A un passo dall’eradicazione

Malattie dimenticate (1): dracunculiasi

Per l’Organizzazione mondiale della salute,  fra meno di due anni la dracunculiasi sparirà con il suo carico di sofferenza e povertà.

Una malattia nota fin dai tempi più lontani, una malattia tropicale dimenticata, collegata alla povertà, che affligge ancora migliaia di persone in villaggi dell’Africa, potrebbe diventare un ricordo nel giro di due anni. La dracunculiasi (o malattia del verme di Guinea) potrebbe essere infatti la seconda malattia, dopo il vaiolo, dichiarata scomparsa dal pianeta e non più diffusa fra gli uomini, ha annunciato l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in un comunicato alla fine di marzo di quest’anno.
Sparirebbe dunque una malattia segnalata addirittura nelle mummie egiziane e menzionata da filosofi e medici greci, romani e arabo-persiani.

Da milioni a migliaia di casi
Secondo quanto riportato dall’Oms all’inizio di marzo, la Commissione internazionale incaricata di seguire e certificare i risultati nei confronti dell’eradicazione della dracunculiasi (Inteational Commission for the Certification of Dracunculiasis Eradication, Iccde) ha dichiarato liberi dalla malattia altri 12 paesi. Si tratta in particolare di Afghanistan, Algeria, Camerun, Repubblica Centrafricana, Djibouti, Gabon, Liberia, Mozambico, Sierra Leone, Swaziland, Tanzania e Zambia.
Dal momento della sua istituzione, avvenuta nel 1995, la Commissione ha dichiarato senza dracunculiasi 180 nazioni: se all’inizio degli anni Ottanta il verme di Guinea affliggeva circa 3 milioni di persone, allo stato attuale i casi segnalati si aggirano intorno a 25 mila, concentrati in 9 paesi: sembra più vicino il traguardo di eradicazione nel 2009.

Il verme più lungo
La dracunculiasi è una malattia infettiva causata da un verme (Dracunculus medinensis o verme di Guinea) simile a uno spaghetto, che supera il mezzo metro di lunghezza (fra 0,5 e 0,8 metri) e ha un diametro di 2 millimetri. Fra quelli che infettano i tessuti umani è il parassita di dimensioni maggiori. Migra lungo i tessuti sottocutanei delle persone infettate, provocando dolori anche importanti, soprattutto quando raggiunge le articolazioni. Può emergere alla superficie della pelle con gonfiori e ulcere dolorose, insieme con febbre, nausea e vomito. Le ulcere possono essere ampie, di solito localizzate agli arti inferiori e in nove casi su dieci ai piedi.
Il bruciore intenso causato dall’infezione porta i malati e cercare sollievo immergendo in acqua le parti del corpo colpite. Spesso si tratta della stessa acqua utilizzata poi dalle comunità come fonte per bere, ed è in questa azione che risiede la catena di trasmissione di malattia da spezzare. Infatti nell’acqua il verme presente nella zona infetta rilascia migliaia di larve, che vengono poi ingerite da pulci d’acqua, diffuse in tutto il mondo.
Nel momento in cui queste acque non filtrate e contaminate vengono bevute dalla popolazione, le pulci presenti sono distrutte dall’acidità dello stomaco, si liberano le larve che passano attraverso la parete intestinale, dando così origine a una nuova infezione e riparte il giro. In pratica, dice l’Organizzazione mondiale della sanità, «quando le persone bevono l’acqua stanno in effetti bevendo la malattia».

Il circolo della povertà
La dracunculiasi è diffusa ancora in Africa, in particolare in villaggi dell’Africa subsahariana. Seppure raramente mortale, il verme di Guinea porta con sé non solo i sintomi e le manifestazioni cliniche per il singolo individuo, ma anche ricadute importanti e a lungo termine di tipo socioeconomico, sulle famiglie e la società. Le persone infettate sono infatti rese invalide e impossibilitate a lavorare, anche per lunghi periodi: rimangono malate diversi mesi e alla dracunculiasi possono sommarsi sovrainfezioni causate da batteri.
Un’ulteriore aggravante è data dal carattere stagionale della malattia, che tende a presentarsi in particolare durante le stagioni del raccolto, tanto da meritare il nome di «malattia del granaio vuoto».
Secondo uno studio effettuato in Nigeria, riportato dall’Oms, circa una persona su due non è in grado di alzarsi dal letto per mesi e in Sudan, nelle famiglie dove più della metà degli adulti ha preso la dracunculiasi durante l’anno, i bambini con meno di sei anni corrono un rischio triplicato di malnutrizione. Questo perché gli agricoltori non riescono a svolgere il lavoro di raccolta nei campi. Le ricadute sui bambini non finiscono qui, perché, nel caso in cui vengano infettati, la malattia è responsabile di assenze prolungate, anche di mesi, da scuola.
Tutto questo, impossibilità al lavoro, malnutrizione, mancanza di istruzione, aggrava sempre più lo stato di povertà delle persone malate nei villaggi: «La malattia tiene le sue vittime imprigionate in un ciclo di dolore e povertà», sottolinea l’Oms.

Eradicabile perché
Associata all’utilizzo di acqua da bere infetta, la dracunculiasi viene definita dall’Oms una malattia «vulnerabile», nel senso che il suo ciclo di trasmissione dipende esclusivamente dall’uomo ed è nelle sue mani la possibilità di interferire con la sua diffusione.
Non ci sono al momento farmaci per prevenire e curare l’infezione da verme di Guinea, ma il suo stretto legame con l’elemento acqua per la trasmissione la rendono relativamente facile da contrastare con interventi di basso costo, come rendere sicure le fonti di acqua, trattare i pozzi per eliminare le pulci, filtrare l’acqua da bere per impedie il passaggio con il loro possibile carico di larve, contenere i casi con la cura delle ulcere e la prevenzione della contaminazione delle acque causata dall’immersione del paziente in cerca di sollievo al bruciore, portare avanti una educazione sanitaria.
Vi sono diverse caratteristiche, indicate dall’Oms, per le quali il verme di Guinea è considerato un buon candidato all’eliminazione, come è avvenuto in passato per il virus del vaiolo. Prima di tutto, la diagnosi è facile e sostanzialmente certa, per la possibilità di vedere direttamente il verme responsabile, che può emergere esteamente dalle lesioni. La trasmissione delle larve, e con esse della malattia, è legata alle pulci che si trovano nell’acqua, e non come per altre malattie a insetti con maggiori possibilità di movimenti e spostamenti, come le zanzare.
La malattia colpisce solo l’uomo; non è nota l’infezione in animali, e la sua incubazione, sia nelle pulci, sia nelle persone, non è lunga, come pure è limitata la distribuzione geografica e i periodi dell’anno in cui si manifesta. Gli interventi possibili per contrastare la dracunculiasi sono efficaci, non costosi e possono essere aumentati facilmente.
Infine, vi è la disponibilità a impegnarsi da parte dei governi ed è stato già dimostrato in Asia e Medio Oriente che è possibile arrivare alla sua eliminazione. «La Commissione ha concluso che l’eradicazione rimane una meta raggiungibile» chiude il comunicato dell’Oms di fine marzo. «L’impegno recente del Direttore Generale di dedicarsi alle malattie tropicali dimenticate, come parte delle strategie di riduzione della povertà, dando particolare attenzione all’Africa, apre una finestra di opportunità più che mai necessaria per raggiungere questo obiettivo».

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Angioletto nero

Ricordando un missionario … e il suo estro artistico

Nato a Moncalieri (TO) nel 1927, Giulio Cesare frequenta la scuola di avviamento professionale, si specializza come incisore di metalli e per un decennio si dedica a tale professione. All’età di 25 anni entra nell’Istituto dei missionari della Consolata. Terminato il percorso formativo a Rosignano Monferrato, Certosa di Pesio e Torino, viene ordinato prete nel 1962. Due anni dopo parte per il Kenya e vi lavora fino al 1970, quando è richiamato in Italia, per attendere alla formazione degli studenti del seminario teologico di Torino. Dal 1976 ricopre vari incarichi, come superiore di comunità ad Alpignano e Gambettola, parroco di San Martino (Alpignano) e Regina delle Missioni (TO), animatore di gruppi laicali. Per 30 anni continua a mettere a disposizione dell’Istituto, confratelli e amici le sue doti di artista, fino alla sua scomparsa, avvenuta ad Alpignano il 17 novembre 2006.

Quando il giovanotto Giulio Cesare manifestò al suo datore di lavoro la nuova vocazione a cui si sentiva chiamato, l’orefice torinese esclamò sconsolato: «Chiudo bottega. Mi mancherà la mia mano destra!». Sì, perché il nostro nuovo acquisto alla causa missionaria aveva… l’oro nelle mani. Anche una comunissima scritta sulla copertina di un quaderno diventava un piccolo capolavoro.
Entrato nel seminario per vocazioni adulte a Rosignano Monferrato (AL), lo studente Giulio Cesare imparò a faticare sui libri, destreggiandosi con latino e greco, invece che fondendo oro e modellandolo in spille e anelli. Ma il gusto artistico rimase e si perfezionò.
Ancora prima di diventare sacerdote (1962), durante gli studi di teologia, i pennelli si abbinarono alla penna e tante cupe e monotone stanze del seminario maggiore di Torino acquistarono luce e gioia con i colori alla «Giulio Cesare», così li ribattezzammo.

Vari anni dopo ci ritrovammo insieme in Kenya nella diocesi di Meru. Il vescovo mons. Lorenzo Bessone aveva un gran bisogno di un segretario tuttofare. In quel concetto di «tuttofare» era compreso anche il compito di preparare nuovi progetti di chiese, asili, scuole, centri sociali, mostre…, che la diocesi, in fase di grande sviluppo, necessitava. Il nostro «artista» era davvero un mago nei suoi disegni e novità.
Mago lo era pure nel modo di eseguire certi progetti. Forse, la sua «magia di esecuzione» era dovuta a una caratteristica del maestro artista: la sua generosità nel dire sempre di sì a tutti e le sue grandi distrazioni.
Tante volte abbiamo visto padre Giulio fare il saltimbanco per completare un’opera, o addirittura incominciae l’esecuzione, il giorno prima dell’inaugurazione. Una di tali «avventure» mi è rimasta stampata nella mente con inchiostro indelebile: si trattava di allestire uno stand  nella fiera agricola locale, alla quale la diocesi di Meru era stata invitata per far conoscere al pubblico le varie opere realizzate o in fase di progettazione in diverse parti del territorio. In modo particolare bisognava illustrare i progetti che riguardavano il problema dell’acqua!
Mancava un giorno all’apertura della fiera. Lo stand offriva in quel momento ai curiosi (i soliti scugnizzi) una lunga tela di sacco e nulla più. Quel mattino, padre Giulio arrivò con un camioncino zeppo di barattoli, scope e pennelli. Scaricò tutto davanti a sé e poi si mise pensieroso ad ammirare il panorama di sacco, grattandosi la barbetta. Poi intinse un pennellone dentro un bidone di colore, lo assicurò a un manico di scopa e via… partì in quarta «sporcando» quella tela lunga più di 30 metri. Dieci minuti di sosta, tanto per dar modo al colore di asciugarsi un poco e… via un’altra cavalcata.
«Cosa sta facendo questo muchenge?» (bianco) si domandavano i curiosi. Il muchenge si allontanò di una quindicina di metri a meditare la prossima manovra. Poi partì deciso senza ripensamenti, dal bel mezzo della lunga tela. Qui un’ombra nera, là un tocco di verde, macchiette sparpagliate di ocra.
Qualcosa di familiare cominciava ad apparire… ma non troppo. Ultimo spazzolone: sì, perché davvero questo era uno spazzolone tanto era grande. Un cielo azzurro prese a coprire quel lungo accavallarsi di colori sottostanti e l’inconfondibile silouette della grande montagna sacra del Kenya prese a far capolinea come da una massa di nubi. Zak e zak! Ed eccoti servito.
Fu uno scroscio di mani e un bornato di approvazione: la giogaia del monte Kenya era ora tutta davanti agli spettatori increduli. E c’era ancor tempo per il sole pomeridiano per asciugare quella distesa di colori.
Inutile dire che il giorno seguente la giuria assegnò il primo premio allo stand diocesano.

