Senza lavoro e senza casa

Introduzione

Kibera è una delle più estese e popolate bidonville africane. Alle 6 del mattino chi si piazza alle entrate della baraccopoli può assistere alla versione keniana dell’esodo biblico. Un oceano di formiche umane si scrolla di dosso la notte africana e inizia la lunga marcia verso le strade caotiche della capitale. Alle 7 di sera è nuovamente in fila per compiere il percorso inverso, carico delle frustrazioni accumulate in 12 ore di «scuola di sopravvivenza» nella grande città. Succede così, giorno dopo giorno, fintanto che il sole continua a sorgere e filtrare fra i tetti di lamiera delle baracche fatiscenti in cui vivono, compresse come sardine, quasi 800 mila persone. Migliaia di storie diverse, tutte apparentemente insignificanti, ma tutte indice di un dato tanto inquietante quanto incontrovertibile: la popolazione urbana sta crescendo a dismisura e presto, molto presto, supererà per numero quella rurale.

La migrazione dalle campagne alle città è un fenomeno che ha accompagnato la storia dell’uomo nel corso dei secoli: carestie, guerre, epidemie hanno sempre provocato movimenti di persone dalle zone rurali a quelle urbane, ma mai, come in questo ultimo secolo, il fenomeno ha assunto proporzioni così consistenti. Viene da chiedersi seriamente se il flusso così imponente di persone verso le città sarà sostenibile da un punto di vista sociale e ambientale o se questa realtà sarà destinata a implodere con conseguenze che vanno al di là delle possibili previsioni. Ciò che già sembra certo è che il convergere così velocemente e in forma tanto massiccia negli spazi urbani sta cambiando radicalmente il volto delle città. Insediamenti urbani di medie dimensioni stanno diventando autentiche metropoli, mentre le metropoli di un tempo si stanno trasformando in megalopoli con valori demografici superiori a quelli di tanti stati del pianeta.

Slum, baraccopoli, bidonville, insediamento informale sono alcuni dei nomi, ormai tutti entrati nell’uso corrente, per definire un’unica realtà: il posto infame dove, in città, vanno a vivere o dove cercano di sopravvivere i più poveri della terra. Oggi, un sesto degli abitanti della terra vive in uno slum; ciò significa che circa un miliardo di persone vive in ambienti sovrappopolati e malsani, con un abitato che i documenti definiscono eufemisticamente «informale», ma che dovrebbe essere etichettato invece come «indegno di qualsiasi essere umano».

Nel suo recente saggio «Città Ombra: viaggio nelle periferie del mondo», Robert Neuwirth scrive: «Ho cominciato a interrogarmi sulla moralità di un mondo che nega alle persone un posto di lavoro nella zona dove abitano, e poi gli nega un’abitazione nella zona dove sono arrivati per ottenere un lavoro. E ho cominciato a riflettere sulla mia responsabilità». La «mia» responsabilità. Questo appello alla moralità e alla responsabilità dovrebbe toccare un po’ tutti, ma soprattutto coloro che, per scelta o vocazione, dedicano la loro vita ai poveri, primi fra tutti i missionari. È importante continuare ad essere inseriti nelle comunità che abitano le baraccopoli per condividere il desiderio che le persone hanno di uscire dal fango e dare alla loro vita una dignità perduta e un futuro diverso. È importante insistere nell’appoggiare progetti di sostegno, solidarietà e promozione umana. È però anche importante «dar voce» a chi non ce l’ha, facendo rete e protestando contro quelle politiche economiche inique dei paesi sviluppati che continuano a considerare i paesi in via di sviluppo come terre da conquistare, colonizzare e spolpare, incuranti dei danni umani e sociali che tali politiche provocano. Una responsabilità verso le periferie del mondo che soprattutto chi vive al centro e vive bene può e deve in coscienza assumere.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Tra petrolio e povertà

Intervista a Desiré Ename, giornalista gabonese

Ricco di petrolio e legname pregiato, il Gabon ha poco più di un milione di abitanti, ma non riesce a sconfiggere la povertà. Tra automobili da centomila euro e ristoranti di lusso non mancano baracche
in lamiera e gravi violazioni delle libertà personali. Intervista a un gabonese contro: il giornalista Desiré Ename
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Una quantità di petrolio da far impallidire l’Arabia Saudita, giacimenti di gas apparentemente senza fine, diamanti, oro, uranio e ferro da mettere in ginocchio le grandi miniere del mondo e il legname pregiato della foresta pluviale a totale disposizione delle segherie e delle industrie. Il Gabon ha tutte le carte in regola per essere uno dei paesi più ricchi dell’Africa e, in assoluto, il più stabile. Mai una sola guerra nella storia e un solo tentativo di colpo di stato, peraltro fallito. Un record assoluto per il continente nero.
Ma dietro gli edifici modei che ospitano i ministeri e i palazzi lussuosi della capitale gabonese Libreville, lungo la splendida costa oceanica, appaiono, dimenticate, le baracche di lamiera, dove vive circa metà della popolazione, quella che non ha accesso alla ricchezza e che non può godere dei frutti del petrolio e delle miniere.
Le auto da centomila euro che attraversano le quattro corsie del Boulevard Triomphal Omar Bongo, dedicato all’attuale presidente gabonese, stonano al passaggio della gente a piedi, che torna nei quartieri poveri dove spesso mancano luce e acqua. E anche se i gabonesi ricchi sembrano girarsi dall’altra parte, qualcuno ancora vede le ingiustizie.
Il Gabon è «un’enorme contraddizione e un regno dell’ipocrisia» dice Desiré Ename, direttore di Les Echos du Nord, l’unico giornale d’opposizione del paese. E per questo lo abbiamo intervistato.

Il Gabon era ed è uno dei paesi più ricchi dell’Africa e indubbiamente uno dei più stabili, ma non è riuscito a sconfiggere la povertà e nemmeno a garantire i diritti più basilari a quasi metà della sua popolazione. Quali sono i problemi del Gabon?
«Il Gabon è un vero e proprio scandalo geologico. Nella foresta pluviale intorno al bacino del fiume Congo si trovano i materiali necessari ai complessi industriali di mezzo mondo e fonti energetiche di primaria importanza. La miopia della classe dirigente, però, ha impedito che si impiegassero le ricchezze in modo lungimirante. Le ricchezze del Gabon non sono adeguatamente sfruttate e il governo si è accontentato dei guadagni immediati, senza pensare al futuro e senza investire in infrastrutture o in industrie di trasformazione.
Il presidente Omar Ondimba Bongo è al potere dal 1967 e nei suoi 40 anni di governo ha eliminato tutte le forme di opposizione, spartendosi le ricchezze con le famiglie più influenti del paese. Per capire la situazione del Gabon basta pensare alla storia di un vostro connazionale: un italiano che venne a investire qui qualche anno fa. Lui non voleva accettare il sistema di corruzione che vige nel paese, non so se per onestà o perché gli avevano chiesto troppi soldi. Però una cosa è certa: si è rifiutato di pagare e, nel giro di pochi mesi, l’amministrazione statale ha iniziato a creare problemi con i permessi, ha moltiplicato i vincoli burocratici, fino a che la polizia ha sequestrato l’hotel che l’impresa italiana stava costruendo. Alla fine l’impresa se ne è andata dal paese, lasciando anche i macchinari e i computer negli uffici».

Che le amministrazioni africane siano corrotte non è una novità. Spesso sono eredità del periodo coloniale: i governi occidentali hanno più o meno direttamente appoggiato governi corrotti in tutto il continente per avere dei tornaconti economici. Chi c’è dietro Bongo?
«Il fatto che la sicurezza nazionale del Gabon sia garantita dall’esercito francese dovrebbe dare qualche suggerimento. Nel 1964, l’unico caso di tentativo di colpo di stato, ai danni del presidente Leon Mba, predecessore di Bongo, fu sventato dall’armata francese. Nonostante ciò, la presenza occidentale è determinante fino a un certo punto: anche altri paesi hanno subito il colonialismo, ma poi si sono sviluppati e non hanno condizioni di povertà così gravi.
Il colonialismo e le influenze dall’estero sono spesso una scusa: il problema del Gabon sono i suoi governanti, non i governanti degli altri. L’attuale governo manca di intelligenza e visione del futuro. Basta guardarsi intorno: nel primo periodo dell’indipendenza sono stati distrutti i simboli del colonialismo, le case e i palazzi costruiti dai coloni. Ma questo non è servito a far rinascere una cultura africana; è servito solo a cancellare la storia e far crescere l’ignoranza dei gabonesi.
E questo ha anche creato dei problemi a livello internazionale: la mancanza della conoscenza del passato ha provocato delle tensioni con la Guinea Equatoriale a proposito delle acque territoriali. In pratica, è stato scoperto un giacimento di petrolio nei pressi di un isolotto, giusto al confine tra i mari dei due paesi, e nessuno è in grado di ricostruire a chi appartenga storicamente quella zona».

I confini africani sono delle linee rette disegnate dai governi delle potenze coloniali durante il Congresso di Berlino nel 1884. Ci sta dicendo che nessuno ha i documenti che provino le reali linee di confine?
«Non posso parlare per l’intero continente. Io conosco il Gabon, come immagino che voi italiani conosciate bene l’Italia, ma non siate contemporaneamente esperti di Germania, Francia o Gran Bretagna. Il caso dell’isolotto di Mbane è un po’ particolare: nessuno si era interessato ai confini, fino a quando non si è scoperto che la zona è ricca di petrolio. L’isolotto storicamente appartiene al Gabon. La Guinea Equatoriale lo ha ceduto al nostro paese circa 60 anni fa, durante il periodo delle indipendenze. La miopia del governo, però, è tale che la nostra amministrazione non è in grado di produrre il contratto originale, perché pare che si sia perso nei meandri della burocrazia.
Il mio giornale, Les Echos du Nord, ha dedicato una prima pagina a questo problema, anche perché sono anni che le Nazioni Unite fanno pressioni per risolvere la controversia. Ma il risultato che ho ottenuto è stata la chiusura del giornale per attività antipatriottica».

La stampa gabonese sembra libera, ma da quello che dice lei, anche questa è un’illusione. Qual è la situazione delle libertà di espressione?  
«Nonostante la nostra capitale si chiami Libreville, le libertà sono limitate a quello che non infastidisce il governo di Omar Bongo. I giornali sono controllati dallo stato e le intimidazioni sui giornalisti sono continue. La maggior parte delle pressioni non sono di carattere violento: sono anni che Bongo compra i suoi oppositori. Ogni anno i giornalisti che si comportano bene verso il governo vengono in qualche modo premiati e a ogni elezione ci sono brogli elettorali, fino a che uno dei partiti dell’opposizione non passa con il governo. Quest’anno siamo arrivati a 53 ministeri.
Bongo è ricco e usa i suoi soldi per comprare gli avversari. L’unica cosa che non divide mai è il potere. E infatti, quando il mio giornale ha pubblicato un articolo critico nei confronti della politica estera del Gabon a proposito dell’isolotto di Mbane, siamo tutti stati sospesi. Il giornale è stato riaperto quasi un mese dopo, solo in seguito a un mio sciopero della fame, ma su di noi le pressioni sono continue, al punto che anche il deputato dell’opposizione a cui facevamo riferimento ha gettato la spugna. Oggi è uno dei vicepresidenti del governo e non conta quasi nulla a livello decisionale. È solo molto più ricco di prima».

