono nelle istituzioni, ragione che favorisce l’impunità di chi delinque. Oggi, un anno dopo gli attacchi da parte del crimine organizzato e la reazione sconsiderata di forze dell’ordine e squadroni della morte, la situazione è ancora propizia per nuovi scontri e altri massacri. Il sistema carcerario continua ad essere fuori controllo, la polizia non riesce a far fronte all’emergenza, la maggioranza delle famiglie degli agenti uccisi durante gli scontri non sono ancora stati indennizzati.
BABY CRIMINALI
Negli ultimi tre mesi, si sono verificati crimini che hanno generato un dibattito nazionale su violenza e realtà minorile. Il Congresso brasiliano sta pensando di applicare sentenze più dure per crimini che coinvolgono bambini e possibilmente ridurre l’età minima per poter giudicare i criminali adolescenti. Attualmente più di 300 progetti di legge sono stati presentati al Congresso nazionale, con proposte tendenti a ridurre la maggior età penale da 18 a 16 anni. Altri due progetti arrivano a proporre la riduzione dell’età rispettivamente a 14 e addirittura a 12 anni.
Enti come la Conferenza episcopale brasiliana e l’Ordine degli avvocati del Brasile (Oab) si oppongono duramente a queste proposte, che non vengono viste come soluzioni adeguate al problema della criminalità minorile. Anche due avversari politici come il governatore dello stato di San Paolo, José Serra, e il presidente Lula sono d’accordo che la diminuzione dell’età perseguibile non risolverebbe il problema della violenza causata da ragazzini e adolescenti.
La questione è annosa e controversa, perché una qualsiasi soluzione deve tenere in conto i parenti delle vittime della violenza minorile che esigono giustizia e, con indignazione, rifiutano tutto ciò che tutela i giovani che si macchiano di crimini anche orrendi. Alcuni casi in particolare suscitano vivaci dibattiti in seno all’opinione pubblica. Uno di questi, particolarmente odioso, si è verificato di recente a Rio de Janeiro e ha riguardato la morte del bambino João Helio, di appena 6 anni, rimasto impigliato nella cintura di sicurezza dell’automobile di sua madre, alla quale alcuni banditi stavano rubando la vettura. Tutti gli occupanti del veicolo erano riusciti a scendere, mentre il piccolo João non ce l’aveva fatta ed era stato trascinato per 7 chilometri.
Uno dei banditi aveva 18 anni al momento dell’aggressione: la pena detentiva che lo attende può variare da 20 a 30 anni di reclusione; il suo complice sedicenne, invece, potrà rimanere detenuto al massimo per 3 anni, secondo quanto prevede l’attuale legislazione.
Movimenti per i diritti civili e Ong continuano a fare pressione, esigendo che alle misure repressive in ambito di ordine pubblico, vengano associate misure preventive in ambito sociale. Il 10 aprile scorso si è realizzata una mobilitazione nazionale che ha attirato l’attenzione della società brasiliana e dei mezzi di comunicazione sulla necessità di migliorare il «Sistema nazionale di promozione socio-educativa» (Sinase) e di procedere a investimenti immediati e urgenti di politica pubblica.
La violenza, in Brasile come altrove, è un problema complesso, che presenta molte sfaccettature e dipende da innumerevoli cause. Una di queste è la proliferazione delle armi da fuoco, che si possono ottenere con esagerata facilità nel paese.
In Brasile, come in altre parti del mondo, regna una cultura della violenza e contro questo fenomeno c’è l’assoluto bisogno di educare le persone. Nel mese di ottobre 2005, per esempio, non è stato approvato un referendum che puntava all’esercizio di un controllo più capillare ed efficace del commercio delle armi.
Tuttavia il nuovo «statuto del disarmo», entrato in vigore nello stesso anno, è considerato rigoroso e moderno. Secondo la nuova legge, oggi dovrebbe risultare più difficile acquistare o avere accesso a un’arma. Peccato che alle buone intenzioni non si accompagnino sempre fatti concreti. Infatti, si continua a sapere di imprese che hanno aumentato la loro fabbricazione e vendita di armi sul mercato brasiliano. Ciò che rimane da stabilire è se queste armi vengono vendute legalmente…
Toccherebbe allo stato fare i controlli del caso, e applicare in modo severo una legge per altro già esistente. Ma si sà: i poteri sono molto deboli e la corruzione si tocca con mano in ambito giudiziario, legislativo, nelle forze dell’ordine e nelle istituzioni in genere. Come conseguenza si hanno indici molto bassi di controllo dei crimini e punizione dei colpevoli. La popolazione vive sfiduciata e insicura, cercando i mezzi di difendersi per conto proprio, con quello che trova.
Si può anche capire lo stato di confusione in cui il Brasile, oggi, sta vivendo. Non esistono facili vie di uscita, ma recuperare l’autorità dello stato di diritto e aumentare le politiche sociali sono misure indispensabili.
Di Jaime Patias
Jaime Patias