Tra padre Giulio e il sottoscritto c’è stato un piccolo segreto, che oggi posso rivelare, dato che il missionario ci ha lasciati. È un segreto che inizia con una storia triste. Era il 7 gennaio 1965, festa di san Luciano.
Appena tornato dalla cava di sabbia, dove ero andato a far rifoimento per i lavori della missione, la suora del dispensario mi chiama e mi fa vedere, in braccio a un uomo, un fagotto di stracci con un bimbo di età indefinita, moribondo.
Si decide di fare almeno un tentativo: portarlo all’ospedale.
Vestito come sono da manovale muratore, carico l’uomo e il bimbo e cerco di accelerare i tempi. Ci son cinque chilometri per giungere all’ospedale, ma su una strada da specialisti in autocross.
Tengo d’occhio il bimbo. Lo vedo aprire gli occhi alla ricerca di un ultimo filo di vita. Non sono neppure a un terzo del tragitto e manca proprio il più difficile. In prima ridotta il Land Rover si arrampica come può.
Decido di fermarmi. Mettiamo il bimbo sull’erba perché possa respirare meglio. Mi faccio coraggio e inizio un dialogo con l’uomo che sostiene il moribondo.
– Ni mekriste? (è cristiano)?
– Are (no).
– Vuoi che lo battezzi?
– È affare tuo! (come per dirmi: fai quello che credi bene).
Afferro la bottiglia dell’acqua che per prudenza ho sempre nella cabina del camioncino. Ohimé! è vuota. Neppure una goccia. Avevo infatti aggiunto poco prima acqua nel radiatore. Ora l’acqua più vicina è a venti minuti di corsa.
Sento però l’acqua del radiatore bollire e uno spiffero di vapore uscire da qualche parte. Afferro il tappo della bottiglia e raccolgo con ansia le poche gocce che si condensano.
«Luciano, vai con gli angeli di Dio. Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Mi è venuto così spontaneo ricordare mio fratello che in Italia celebrava san Luciano.
Meno di un minuto e … quell’angioletto è già in paradiso.
Con fare guardingo l’uomo ha già nascosto tra gli stracci il morticino. Se lo è messo in cabina tra le gambe. E mi dice di tornare alla missione. Giunto a casa, devo tribolare non poco per capire le intenzioni dell’uomo. Mi supplica di portarlo nella foresta. Toccare i morti per lui è tabù. Potrebbe essere costretto a fare un sacrificio agli spiriti.
Lo faccio salire nel cassone posteriore del camioncino e giunto nel bosco appena fuori della missione, faccio marcia indietro per isolarmi il più possibile nel semibuio delle piante. Vedo l’uomo scendere guardingo, armeggiare un pochino con il suo machete per scavare una buca… Poi tutto diventa silenzio. Anche l’uomo è sparito. Sotto dieci centimetri di terra, coperto da poche foglie, giace il corpicino del piccolo Luciano. La iena, nella stessa notte non faticherà a portarselo via!

Quell’angioletto, mandato per direttissima in paradiso con quattro gocce d’acqua rugginosa, continuò a occupare i miei sogni per almeno tre anni, finché un giorno mi venne un’idea. Avevo pregato padre Giulio Cesare di farmi una «vetrata» per la nuova chiesa parrocchiale di Amugenti. Si trattava di una vetrata «all’africana»: carta velina a colori racchiusa tra due vetri, ma dall’effetto strabiliante!
Padre Giulio cominciò a fare un bozzetto. Mentre lo guardavo, mi venne in mente il piccolo Luciano. E cominciai a cantare:
«Pittore ti voglio parlare
mentre dipingi un altare.
Io sono un povero negro
e d’una cosa ti prego.
Pur se la Vergine è bianca…
fra gli arcangeli ti prego
metti un angioletto nero!».
Raccontai la storia dell’angioletto a padre Giulio. Si commosse anche lui e mi fece la sorpresa. Tutte le volte che ammiro nel mio breviario la foto di quella vetrata, penso a quel bimbo che più di 40 anni fa avevo battezzato con quattro gocce d’acqua, portato nella foresta e mai più trovato.
Avevo concordato con padre Giulio di non dire a nessuno come mai in quella vetrata c’è un angelo bianco e un angelo nero. Ora lo sapete anche voi. 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




Inceneritori: quale alternativa?

Una tematica che accende il dibattito

A seguito dell’articolo «Bruciare i rifiuti? Una pessima idea» comparso sul numero di marzo, un lettore ben documentato chiama in causa gli autori. «Articolo fazioso, impostazione più ideologica che scientifica». È meglio la discarica o l’inceneritore? Gli articolisti rispondono.

Spettabile redazione,

ho letto con attenzione l’articolo sugli inceneritori, riportato sul numero di marzo di MC. Peccato per l’ambiguità con la quale è stato trattato l’argomento come risulta evidente fin dal titolo: «Bruciare i rifiuti? Una pessima idea».
Al presente nessuno pensa agli inceneritori – non uso il termine termovalorizzatori, che non piace ai redattori del servizio – per «bruciare i rifiuti», bensì a impianti per eliminare la sola parte non riutilizzabile.
È pur vero che, qua e là, nell’ampio servizio, si ammette anche l’eventualità della destinazione all’incenerimento del Cdr (combustibile derivante dai rifiuti, meglio definibile frazione secca), ma l’insieme dell’articolo e dei numerosi riquadri, presenta gli inceneritori come distruttori di tutti i rifiuti, definiti «tal quale» e, di conseguenza, come produttori di velenosi inquinanti.
Mi è difficile credere all’esistenza di inceneritori che brucino il «tal quale», se non altro perché sarebbero talmente inefficienti e avrebbero tali problemi di gestione e di emissioni, da non poter funzionare a lungo. Lo stesso inceneritore di Brescia, non di ultima generazione, non brucia il «tal quale», ma rifiuti selezionati. L’inceneritore di Rho, più recente, risulta molto efficiente e con bassissime emissioni. L’inceneritore del Gerbido e gli altri allo studio in Italia dovrebbero essere non certo inferiori a quello di Rho e pertanto non quei mostri di inquinamento come nel servizio sono presentati.

È semplicemente faziosa l’affermazione di Paolo Moiola, posta come giudizio finale del servizio (pag. 60), che raccolta differenziata ed inceneritore sono antitetici.
È vero invece l’esatto contrario, poiché gli inceneritori presuppongono la raccolta differenziata in quanto rappresentano una delle fasi della stessa, insieme agli impianti di preselezione e trattamento, dopo la raccolta domiciliare delle frazioni divise.
Il servizio su MC, cercando di accreditarsi come scientifico, presenta un profluvio di dati scelti artatamente, ma che, se anche veri, nell’insieme dicono solo mezza verità, perché trascurano diversi aspetti del complesso problema. Si tratta di una impostazione più ideologica che scientifica.
Senza addentrarmi troppo nella questione, faccio rilevare che l’incenerimento dei rifiuti è l’ultimo anello di una lunga catena e che se non si tiene conto di ciò che sta a monte, si rischia di sbagliare clamorosamente il giudizio.

Suonano quasi irrisorie le ultime 7 righe e mezzo dell’articolo, in un servizio di 8 (otto) pagine, nelle quali si fa un fiero riferimento a «nuovi stili di vita» per ridurre i rifiuti!
Certamente il nodo del problema sta proprio nello smodato e ottuso consumismo. Questo, oltre a mettere a disposizione una esagerata quantità di beni, con relativi rifiuti, si porta appresso modalità irrazionali, spesso senza senso, di confezionamento dei prodotti, da quelli alimentari a quelli di tutti gli altri generi. Non di rado il contenitore è più consistente del contenuto.
Allora una fondamentale questione riguarda la messa in circolo di materiali già in partenza definibili rifiuti. Una campagna seria contro gli inceneritori dovrebbe innanzitutto puntare a promuovere in tutti i modi consumi più sobri e nel proporre modalità diverse di imballaggio, attualmente oltremodo esagerate e impostate sul vuoto a perdere.
Questo è un problema affrontabile solo in sede politica. Soltanto leggi appropriate possono dare una svolta incisiva. Perché non imporre una tassa alla sorgente su certi contenitori, tale da rendere conveniente il loro riutilizzo, anziché il passaggio immediato ai rifiuti? Perché non il divieto, «tout court», dell’utilizzo di certe plastiche non riciclabili, di difficile combustione e producenti inquinanti micidiali, compresa la diossina?

È faticoso spendersi per cercare di ottenere modifiche del modo di progettare «le cose», del confezionarle, del trasportarle! Significa scontrarsi con l’inerzia e l’interesse del mondo industriale e commerciale. Si presenta un ulteriore ostacolo di non facile superamento: la modifica del comportamento di tanti ormai consolidati consumisti e, a seconda della latitudine, più o meno restii a sottostare alle regole della differenziazione dei rifiuti domestici.
In attesa di una rivoluzione copeicana di là da venire, che facciamo?
Topino e Novara sparano a zero sugli inceneritori ma, visto che la produzione dei rifiuti continua imperterrita, questi dove li mettiamo?
Con la raccolta differenziata si fa un passo nella direzione giusta, quindi è utile verificare a che punto siamo. Si va da un 10% nel Sud a un 25-30% al Nord. Sono pochi i comuni virtuosi che arrivano al 50%, quota in Italia ritenuta un buon obiettivo! Ci accontentiamo di ben poco se ci poniamo a confronto dei paesi del Nord Europa, in cui la percentuale raggiunge il 90% e dove sono usati gli inceneritori.
Quindi come sanno i redattori del servizio, fatta la raccolta differenziata, rimane una consistente quota di «indifferenziato» che va selezionata per separare l’umido, ancora in qualche modo riciclabile come «compost» e che se fosse avviato all’inceneritore lo metterebbe in crisi. Ciò che rimane, la «frazione secca», costituisce il 15-30% del totale, che va in qualche modo eliminata.
Se escludiamo aprioristicamente l’incenerimento, non rimane che la discarica! Questa è la preferenza che emerge evidente dal servizio.
Perché allora si tace delle discariche, ormai dappertutto strapiene e le cui collinette (non più tanto «ette») incominciano a modificare la «sky line» delle città? Per correttezza andrebbe detto quanto le discariche siano vere «bombe ecologiche», lasciate in eredità alle future generazioni, con tanto di problemi di inquinamento delle falde, caratteristici miasmi (il profumo città), ecc.