Sembra di ascoltare la descrizione di un sistema di poteri mafiosi. Chi è dentro ci guadagna e chi è fuori ha paura di protestare. Ma è possibile che nessuno di quelli che vivono nelle baracche insorga nei confronti dei gabonesi ricchissimi?
«Il lassismo è diventato un tratto del carattere dei gabonesi. La storia e le libertà politiche sono state soppresse per così tanto tempo che non ricordiamo più quali sono i nostri diritti e i nostri doveri. Siamo passivi: non troviamo il senso in quello che facciamo e ci siamo affacciati alla politica da troppo poco tempo per supplire con l’esperienza. Le libertà non sono limitate solo dalla politica del governo, ma soprattutto dall’ignoranza. Anche in Europa o negli Usa c’è ancora tanta ignoranza; ma se si pensa che a un gabonese povero l’istruzione costa tre-quattro volte tanto che a un europeo o a un americano povero, si capisce che la situazione qui da noi è decisamente più difficile. Basta pensare al fatto che in Gabon non ci sono trasporti pubblici e chi abita lontano dalla scuola o si paga un taxi o non ci va proprio. In una situazione come questa è facile capire che non può crescere una coscienza politica e tutti pensano al tornaconto personale. E in Gabon, negli ultimi 30 anni, non ci sono stati cambiamenti. Anzi».

La situazione del Gabon potrebbe essere senza dubbio migliore, ma a vedere questo paese, non sembra che le condizioni siano tanto peggio di quelle in cui vivono gli europei o gli americani. Anche in Occidente c’è degrado. In Italia meridionale ci sono quartieri popolari dove non arrivano la luce e l’acqua; nella periferia di Milano sono comparse le baracche. Sicuramente il Gabon sta meglio rispetto alla media dei paesi africani. Cosa ne pensa?
«È normale che la prima impressione sia quella di un paese che va a gonfie vele. Nei ristoranti di lusso che sorgono sul Bord de Mer  (la strada costiera di Libreville) i neri e i bianchi sembrano mescolati. Sembra che tutti abbiano la loro fetta di ricchezza. Purtroppo però nella realtà non è così. Tutto questo è uno spettacolo voluto dal presidente Bongo. L’intera capitale è una facciata di carta, a uso e consumo dei clienti dell’Hotel Atlantic o dell’Intercontinental che vengono a stringere accordi o a firmare contratti.
La stabilità di questo paese si fonda sulla paura. Contrasti e idee non sono stati armonizzati. Sono stati soffocati. Faccio un esempio: nel 1994 il governo ha firmato un accordo con alcuni paesi occidentali per lo smaltimento dei rifiuti tossici. Bongo non ha informato né il parlamento né tanto meno la cittadinanza. I rifiuti nucleari sono stati trasportati di notte nella foresta e seppelliti da qualche parte verso il nord-est del paese. Recentemente si è constatato che nella zona sono morti tutti gli animali e, quel che è peggio, la gente dei villaggi ha iniziato ad ammalarsi, perché le scorie radioattive hanno contaminato le falde idriche. Se il Gabon fosse un paese libero come si dice, di fronte a una situazione simile dovrebbe scoppiare uno scandalo. E invece si è sparsa la voce che c’era una epidemia di ebola per tenere lontano dalla foresta pluviale i giornalisti e gli osservatori inteazionali. Anche questa volta non si riesce a capire cosa è vero e cosa è falso. Nessuno infatti ha avuto il coraggio di andare a vedere di cosa si trattasse veramente».

Anche se questa storia è orribile, purtroppo non sarebbe la prima volta che viene data dai governi una visione distorta della realtà. Questo succede anche nei paesi a cosiddetta alternanza democratica. Può fare altri esempi?
«Parliamo allora delle elezioni e del peso della religione tradizionale nella vita politica di questo paese: ogni volta che ci si affaccia al periodo elettorale aumentano gli omicidi di ragazzini a scopo rituale. Gli uomini di potere sono spesso superstiziosi e ci sono forti sospetti che abbiano fatto sacrificare delle persone con la speranza di aumentare la loro ricchezza e le loro probabilità di vittoria. Generalmente si tratta di dicerie e di cose su cui è difficile fare chiarezza; ma poco tempo fa, qui a Libreville, è stata fermata una coppia di anziani che uccideva dei ragazzini per poi fae essiccare il corpo in posizione fetale. Quando i due furono arrestati, dissero solo che stavano portando il feticcio, questo corpo essiccato tenuto in un sacco, a un ricco cliente. Poi non si è saputo più nulla, perché le autorità preferiscono sempre negare.
Detto questo, ci tengo a sottolineare, che la religione tradizionale è praticata da quasi l’80% dei gabonesi e nella maggior parte dei casi non si tratta di riti cruenti. Rimane il fatto che, chi ricorre alle pratiche di omicidio, lo fa per aumentare il suo prestigio sociale e questo è quello che hanno imparato i gabonesi guardando il loro presidente. Le nuove generazioni capiscono solo il potere fine a se stesso».

Insomma, il problema del Gabon è sostanzialmente la sua classe dirigente. A sentire lei la situazione internazionale non c’entra quasi nulla. Eppure il Social forum tenuto a Nairobi incolpa l’Occidente dei problemi dell’Africa. Sono manie di protagonismo dei paesi occidentali anche queste? Ci sentiamo così determinanti nel bene e nel male, che abbiamo fatto un’analisi sbagliata?
«L’Africa ha tutte le risorse che servono per svilupparsi senza bisogno di aiuti estei. Molti africani lavorano o hanno lavorato nei grandi organismi inteazionali o hanno studiato negli Stati Uniti o in Europa. Io ho studiato in America e in Francia; altri miei colleghi adesso lavorano per grandi multinazionali e sono stati in Giappone, Russia e Cina. Molti di noi sanno cosa sarebbe necessario fare, ma il mondo politico è chiuso e il potere è gestito da due o tre famiglie che prendono le decisioni per tutti. Anche le industrie cinesi e malesi che stanno disboscando la foresta pluviale, per rifornire di legname le industrie asiatiche, e che adesso occupano le pagine dei vostri giornali, si muovono in Africa grazie agli appoggi dei governi locali. Il problema, in generale, non sono gli “altri”, quanto la mancanza di coraggio e di visione del futuro dei nostri governanti». 

A cura di Chiara Giovetti e Alessio Antonini

Chiara Giovetti e Alessio Antonini




SAMBA VIOLENTA

Le metropoli brasiliane nella morsa del crimine organizzato

Statistiche e sondaggi d’opinione rivelano come la gente in Brasile si senta ogni giorno meno sicura. Narcotraffico, miseria e corruzione sono il cocktail esplosivo che impensierisce la vita quotidiana degli abitanti del colosso sudamericano.

I l problema della violenza è una realtà con cui individui e società hanno sempre dovuto fare i conti nel corso dei secoli. Anche in Brasile l’opinione pubblica rimane ripetutamente scioccata di fronte a episodi violenti compiuti da organizzazioni criminali, a cui rispondono le forze dell’ordine con azioni altrettanto violente. Per non parlare di chi, come gli squadroni della morte, si arroga il diritto di «fare un po’ di pulizia» per proprio conto (o per conto terzi), contribuendo così a fare impennare le statistiche degli omicidi e a riempire le pagine di cronaca nera.
Nella società contemporanea, grazie soprattutto al potere dei media, la violenza viene trasformata in spettacolo e, attraverso questo processo, viene giorno dopo giorno banalizzata. È impressionante vedere la forma con la quale alimenta le pagine dei giornali e guadagna spazi televisivi.
Crimine, paura, violenza, sofferenza, dolore e morte sono elementi imprescindibili dell’esperienza umana, che vorremmo veder rimossi, cancellati, ma che non riusciamo a eliminare totalmente. Servirebbe una cultura della pace, la quale dipende dalla promozione di valori positivi e dalla vigilanza che persone e istituzioni riescono a mantenere sulla dimensione contraria, ugualmente presente, fatta di rivalità, egoismo, esclusione.
Senza un equilibrio stabile nella coesistenza dei due opposti sarà sempre impossibile costruire una società che possa garantire una convivenza minimamente accettabile fra gli esseri umani. Se le istituzioni sono assenti, le organizzazioni criminali hanno buon gioco a conquistare il vuoto lasciato da esse.

CIFRE INQUIETANTI
Il Brasile non fa eccezione. In questi ultimi tempi sono stati diffusi nel paese svariati sondaggi, aventi come tema la violenza. L’ultimo di essi in ordine di tempo, realizzato dalle Agenzie CNT e Sensus e divulgato lo scorso 10 aprile, indica come il 90,9% degli intervistati noti un aumento significativo della violenza nel paese. Soltanto il 5,2% ha affermato di non avvertire nessun incremento in materia di violenza, mentre il 4% non ha saputo esprimere la propria opinione.
La povertà e la miseria sono indicate dal 24,1% delle persone intervistate come le cause principali della criminalità; il 19,1% la attribuisce alla cronica mancanza di giustizia; un altro 19% ritiene che il narcotraffico sia la causa principale; il 15% ha colpevolizzato un sistema legislativo ritenuto troppo garantista; l’11% ha puntato il dito contro l’endemica corruzione della polizia; il 7,6% dà la colpa alla debolezza e disorganizzazione delle forze dell’ordine. La percentuale mancante, infine, non ha saputo che cosa rispondere.
Il sondaggio, realizzato in 24 stati della federazione e fondato su più di duemila interviste, ha anche riportato ciò che la popolazione pensa essere la causa principale dell’insicurezza in cui vive il cittadino brasiliano. Il risultato è inquietante, in quanto se il 71,7% ha attribuito la responsabilità della violenza nel paese ai criminali, ben il 20% ha indicato come colpevole della situazione l’azione violenta della polizia.
I cittadini intervistati hanno indicato nella violenza urbana la causa numero uno di insicurezza, invocando un’azione congiunta di tutti gli organi preposti a difendere il vivere comune e la tranquillità della popolazione, partendo dal governo centrale, per scendere a quello federale e via via toccando più capillarmente la società con azioni che partano dalle stesse amministrazioni comunali.
La grande copertura mediatica che i fatti criminali hanno nel paese ha contribuito a creare nella gente una sensazione diffusa di insicurezza, che si unisce alla rabbia che scatta di fronte ai tanti casi di impunità goduta da chi delinque. Questa sensazione fa sì che l’opinione pubblica esiga pene sempre più severe per tutti coloro che infrangono la legge.
Oggi, più della metà dei brasiliani è favorevole alla pena di morte, nonostante venga riconosciuto il rischio di possibili errori giudiziari. A tanto portano la frustrazione e il senso di impotenza avvertito dalla maggior parte della popolazione.
Nella valutazione del sondaggio presentata dal direttore dell’agenzia Sensus, Ricardo Guedes, la percezione che la gente ha della violenza in genere è maggiore della violenza reale. Questo dato è rafforzato dal fatto che, sebbene il 90,9% della popolazione riconosce un aumento significativo della violenza, solo il 16,8%, in realtà, ritiene di vivere in una città violenta. Infatti, un individuo può vivere degli anni o tutta una vita in città come Rio de Janeiro o San Paolo senza vedere o subire personalmente nessun tipo di violenza. I mezzi di comunicazione si incaricano di creare uno scenario di violenza più grande, dando ampia copertura ai fatti delittuosi.
Visto dal di fuori, si ha l’impressione che basti che il turista metta il piede in una città per essere attaccato da qualche bandito.

RIO: UNA LUNGA STORIA
DI VIOLENZA
Paura e violenza a Rio de Janeiro hanno percorso insieme un lungo cammino nella storia della città, attraversato secoli, guadagnando nuovi scenari e scatenando vecchie reazioni. Ciò non deve stupire: la violenza è alle radici del processo di formazione nazionale del Brasile. Pensiamo, ad esempio, all’epoca del commercio illegale del pau-brasil (un legname pregiato destinato al mercato europeo), quando si è dato inizio alla decimazione dei popoli indigeni nativi; oppure alla corsa all’oro, causa di avidità e violenza anche in Brasile. Per non tacere del traffico di schiavi. Tutto entrava, partiva e veniva trafficato nel porto di Rio.
Il senso di insicurezza nella città di Rio de Janeiro pervase tutto il periodo coloniale, cominciando proprio dagli inizi. Nella seconda metà del 16° secolo, la regione era stata invasa dai francesi, occupazione destinata a durare poco tempo, visto che già nel 1565 i portoghesi riuscirono a scacciarli dalla colonia.
Costante era, soprattutto, il timore del pericolo «esterno»: paura delle malattie portate dal traffico degli schiavi, delle invasioni straniere, di essere attaccati dai nativi. Questa angoscia, presente nella popolazione «carioca», scatenava reazioni di panico e paura anche in situazioni apparentemente innocue, come il semplice avvicinarsi di imbarcazioni sconosciute alla baia di Rio.
Anni più tardi, i francesi pianificarono nuovi attacchi contro la città e nel 1711 riuscirono a sconfiggere i portoghesi. Durante questi avvenimenti, grande parte della popolazione urbana si rifugiò in altre regioni, mentre le autorità, non potendo resistere, si arresero agli attacchi nemici.
Anche il traffico degli schiavi contribuì a creare grande preoccupazione alla popolazione urbana di Rio. Molti schiavi rimanevano esposti in vetrine per essere venduti; ma coloro che non avevano acquirenti potevano rimanere in città per giorni, settimane e anche mesi.
Gli abitanti, che già dovevano convivere con il disordine e l’insicurezza causati dalla mancanza di ordine pubblico, avevano anche paura di essere contaminati da malattie provenienti dalla povertà di igiene, che accompagnava il commercio degli schiavi venduti in città. Delinquenti comuni, schiavi, schiavi liberati, schiavi fuggitivi, zingari… tutto rappresentava una minaccia agli occhi degli abitanti di Rio, soprattutto della componente bianca.
Infine, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, con la crescita rapida e disordinata della popolazione urbana, si iniziarono a formarsi le favelas, quartieri di insediamento spontaneo, talvolta forzato, quasi sempre abusivo. In alcune di queste aree le istituzioni dello stato non si sono mai rese presenti, facendo di conseguenza mancare all’immensa popolazione di questi settori i servizi più elementari.
Vista l’assenza dello stato sul territorio, con l’andare del tempo gruppi mafiosi, legati al traffico degli stupefacenti, hanno occupato lo spazio lasciato vacante dallo stato, istituendo un vero e proprio «governo-ombra» a base criminale. I trafficanti stessi si sono da sempre incaricati di mantenere l’ordine all’interno delle favelas, facendo di tutto per non attirare l’attenzione della polizia.
Non sono però mancate vere e proprie guerre fra gruppi rivali per il controllo delle aree strategiche come i morros, le cime delle colline, le parti più alte delle favelas, da cui è facile tenere tutto e tutti «sotto mira».
La polizia e l’esercito entrano periodicamente in queste aree per tentare di non perdere completamente il controllo della situazione e «far vedere i muscoli». Queste guerre tra bande di narcos, la polizia e in alcuni casi le milizie di vigilanti, terminano quasi sempre con la morte di qualcuno: siano essi criminali, poliziotti o civili innocenti.
Il numero di giovani morti nelle favelas a causa della violenza urbana supera quello offerto dai bollettini di molte zone di guerra. Secondo il B’tselem, un gruppo israeliano impegnato nella difesa dei diritti umani, nel periodo compreso fra il 2002 e il 2006, sono morti 729 minorenni israeliani e palestinesi a causa della violenza in Israele e nei territori occupati. Durante lo stesso periodo, secondo i dati foiti dall’Istituto di sicurezza pubblica brasiliano, nella sola Rio de Janeiro sono stati assassinati ben1.857 minorenni.
Recentemente, il governatore dello stato di Rio de Janeiro, Sergio Cabral, ha chiesto al presidente Lula «l’uso delle forze armate per il periodo di un anno, al fine di garantire la legge e l’ordine nello stato, nella regione metropolitana e nella città di Rio de Janeiro». Nella dichiarazione pubblica resa dal governatore, si rileva come, «nonostante i ripetuti sforzi svolti in quest’area dal servizio pubblico, sia stato finora molto difficile, con le risorse disponibili, far fronte all’avanzata della criminalità che minaccia l’ordine pubblico e l’incolumità delle persone e del loro patrimonio».
L’appello è più che mai urgente in questo periodo in cui Rio si prepara ad essere la sede dei giochi panamericani, che avranno luogo nella metropoli «carioca» dal 13 al 29 luglio prossimo. L’avvenimento, che avrà per giunta un’attenzione speciale da parte dei media, esigirà un rinforzo significativo della pubblica sicurezza.
Si può dire che la Rio di oggi sia una miscela paradossale. Se da un lato fa sfoggio di bellissimi paesaggi e spiagge che portano in città milioni di turisti ogni anno, dall’altro assiste all’aumento esponenziale delle favelas, ubicate soprattutto sulle colline che circondano la città. La più famosa di esse è la Favela de Rocinha, la più grande e popolosa del paese. La gioia e il colore della samba, presenti ogni anno nella sfilata del carnevale, si armonizzano con le storiche partite di calcio nello stadio del Maracaná, con la statua del Cristo Redentore, ma si scontrano con le tragiche conseguenze prodotte dalle attività della criminalità organizzata.
Soprannominata la «città meravigliosa», Rio convive oggi con la sfrontatezza di un’organizzazione mafiosa comandata da fazioni criminali come quella del «Terceiro comando» o del «Comando vermelho», organizzazioni criminali responsabili di delitti efferati e dello stato di permanente insicurezza della popolazione.

DALLE CARCERI
DI SAN PAOLO
In Brasile, il crimine organizzato si infiltra fra le maglie della società civile, approfittando della poca intesa politica fra i governanti e della corruzione diffusa, che ammorba e indebolisce le istituzioni che dovrebbero combattere il crimine. Se a Rio sono attive le milizie criminali, a San Paolo agiscono pressoché indisturbati (e quasi sempre con la connivenza della polizia) gli squadroni della morte.
Secondo l’avvocato Ariel de Castro Alves, cornordinatore del Movimento nazionale dei dirittti umani, per capire meglio i conflitti a Rio e la violenza quotidiana che colpisce oggi il paese, è importante ricordare quanto è capitato a San Paolo negli ultimi anni con l’avvento del gruppo criminale «Primeiro comando da capital» (Pcc), nato nel 1993 nei pressi della Casa circondariale di Taubaté.
L’idea originaria dei fondatori del gruppo era quella di organizzare i detenuti attraverso un partito o movimento politico, avente il fine di lottare contro gli episodi di ingiustizia e violenza che avvenivano quotidianamente all’interno delle prigioni brasiliane: torture, umiliazioni e assenza di diritti elementari nel sistema carcerario. Il Pcc chiedeva anche che venisse resa giustizia ai 111 prigionieri uccisi dalle forze speciali della polizia militare nell’episodio conosciuto come il «Massacro del Carandiru», del 1992.
Con il tempo, l’organizzazione si è fatta più complessa e ha deviato dalle finalità originarie postulate dai suoi fondatori, rafforzandosi rapidamente a causa della precarietà che caratterizza il sistema carcerario brasiliano e dalla mancanza di volontà politica di voler affrontare di petto il problema. Nello stesso periodo, le autorità hanno limitato la presenza delle organizzazioni umanitarie nelle strutture carcerarie, impedendo l’ingresso di molti loro rappresentanti all’interno delle prigioni.
Senza più controllo e monitoraggio di alcun tipo e facendosi forza della corruzione vigente a tutti i livelli del sistema carcerario, il Pcc si è presto trasformato in una potente organizzazione criminale. Il suo dominio si è venuto via via affermando grazie a crimini compiuti dentro e fuori le mura carcerarie, sfruttando e ricattando altri prigionieri e loro familiari, accumulando ricchezza grazie al traffico di droga, imponendo terrore e morte a coloro che li avversavano o che tradivano. Non è neppure mancato l’aiuto benevolo di avvocati, funzionari dello stato, membri delle forze dell’ordine e altre figure «utili» arruolate in svariati settori della società.
Invece di agire con fermezza, lo stato ha preferito procedere al riconoscimento di leader e portavoce del movimento, mantenendo aperto con il Pcc un dialogo fatto di negoziati e accordi reciproci. Era sembrata una buona strategia quella di negoziare con pochi esponenti del gruppo, in grado di esercitare un controllo sugli altri membri dell’organizzazione.
Questo sistema ha funzionato soltanto per qualche anno. Il crimine organizzato nelle prigioni è cresciuto rapidamente, sfuggendo totalmente al controllo delle istituzioni. La prova di forza più importante del gruppo criminale si è avuta con la ribellione del febbraio 2001, che ha coinvolto 29 stabilimenti carcerari nello stato di San Paolo. Il trasferimento di prigionieri dallo stato paulista in altri istituti di pena del Brasile ha contribuito a far sì che l’organizzazione creasse ramificazioni e avesse appoggi in tutto il paese.
Nel corso degli anni 2001-2003, svariati attacchi contro poliziotti e tribunali sono stati attribuiti al Pcc. Tuttavia, il fatto di cronaca più eclatante risale al 12 maggio dell’anno scorso, quando il crimine organizzato ha dato inizio alle esecuzioni sommarie di agenti dello stato. Tra maggio e agosto, l’organizzazione avrebbe ucciso ben 59 persone in 3 ondate di attentati (poliziotti, guardie civili, agenti di custodia e civili) e si sono contate ribellioni e sommosse in gran parte degli istituti di pena, inclusi vari carceri minorili.
Sebbene lo stato di San Paolo sia stato quello maggiormente colpito da questi avvenimenti di violenza e panico, si sono contati disordini anche in altri stati del paese, come Espírito Santo, Paraná e Mato Grosso.
Dopo l’ondata di attacchi del 12 maggio, si è assistito alla «ritorsione» orchestrata dalle forze dell’ordine e degli squadroni della morte, in un insieme di violenze che ha portato a vere e proprie esecuzioni sommarie e massacri. Secondo i risultati delle autorità, tra il 12 e il 20 maggio 2006 sarebbero morte in totale ben 492 persone.
Altri dati foiti dalla «Segreteria di pubblica sicurezza» hanno dimostrato che nel secondo trimestre del 2006 sono state assassinate a San Paolo 1.888 persone: una cifra che corrisponde a più del doppio delle vittime avutesi in Iraq nello stesso periodo. Il terrore ha invaso la più grande metropoli dell’America Latina. La polizia ritiene che, in almeno 82 episodi, gli squadroni della morte si siano resi responsabili di omicidi e sparizioni, ma nessuno di questi casi è stato ufficialmente chiarito da polizia o magistratura. Le notizie sono negate dalle autorità e il Pubblico ministero ha finora avuto grandi difficoltà a reperire dati ufficiali e informazioni.
I testimoni temono ritorsioni e non credono nelle istituzioni, ragione che favorisce l’impunità di chi delinque. Oggi, un anno dopo gli attacchi da parte del crimine organizzato e la reazione sconsiderata di forze dell’ordine e squadroni della morte, la situazione è ancora propizia per nuovi scontri e altri massacri. Il sistema carcerario continua ad essere fuori controllo, la polizia non riesce a far fronte all’emergenza, la maggioranza delle famiglie degli agenti uccisi durante gli scontri non sono ancora stati indennizzati.