La maggior parte delle discariche ha accolto senza differenziazione tutti i tipi di rifiuti e, per non dovee aprire di nuove, obiettivo principale di tutto il ciclo della raccolta dei rifiuti differenziata, il poco spazio disponibile va utilizzato nel modo più intelligente possibile, riducendo al minimo il conferimento di materiale.
Risulta pertanto evidente quanto sia essenziale la raccolta differenziata, che andrebbe ben diversamente sostenuta, da quanto oggi facciano le amministrazioni comunali, ma anche quanto sia essenziale la combustione di ciò che non è riciclabile in alcun modo, ricavandone comunque ancora un po’ di energia elettrica e termica. Non è molto importante il valore economico di ciò che si ottiene, neppure in grado di portare in pareggio il bilancio, ma il fatto di ridurre al minimo i rifiuti irriciclabili, ovvero a meno della metà quel 15-30% di Cdr.
Finora si sono procrastinate le scelte, con il tipico vizio italiano, quando posti di fronte a problemi difficili, meglio dire, impopolari, ma ormai il problema non può più essere eluso.
Qualcuno mi saprebbe dire cosa ne faremmo delle «ecoballe» napoletane, se altri paesi europei non le accogliessero per incenerirle, facendosi pagare «il giusto» per il favore? E dei rifiuti industriali, di cui ogni tanto si ha notizia di clamorose «esportazioni» nei cosiddetti paesi poveri, con procedure sicuramente criminose e incivili?

Siamo di fronte a scelte né facili, né indolori, e nessuna entusiasmante. In attesa di incidere radicalmente sulla fonte della produzione dei rifiuti, per le quali, sì, occorre spendersi generosamente, la scelta è per il male minore.
Occorre una opinione pubblica ben informata e perciò mi permetto di richiamare chi si rivolge a dei lettori, al dovere di grande onestà intellettuale, al dovere di estrema correttezza. Non possono essere sottaciuti aspetti del problema che potrebbero condurre il lettore a conclusioni diverse da quelle auspicate dallo scrivente.
Diversamente siamo di fronte non a informazione, ma a un tentativo ideologico e fazioso di indottrinamento. «Missioni Consolata» non può essere luogo per simili comportamenti.
In attesa di una gradita risposta saluto cordialmente.

Piero Coletto
Rivoli (TO)

Gentile Sig. Coletto,

abbiamo letto la sua lettera di critica al nostro articolo sugli inceneritori. Nel mondo scientifico, la critica svolge la fondamentale funzione di obbligare gli studiosi a documentarsi a fondo prima di affermare qualsiasi concetto e, nel contempo, a cercare sempre nuove soluzioni per risolvere un problema. Tuttavia la critica, per essere costruttiva, deve sempre essere a sua volta supportata da un’accurata documentazione e non solo da opinioni personali.
Il «profluvio» di dati da noi prodotto per, come lei dice, accreditare come scientifico il nostro lavoro, ha lo scopo di evidenziare un aspetto inquietante degli inceneritori e cioè il loro impatto sulla salute umana e sull’ambiente in generale. Lei sostiene che «tali dati, anche se veri, dicono solo mezza verità, perché trascurano diversi aspetti del complesso problema». Sicuramente ci sono altri aspetti del problema dello smaltimento dei rifiuti, tutti importanti e meritevoli di accuratissima disamina, ma quello dell’impatto sulla salute pubblica li supera tutti di gran lunga e chi opera nel settore sanitario ha in primo luogo il dovere di occuparsi per l’appunto di salute e di ciò che può nuocere alla medesima. Nella sua critica questo aspetto pare essere invece di secondaria importanza.

Per quanto riguarda poi la sua deduzione, secondo cui da questo articolo si evincerebbe la nostra preferenza per la discarica, vorremmo precisare che, sebbene essa non sia la soluzione ideale, è sempre meglio una discarica controllata, piuttosto che una discarica per rifiuti speciali (tossici), come è quella necessaria per lo smaltimento dei fanghi, delle ceneri e delle polveri derivanti dall’inceneritore. Non abbiamo tuttavia fatto alcun elogio per la discarica in nessuna parte dell’articolo.
Alcuni punti della sua lettera richiedono una risposta particolareggiata.
In primo luogo, lei contesta l’ambiguità del titolo: «Bruciare i rifiuti? Una pessima idea». Il titolo non è ambiguo, è univoco: numerosi studi scientifici hanno dimostrato un aumento di malformazioni nei bambini e di tumori, nelle zone dove sono attivi gli inceneritori. Sono lavori dell’Istituto Oncologico Veneto per il rischio di sarcoma, dell’Università di Firenze per i linfomi non Hodgkin, di ricercatori ed epidemiologi di varie parti del mondo, per le malformazioni del palato (labbro leporino) e per l’endometriosi. In particolare lo studio realizzato nella regione Rhone Alpes (comprende i centri di Lione, Nimes e Montpellier) dell’Institut Européen des Genomutations ha constatato un numero considerevole di nascite di bambini malformati correlato alla presenza di inceneritori. Ricordiamo inoltre il recente studio dell’Associazione Cardiologi sul rischio micropolveri e sulla loro diretta responsabilità nella crescita di morti per infarto.

Di seguito lei scrive che le riesce difficile credere all’esistenza di inceneritori che brucino il «tal quale», se non altro perché «sarebbero talmente inefficienti e avrebbero tali problemi di gestione e di emissioni, da non poter funzionare a lungo» e cita come esempio l’inceneritore di Brescia, anche se fonti verificabili (Il Gioale del 12 febbraio 2007) riferiscono che tutti i rifiuti di Brescia finiscono nel termovalorizzatore e, conseguentemente, la raccolta differenziata non ha più motivo di essere fatta. L’affermazione di Paolo Moiola, che lei definisce «semplicemente faziosa», secondo cui «raccolta differenziata ed inceneritore sono strumenti antitetici» risulta dimostrata dai fatti.
Dopo aver illustrato le sue considerazioni, lei indica l’incenerimento come il male minore; facciamo due conti: in base a studi condotti su un modeissimo inceneritore italiano, per ogni tonnellata di rifiuto incenerito si producono 7.600 nanogrammi di diossine, che si ritrovano nelle ceneri pesanti, 2.700 nanogrammi nelle ceneri leggere e 170 nanogrammi nei fumi: in totale per ogni tonnellata di rifiuto incenerito sono 10.470 i nanogrammi di diossine immesse nell’ambiente. Poiché in una tonnellata di attuali rifiuti urbani si trovano mediamente solo 2.700 nanogrammi di diossine, (valore in calo di pari passo alla minore immissione di diossine da attività umane inquinanti) l’affermazione che gli inceneritori sono macchine che, per ridurre i volumi di scarti non pericolosi, producono rifiuti (solidi ed aeriformi) pericolosi, è una affermazione assolutamente corretta. Questo conteggio riguarda la sola diossina, la cui quantità viene quadruplicata dall’inceneritore, ma bisogna sempre considerare anche tutti gli altri veleni, che abbiamo descritto dettagliatamente nell’articolo che lei contesta.

Tra gli inquinanti prodotti dall’incenerimento abbiamo ricordato le polveri sottili e vorremmo aggiungere una breve considerazione sui filtri anti-particolato (FAP), che degradano le polveri fini PM10 riducendone la presenza nelle emissioni (anche dei veicoli a motore).
Bisogna fare molta attenzione perché degradare non vuol dire far scomparire. È stato dimostrato che con il filtro anti-particolato le PM10 vengono combuste e diventano PM2,5 o PM1, che sono molto più pericolose.
Dato che in Italia la legge prevede il monitoraggio delle sole PM10, le aziende hanno trovato questo sistema (legale) che consiste nel trasformare i PM10 prodotti (sottoposti a controllo ambientale) in qualcosa di ancora più fine e pericoloso (che non è sottoposto a controllo).
La pubblica amministrazione dovrebbe prendere atto che la produzione di queste polveri ultra sottili (che prendono il nome di nanopolveri) è molto più nociva per le persone e di conseguenza dovrebbe prescrivere controlli più approfonditi.

È  quanto meno strano, poi, che lei si sia accorto solo delle ultime sette righe e mezzo su otto pagine, per quanto riguarda il monito a nuovi stili di vita perché, ad esempio, quanto lei suggerisce circa il pagamento di una tassa o di una cauzione sui contenitori, in modo da favorie il riutilizzo è stato ampiamente citato nel lavoro, così come il ricorso al riciclaggio.
Probabilmente la sua è stata una lettura un po’ frettolosa, altrimenti si potrebbe pensare, data l’acredine della sua lettera, che la critica al nostro lavoro sia stata dettata più da una forma di cointeressenza con la costruzione e/o la gestione degli inceneritori, che dalla reale ricerca della soluzione meno pericolosa e più idonea per il problema dei rifiuti.

Il nostro comportamento, che lei giudica «un tentativo ideologico e fazioso di indottrinamento», non è volto ad indottrinare i lettori (nel mondo scientifico si procede con dimostrazioni), ma a cercare di fare il possibile per lasciare ai nostri figli e alle generazioni future un mondo meno inquinato. Forse anche fare informazione può servire allo scopo, per cui, consci del fatto che quanto scriviamo può risultare sgradito a qualcuno, tuttavia riteniamo importante invitare i lettori a riflettere.
Infine, per quanto riguarda il suo richiamo «al dovere di grande onestà intellettuale e al dovere di estrema correttezza», le ricordiamo che i professionisti nel settore della salute rispondono al giuramento di Ippocrate, che prevede la tutela della persona e non degli interessi economici, in questo caso, dei costruttori degli inceneritori e dei loro «amici».
La ringraziamo, in ogni caso, per il suo interesse sull’argomento, che ci ha dato la possibilità di approfondire il discorso, in particolare sugli aspetti sanitari.
A disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti, porgiamo cordiali saluti.

Roberto Topino e Rosanna Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Gianluca Iazzolino




La parabola del «figliol prodigo» (11): Quando desiderare tutto signigica possedere nulla

«Tutto mi è lecito». Ma io non mi lascerò dominare da nulla

N ella puntata precedente abbiamo elencato i sedici affreschi dei vv. 13-16 ed esaminato i primi sette riportati nel v. 13. Proseguiamo l’approfondimento esaminando altri tre affreschi contenuti nel v. 14.

Quando ebbe speso tutto
Al v. 13 avevamo lasciato il figlio giovane che aveva «raccolto tutto»; ora, al v. 14, lo ritroviamo che ha «speso tutto». Nella vita del giovane figlio, il «tutto» è sinonimo di «nulla». Al raccolto possessivo corrisponde la dispersione immediata. L’illusione di essere ricco non si è ancora sedimentata che già si trova vuoto di tutto. Aveva considerato il «possesso» della ricchezza il fondamento della sua libertà e si ritrova la povertà assoluta che diventa precarietà e inconsistenza. Voleva essere «adulto» e indipendente, ma ha solo dimostrato di essere imprevidente e incapace di calcolare le sue forze.
È evidente che nello «sforzo» superficiale di «spendere tutto» c’è anche il sarcasmo che egli non ha speso «del suo» perché il «tutto» come abbiamo visto era la vita del padre, che egli ha sperperato e svenduto.
Il «figlio più giovane» è il vero erede di Adam ed Eva che nel giardino di Eden, pur avendo tutto («di tutti gli alberi del giardino puoi mangiare», Gen 2,16), vogliono ancora di più e aspirano all’esclusività assoluta, cioè prendere il posto di Dio e possedere «l’albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2,17). Solo così possono affrancarsi dalla libertà reale che posseggono e che essi ritengono insufficiente, ritenendosi capaci di una libertà infinita.
Adam ed Eva si ritrovano «nudi», cioè spenti di vita e di luce, senza alcun potere e privi della loro stessa personalità. «Nudi» che scappano a nascondersi in mezzo agli alberi del giardino (Gen 3,10): desiderare una libertà maggiore di quella che si può contenere genera frustrazione e paura.
Una persona libera che si nasconde è una contraddizione esistenziale. Come i suoi progenitori, il giovane fi-glio è «nulla» in sé e per l’ambiente che lo circonda: egli è in «un paese lontano», dove per essere qualcuno deve comprare non gli amici, ma i compagni di baldoria. Spende tutta la parte di padre di cui si era impossessato per accreditarsi per quello che non è: un uomo ricco. Alle prime avvisaglie di una avversità, crolla la ricchezza che non c’è mai stata e sprofonda lui stesso nella sua inconsistenza. Inaspettata giunge una «potente carestia», che frantuma tutti i sogni del giovane illuso.
La libertà non è mai affrancarsi da qualcuno o da qualcosa perché resterebbe una finta libertà esteriore, cioè solo materiale. Non avere catene ai piedi non significa affatto essere liberi. La libertà è un atteggiamento dell’anima, un moto dello spirito che si compie e si realizza in gesti concreti di liberazione. Il giovane figlio non è libero nel cuore, perché egli è schiavo delle sue «presunte» ricchezze con le quali ha confuso la vita stessa di suo padre. Perdute le ricchezze, disperso il «patrimonio», egli annaspa nel vuoto e nel nulla. Si è liberi quando non si ha nulla da difendere perché nulla appartiene a chi ha regalato anche la propria libertà.
La persona libera è il povero nello spirito (Mt 5,3) perché accoglie i suoi stessi bisogni come compagni di viaggio senza mai trasformarli in padroni o peggio in «idoli» a cui ogni giorno bisogna sacrificare un pezzo di sé. È libero colui che sa dipendere dalle relazioni che sperimenta come strutture di crescita e come strumenti per generare altre relazioni che a loro volta generano ancora pienezza di vita. La persona gretta invece vive le relazioni (affettive, di amicizia, con Dio) in modo e forma «golosi», ma non ha tempo per assaporarli perché è solo preoccupato e occupato di avere di più per ritrovarsi alla fine senza nulla in mano e in cuore.