BABY CRIMINALI
Negli ultimi tre mesi, si sono verificati crimini che hanno generato un dibattito nazionale su violenza e realtà minorile. Il Congresso brasiliano sta pensando di applicare sentenze più dure per crimini che coinvolgono bambini e possibilmente ridurre l’età minima per poter giudicare i criminali adolescenti. Attualmente più di 300 progetti di legge sono stati presentati al Congresso nazionale, con proposte tendenti a ridurre la maggior età penale da 18 a 16 anni. Altri due progetti arrivano a proporre la riduzione dell’età rispettivamente a 14 e addirittura a 12 anni.
Enti come la Conferenza episcopale brasiliana e l’Ordine degli avvocati del Brasile (Oab) si oppongono duramente a queste proposte, che non vengono viste come soluzioni adeguate al problema della criminalità minorile. Anche due avversari politici come il governatore dello stato di San Paolo, José Serra, e il presidente Lula sono d’accordo che la diminuzione dell’età perseguibile non risolverebbe il problema della violenza causata da ragazzini e adolescenti.
La questione è annosa e controversa, perché una qualsiasi soluzione deve tenere in conto i parenti delle vittime della violenza minorile che esigono giustizia e, con indignazione, rifiutano tutto ciò che tutela i giovani che si macchiano di crimini anche orrendi. Alcuni casi in particolare suscitano vivaci dibattiti in seno all’opinione pubblica. Uno di questi, particolarmente odioso, si è verificato di recente a Rio de Janeiro e ha riguardato la morte del bambino João Helio, di appena 6 anni, rimasto impigliato nella cintura di sicurezza dell’automobile di sua madre, alla quale alcuni banditi stavano rubando la vettura. Tutti gli occupanti del veicolo erano riusciti a scendere, mentre il piccolo João non ce l’aveva fatta ed era stato trascinato per 7 chilometri.
Uno dei banditi aveva 18 anni al momento dell’aggressione: la pena detentiva che lo attende può variare da 20 a 30 anni di reclusione; il suo complice sedicenne, invece, potrà rimanere detenuto al massimo per 3 anni, secondo quanto prevede l’attuale legislazione.
Movimenti per i diritti civili e Ong continuano a fare pressione, esigendo che alle misure repressive in ambito di ordine pubblico, vengano associate misure preventive in ambito sociale. Il 10 aprile scorso si è realizzata una mobilitazione nazionale che ha attirato l’attenzione della società brasiliana e dei mezzi di comunicazione sulla necessità di migliorare il «Sistema nazionale di promozione socio-educativa» (Sinase) e di procedere a investimenti immediati e urgenti di politica pubblica.
La violenza, in Brasile come altrove, è un problema complesso, che presenta molte sfaccettature e dipende da innumerevoli cause. Una di queste è la proliferazione delle armi da fuoco, che si possono ottenere con esagerata facilità nel paese.
In Brasile, come in altre parti del mondo, regna una cultura della violenza e contro questo fenomeno c’è l’assoluto bisogno di educare le persone. Nel mese di ottobre 2005, per esempio, non è stato approvato un referendum che puntava all’esercizio di un controllo più capillare ed efficace del commercio delle armi.
Tuttavia il nuovo «statuto del disarmo», entrato in vigore nello stesso anno, è considerato rigoroso e moderno. Secondo la nuova legge, oggi dovrebbe risultare più difficile acquistare o avere accesso a un’arma. Peccato che alle buone intenzioni non si accompagnino sempre fatti concreti. Infatti, si continua a sapere di imprese che hanno aumentato la loro fabbricazione e vendita di armi sul mercato brasiliano. Ciò che rimane da stabilire è se queste armi vengono vendute legalmente…
Toccherebbe allo stato fare i controlli del caso, e applicare in modo severo una legge per altro già esistente. Ma si sà: i poteri sono molto deboli e la corruzione si tocca con mano in ambito giudiziario, legislativo, nelle forze dell’ordine e nelle istituzioni in genere. Come conseguenza si hanno indici molto bassi di controllo dei crimini e punizione dei colpevoli. La popolazione vive sfiduciata e insicura, cercando i mezzi di difendersi per conto proprio, con quello che trova.
Si può anche capire lo stato di confusione in cui il Brasile, oggi, sta vivendo. Non esistono facili vie di uscita, ma recuperare l’autorità dello stato di diritto e aumentare le politiche sociali sono misure indispensabili. 

Di Jaime Patias

Jaime Patias




Per un pugno di pesos

La rivolta dei maestri di Oaxaca… non è ancora finita

Per oltre 5 mesi, a Oaxaca, stato del Messico centrale, lo sciopero dei maestri ha paralizzato 12 mila scuole pubbliche, ricevendo il sostegno di 350 organizzazioni civili di base e resistendo alla repressione violenta del governo centrale, Ulises Ruiz, finché il nuovo presidente del Messico ha firmato un accordo con il sindacato degli insegnanti. La scuola è ripresa, ma la tensione continua.

«Fino a quando non pagheranno un po’ di più mio papà, non me ne andrò da questa piazza». Adriana ha 9 anni ed è già una messicana decisa e senza timori. Con il sorriso ammaliante dei bambini e due occhioni luccicanti, mi viene incontro guardandoti fisso in volto e cercando la tua approvazione. «È quasi quattro mesi che dormo qui nello zócalo, la piazza principale della città, e lo faccio assieme a loro», mi dice la bambina indicandomi con il dito le centinaia di persone che, sotto tendoni di fortuna e striscioni di ogni tipo, vivono barricati in una sorta di campeggio cittadino.
Ma dove siamo?
«Bienvenidos en Oaxaca – continua Adriana – il luogo in cui i diritti umani non esistono più». Fa impressione sentir parlare una bambina in questo modo. Per capie di più, mi avvicino al gruppetto di donne più vicine a lei: sono la sua mamma, la zia e due cugine, anche loro ragazzine. Sguardo fiero e un’aria distesa, nonostante la situazione precaria, espongono Adriana come un piccolo trofeo. «Sono orgogliosa di lei – dice – per come mostra amore e solidarietà a suo padre, che si trova in una situazione bruttissima: è un maestro».
«Che male c’è ad essere un insegnante?» penso. Ma la donna mi anticipa: «Mio marito è uno dei 70 mila maestri pagati una miseria dallo stato, che ora è in sciopero permanente assieme a tutti gli altri».
L’equivalente di quasi 100 euro al mese, ecco quello che guadagna un maestro di Oaxaca. Uno stipendio da fame. Che lo porta a cercare un doppio, triplo lavoro, con il quale non riesce più a passare del tempo in casa e a crescere i propri figli. La situazione a Oaxaca e nello stato omonimo (il Messico è una federazione) è insostenibile da anni, ma solo il 14 giugno 2006, esasperati, i maestri sono scesi in piazza, per una marcia pacifica in cui chiedevano un aumento di salario.
Il governatore statale, Ulises Ruiz Ortiz, non ha badato a mezze misure nel reprimere la sollevazione popolare: gas lacrimogeni, proiettili di gomma, manganelli in aria hanno seminato il panico tra i manifestanti, bambini compresi. La violenza della polizia statale, anziché zittire il movimento di protesta, ha scatenato l’indignazione della società civile di Oaxaca e di tutto il Messico. Il capo della polizia si è dovuto dimettere, ma il governatore, la vera mente dell’assalto, è rimasto al suo posto, diventando così il bersaglio popolare.
Invitato ad andarsene anche dal governo centrale di Città del Messico, «Uro» (così chiamato per le iniziali del suo nome) non ha fatto alcun passo indietro, anzi: «Non cederò ai ricatti di questi sobillatori» ha detto, riferendosi ai maestri. I quali, decisi ad andare fino in fondo nella loro rivolta, si sono organizzati in una assemblea permanente, la Appo: Assemblea popolare dei popoli di Oaxaca.
La Appo è diventata da subito un esempio a livello mondiale per la radicalità della sua lotta: in decine di parti della città, ma anche nei piccoli centri dello stato, sono sorti dei plantón, cioè occupazioni di piazze, edifici pubblici, emittenti radiotelevisive. Sono state messe auto, pullman di traverso per le strade, e sassi giganteschi hanno impedito il passaggio di qualsiasi veicolo. Proprio quando stava per arrivare il flusso di turisti nordamericani, canadesi ed europei, Oaxaca è diventata una città fantasma, sconsigliata da tutti gli operatori turistici mondiali.

La gente del posto, all’inizio, era divisa in due pensieri: da una parte, con l’occupazione, perdeva i guadagni del turismo, che permettevano un’esistenza dignitosa a migliaia di persone; dall’altra, le veniva spontaneo appoggiare la lotta dei maestri, la cui soddisfazione lavorativa avrebbe garantito un’adeguata educazione ai propri figli, in una zona dignitosa ma in cui la povertà non è mai stata completamente cancellata. Alla fine i commercianti, a parte qualcuno vicino al potere, ha appoggiato la protesta.
Dopo la violenza iniziale delle autorità, per 160 giorni, da giugno a ottobre 2006, il conflitto che si è creato ha conosciuto solo botta e risposta attraverso i mezzi di comunicazione. Le forze di polizia, accusate di corruzione e brutalità, sono state costrette ad abbandonare la città, mettendosi in periferia.
Dentro, la sicurezza era garantita dalla gente della Appo, che, organizzata in tui, manteneva l’ordine pubblico in un modo a prima vista facile, senza grandi problemi: la coscienza collettiva era ai massimi livelli; si sapeva che bastava veramente poco per generare un caos in cui le prime vittime sarebbero state i civili e il messaggio pacifico che portava con sé la protesta. In città tutto continuava a funzionare, compreso il coloratissimo mercato cittadino, in cui decine di donne industriose vendevano i loro prodotti fabbricati a mano: vestiti, oggetti in legno, e molti generi alimentari, soprattutto cibo prodotto in casa, come lo squisito pizatl, una sorta di pollo cotto al vapore, immerso nella polenta e racchiuso in una foglia di pannocchia o di banana. Erano funzionanti anche i locali in cui scorrevano fiumi di mezcal, la famosa bevanda alcolica messicana, quella del guisanito, il vermicello messo a riposare sul fondo della bottiglia per dare più sapore alla storica bevanda.
Per tutto questo tempo, centinaia di persone, come Adriana e la sua famiglia, hanno abbandonato le proprie case e sono andate a dormire in piazza. Soprattutto donne, mentre i mariti (più del 90% dei maestri è di sesso maschile) discutevano in accese riunioni sui passi successivi da compiere.
«C’è qualcuno che vorrebbe passare a un’azione più diretta – racconta José, insegnante elementare padre di quattro bambini -. Meno male che poi si convince a continuare la protesta in forma nonviolenta». Per far capire alla gente le loro intenzioni, decise ma contrarie all’uso della violenza, José e gli altri maestri hanno tappezzato la città di gigantografie di Gandhi, il padre della nonviolenza.
Anche i comuni della zona, imitando in piccolo Oaxaca, hanno organizzato forme di resistenza popolare, sospendendo le attività, scendendo in piazza con i gonfaloni, offrendo appoggio e mezzi alla campagna informativa della Appo. «Ci diamo da fare per far conoscere a tutti la situazione – dice Marcela, giovane attivista -. In molte piazze abbiamo allestito punti di informazione che, con video e assemblee, spiegano quello che sta accadendo».
I l luogo più suggestivo è la piazza di San Francisco, dove sorge la chiesa più bella e meglio conservata della città: qui, subito fuori l’imponente struttura dei francescani e all’inizio di una delle vie dove si vende artigianato e il famoso cioccolato locale, si è installato il Campamento por la dignidad y contra la represion en Oaxaca (Accampamento per la dignità e contro la repressione a Oaxaca). Marcela parla a decine di cittadini e ai pochi viaggiatori che entrano in città, raccontando la vita disperata di migliaia di maestri e delle loro famiglie. «Riceviamo appoggio e solidarietà da tutto il Messico e dall’estero – dice -: è una grossa spinta ad andare avanti».
E come hanno reagito i religiosi all’occupazione simbolica della piazza? «Sostenendoci anche loro – rivela con un sorriso Marcela -. Qui la chiesa è vicina alla gente, ne vive problemi e sfide, cercando di offrire il massimo appoggio».
Proprio così. Dai pulpiti delle decine di chiese di Oaxaca i sacerdoti invitano la gente a tener duro, senza cedere alla tentazione dello scontro diretto. Una mensa popolare è stata aperta proprio nei locali attigui alla cattedrale, nella piazza principale. La chiesa stessa rimane aperta giorno e notte per le preghiere dei fedeli, qui come in tutto il Messico molto devoti. «Non possiamo non sentire l’ansia della gente in questo momento» dice padre Andres, cappellano della cattedrale.
In effetti, a fine ottobre la tensione è alle stelle. Giravano voci di un avvicinamento di soldati dell’esercito alla città, in arrivo dalla capitale. Si era in alerta roja, allarme rosso. Ma senza farlo troppo vedere. «Da fuori, Oaxaca sembra una città in preda alla guerriglia» dice Sandra, che gestisce una pensione nel centro città, a pochi passi dallo zócalo. «La realtà, invece, mostra una città tranquilla, troppo tranquilla; chissà quando tutto si sistemerà e come andrà a finire» continua la donna preoccupata.

I timori di Sandra sono risultati profetici: il 28 ottobre, a 160 giorni dall’inizio del conflitto, la polizia di Uro ha fatto sgombrare con la forza la piazza principale; nella settimana successiva si è scatenato il finimondo: dieci persone sono rimaste uccise, tutti civili, tra cui un ragazzino 14enne e un giornalista freelance statunitense, William Bradley. Altre 70 persone almeno sono state arrestate, in maggioranza maestri e leader della Appo.
Grande è stata l’indignazione mondiale per il modo in cui è stata affrontata la situazione: il governatore si è dimostrato un mandante di assassini feroci, a volte travestiti da cittadini comuni, come nel caso dell’uccisione del maestro Fidel Garcia: è stato colpito alle spalle da una raffica di proiettili, mentre tornava a casa dopo una riunione della Appo.
L’arcivescovo di Oaxaca, Wilfredo Mayren, ha dato asilo politico a decine di maestri, tra cui Flavio Sosa, uno dei massimi dirigenti della Appo. «Esiste un terrorismo di stato e una persecuzione schizofrenica» affermava l’arcivescovo, accusando duramente le forze armate statali.
Per qualche giorno tutto è stato zittito e, quando la polizia se n’è andata, Oaxaca è tornata una città fantasma; ma per poco. La voce popolare, nonostante i morti, i feriti e i detenuti, si è rifatta viva quasi subito, con nuove occupazioni, nuovi scioperi, ed eclatanti denunce verso le autorità penitenziarie, ree di usare contro i maestri incarcerati violenza e torture, documentate dalla Ccdoih, Commissione civile internazionale per l’osservazione dei diritti umani, creata con l’avvallo di Amnesty Inteational.
Il famigerato Uro è rimasto al suo posto e lo è ancora oggi. Ma la situazione è cambiata, complice il cambiamento avvenuto il primo dicembre 2006 a livello di governo centrale: Vicente Fox, che si era mostrato indifferente verso la protesta dei maestri, viene sostituito alla presidenza del paese da Felipe Calderón, compagno di partito (del Pan, Partito di azione nazionale, conservatore), ma, almeno in apparenza, più deciso a risolvere la crisi di Oaxaca, tenendo conto delle richieste della gente.
Calderón è salito al potere nel mezzo di scandali e accuse di brogli elettorali: ha vinto per poche migliaia di voti, battendo il favorito della vigilia, il progressista Manuel Lopez Obrador, che non ha mai riconosciuto l’esito del voto. Nonostante ciò, il nuovo presidente ha concluso un accordo con la Appo per un aumento dei salari e un miglioramento delle condizioni di vita.
Tutto risolto, quindi? «All’apparenza sembra risolto – dice Berta Muñoz della Ccdoih -. Il 9 marzo 2007 c’è stato l’ultimo arresto ai danni di una professoressa, Yolanda Ramirez, portata via dalla polizia mentre camminava per strada, senza alcuna spiegazione né accusa specifica». Berta, la Appo e tutte le persone di Oaxaca si chiedono quale sarà la prossima mossa di Uro. Perché alla fine, come spesso succede in America Latina, le efferatezze vengono ideate da chi dovrebbe difendere il popolo, anziché attaccarlo.
Il nuovo presidente dice di volere la pace sociale, ma la gente gli crede poco. Nel frattempo, a Oaxaca qualche piazza rimane occupata, soprattutto in periferia e nei quartieri più popolari, dove le forze dell’ordine non riscuotono alcun successo.
I turisti sono tornati. Questi sono interessati alle spoglie ma affascinanti rovine di Monte Albán (poste su un’alta collina a 15 minuti dal centro), ai 42 metri di circonferenza di El Tule, l’albero più grande al mondo, alla natura incontaminata di Ixtlán e ai lavoratissimi palazzi della civiltà mixteca di Mitla.
Il commercio è ripreso, le scuole anche. Ma quello che manca all’appello, come spesso accade, è il rispetto dei diritti umani, soprattutto dei «senza voce». Chissà se Adriana, un giorno, vorrà seguire le orme del padre e diventare maestra. Forse no. 

Di Daniela Biella

Daniele Biella




NOSTRA COMPAGNA DI GALERA

20 giugno, festa della Consolata

La curiosa storia di un quadro della Consolata, oggi venerato nella cappella della Casa regionale
dei missionari della Consolata a Nairobi (Kenya), di un «magico» coltellino milleusi e di dodici monete d’argento. Il tutto sullo scenario della II guerra mondiale.

Un giorno indimenticabile quel 10 giugno 1940. Gli italiani avevano appena ricevuto dalla radio la notizia che la nazione era formalmente entrata in guerra, contro Inghilterra e Francia e già il giorno seguente, in Kenya, volavano ordini tassativi di imprigionamento e deportazione di tutti i missionari e missionarie di nazionalità italiana presenti nel paese.
Quel mattino, inaspettati, gli inglesi giunsero fino alla missione del Mathari e, senza tante cerimonie, dissero: «Tutti i membri di nazionalità italiana sono da questo momento sotto arresto. I padri missionari hanno venti minuti di tempo per raccogliere le loro cose e presentarsi a questo comando. Le suore dovranno restare nei loro conventi fino a nuovo ordine».
Venti minuti di tempo per raccogliere le proprie cose… Nel cuore dei missionari scese un gelo di sconforto. Venti minuti per impacchettare il materiale di una vita di lavoro. Che fare, cosa poter scegliere, cosa abbandonare in venti minuti? Ognuno corse alla sua stanza e cominciò a mettere in sacche e vecchie valige quel poco di roba e libri personali ritenuti utili…
A un missionario venne subito in mente che quel giorno era il primo giorno della novena della Consolata. Nella chiesetta del Mathari c’era il quadro della Vergine; come si poteva lasciarlo solo, abbandonato?
Si trattava di un’immagine speciale, uno di quei quadri che il beato Allamano aveva consegnato ai componenti delle varie spedizioni che partivano da Torino. «Portatelo con voi, custoditelo, perché vi protegga sempre», sembravano ancora echeggiare le parole del Fondatore. Il missionario si precipitò in chiesa. Tentò di armeggiare per vedere di togliere dalla coice quella tela, ma si rese presto conto che sarebbe occorso troppo tempo.
Aveva un coltellino in tasca, quel coltellino milleusi sempre così utile quando si trattava di  cavar spine e pulci penetranti. Con decisione e precisione il coltello si insinuò lungo la linea della coice e la tela ne uscì fuori in poco più di un minuto. Il Santissimo Sacramento venne tolto dal tabeacolo e portato al sicuro dalle suore. L’icona della Consolata, ben arrotolata, andò a far compagnia ai pochi libri e calzini puliti e sporchi del «padre salvatore».