In quel paese venne una
carestia grande
(lett.: forte/potente)
Non basta allontanarsi dalla casa del padre per essere autonomo: la soglia di casa non è il confine tra l’autonomia e la dipendenza, ma la misura del confronto sia in casa che fuori. Il figlio giovane ora si trova in «quella regione» che diventa anche tragica, perché arriva la carestia. Nella casa di suo padre poteva raccogliere «tutto» ciò che non era nemmeno suo, mentre lontano da casa può incontrare solo la fame, cioè la privazione anche del necessario per vivere.
Da un punto di vista letterario, l’espressione è «una forte/potente carestia» ed è collocata al centro del versetto; sembra quasi personificata, perché domina la scena come un fantasma pauroso. Non è solo carestia, è anche «potente» ed è contrapposta alla scena tragica del giovane che ha «speso tutto». Da una parte il vuoto totale, la nullità, e dall’altra la potenza della fame che avanza e sovrasta. Il viaggio della libertà è durato poco, lo spazio di una illusione.
Giobbe sconsolato e frustrato esclama: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre (= dalla terra) e nudo vi farò ritorno» (Gb 1,21), mentre il giovane della parabola lucana, non solo non è uscito «nudo» dalla casa di suo padre, perché aveva «raccolto tutto», cioè la metà della vita del padre, ma ora si trova anche nudo e senza niente. Per chi ha preteso «tutto» è un bel successo!
Il giovane è l’opposto del patriarca Abramo, che andò in Egitto a causa di una «carestia» (Gen 12,10). Luca usa la stessa espressione greca: «egèneto limòs – accadde/avvenne una fame/carestia». Il patriarca fugge dalla carestia e va in Egitto alla ricerca di cibo; il giovane fugge dal cibo e va verso la carestia. Il patriarca guarda al futuro; il giovane lucano guarda a se stesso. Abramo lascia la sua terra perché costretto; il figlio lascia la casa di suo padre per scelta e decisione. Abramo sta seguendo il disegno di Dio, suo Padre; il figlio si allontana dal padre che considera un ostacolo ai suoi disegni. Abramo commette una indegna ingiustizia (per salvare se stesso, non esita a concedere sua moglie Sara all’harem del faraone, Gen 12,12-13), ma lo fa per paura di trovarsi in terra straniera; il figlio va volutamente in «una terra lontana» a sperperare la vita del padre.
Anche Giacobbe, il fondatore delle dodici tribù, manda i figli due volte in Egitto, allontanandoli da sé e dalla propria terra. La prima volta «perché nel paese di Canaan c’era la carestia» (Gen 42, 5) e la seconda volta perché «la carestia andava diventando potente/forte» (Gen 43,1). Giacobbe allontana i figli da sé per salvarli dalla morte, mentre il figlio della parabola si allontana dopo avere ucciso il padre per raccogliere in forma di patrimonio la stessa vita patea che ha preteso anzitempo.
Giacobbe pensa alle generazioni future, il figlio lucano semplicemente non pensa: è troppo occupato a godersi la vita per accorgersi che sta arrivando la carestia. Egli crede di essere radicato nel presente e dà sfogo al suo carpe diem: «Fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero – Fugge il tempo geloso: cogli l’attimo e confida meno possibile nel domani» (Oratio, Carmina I,11,7-8). È talmente immerso nel suo presente da non accorgersi di essere già nel passato, in quel vuoto esistenziale da cui voleva fuggire, ma da cui non può scappare, perché nessuno può fuggire da se stessi, in quanto noi non possiamo non inseguirci dovunque andiamo.
Il testo greco è puntiglioso perché non dice che la carestia piombò «in quel paese», ma usa la preposizione  «katà – giù per» con l’accusativo, nel senso di «lungo quella regione», con valore distributivo locale, col significato di dappertutto: «Avvenne/accadde una carestia forte/potente lungo tutta quanta/dappertutto in quella regione».
Nemmeno un anfratto è sicuro, non c’è un posto dove ripararsi dalla fame. Il «paese lontano» del v. 13, verso cui camminava il desiderio di liberazione dal padre, ora diventa una prigione senza scampo e senza futuro: dappertutto c’è carestia e privazione. Anticipo di morte e di tragedia.

Ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno
Il verbo greco «hysterèō» significa «manco/sono privo/escluso» ed è preceduto da un verbo ausiliare «àrchō – io comincio a», per cui si può dire che indica un’azione ingressiva, che cioè sta per iniziare e di essa ora si vede solo il principio, ma è destinata a durare nel tempo o nello spazio. Inizia una nuova storia, imprevista e non programmata.
Il bisogno come privazione di qualcosa era assolutamente impensabile e quindi bandito dai pensieri del giovane figlio. Egli aveva un solo ed esclusivo bisogno: lasciare la casa del padre per affrancarsi da ogni forma di dipendenza e di bisogno; il suo unico bisogno era affrancarsi dall’affetto del padre, che considera opprimente. Questo unico bisogno diventa il motore della sua vita futura che egli immagina roseo, spensierato e senza problemi economici: egli ha «tutto» con sé ed è sufficiente a se stesso. Non ha bisogno della dipendenza nemmeno affettiva.
Egli deve andare lontano; il suo desiderio di libertà non nasce dal suo cuore, ma si misura solo con il metro della distanza. Più si allontana dalla sorgente della vita, più s’illude di trovare la pienezza di vivere. Tutto sacrifica per questo miraggio: padre, fratello, casa, amici, terra. Anche Dio diventa superfluo, mero accessorio. Quando il bisogno s’ingigantisce, fino a diventare una esigenza irrefrenabile, anche Dio si trasforma in ostacolo; anzi, in un persecutore senza cuore, qualcuno da cui allontanarsi.
Il giovane somiglia allo stolto del vangelo che avendo avuto uno straordinario raccolto non sa come gestire l’abbondanza e sogna una vita piena di sé e di ricchezze, prevedendo un futuro ancora più ricco: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divèrtiti! Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce davanti a Dio» (Lc 12,16-21, qui 19-21). Coperti di ricchezze, hanno schiacciato la vita e con essa i bisogni e anche i sogni.
Il figlio della parabola sperimenta sulla sua pelle le parole del castigo predette dal libro del Deuteronomio e che egli avrebbe dovuto bene conoscere: «Non avendo servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici, che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame [gr. limòs], alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa; essi ti metteranno un giogo di ferro sul collo, finché ti abbiano distrutto» (Dt 28,57-48).
Nella bibbia la carestia o la fame (con la siccità) è sempre un castigo mandato da Dio, come conseguenza dell’allontanamento da lui o come segno dell’assenza della parola di Dio (Am 8,11) e quindi della mancanza di profezia. In una parola, la carestia significa che Dio ha abbandonato a se stesso Israele che ha rotto l’alleanza con il Signore (cf Ez 5,17).
Il giovane non ha servito il Signore «in mezzo all’abbondanza» nella casa del padre, ora sperimenta la logica conseguenza del suo peccato voluto e con determinazione perseguito: sarà schiavo (come vedremo commentando il v. 15) e sperimenterà ogni sorta di privazione: fame, sete, nudità e ogni altra sventura che lo soggiogheranno, riducendolo a uno stato animalesco, fino al livello più infimo oltre il quale è impossibile andare per un Ebreo: compagno e commensale dei porci. Egli non è andato solo «in un paese lontano», cioè in terra pagana, si è diretto invece nel regno dell’impurità che lo rende inabile alla preghiera e al sacrificio cultuale. Diventando impuro, egli si allontana dall’intimità e diventa estraneo a Dio e a se stesso.
Non è Dio, non è il padre a infierire sul giovane e la carestia non è un capriccio di Dio per farlo rinsavire; al contrario la fame, la sete e il bisogno improvvisi sono il risultato o, se si vuole, il segno esteriore della condizione interiore in cui l’uomo si trova. Attraverso le scelte libere e autonome, il figlio più giovane si esclude da sé dalla pateità, dalla frateità, dalla comunione (casa) per restare solo e privo di tutto. Bisogno e privazione, solitudine e fame sono le cicatrici della sua insipienza che non ha saputo pensare alla carestia in tempo di abbondanza (cf Sir 18,25).
Dopo avere speso tutto, non gli resta che il nulla totale, perché pur di mangiare qualcosa, egli vende addirittura se stesso, negando la sua stessa natura e apparendo per quello che realmente è: un morto che vive in una regione morta, devastata dalla carestia.  (continua – 11)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




L’altra faccia di Pechino

A spasso negli ultimi vicoli del gigante asiatico

La Cina ha indici di crescita da capogiro. L’immagine che si sta diffondendo è la modeità e l’efficienza. Ma non la sua millenaria cultura.  E neppure le disuguaglianze intee, che si stanno inasprendo. La capitale è il simbolo di tutto ciò. Racconto di un’osservatrice privilegiata.

Ormai quasi tutti i giorni si sente parlare della Cina. Da telegiornali, riviste e quotidiani riceviamo sempre notizie interessanti su una nuova scoperta, un ulteriore passo avanti compiuto dal gigante orientale. La Cina è continuamente descritta con aggettivi positivi e grandiosi. Ma la realtà non è sempre questa.
Studiando la lingua cinese, la sua millenaria cultura e avendo vissuto a Pechino per un breve periodo, posso dire che la Cina è anche costituita da una realtà ben più triste e poco sviluppata.
I passi da gigante compiuti negli ultimi decenni sono evidenti, ma non bisogna dimenticare che l’ingente sviluppo economico e culturale sta quasi esclusivamente coinvolgendo le grandi città. Il paese rurale, in gran parte escluso da questi grandi mutamenti, è ancora una realtà presente. Le stesse grandi città appaiono come un mix tra vecchio e nuovo, arretrato e avanzato, miseria e nuova emergente ricchezza. Pechino, Beijing significa letteralmente «Capitale del Nord». La sua municipalità ha le dimensioni del Belgio e conta 14 milioni di abitanti. Ho avuto la possibilità di scoprire questa città più da vicino. Di andare oltre quanto consigliato dalla guida turistica, inizialmente mia fedele consigliera, e di conoscere abitudini e usanze dei suoi abitanti. Aspetti non sempre piacevoli, ma che fanno parte della cultura cinese e che per questo vanno rispettati e apprezzati.

Le «tappe obbligatorie»
Prima della partenza avevo letto con scrupolosa attenzione la guida, evidenziando tutti i nomi dei luoghi che meritavano di essere visitati. Il primo mese del soggiorno è stato quindi dedicato alle cosiddette «tappe obbligatorie». Mi sono recata in piazza Tian’anmen (la più grande al mondo) per ammirare la sua maestosità, poi sono entrata nella «città proibita», dove ho trascorso diverse ore a visitare i padiglioni, i giardini e i cortili un tempo dimora dell’imperatore. Un’altra giornata è stata interamente dedicata al palazzo d’Estate, residenza estiva del «Figlio del Cielo» (l’imperatore), dove mi sono lasciata trasportare dall’atmosfera poetica del suo lago artificiale, dei ponticelli e dei salici piangenti scossi da una leggera brezza.
Ma Pechino piace ai turisti occidentali non solo per queste mete, anche per i suoi magazzini multipiani, dove si può comprare di tutto a cifre irrisorie. Così anch’io sono stata letteralmente travolta da questa febbre di «shopping estremo» visitando il famoso mercato dell’antiquariato e quello delle perle. Passeggiando per alcune delle vie più lussuose ho potuto ammirare negozi di sete con clientela esclusivamente straniera, dove venivano confezionati qipao (tipico abito cinese) su misura. Tutti questi posti avevano un non so che di affascinante, però si avvertiva chiaramente che non rappresentavano la vera cultura cinese, per lo meno non completamente. Ben presto mi sono resa conto della necessità di spingermi oltre. Incitata dalla curiosità, forte del fatto di avere una certa dimestichezza con la lingua, ho deciso di provare a uscire dai percorsi prestabiliti. E proprio allora il soggiorno è diventato molto più avvincente.
L’altra faccia di Pechino, quella estranea ai musei, alle visite guidate, alle vie lussuose e alle traduzioni in un inglese maccheronico, mi stava aspettando.

Tra i vicoli di Beijing
Un giorno mi trovavo, forse per la seconda o terza volta, ad osservare la grandiosità di piazza Tian’anmen sotto l’imponente effige dominatrice di Mao. Le mie gambe, spinte dall’interesse, mi condussero senza neanche accorgermi in una vicina via, trafficatissima di biciclette e risciò, troppo stretta per permettere il passaggio delle macchine.
L’impatto con questa «altra» realtà è stato notevole. Gente che spingeva, che mi tirava per invitarmi a entrare nel suo negozio a comprare, ragazzine che mi circondavano per farmi assaggiare il loro tè. Se mi dimostravo interessata all’acquisto di qualcosa, subito altri piccoli commercianti facevano capolino per assistere alle estenuanti trattative dei prezzi. Qua e là si vedevano gruppetti di uomini intenti a giocare a mah jong (l’equivalente della nostra dama). Purtroppo apparivano anche scene raccapriccianti di persone dal viso rovinato dall’acido, senza braccia o gambe. Dopo un’ora avevo già mal di testa. Ma ben presto mi resi conto che quella realtà mi affascinava e così, da quel momento, decisi di addentrarmi sempre più nei vicoli di Pechino.
I vicoli, sono proprio loro i veri protagonisti di questa città. A parte piccole zone create apposta per i turisti, strapiene di bancarelle e negozietti, il resto sono gli hutong, letteralmente «vicoli di case a corte». Si dice che questo termine sia apparso nel XIII secolo, dopo che la dinastia Yuan aveva stabilito la capitale a Pechino. Visto che la dinastia era di origine mongola, hutong deriva dal mongolo huto, pozzo. Infatti all’inizio la costruzione degli hutong seguiva la distribuzione dei pozzi; solo in seguito questa parola ha acquisito il significato attuale. Costruzioni basse e grigie, che a un occhio inesperto come il mio erano tutte uguali, si affacciano sulle strette viuzze. In questa distesa di casette la comunità pechinese trascorre le sue giornate, la sua quotidianità. Proprio qui vivevano (e vivono ancora) molti pechinesi, che attraverso i secoli hanno diffuso in tutti gli angoli della vecchia zona urbana questo tipo di abitazione.
Camminando senza meta sono entrata in contatto con un altro mondo, altre abitudini. La vita comunitaria è molto attiva, la privacy sembra quasi inesistente. Le porte delle case sono aperte, i bagni in comune si riconoscono dallo sgradevole odore che si avverte parecchi metri prima. Per strada si possono incontrare persone che si lavano i capelli sopra i tombini, uomini che si fanno la barba, chi mangia accucciato per terra.  Vecchi che fanno una siesta davanti alla porta di casa e bambini intenti a giocare in mezzo alla sporcizia. Lasciandosi trasportare dal fascino di questi vicoli, tutti e cinque i sensi vengono riattivati. Da certe case o da piccole botteghe provengono odori di piatti tipici e spesso la tentazione mi ha portata a comprare queste specialità, non sempre apprezzate.
Interessante è la reazione della gente. Era evidente che non sono abituati alla vista di occidentali in quelle zone. Mi guardavano come se fossi stata un’extraterrestre. Alcuni si mostravano un po’ scocciati per quell’invasione di territorio, mentre altri erano ben disposti a scambiare qualche parola, consigliare alcuni luoghi da visitare e indicare la strada per uscire da quel groviglio di viuzze. E così ho finalmente potuto constatare l’effettiva verità di un detto cinese che recita: «Se non si entra negli hutong, non si conosce Pechino».

«Sviluppo» inarrestabile
Frequentavo un corso di cinese all’università, con sede in un campus molto grande. La prima settimana mi ero addirittura comprata una cartina per potermi orientare. All’inizio, avevo scoperto nei dintorni un minuscolo ristorante (locali che i cinesi chiamano xiao chi, ovvero spuntini) dove venivano cucinati deliziosi ravioli al vapore. La prima volta ero riluttante ad entrare, perché l’igiene del locale lasciava un po’ a desiderare, ma poi la tentazione ebbe nuovamente la meglio. Così a volte, dopo lezione, mi recavo lì e poi passavo da una signora che vendeva frutta e verdura e  cercava sempre di propormi un frutto a me sconosciuto. Infine facevo tappa dal «signore dei pesciolini». Un allegro vecchietto che preparava sul momento dei dolcetti a forma di pesciolino ripieni di cioccolato per soli 10 centesimi l’uno. Azioni semplici e banali, che però hanno contribuito a farmi scoprire un’altra faccia di Pechino, quella che purtroppo nessuna guida descrive.
Questa quotidianità lenta, fatta di gesti, odori e sguardi appare spesso nella mia mente. Rimarrà un ricordo indelebile, perché spesso sono le cose più banali a rimanere impresse. E spero di poterle trattenere nella mia mente il più a lungo possibile, visto che questa città sta subendo un cambiamento repentino.

A rischio scomparsa
Proprio a causa dell’inarrestabile sviluppo, anche il volto di Pechino è in fase di stravolgimento. Già da anni sono stati eretti molti grattacieli, tanto che alcuni quartieri ricordano molto le metropoli americane. Ma adesso, con l’avvicinarsi dei giochi olimpici del 2008, si sta assistendo a un’impennata nella costruzione di casermoni. Edifici che non hanno nulla a che vedere con la Pechino degli hutong sorgono come funghi. Molte zone costituite da fitte reti di vicoli vengono abbattute per fare spazio alle costruzioni del futuro. Sulla mappa degli antichissimi hutong compare sempre più spesso l’ideogramma chai (demolire). Un’indagine dell’Istituto pechinese di ingegneria civile ha preso in esame 1.320 vicoli, rilevando come il 15% sia stato distrutto per far spazio a nuovi edifici, il 52% abbia subito seri danni e che solo un terzo ha mantenuto il carattere originale.
Basta visitare il sito di Amnesty Inteational per leggere le denunce rivolte alla municipalità di Pechino. La gente è brutalmente sfrattata dalle sue case ed è costretta a trasferirsi in questi nuovi appartamenti. Se da un lato si può pensare che queste abitazioni permetteranno condizioni di vita e igieniche migliori, dall’altro bisogna riflettere sul modo in cui questa operazione è condotta.
Tutte queste persone non solo vengono private della loro casa, ma soprattutto della loro quotidianità e dello spirito di comunità.
Purtroppo questo è il prezzo che deve pagare la Cina per poter diventare sempre più importante a livello mondiale e per reggere la competizione con l’Occidente. La popolazione cinese non è stata adeguatamente preparata a questo sconvolgente balzo in avanti e l’impressione è che tutto stia avvenendo troppo velocemente creando enormi squilibri.
Allarmato dalla possibilità che non resti nulla della vecchia Pechino, il governo ha approvato delle linee guida per il restauro degli hutong. Ma molti conservazionisti credono che ormai il danno sia irreparabile. Forse fra qualche decennio questi aspetti unici della quotidianità pechinese saranno solo un ricordo. 

Di Francesca Bongiovanni

Francesca Bongiovanni




Soweto vede la luce

Un progetto pilota per la riabilitazione delle baraccopoli di Nairobi

Storia di una comunità che vuole trasformare lo slum in cui vive e del progetto che si incaricherà
di coronare questo sogno. Con l’aiuto della parrocchia, del Comune di Nairobi, delle Nazioni Unite e del Goveo italiano.

Mama Esther ha un’età indefinibile; la diresti giovane per l’entusiasmo che anima i suoi occhi, ma il suo volto porta inequivocabili segni di stanchezza dovuti ai 25 anni passati a Soweto, vivendo e tirando su figli in questo ammasso di stradine che chiudono il quartiere di Kahawa, a Nord di Nairobi.
Soweto-Kahawa West è uno slum, uno dei circa 200 insediamenti abusivi urbani che costellano la grande metropoli kenyana, vera e propria galassia di formicai umani. Un chilometro quadrato di terra polverosa, adagiato lungo la linea ferroviaria Nairobi-Naniuki, in cui circa 6 mila persone vivono ammassate, in una situazione di degrado ambientale e sociale ai limiti della sopravvivenza: baracche fatiscenti, costruite «a casaccio», senza un’adeguata progettazione; strade strette, quasi dei sentirneri schiacciati fra le pareti di legno e fango delle case; assenza totale di impianti igienico-sanitari e di spazi aperti, per permettere una minima socializzazione fra le persone dell’insediamento.
Niente di tutto ciò. Questa è Soweto fin dai giorni delle sue origini, immediatamente successivi all’indipendenza del Kenya (1963), la Soweto che Mama Esther ricorda, in cui ha sempre vissuto fino a oggi, anzi… fino a «ieri».
Sì perché, in effetti, oggi a Soweto sta accadendo qualcosa di diverso, di unico, di speciale, quel «qualcosa» che riempie di luce e di orgoglio gli occhi di Mama Esther e degli altri abitanti dello slum: l’area sta cambiando, rinascendo, vivendo una fase della sua storia che fino a pochi anni fa sarebbe stata assolutamente inconcepibile.
Soweto-Kahawa West si propone, oggi, come modello per il Kenya Slum Upgrading Program (Kensup), un programma per la riabilitazione e lo sviluppo degli slum della nazione che il governo del Kenya ha lanciato nell’aprile del 2006, stanziando la cifra di 880 miliardi di scellini per i prossimi 14 anni (10 miliardi di Euro).
L’opera di miglioramento ha potuto prendere il via grazie a un progetto elaborato dalle Nazioni Unite-Habitat, in collaborazione con il Comune di Nairobi e finanziato dal Goveo italiano con la cifra di 240 mila dollari.
L’intervento dell’Italia è anche frutto della campagna «WNairobiW», iniziativa promossa da un gruppo di associazioni e Ong italiane e keniane contro la demolizione degli slum e il diritto alla terra. La campagna ha inoltre insistito sulla proposta di riconversione del debito del Kenya verso l’Italia, di circa 44 milioni di Euro.
L’accordo, siglato il 27 ottobre scorso, impegna il governo del paese africano a investire, per un periodo di dieci anni, 4,4 milioni di euro in progetti di sviluppo a favore delle zone degradate, urbane e rurali, del paese.
Inoltre, Soweto rappresenta un frutto significativo dell’attività dell’organizzazione Kutoka-Exodus Network, che riunisce 15 parrocchie cattoliche presenti negli slum e che dai suoi inizi si è battuta per migliorare la qualità di vita e la difesa dei diritti fondamentali degli abitanti delle baraccopoli.
La scelta di iniziare questo programma di upgrading proprio da Soweto è stata fatta grazie all’impegno della comunità, organizzatasi per difendere il diritto di abitare nell’insediamento e di migliorare gradualmente il livello di vita al suo interno.
Già nel 1998, per proteggersi dalle pretese di alcuni speculatori che millantavano la proprietà dei terreni, gli abitanti si erano riuniti in comitato, presentando un reclamo alle autorità locali e dichiarandosi nel medesimo tempo idonei alla proprietà del territorio che, come in altri casi di insediamenti abusivi, appartiene allo stato.