LA LUNGA PRIGIONIA
«Dove si va?» era la domanda sulla bocca di tutti. Purtroppo la risposta non lasciava molte speranze. La meta era la prigione di Nairobi-Kabete, dove i missionari italiani vennero condotti in attesa che arrivassero i loro confratelli, arrestati nelle altre missioni del Nyeri e del Meru quello stesso giorno.
Dalla prigione temporanea di Kabete (oggi un grande sobborgo di Nairobi), dove in totale vennero radunati ben 419 missionari, incluse alcune suore, ben poco riuscì a trapelare. Le poche notizie che si hanno di quei giorni, le raccogliamo da una lettera scritta l’anno successivo, in cui l’autore, padre Giuseppe Maletto, pur misurando con attenzione le parole per paura della censura, dà un breve resoconto di quei giorni. L’autore, raccontando di quei giorni, scrive che dall’11 giugno i missionari «furono inteati fino al 4 ottobre, quando partimmo per il Sudafrica, via mare… Alcuni missionari dello Spirito Santo e di Mill Hill ci sostituirono nelle missioni. Le reverende suore furono dapprima tutte radunate nella fattoria di Nyeri; in seguito alcune furono lasciate ritornare in 4 o 5 stazioni di missione, soltanto del vicariato di Nyeri…».
La lettera di padre Maletto venne scritta da Koffiefontein, località del Sudafrica, oggi famosa per le miniere diamantifere, ma in quei giorni sede di un grosso campo di prigionia. In esso, nel frattempo, erano stati inviati anche i missionari italiani provenienti dal Kenya.
Lo stesso padre Maletto fornisce, anche qualche particolare su come viene vissuta la vita di preghiera all’interno del campo: «Abbiamo una cappellina che può contenere 10 persone inginocchiate e 20 in piedi e pigiate…» (da lettera del giugno 1941).
Anche se le rassicurazioni date da padre Maletto in merito alle condizioni dei missionari della Consolata in prigionia consolò i superiori di Torino, una seconda lettera, inviata il mese successivo, dava una visione meno ottimistica della vita in cattività: «Noi stiamo relativamente tutti bene. Per noi, fatti i due appelli giornalieri, la pulizia delle camerette e personale, lavatura e cucitura, il resto è tempo libero. Come però desidereremmo di poterci sgranchire le gambe con qualche passeggiata o almeno quattro passi fuori dei reticolati spinosi. In Kenya, a Kabete, ci si conduceva a spasso una, due o tre volte la settimana, come i collegiali, sorvegliati da assistenti. Era una gran festa. Qui nulla di nulla. La nostra minuscola cappella con il Santissimo è un grande conforto per noi. Altri non ne abbiamo…» (lettera del 24/3/1941, giunta in Italia nel luglio 1941).
A commento del breve brano della lettera di padre Maletto, in cui si ricordano i «tempi della prigionia di Kabete», il sottoscritto ricorda una breve conversazione avuta con un missionario compagno di prigionia, il padre Merlo Pick. Parlando dei «quattro passi fuori dei reticolati», pur sorvegliati dagli assistenti, Merlo Pick ricordava come due o tre padri riuscivano sempre, avvalendosi della conoscenza della lingua kikuyu, ad avere notizie delle missioni del Nyeri da parte di finti e occasionali viandanti.
La situazione risultava essere un po’ una comica: la comitiva dei «collegiali prigionieri» sembrava andare a passeggio, ma qualcuno, con la voce un pochino più alta, chiedeva notizie in kikuyu ai passanti che sembravano divertirsi di quei prigionieri in casacca da galeotti. «Come stanno le suore a Nyeri? Come vanno le missioni abbandonate? Salutateci tutti…».
Nessuno dei sorveglianti, del resto ignari del kikuyu e tanto più dell’italiano, riuscì mai a scoprire lo stratagemma. Al massimo, qualcuno pensò che nel gruppo dei galeotti ci fosse il «solito buontempone», in vena di sollevare il morale alla truppa!

LA CONSOLATA SI FA BELLA
A Koffiefontein la vita di prigionia scorreva monotona, senza troppi sussulti.
Però, si sa, il missionario non ama starsene con le mani in mano. Molti, infatti, occuparono questo lungo periodo di inattività forzata con l’apprendimento di lingue utili per il futuro: qualcuno si dedicò con dedizione allo studio del kiswahili, del kimeru, altri ancora si cimentarono addirittura con il tedesco. Alcuni dimostrarono interesse alla pittura, scultura, musica e altro ancora. Ci fu persino chi scoprì che tra le sabbie e pietruzze del campo di concentramento c’erano minuscoli diamanti e rubini…
A un certo punto, alcuni missionari decisero di cimentarsi con l’oreficeria! L’icona della Consolata, trafugata e messa in valigia di tutta fretta, faceva la sua bella figura nella cappelletta di fortuna che i missionari avevano ricavato nel campo di prigionia. Perché non abbellirlo? In fin dei conti la Consolata aveva accompagnato i «suoi» missionari addirittura in galera. Si meritava davvero un po’ di attenzione. Si iniziò con il produrre una bella coice per rimpiazzare quella originale, rimasta nella missione quando la tela fu tagliata e asportata.
A parte qualche rustico attrezzo, recuperato tra i rottami del campo di concentramento, non si poteva contare su struomenti adatti per lavorare il legno. L’arte, però, non conosce ostacoli e la coice venne scolpita con il solito e indispensabile coltellino milleusi.
Guardando l’immagine della Consolata nella sua nuova sede, saltò anche fuori la proposta di riprodurre le stelle che incoronano la Madonna, come nel quadro originale venerato nel santuario di Torino. «Bellissima idea – concordarono i più -. E perché non costruire le stelle in metallo prezioso?».
Già, proprio una bella idea! Ma dove si sarebbero potuti trovare dei metalli preziosi in una prigione? Oro? E chi ne aveva con sé? Argento? Alla parola «argento» qualcuno inizió a sussultare: la moneta del Sudafrica, il rand, era d’argento, forse la soluzione era stata trovata. Molti prigionieri accettarono, di buon grado di mettere a disposizione la «cinquina» che il governo inglese passava ai prigionieri: uno scellino al giorno. Al cambio risultavano circa 12 rand.
Dopo vari tentativi, l’orefice autodidatta riuscì a ottenere 12 belle stelle d’argento, con un piccolo punteruolo che permettesse di applicarle alla tela dell’icona. L’effetto fu sorprendente. Che emozione, la Consolata sembrava più bella… Anzi, meno triste, nonostante fosse anche lei in galera insieme a tutti i suoi missionari, dove resterà fino al mese di settembre del 1944.

RITORNO A CASA
Fu la voce della Radio Vaticana ad annunciare, il 20 settembre di quell’anno, che «i padri e le suore del Kenya erano tutti tornati alle loro missioni!».
L’anonimo «salvatore» della Consolata si era riportato in Kenya, tra le sue poche cose, anche il prezioso quadro. Per prudenza staccò le stelle d’argento, mettendole al sicuro. Incredibilmente, il quadro trovò ancora la sua vecchia coice, anche se, ahimé, fu necessario restringerla un pochino, dopo il taglio della tela praticato al momento dell’arresto.
Non ne uscì un capolavoro; anzi, a ben guardare, la squadratura non risultava delle più perfette. Nessuna paura! Era come avesse fatto la guerra! Purtroppo, però, nel trambusto del ritorno dalla prigionia, delle 12 stelle d’argento ne restavano solo nove.
Quando, nel processo di africanizzazione della diocesi di Nyeri, i missionari affidarono la missione al clero locale, pensarono di lasciare il quadro di questa «famosa» Consolata alle suore missionarie della Consolata di Nyeri. Ma dopo alcuni anni, le sorelle restituirono gentilmente il cimelio ai padri missionari, che ora lo conservano nella cappella della loro Casa regionale di Nairobi.
Ma quelle tre stelle mancanti…
Un giorno mi feci coraggio e raccontai questa curiosa storia a un amico indiano, ottimo orafo del Kashmir. Mi stette ad ascoltare per un po’ e poi, d’impulso, disse: «Mi porti una stella, padre, e io farò quel che devo fare».
Gli portai una stella di campione e dopo tre giorni mi chiamò a ritirare tre altre bellissime stelle d’argento, più lucenti delle prime.
«Voglio anch’io onorare la vostra Vergine – mi disse – perché benedica anche me e la mia famiglia. Anche se sono indù, apprezzo il vostro lavoro di missionari».
Oggi il quadro è tornato ad avere le sue 12 stelle. E la Vergine Consolata, prigioniera con i suoi missionari per tre anni nei campi di concentramento del Sudafrica, continua a presentarci il suo Bambino, a benedirci e accompagnarci in Kenya e in altre parti del mondo.  

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




Cari missionari …

Avanti «in Domino»!

Gentile Direttore,
da quando ho capito che quello di cui ci chiederà conto il Signore sarà cosa abbiamo fatto per il prossimo sofferente, il mio impegno è rivolto soprattutto verso i missionari, vera punta di diamante della chiesa, che testimoniano il Signore con la parola e con l’esempio. Devo dire che il suo periodico è fra i migliori, se non il migliore, di quelli missionari per la ricchezza di argomenti, la chiarezza e indipendenza nella denuncia dei misfatti e ingiustizie contro i poveri nel mondo.
Mi sorprende molto il fatto che qualche volta ci siano lettori che, solo perché un articolo denuncia la sopraffazione dei potenti e dei ricchi sulla povera gente, tacciano l’autore come comunista, cattocomunista, prete compagno, ecc.
Mi chiedo: «Ma non sono i cristiani quelli che si devono occupare e combattere per primi per la giustizia sociale e aiutare i bisognosi?».
Caro Direttore, vada avanti tranquillo: Missioni Consolata dà forza ai coraggiosi e scuote le coscienze degli indifferenti.
Buon lavoro! Con stima,
Dante Bersetti
Montemarciano (AN)

Grazie di cuore per l’incoraggiamento ad «andare avanti tranquilli». Il nostro beato Fondatore diceva: «Avanti in Domino!» (nel Signore).

Multinazionale Gisas

Gentile redazione,
in riferimento al vostro articolo «Multinazionale Gisas» (M.C. settembre 2003, ndr), vorrei distanziarmi da quanto detto. Sono in generale d’accordo sulla critica fatta a Benny Hinn e all’emittente Tbne. Ma affermate anche, spero in buona fede: «Per chi volesse conoscere cosa pensa il mondo evangelical italiano che conta 300 mila persone, la Tbne rappresenta un buon strumento, anche se non tutti vi si riconoscono». La realtà è un’altra! Pochi credenti evangelici, inclusi quelli che chiamate «caldi», cioè i carismatici (ai quali io non appartengo, ma che è un movimento trasversale comune al mondo cattolico), si identificano con Benny Hinn o l’emittente di cui parlate.
Credo che sia un atto di diffamazione affermare questo di persone che credono sinceramente nella bibbia. Una caratteristica degli evangelici è (o dovrebbe essere) il non conformarsi agli uomini e a non idolatrare altri esseri umani, ma di coltivare un rapporto personale con Gesù Cristo e a comportarsi come tempio dello Spirito Santo. Certo, è una caratteristica della fallacia umana, il voler avere altri esempi oltre a quello supremo di Gesù Cristo e questo può portare a innalzare eccessivamente persone e non Dio. Ma ciò è comune a ogni religione… Citando un’altra frase: «Un’impresa commerciale quindi? Quando ci troviamo davanti a cifre da capogiro, viene il dubbio che qualcuno lucri alle spalle dei fedeli», ricordo che essa è applicabile anche al mondo cattolico, in cui molti fanno affari a costo dei fedeli…
Vi chiederei quindi, di correggere suddetto articolo in quanto non conforme alla realtà evangelica italiana e, mi auguro, neanche a quella americana…
Annegret Martella
Via e-mail

Fin dall’inizio l’autore dell’articolo distingue chiaramente tra «evangelical» ed «evangelico». Col primo termine viene indicato chi, come Benny Hinn e Tbne, riducano la religione a spettacolo teatrale e prodotto di consumo emotivo. Per cui niente di personale contro gli «evangelici» in generale e quanti seguono Cristo crocifisso e risorto.