Il cammino della comunità è stato accompagnato in tutti i suoi passi dalla parrocchia di Kahawa-West, amministrata dai missionari della Consolata e partner fondamentale in quest’opera di riabilitazione dello slum. Soprattutto negli ultimi due anni, la collaborazione fra parrocchia e comunità si è fatta più stretta e ha condotto  ai risultati che oggi si possono toccare con mano.
L’impegno della gente è stato fondamentale. Lo riconosce padre Franco Cellana, oggi superiore provinciale dei missionari della Consolata in Kenya. È lui la mente del progetto di riabilitazione sin dal giorno in cui è entrato alla guida della parrocchia di Kahawa West.
«Dal gennaio 2004 ad oggi si sono fatti grandi passi in avanti e tutto ciò è stato possibile grazie al coinvolgimento degli abitanti di Soweto che, attraverso i loro rappresentanti, hanno saputo coinvolgere le persone, facendo comprendere loro l’importanza di queste proposte. È da due anni  – continua padre Franco – che lavoriamo con la gente, raduniamo la popolazione, in un processo graduale, lento e faticoso, per superare le diffidenze, le rivalità e la speculazione selvaggia da parte dei proprietari delle baracche, che vivono fuori dallo slum e chiedono affitti esorbitanti anche su pezzi di lamiera vacillanti sorretti da mura di argilla».
Sammy Chomba e Peter Kamau rappresentano la voce della comunità e due diverse generazioni di abitanti di Soweto.
Il primo è, dal 2004, il presidente del Comitato per la riabilitazione dello slum. Eletto dagli stessi abitanti, è anche il responsabile per tutti gli affari interni della comunità. Quando sorge un problema o c’è una disputa fra residenti è a lui che tocca intervenire.
È un uomo silenzioso e quando inizia a raccontare la storia del progetto sembra persino intimidito. Fino a quando chiede il permesso di esprimersi in Kiswahili, lasciando a Peter il compito di tradurre in inglese. Le parole escono lentamente, ma fluide, facendo intuire a chi lo ascolta l’autorità che Sammy riveste all’interno dello slum. La memoria scava e va alla radice del problema, legato al possesso della terra.
«La grande difficoltà – dice – sta nel fatto che non esiste nessun documento legale che garantisca la proprietà del terreno su cui sorge lo slum. Il terreno appartiene al governo, mentre ci sono molti proprietari di baracche che vivono al di fuori dello slum e alle quali la gente deve pagare un affitto, talvolta molto alto. Il cammino intrapreso è stato quello di fondare una sorta di cornoperativa che rappresenti tutti gli abitanti di Soweto e a cui venga ceduta collettivamente la proprietà della terra».
Peter Kamau, è il segretario della comunità. Spetta a lui fornire i dati tecnici del lavoro che si sta portando avanti. «Attualmente siamo alla prima fase del processo di miglioramento dello standard di vita di Soweto.
Il primo grosso impulso è stato dato dall’installazione di un grande palo della luce in grado di illuminare a giorno le buie notti nello slum. Il lampione, alto 40 metri, ha di fatto cambiato la vita della comunità, rendendo le strade sicure e la comunità molto più tranquilla.
Sebbene Soweto non abbia mai avuto i problemi di criminalità che si presentano in altri slum della città, il cambio è stato radicale. Se di giorno si poteva camminare anche prima relativamente sicuri per le strade, di notte si verificavano episodi di criminalità, anche con una certa frequenza. Oggi si può vivere e dormire tranquilli, senza più paura di aggressioni, furti o accoltellamenti».

La prima fase di miglioramento dello slum prevede innanzitutto l’ampliamento di quattro strade per poter permettere di raggiungere con un veicolo il centro dell’abitato. Questo è un passo avanti fondamentale.
SL’attuale rete viaria del quartiere non consente la circolazione su quattro ruote, rendendo impossibile l’intervento di un’ambulanza o dei pompieri in caso di emergenza.
Inoltre, in questi mesi sono stati costruiti cinque complessi sanitari e tre depositi per l’immondizia, un tempo ammassata ai lati delle abitazioni e causa di malattie e infezioni fra gli abitanti. «Questi depositi devono servire anche al recupero di materiali che possono essere riciclati, dando così un’opportunità di lavoro ad alcuni abitanti dello slum. Inoltre – continua Peter – è stato costruito il Resource Centre, sede del Comitato per la ristrutturazione di Soweto e salone comunitario multifunzionale. Infine, si è anche iniziata la ristrutturazione di alcuni degli attuali spazi abitativi. La prima fase prevede la sistemazione di 130 strutture delle 304 (su 676 totali) che si prevede di mettere in ordine».
Sl lavoro di ampliamento delle strade, di messa a punto di alcune abitazioni e di costruzione delle unità sanitarie e dei depositi di immondizia non è stata un’impresa facile. Molte famiglie hanno dovuto esser ubicate altrove e alcuni proprietari delle strutture si sono inizialmente opposti all’iniziativa vedendo toccati i loro interessi.
A questo riguardo è stata fondamentale l’opera attuata dal Comitato della comunità. Alcuni incaricati si sono fatti carico di responsabilizzare gli abitanti, cercando di far loro intendere i benefici derivanti da uno sforzo collettivo per il bene comune.
«Del resto – ha aggiunto il segretario – la gente ha iniziato a vedere un cambiamento in atto. La gente si è convinta e ora è contenta perché tocca con mano il miglioramento che si vuole dare al posto dove viviamo. La speranza diventa più forte quando si vedono dei risultati e quando si incontrano delle persone che desiderano aiutarci. Vogliamo che Soweto diventi un posto differente, che non venga più equiparato ad altri slum. Anzi, cerchiamo di usare la parola «slum» il meno possibile. Quelli di fuori definiscono Soweto in questo modo, ma noi preferiamo chiamarla «villaggio» e fare di tutto per cambiare la percezione che anche gli altri hanno di noi».

Oggi, Mama Esther è la store-keeper della comunità, ovvero la persona che si incarica di ricevere il materiale che serve per i lavori di costruzione e ristrutturazione; lo immagazzina, ne tiene un registro e si incarica di farlo trasportare lì dove c’è bisogno.
Anche lei pensa che Soweto possa diventare un posto diverso, dove far crescere i bambini che adesso frequentano un affollatissimo asilo pieno di allegria e di colori e sognare per loro un altro mondo possibile. È stato il lavoro di tanti a dare a questo posto un aspetto diverso. Lo stesso padre Franco si dice stupito della sua gente.
Due anni fa aveva incontrato una comunità che iniziava a darsi un’organizzazione e, soprattutto, era desiderosa di crescere. Oggi, ha davanti una realtà in cammino.
Il lavoro da fare rimane molto; il progetto Soweto prevede una seconda fase nella quale si ultimerà la costruzione di altri cinque unità di servizi igienici, altrettanti raccoglitori di immondizia e, soprattutto, si darà il via alla costruzione di 80 nuove case in muratura, piccole abitazioni a due piani che daranno al luogo un aspetto finalmente dignitoso.
Mama Esther ci crede e lavora per questo. Vede, attraverso i suoi profondi occhi neri, le nuove possibilità che il processo di riabilitazione potrà offrire in futuro. Il suo pensiero corre soprattutto alle donne, le persone più legate al «villaggio» a causa della loro condizione di madri.
Mary, la segretaria della parrocchia che dall’inizio accompagna il processo di riabilitazione chiarisce bene il concetto: «Gli uomini, vanno e vengono, sono più liberi. La maggior parte delle donne, invece, sono sole, con più figli a carico e quindi rimangono bloccate il questo posto. Alcune di loro riescono a coltivare qualcosa da andare a vendere al mercato di Kahawa, altre raccolgono un po’ di stracci o vestiti usati, ma a volte le bocche da sfamare sono tante e le entrate molto poche. Pensare – dice con rammarico – che alcune di noi sarebbero anche preparate professionalmente, avrebbero la capacità di iniziare una propria attività se non avessero problemi di finanziamento. Invece, alcune devono vivere con il piccolo aiuto che altre donne della comunità riescono a fornire; si mette insieme qualche scellino, un po’ di farina e un mese si aiutano tre madri, il mese successivo altre tre. Sarebbe tutt’altra cosa se si potessero creare delle piccole imprese all’interno di Soweto».
Non lo dice con il tono di chi sta sognando ad occhi aperti, ma di chi vede il futuro partendo da un progetto concreto, una prospettiva completamente diversa, che apre lo spazio alla speranza. Domani, a Soweto, sarà davvero un altro giorno.