Più testimoni

Caro padre Pozzoli,
desidero inviarle i miei più cordiali auguri di buon lavoro per il nuovo incarico di direttore della rivista Missioni Consolata che tanto amo.
L’occasione mi è propizia per esprimerle un desiderio, da me profondamente sentito e condiviso da un numeroso pubblico che giorno dopo giorno testimonia il suo affetto al mondo dei missionari. Per favore dedicate, sulla rivista, molto più spazio alla testimonianza e alla vita dei missionari della Consolata (e dei loro amici) nel mondo. Abbiamo tutti bisogno del loro esempio e di conoscere il loro pensiero e la loro opera.
Apprezzo anche i vari dossier/inchieste che spesso pubblicate. Tuttavia trovo che, alcune volte, tali servizi troverebbero spazio più confacente su altre riviste. Per esempio, il dossier sulla Tv, pubblicato sul numero di aprile di quest’anno, pur se condiviso da me, non ha nulla di pertinente con la rivista. È come se su una rivista di finanza venisse pubblicato un articolo di moda per bambini.
Mi scusi di questi piccoli suggerimenti e buon lavoro!
Giovanni Pirovano
Via e-mail

Grazie per l’amore alla nostra rivista e grazie anche per i suggerimenti. Siamo pienamente d’accordo che, come diceva Paolo vi, «oggi il mondo ha più bisogno di testimoni che di maestri»; e i missionari sono testimoni qualificati e credibili. Purtroppo, non sono molti quelli che osano raccontare la loro vita. Da parte nostra cerchiamo di sfruttare anche le letterine di natale che inviano i nostri missionari.
A riguardo del dossier sulla Tv, ricordiamo la campagna condotta lo scorso anno dalle riviste missionarie in Italia: «Notizie, non gossip», che sembra aver ottenuto qualche risultato (vedi M.C. maggio 2007 p.3). Soprattutto, la Tv fa parte del «primo areopago moderno» da evangelizzare (Redemptoris missio 37).

Il cuore della missione

Cari missionari,
mi capita spesso che la lettura di Missioni Consolata mi provochi l’amarezza di non trovare in essa un aiuto alla mia vita, a ciò in cui credo.
Faccio un piccolo esempio. L’editoriale del numero di aprile del nuovo direttore, come in tante altre occasioni, dopo alcune considerazioni sulla violenza in Colombia che arriva a uccidere anche i missionari, ripone la speranza di una soluzione in strategie etico-sociali, pur necessarie e alle quali non può mancare il contributo di tutti, anche di chi è impegnato direttamente o meno nell’azione missionaria, ma che non rappresentano, a mio avviso, il cuore della missione.
Da una rivista missionaria mi aspetterei che mi ricordasse sempre le ragioni della missione, il nesso concreto tra la fede e l’impegno quotidiano sia dei missionari in paesi lontani, sia del mio qui, dove vivo.
Vorrei che mi venisse confermata la speranza che dà senso al mio sforzo di «servo inutile». «Mia forza e mio canto è il Signore: egli mi ha salvato» si prega nella liturgia delle Lodi con le parole dell’Esodo.
Di questa non corrispondenza mi dispiace, perché i missionari della Consolata sono anche parte della mia famiglia. Spero e prego che lo Spirito, che certamente ha mosso il Fondatore, possa trasparire con sempre maggior chiarezza dalle pagine della rivista, come accade, ad esempio nello stesso numero di aprile, nella presentazione della figura della beata madre Laura Montoya Upegui.
 Carlo Viscardi
Via e-mail

Siamo convinti anche noi che le motivazioni di fede e di speranza sono alla base dell’azione missionaria e costituiscono «il cuore della missione», anche se molte volte le diamo per scontate o troppo sottintese.

VIVERE SENZA TV … SI PUO’

V orrei esprimere i miei complimenti per la qualità della rivista che, senza dover ricorrere necessariamente a confronti, non sfigura certo paragonata ad altre di maggior fama e fortuna.
Scrivo a commento del dossier sulla televisione, direi necessario e riuscito. Nella mia famiglia non abbiamo Tv, e non ne sentiamo la mancanza; premetto che la scelta è avvenuta per caso: appena sposati e trasferiti, tra le tante cose da fare «la» abbiamo lasciata fra le ultime necessità. Poi ci siamo accorti che anche «senza di lei» il tempo per fare tutto ciò a cui avremmo tenuto scarseggiava, senza contare la necessità di sacrificarle uno spazio in casa. Con l’arrivo dei figli tempo e spazio si sono ridotti in loro favore e, pur non escludendone l’acquisto, questo viene rimandato a quando «ce ne sarà bisogno».
Non rifiutiamo i Dvd di film, cartoni e i tanto invocati documentari; ma lo schermo del Pc, non collegato a internet, non troneggia come un grande idolo al centro di ogni luogo di vita domestica – cucina, camera da letto – né dove vengono ricevuti gli ospiti.

O ra, un interrogativo che aleggia inespresso nel vostro dossier, ma che non è stato formulato: si può fare a meno di passare ore incollati allo schermo? Vivere senza le fiction, i reality,  gli aggioamenti quotidiani sugli amori dei divi, è possibile? E soprattutto senza comprare la Tv?
Spesso mi viene chiesto come faccia a informarmi. Io chiedo di definire l’informazione. Sapere che, ad esempio, in Indonesia si è rovesciato un autobus, causando decine di morti, è importante per la mia «informazione»? Ma anche nell’ambito nazionale, che importanza ha sapere, a distanza di anni dal fatto oltretutto, se effettivamente la perizia psichiatrica fatta e rifatta ha finalmente stabilito se quel determinato assassino era pazzo veramente, o fingeva soltanto, una volta portato in tribunale? Opprimere il nostro cuore di sciagure (in tempi evidentemente altrettanto duri, qualcuno ha detto «il bene è tanto, ma non fa notizia») è informazione? Sapere, o formarsi questa impressione, che in Italia vivono persone che non aspettano altro che esca di casa per truffarmi, cominciando dai comuni che operano false raccolte differenziate dei rifiuti, mi aiuta a proteggermi o alimenta l’emulazione dei disonesti e la sfiducia nel sistema?

D ieci anni or sono il monopolio televisivo era del calcio, fra partite e approfondimenti pre-durante-post. Ora ci sono i reality. Nulla di grave da parte di chi li produce, meglio per chi vi partecipa, grave e colpevole è chi li alimenta: chi è disposto a rinunciare al proprio tempo libero in favore della demenzialità, chi si porta sempre dietro conduttori e partecipanti, chi li elegge a modelli.
Se poi l’invocato documentario è un modo poco faticoso per tentare di colmare lacune liceali, dandoci l’impressione di sapere o affinché l’uomo della strada possa discutere dei «quanti» mi fermo a riflettere anche sulla sua utilità.
Ma spesso osservo che tra la demenzialità, per non dire di peggio, televisiva e quella cartacea c’è poca differenza. Il «buon libro» quale sarebbe? Anche la carta stampata predilige il best seller da spiaggia all’opera ricercata, è massificata, le porcherie dello schermo arrivano in romanzi scritti male e viceversa; nella carta patinata le riviste pseudo scientifiche danno l’impressione di sapere senza dover fare la fatica di imparare. Non credo che oggi i tempi siano più duri, per la Cultura, di secoli or sono: Machiavelli era famoso nella sua epoca per due commedie (Mandragola e Clizia) sboccate e sciatte, dalla trama volgare, non certo per il De Principatibus; e del Decameron ci ricordiamo solo Bruno e Buffalmacco, che ordiscono truffe ai danni del più debole e sprovveduto Calandrino.
Senza perdere la speranza, il vostro richiamo a rimanere sempre vigili è utilissimo, ma domando: fra i teledipendenti che anelano ai muscoli o alle linee perfette, quanti avranno letto il vostro dossier?

Gionata Visconti
Via e-mail




Balcani, la bomba Kosovo

Con l’avvio dei colloqui conclusivi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per definire lo status finale della provincia serba del Kosovo, la situazione nella regione balcanica sta divenendo sempre più incandescente, con violenze e atti terroristici quotidiani, di cui però non si trova traccia nel panorama dell’informazione mediatica occidentale.
Assalti, ferimenti, incendi, omicidi, attentati alle comunità serbe e rom, alle loro case ed agli ultimi monasteri ortodossi (quelli non ancora devastati), così come gli attentati e l’ostilità contro strutture e mezzi delle Nazioni Unite, considerati possibili testimoni scomodi, in previsione degli scenari della definitiva pulizia etnica, che si preparano per il post indipendenza. Ormai è uno stillicidio continuo e quotidiano, così come monta sulla stampa e i media televisivi indipendentisti albanesi kosovari, una campagna mediatica sistematica che fomenta l’odio etnico e l’obiettivo – a loro dire – «non più trattabile» della secessione e indipendenza definitivi.
Negli incontri con membri delle comunità serbe kosovare e dei profughi in Serbia, al di là del senso di solitudine che sentono sulla pelle, emerge una forte determinazione alla resistenza e opposizione a questo ennesimo atto di ingiustizia e di violenza contro le minoranze del Kosmet. Per tutto questo le popolazioni chiedono di non essere nuovamente lasciate sole di fronte ad atti e logiche violente, che nulla hanno a che fare con il progresso e la convivenza tra i popoli; chiedono che il destino e il futuro del Kosovo non sia deciso in cancellerie inteazionali dell’Occidente, ma venga discusso e deciso dai popoli (minoranze o maggioranze) che hanno sempre abitato quella terra. È una richiesta assurda e stravagante?

Sia a livello europeo, che negli Usa e in Canada, molti noti giornalisti di testate inteazionali informano e denunciano ormai apertamente la situazione di pericolo e i nuovi venti di guerra che si vanno profilando; è necessario e giusto che anche in Italia il movimento per la pace, i sinceri democratici, le forze progressiste prendano atto dei rischi di una nuova escalation di guerra e conflittualità. Un fatto che certamente non rimarrebbe circoscritto, ma produrrebbe un nuovo sconvolgimento degli equilibri inteazionali, con il riaccendersi di focolai di violenza, legittimati da un’eventuale indipendenza decisa negli uffici dei padroni dell’impero, ma fuori dal diritto internazionale e dalla Carta dell’Onu.
Sarebbe quell’ «effetto domino» già preannunciato da molti esperti e osservatori inteazionali: se una banda di criminali e narcotrafficanti (come fu definita l’Uck nel ’98 in un report della stessa Cia), può vedere riconosciuto un territorio come repubblica indipendente («uno stato delle mafie», come è stato definito), fuori da qualsiasi ragionevole logica, perché i serbi della Bosnia e della Repubblica di Krajina in Croazia, i popoli dell’Ossezia, dell’Abkhazia, della Transnistria, i curdi della Turchia, i corsi e i bretoni in Francia, i baschi in Spagna, i nordirlandesi, i palestinesi, i russi perseguitati nelle Repubbliche Baltiche, non potranno avere il diritto alla secessione e all’indipendenza?
E l’elenco potrebbe continuare. Ma c’è anche un altro aspetto: sono gli effetti devastanti che si scatenerebbero nella stessa Serbia, dove nella provincia del Sangiaccato l’«Armata nazionale albanese» opera con assalti, attentati, violenze, collegata con un’altra forza secessionista albanese della Valle del Presevo nel sud della Serbia, per unirsi al Kosovo indipendente; ma nella stessa strategia operano forze secessioniste albanesi in Macedonia, Montenegro, Grecia del nord.
Dopo la vergognosa partecipazione dell’Italia ai bombardamenti del 1999, il nostro paese sarebbe nuovamente coinvolto direttamente in scenari di guerra, con le relative conseguenze. Per opporci a tutto questo, per lavorare per la pace e contro la guerra, per continuare a lavorare per la convivenza e l’amicizia tra i popoli, lanciamo un appello/manifesto (sosyugoslavia@libero.it) come strumento positivo per una soluzione pacifica e negoziale del problema Kosovo Metohija e delle genti che lo hanno sempre abitato.