Di Ugo Pozzoli

Soweto: l’inaugurazione

UN LAVORO DI SQUADRA

I l 23 gennaio 2007, nel pieno svolgersi del World Social Forum, Soweto ha vissuto un giorno memorabile. Alla presenza della vice Ministro degli Esteri del Goveo italiano, Patrizia Sentinelli, del rappresentante dell’organismo della Nazioni Unite per l’ambiente, dottor Daniel Biau, dell’ambasciatore italiano Enrico De Maio e del sindaco di Nairobi, sig. Dick Wathika, sono state inaugurate alcune costruzioni per la riabilitazione della vita degli abitanti dello slum previste da un progetto elaborato dalle Nazioni Unite, in collaborazione con il Comune di Nairobi e finanziato dal Goveo Italiano con la cifra di 240 mila dollari.
Abbiamo chiesto alla onorevole Sentinelli e al sindaco Wathika che condividessero con noi il loro pensiero a proposito di questo avvenimento.
MC: Onorevole, che cosa significa un progetto come questo per il Goveo italiano e per il Kenya?
On. Sentinelli: È un progetto importante e significativo per la realtà di questo slum, ma penso possa essere considerato un progetto pilota anche per altre situazioni come, per esempio, il grande slum di Korogocho. Abbiamo siglato un accordo con il governo del Kenya di riconversione del debito. Nel regolamento operativo di questo accordo vorremmo chiedere alla controparte che i fondi che abbiamo messo a disposizione vengano effettivamente destinati al recupero di particolari aree degradate, sia urbane che rurali. Vogliamo essere ambiziosi, ma sapere anche che le cose si costruiscono passo dopo passo; basta farlo con coerenza, semplicità e rigore.
MC: Quindi questo potrebbe essere davvero l’inizio di un cammino di utilizzo dei soldi della riconversione per la riabilitazione degli slum di Nairobi?
On. Sentinelli: Penso che i soldi della riconversione siano un primo passo, non sufficiente. Come Goveo, potremmo essere tra coloro che attraggono finanziamento di cooperazione anche dalle regioni, per costituire un sistema virtuoso, un «sistema-paese». Mettere insieme gli sforzi di tutti, quelli del Goveo, come quelli delle Ong e della cooperazione decentrata può servire meglio allo scopo.
MC: Signor sindaco, è una grande giornata per Soweto. Che cosa ne pensa di questo processo? Può essere l’inizio di un processo continuativo che miri al miglioramento anche di altri slum di Nairobi?
Wathika: Come sindaco sono molto grato per tutto quanto il Goveo italiano ha fatto per noi e per il lavoro svolto dall’ambasciata italiana. Speriamo che la collaborazione continui, la presenza del vice ministro degli esteri italiano lo conferma. Vorrei anche invocare l’intervento di altri governi che possano appoggiare l’opera di riabilitazione di altre baraccopoli.
MC: Quali sono le difficoltà più grandi da superare per poter arrivare a ultimare l’upgrading di queste aree?
Wathika: Senz’altro quelle riguardanti la proprietà dei terreni. Molte persone che vivono in uno slum stanno occupando abusivamente delle terre non loro. La parte più difficile sta nel regolare le questioni che sorgono fra i proprietari delle abitazioni, il proprietario dei terreni, cioè lo stato, e chi ci vive. La maggior parte dei proprietari delle abitazioni non vogliono il risanamento dello slum, in quanto preferiscono percepire gli affitti di chi abita le baracche. Fortunatamente, nel caso di Soweto non si presenterà questo problema. La terra diventerà di proprietà collettiva della comunità.
MC: In questi mesi si è formata una bella équipe. Pensa che questo «lavoro di squadra» possa funzionare anche per gli altri slum di Nairobi?
Wathika: L’approccio deve essere lo stesso. La gente dello slum e l’autorità locale devono avvalersi dell’esperienza tecnica delle Nazioni Unite e anche della chiesa. L’appoggio della chiesa è molto importante perché la gente ascolta ciò che la chiesa dice e di lei si fida.

Ugo Pozzoli




GIù LE MANI DALL’AFRICA

CATTIVI RIMEDI PER UN CONTINENTE «MALATO»

Le risorse del continente africano continuano a far gola alle potenze di tutto il mondo. Wto, zone franche ed Epas sono le «armi» con cui il nuovo colonialismo economico di stampo liberista vuole impadronirsi di una ricchezza non sua. Ma anche una delle cause principali di fenomeni sociali come immigrazione e ghettizzazione nelle baraccopoli.
Una sfida per la missione di oggi.

Immigrati e bidonville sono una vetrina di povertà e miseria, frutto delle ricorrenti e aspre politiche commerciali, scritte e imposte dai potenti attori della scena internazionale.
Le città sono sempre state, per consuetudine secolare, il luogo nel quale i poveri hanno cercato rifugio perché minacciati, spesso dalla fame. E i periodi di depressione economica o post-bellici hanno avuto come effetto collaterale la fuoriuscita di milioni di persone dall’Europa alla ricerca di lavoro e speranza altrove.
L’Africa, nella sua recente storia, ha subito l’esodo dalle campagne come contraccolpo della politica dei prezzi agricoli, della deregulation, del dumping e dal protezionismo praticate negli anni ‘80 dalle discipline finanziarie imposte dagli organismi inteazionali quali il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale.
In Africa, il 70% dei lavoratori è impiegato nel settore agricolo e il 95% delle terre coltivate è gestito da imprese familiari. Coltivano prodotti destinati al commercio di prossimità, cioè a mercati e piccoli negozi dove si rifornisce la maggior parte dei consumatori africani. La struttura produttiva venne definita nel periodo coloniale: grandi monoculture di materie prime agricole destinate all’esportazione (cacao, zucchero, caffè…), a svantaggio delle coltivazioni per il consumo interno.
Quando negli anni ‘60 sempre più paesi dell’Africa cominciarono a ottenere l’indipendenza, l’esigenza di mantenere l’architettura delle monoculture, tanto funzionale al Nord del mondo, spinse le ex potenze coloniali a stipulare degli accordi con i nuovi stati africani. Si arrivò così alla Convenzione di Yaoundè (1964) e, in seguito, alle quattro Convenzioni di Lomè (dal 1975 al 2000) che stanziavano somme ingenti per gli aiuti allo sviluppo e stabilivano delle corsie preferenziali per le merci provenienti dalle ex colonie senza chiedere in cambio una reciproca apertura di mercato.
La svolta avvenne quando si passò dal riconoscimento del diritto che i paesi in via di sviluppo avevano di proteggere le proprie giovani economie a un approccio di classico stampo liberista il cui credo postulava che l’apertura dei mercati avrebbe prodotto di per sé quello sviluppo a cui anelavano i paesi più poveri.
Fu l’epoca dei grandi Piani di aggiustamento strutturale (Pas) voluti da Fmi e Banca mondiale, che imposero l’abbandono dei meccanismi di sostegno e di protezione sia doganali che sociali, a favore delle privatizzazioni di settori sempre più ampi dell’economia nazionale che, quasi ovunque, era ancora prevalentemente statale. Furono anche i tempi della cosiddetta «rivoluzione verde» che coltivava l’idea di un’agricoltura sempre più industrializzata e tecnologica per sfamare il mondo.
In cambio dei soldi ricevuti per la loro «modeizzazione» i paesi del Sud furono costretti a privatizzare o svendere risorse e servizi pubblici. A seguito della crisi del debito generato da quei prestiti, l’Africa fu costretta a rinunciare alla propria sovranità alimentare, cedendo terre su terre agli investimenti stranieri, in cambio di grandi coltivazioni di prodotti il cui prezzo è sceso di anno in anno.
Una situazione che si è protratta fino ai nostri giorni e della quale hanno approfittato le grandi imprese dell’agrobusiness presenti in Africa. Attraverso la concessione di terreni e agevolazioni e creando delle zone franche per l’esportazione, nel corso di pochi anni queste imprese hanno incentivato la produzione per l’esportazione e abbassato notevolmente il prezzo dei prodotti agricoli, costringendo numerosi piccoli produttori a vendere la loro merce a un prezzo inferiore al costo di produzione.

LE CONSEGUENZE SOCIALI
Il risultato delle liberalizzazioni previste dai Piani di aggiustamento strutturale è stato spesso rovinoso per il settore agricolo, e catastrofico sul piano sociale. Per riprendere una dichiarazione del Commissario allo sviluppo della Commissione europea, Louis Michel: «Nella prima fase delle liberalizzazioni – come si è visto nei paesi dell’Est europeo – ci sono spesso catastrofi sociali».
Gli esempi sono molteplici: in Costa d’Avorio, dopo la riduzione del 40% delle tariffe decise nel 1986, i settori tessile, chimico, dell’abbigliamento e dell’assemblaggio automobilistico collassarono, producendo un’emorragia di posti di lavoro.
In Senegal, fra il 1985 e il 1990, dopo l’applicazione di un programma di liberalizzazioni che aveva ridotto le tariffe doganali dal 165 al 90%, un terzo dei posti di lavoro andarono perduti.
Nel Ghana, 50 mila posti di lavoro nel settore manifatturiero sparirono fra il 1987 e il 1993, dopo la liberalizzazione delle importazioni di beni di consumo.
In Kenya, i settori del tessile, dello zucchero, del cemento, dell’imbottigliamento del vetro e del pollame dovettero lottare duramente per reggere la competizione delle importazioni da quando, nel 1993, venne lanciato un radicale piano di liberalizzazioni degli scambi in linea con un programma di aggiustamento strutturale targato Fmi/Banca mondiale.
Fra il 1993 e il 1997 la crescita industriale nel paese è scesa del 2,6%, tra il 1991 ed il 2000 il paese ha raddoppiato le sue esportazioni agricole e quadruplicato le sue importazioni alimentari.

POLITICHE ECONOMICHE
Alla fine degli anni ‘90, le riforme del commercio internazionale hanno ricevuto un impulso straordinario grazie alla nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) in sostituzione dell’Accordo sul commercio e sulle tariffe (Gatt). Lo scopo di questa organizzazione è quello di redigere e far rispettare delle regole uniformi per il mercato mondiale.
Come condizione per entrare nel Wto viene richiesto ai singoli paesi di eliminare ogni ostacolo al «libero scambio delle merci», principalmente gli strumenti tradizionali con i quali gli stati sostengono le proprie economie: le tariffe doganali, la scelta di sostenere alcuni settori produttivi fino al controllo dei prezzi dei generi di prima necessità.
Ogni trattamento preferenziale non è più possibile in quanto considerato «concorrenza sleale» nei confronti dei prodotti di altre nazioni. Questo livellamento del terreno di gioco, auspicabile idealmente, in pratica ha finito per favorire soltanto gli attori più forti a livello economico e le grandi industrie multinazionali che possono vendere i loro prodotti all’interno di un paese in via di sviluppo a un prezzo nettamente inferiore a quello del mercato interno. Il risultato di questa politica di dumping è che l’economia ristagna e la gente, non trovando opportunità di lavoro e profitto in casa propria, si dirige verso le grandi città ingrossando la massa delle baraccopoli oppure fugge all’estero. Mentre le multinazionali comperano a prezzi stracciati le terre abbandonate.
Tra le condizioni previste dai programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fmi e dalla Banca mondiale per accedere a nuova liquidità presso i creditori inteazionali e alla dilazione del pagamento dei servizi del debito estero, c’era l’apertura dei paesi africani agli «Investimenti diretti esteri» (Ide). Anche in questo caso, i costi ambientali e sociali sostenuti sono stati enormi. Non potendo offrire condizioni economiche ottimali (mercati, infrastrutture, stabilità), alcune nazioni africane – per attirare tali investimenti, in sintonia con la logica dei Pas – hanno fatto leva sulla deregolamentazione del settore, promuovendo la nascita di zone franche per l’esportazione, garantendo alle imprese straniere esenzioni fiscali, completa libertà di rimpatrio dei profitti ed assenza di vincoli di natura sindacale e ambientale.
Nascono così le Export Processing Zones (zone franche per l’esportazione). Le zone franche si sono rivelate delle isole di profitto per le multinazionali, di sfruttamento dei lavoratori e, soprattutto, lontane dai bisogni reali della gente. Il Kenya, un paese che non è autosufficiente a livello alimentare, ha 43 zone franche, di cui 28 operative, tra le quali quelle dedite alla coltivazione ed esportazione di fiori in Europa.
In queste zone i livelli salariali sono molto bassi, i tui di lavoro in media di dodici ore e gli standard di sicurezza insufficienti. Inoltre, non sempre hanno creato nuovi posti di lavoro. Le imprese minerarie straniere in Ghana tendono ad impiegare personale specializzato straniero piuttosto che locale. Gli investitori stranieri in Sudafrica fanno largo ricorso a contratti di lavoro flessibili con l’obiettivo di abbattere i costi di produzione.
In ogni caso, dove vengono creati nuovi impieghi, come nel tessile e nel settore dei prodotti vegetali, i lavoratori sono sfruttati, sotto pagati ed i loro diritti non rispettati.
Attoo alle zone franche i piccoli produttori vengono messi fuori dal mercato locale perché non in grado di competere con le imprese straniere. Inoltre, appena si presentano nuove opportunità per aumentare i profitti, le grandi industrie hanno la tendenza a muoversi rapidamente fuori e dentro il paese, lasciando molte persone improvvisamente senza impiego e senza dare loro il corrispettivo spettante per gli ultimi mesi di lavoro.
È in atto un nuovo tipo di colonizzazione economica neoliberista che non mira alla conquista dei paesi, bensì dei mercati, delle materie prime e delle risorse.
L’Africa sub-sahariana è la regione del mondo con il più basso tasso di sviluppo umano, indice che comprende – oltre alla ricchezza pro-capite – indicatori come l’alfabetizzazione, l’aspettativa di vita, l’accesso alle risorse essenziali quali cibo e acqua potabile.
Dei 40 paesi considerati oggi poverissimi ben 34 si trovano nell’Africa sub-sahariana; negli ultimi 20 anni secondo la Banca mondiale, il loro reddito medio è diminuito da 400 a 300 dollari l’anno; secondo la Fao dei 50 paesi che ancora oggi soffrono la fame, 30 si trovano in Africa.
La descrizione di un continente che lentamente va alla deriva sospinto dalla pandemia dell’Aids e dei conflitti e guerre «a bassa intensità», commistione di poteri locali corrotti e forti interessi inteazionali.
Si sta ridisegnando l’Africa secondo una strategia della spartizione, un apartheid tra isole ricche da proteggere con le armi e oceani di poveri da abbandonare ai massacri, agli aiuti umanitari, oppure reclusi nelle fatiscenti città ombra ai margini delle grandi città e del mondo intero.
Per tutti noi l’Africa è malata! Ha bisogno di aiuto. Ma il suo dottore, l’Occidente «benefattore» sa ben sfruttare i suoi malanni.