Enrico Vigna
(Forum Belgrado Italia e Associazione SOS Yugoslavia)

Enrico Vigna




Il potere secondo l’Africa (italiano/ français)

Considerazioni sulla democrazia

La democrazia: un bel concetto. Va di moda anche in Africa. Anzi è ormai condizione indispensabile per ottenere i finanziamenti. Ma occorrerebbe adattarla. E i politici del continente non sanno rinunciare a pratiche «locali». Di nascosto, però.

La democrazia è oggigiorno il riferimento politico supremo. In seguito alle dittature dette «popolari» dell’impero sovietico e le dittature mono partigiane installate in molti stati africani, nessuno vuole più essere escluso da questa corrente che attraversa il pianeta. Nonostante ciò, le realtà che si nascondono dietro le professioni di fede democratica sono talmente diverse e talvolta contraddittorie che non mancano di suscitare interrogativi. In Africa le etnie e le tribù, le famiglie e i clan, hanno dato alla democrazia un colore molto locale, a tal punto che alcuni si chiedono se non occorrerebbe dare un fondamento costituzionale a questi modelli politici.

Il 2007 è per alcuni paesi dell’Africa dell’ovest un anno di elezioni: Mauritania, Mali, Nigeria, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Togo. In un sistema democratico l’elezione è il meccanismo attraverso il quale il popolo sovrano sceglie a intervalli regolari coloro che devono condurre le trasformazioni sociali, indispensabili in materia di sviluppo economico e sociale. Questo suppone una dinamica intea fondata sulla convinzione degli attori sociali che lo sviluppo è affar loro. Ora, per i nostri politici africani, la nozione di popolo si riduce spesso alla tribù, quando non è semplicemente il clan o la famiglia. Immaginiamo in queste condizioni che contenuto può avere il gioco democratico, ben codificato dalle regole di diritto moderno. Se a ogni elezione un buon numero di partiti politici sono sul bordo dell’implosione a causa delle dispute intee, e pure la stabilità degli stati è minacciata, questo è dovuto spesso alle specificità molto africane, non sempre confessabili certo, ma ben radicate nei costumi politici.

L’osservatore straniero non capisce che una struttura ad hoc messa in piedi per organizzare le elezioni, che non è affatto abilitata a risolvere i contenziosi elettorali, possa decidere di una materia di competenza giudiziaria. È quanto appena visto in Nigeria, gigante d’Africa con una tradizione giuridica consolidata. Si possono capire cose del genere solo mettendosi nella mentalità africana, dove tutte le strutture sociali di qualsiasi natura, hanno come senso e finalità di servire il capo. Questi in Africa è un uomo forte per tradizione e per necessità.
È in questo spirito che un presidente africano in carica si è recato di persona in una prigione della capitale del suo paese per ordinare la liberazione del suo amico, giudicato e imprigionato dall’istituzione giudiziaria di cui lui dovrebbe essere garante (riferimento a recenti avvenimenti in Guinea Conakry, ndr).

La democrazia si presenta molto spesso in Africa come un gadget che si acquisisce giusto per far piacere agli occidentali. I dirigenti non accettano di applicare la democrazia che nelle sue forme apparenti. Vi sono tenuti a causa dei criteri di «buon governo», condizione necessaria per ottenere gli aiuti inteazionali, soddisfatti i quali la natura democratica del regime politico è dimostrata.
Ma questo non impedisce che le mentalità africane continuino a essere governate da principi e usi tradizionali, troppo spesso agli antipodi dei sistemi di riferimento delle società modee. È in questo senso che svariati responsabili politici africani ricorrono ai feticci (amuleti) per vincere le elezioni. Mai gli altari tradizionali sono bagnati di sangue d’animale come durante le campagne elettorali. Bovini, ovini e caprini sono ritualmente immolati. Ma anche animali più vicini all’uomo come cani e asini subiscono il barbaro supplizio.
Certe pratiche feticiste prescrivono che siano sepolti vivi. Più la richiesta è forte e maggiore il sacrificio richiesto. È come se bisognasse rispondere a una situazione compromessa con dei mezzi eccezionali.

Tutte queste pratiche causano naturalmente delle spese esorbitanti, ma bisogna credere che gli africani non indietreggiano davanti a nulla, quando c’è in gioco il potere o il denaro, due cose che vanno generalmente insieme.
Sono queste le ottusità, che hanno fatto dire che l’Africa non è pronta per la democrazia. Alcuni hanno perfino affermato che questi aspetti sono talmente scritti nei geni degli africani che bisogna tenerli in conto negli strumenti normativi che codificano la vita politica. È come dimenticare che, in Africa, sono sempre più numerosi coloro che vedono nella persistenza di pratiche occulte, il ricorso al comunitarismo o al clanismo, le cause del ritardo economico e del sotto sviluppo.
Certamente la democrazia non è una ricetta pronta per essere applicata. Ma non si può neppure presentare per ragioni di autenticità, come una riproduzione pura e semplice di un modo d’organizzazione ancestrale.
La democrazia è un principio dinamico che si nutre della storia dei popoli. Sfortunatamente l’Africa è in difficoltà sul pensiero politico. Questa è la principale causa del sottosviluppo.

Di Germain Bitiu Nama

Les pouvoirs africains et la démocratie
                                                                         

La démocratie est de nos jours la référence politique suprême. Après les dictatures dites populaires de l’ancien empire soviétique et les dictatures mono partisanes instaurées dans maints états africains, plus personne ne veut être en marge de ce courant mondial qui balaie toute la planète. Cependant, les réalités qui s’abritent derrière les professions de foi démocratiques sont si différentes et parfois même contradictornires qu’elles ne manquent pas de susciter des interrogations. En Afrique, les ethnies et les tribus, les familles et les clans ont donné à la démocratie une couleur très locale au point que certains se demandent s’il ne faut pas se résoudre à concéder un fondement constitutionnel à ces modèles politiques spécifiques.

L’année 2007 est pour un certain nombre de pays d’Afrique de l’Ouest, une année d’élections : Mauritanie, Mali, Nigéria, Burkina, Côte d’Ivoire, Togo. En système démocratique, l’élection est le mécanisme par lequel le peuple, souverain par principe, choisit à intervalles réguliers ceux qui doivent conduire les transformations sociales indispensables en matière de développement économique et social. Cela suppose une dynamique intee fondée sur la conviction des acteurs sociaux que le développement est leur affaire. Or pour  nos  politiciens africains, la notion de peuple se réduit souvent à la tribu si ce n’est tout simplement au clan ou à la famille. On imagine dans ces conditions quel contenu peut revêtir le jeu démocratique par ailleurs bien encadré par des règles de droit modee. Si à chaque élection nombre de partis politiques sont au bord de l’implosion et que même la stabilité des Etats se trouve menacée de rupture, cela tient souvent à ces spécificités très africaines, pas toujours avouables certes, mais bien ancrées dans les moeurs politiques. L’observateur étranger ne comprend pas qu’une structure ad hoc mise en place pour organiser des élections et qui n’est nullement habilitée à connaître les contentieux électoraux puisse décider sur une matière qui relève de la compétence judiciaire. C’est ce qu’on vient de vivre dans un pays comme le Nigéria, un géant d’Afrique qui a cependant une tradition juridique bien établie. On ne peut comprendre pareille chose qu’en se situant dans la mentalité africaine où toutes les structures sociales de quelque nature que ce soit ont pour sens et finalité de servir le chef. Le chef en Afrique est un homme fort par tradition et par nécessité. C’est dans cet ordre d’esprit qu’un président africain en exercice est allé en personne dans une prison de la capitale de son pays ordonner la libération de son ami, jugé et écroué par l’institution judiciaire dont il est censé être le garant.

La démocratie se présente bien souvent chez les Africains comme un gadget que l’on acquiert tout juste pour faire plaisir aux Occidentaux. Les dirigeants n’acceptent volontiers d’user de la démocratie que dans ses formes apparentes. Ils y sont tenus en raison de critères de bonne gouveance attachés à l’aide inteationale, au nombre desquels la nature démocratique du régime politique figure en bonne place. Cela n’empêche pas que  les mentalités africaines continuent d’être gouveées  par des principes et usages traditionnels, bien souvent aux antipodes des référentiels des sociétés modees. C’est dans cet esprit que nombre de responsables politiques africains recourent aux fétiches pour gagner une élection. Jamais les autels traditionnels ne sont aussi abreuvés de sang d’animaux qu’en période électorale. Bovins, ovins et caprins sont ainsi rituellement immolés. Même des animaux aussi familiers de l’homme que le chien ou l’âne subissent le supplice le plus barbare qui soit. Certaines pratiques fétichistes amènent à les enterrer vivants. Plus la doléance est forte, plus le sacrifice exigé est élevé.  Comme s’il fallait répondre à une situation compromise par des moyens exceptionnels.

Toutes ces pratiques occasionnent bien sûr des dépenses faramineuses mais il faut croire que les Africains ne reculent devant rien quand il s’agit d’une question de pouvoir et d’argent, deux choses qui vont généralement ensemble.
Ce sont là des pesanteurs qui ont fait dire que l’Afrique n’était pas mûr pour la démocratie. D’autres ont même affirmé que ces tendances étaient si inscrites dans les gènes des Africains qu’il fallait les prendre en compte dans les instruments normatifs qui codifient la vie politique. C’est oublier que dans la même Afrique, de plus en plus nombreux sont ceux qui voient dans la persistance des pratiques occultes, le recours au communautarisme ou au clanisme, les causes du retard économique et du sous-développement. Certes la démocratie n’est pas une recette toute prête qu’il s’agit simplement d’appliquer. Elle ne peut non plus se présenter pour des raisons d’authenticité, comme une reproduction pure et simple d’un mode d’organisation sociale ancestral. La démocratie est un principe dynamique qui se nourrit de l’histornire des peuples. Malheureusement, l’Afrique est en panne de pensée politique. C’est la principale cause de son sous-développement.

Germain Bitiu Nama

Germain Nama