LA RICETTA EUROPEA
Epas è l’acronimo inglese di «Economic Partnership Agree­ments» (accordi di partenariato economico) che, dal 27 settembre 2002, l’Unione europea sta negoziando con 77 paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (i cosiddetti paesi Acp). L’obiettivo è quello di creare, a partire dal 1 gennaio 2008  un’area di libero scambio.
Ufficialmente, gli Epas si propongono come fine principale la riduzione e infine l’eliminazione della povertà, in linea con gli obiettivi di uno sviluppo durevole e della progressiva integrazione dei paesi Acp nell’economia mondiale.
In realtà il modello di liberalizzazione proposto dall’Europa rientra nella strategia di creare maggiori opportunità di esportazione per le proprie imprese. Per i paesi Acp i benefici rimangono incerti mentre sono certi gli effetti negativi.
L’Unione Europea ha spinto affinché questi accordi fossero fondati su una rigida interpretazione delle regole del Wto, prevedendo l’eliminazione di tutte le barriere commerciali su più del 90% degli scambi tra Europa e paesi Acp ed annullando di fatto, come richiesto dal Wto al massimo entro il 2008, le condizioni preferenziali e non-reciproche concesse dall’Unione Europea in favore dei paesi più poveri e vigenti da diversi decenni.
Dietro la maschera di una «cooperazione per lo sviluppo» l’Unione Europea sta di fatto riproponendo attraverso gli Epas la propria agenda liberista sostenuta in ambito Wto.
I paesi Acp che aderiranno agli Epa dovranno aprire i loro mercati domestici a quasi tutti i prodotti europei nel giro di un periodo che andrà dal 2008 al 2020.
Inoltre, il processo prevede la liberalizzazione del settore dei servizi, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale, la standardizzazione delle certificazioni e delle misure sanitarie e fitosanitarie, la definizione di regole di concorrenza e di promozione e difesa degli investimenti delle imprese estere.
Questo processo rischia di cancellare entrate fiscali fondamentali per i bilanci statali e di mettere in ginocchio le industrie di paesi fra i più poveri del pianeta.
Insomma l’Europa, dopo aver sfruttato le sue colonie, aver sottratto all’Africa materie prime e esseri umani attraverso la tratta degli schiavi, continua la via dello sfruttamento, promuovendo una partnership basata sulle proprie regole e sui propri interessi, proponendosi ipocritamente come sensibile e attenta ai loro interessi.
Gli Epas non sono strumenti di sviluppo, ma la loro filosofia è di carattere commerciale; per questa ragione la giurisdizione sui negoziati è stata affidata al Commissario europeo al Commercio e non a quello allo Sviluppo.
Tutte le analisi indicano che il peso dei cambiamenti introdotti dagli Epas sarà scaricato esclusivamente sulle spalle dei paesi di Africa, Caraibi e Pacifico. Con l’aggravante che gli Epas mettono in pericolo il fragile processo di integrazione regionale, fondamentali nelle strategie di sviluppo dei paesi Acp, esponendo i produttori di quei paesi ad un’impari concorrenza con l’Europa nei mercati interni e regionali.
In particolare, l’Unione Europea ha deciso di avviare sei negoziati: quattro con diverse regioni africane, e uno ciascuno per i paesi di Caraibi e Pacifico. Questa suddivisione dell’Africa in quattro regioni non tiene in nessuna considerazione la realtà politica e storica del continente africano e gli embrioni di alleanze economiche regionali che lì si stanno faticosamente costituendo.
Si ripete così la spartizione dell’Africa, già un tragico errore del periodo colonialista, senza nessuna considerazione per le realtà locali, questa volta però inserita in una strategia geopolitica globale: attraverso gli Epas l’Europa intende rispondere agli analoghi negoziati di libero commercio che stanno portando avanti il Giappone, tramite il Ticfad (Tokyo Inteational Con­fe­rence For African Development) e gli Usa con l’Agoa (Africa Growth Opportunity Act) e all’intromissione di un outsider: la Cina, con i suoi recenti cospicui investimenti in Africa.
La posta in gioco è sempre la stessa: l’accesso a basso costo alle enormi materie prime del continente africano, a partire dalle risorse minerarie e dai prodotti agricoli. Come sostiene Eveline Herfkens, cornordinatrice Onu per gli Obiettivi di sviluppo del millennio: «Gli Epas sono davvero un problema per i paesi poveri. Questi non hanno né il tempo né le capacità per negoziare degli accordi forti con l’Unione Europea».
Anche la saggezza di un proverbio africano esprime bene la concorrenza impari fra i Paesi Acp e l’Europa: «È come una gara fra una giraffa e un antilope per la frutta sui rami più alti. Anche se si livella il terreno, non sarà mai concorrenza leale».
Gli Epas non sono la cura giusta, ma uno scandalo truccato dalla retorica della cooperazione e un’ipoteca definitiva sulle possibilità di sviluppo dell’Africa. Che così continuerà ad essere un serbatornio di tragedie, a produrre gli slum e gli immigrati perché i contadini continueranno ad abbandonare le terre e migliaia di uomini e donne disperati lasceranno il continente per essere schiavizzati sulle strade delle metropoli di tutto il mondo.

Di Antonio Rovelli

Antonio Rovelli




Tra baracche e grattacieli

Nairobi e la sua gente

Nairobi è una città di gente in fila.  Code di macchine ai semafori, di persone davanti alle banche sempre piene e lunghe file, anche davanti ai dispensari, di gente che cammina, cammina senza sosta per chilometri e chilometri perché non può permettersi di pagare l’autobus. Una città in balia dei predicatori americani che garantiscono miracoli in cambio di soldi.  Come i gatti li trovi puntuali all’ora di pranzo, davanti agli uffici, ai parchi e ai luoghi di passaggio.  Altoparlante in mano iniziano lunghe giaculatorie, urlano per dire che c’è un solo Dio, ma quale? Una città dove puoi restare a terra ferito per ore fino alla morte se non hai denaro da dare a qualcuno che ti accompagni in ospedale. È un luogo di potere: non si contano i casi di corruzione, furto, doppie contabilità all’interno degli ospedali, così come delle scuole.
L’altro non esiste. La peggiore eredità che ha lasciato il colonialismo è questo apartheid sociale. Pochi hanno la possibilità di pensare agli altri, schiacciati come sono dai problemi personali.  Sarà un lusso che solo le società ricche possono permettersi? O, forse, è un sistema di valori di questo luogo che convenzionalmente chiamiamo Nairobi, ma che di fatto non esiste perché ciò che lo caratterizza è l’eterogeneità delle situazioni. Frammenti di spazi dove vivono nuclei omogenei per reddito e status sociale, che non vedono chi vive a pochi chilometri di distanza come se si trattasse di gente che proviene da un altro pianeta: aliens, così gli statunitensi chiamano i sudamericani che tentano di passare la frontiera. Pianeti diversi: alcuni hanno campi da golf, piscine, grattacieli altri fogne e discariche a cielo aperto, case di fango dove, per poterci restare, pagano l’affitto.
Nairobi è una città fatta di buchi: per le strade, nei bilanci, nei canali fognari e negli acquedotti, nelle mani dei donatori inteazionali e nelle vene dei malati di Aids, così come nella cultura. Nairobi è specchio di un mondo che spinge tutto verso gli eccessi, dove tutto assume forme iperboliche, esorbitanti, istericamente eccessive, dove spariscono le forme di mediazione, nulla mitiga o mòdera la situazione: non esistono compromessi, gradualità, stadi intermedi. È una continua battaglia per la morte o per la vita.
A Nairobi è come se si fosse sempre di fronte a un limite che impone delle scelte. O di qua o di là, senza vie intermedie. Ogni scelta, a  Nairobi, diventa lo specchio delle scelte di ogni abitante del pianeta, è lo status confessionis: o con l’uomo o contro.
Il «buco» più vistoso è nella storia. Si è pensato di far crescere questa città, modificare la sua cultura e le sue tradizioni un po’ come un bambino che si mette a tirare una pianta per farla crescere più in fretta. Come le donne allungano i capelli con le treccine di plastica, così hanno trasformato le case basse in grattacieli ma non si può ingannare la crescita di un bambino, così come quella di una città. Il Kenya è un paese di ricchi, ma i keniani sono poveri. Ne è conseguito un orizzonte schizofrenico dal quale emergono baracche di fango e grattacieli, antiche credenze ed internet, telefoni cellulari ed individualismo. E poi problemi su problemi che si concentrano su uomini e donne che sono il volto della Sindone che cammina.
In questa situazione di insicurezza generalizzata tutti sono poveri, tutti sono a rischio, tutti non possono aiutare perché tutti hanno bisogno di essere aiutati. Ognuno è mendicante. Queste contraddizioni sono talmente forti al punto da risultare inaccettabili al visitatore esterno, ma chi vive qui sa di non avere scelta e faticosamente cammina. Cammina. Quando non c’è l’elettricità lavora di notte, si alza alle 5 del mattino per arrivare in orario al lavoro. E sa anche essere felice, donare un sorriso e una stretta di mano, ridere e scherzare.
In questa città mancano luoghi pubblici e spazi di confronto autentico. Ogni voce è sola lungo queste strade e dentro questi autobus. I ricchi vanno dall’ufficio a casa, dal negozio alla banca sempre di giorno e in auto, senza aprire i finestrini e con le porte bloccate perché può essere pericoloso. Le loro case sono più chiuse e controllate di un carcere: guardia giurata al cancello, allarme sul comodino, rete elettrica di recinzione o muro con filo spinato, allarme elettronico in casa, finestre con inferriate. E mentre i grattacieli salgono sempre più in alto, su fino al cielo, cresce l’ansia nel domani.
Gli spazi più vitali sotto questo aspetto sembrano essere gli slum, dove per necessità o altro, la gente sta iniziando a mettersi insieme per uscire dal vicolo cieco dell’individualismo e a costruire percorsi di cittadinanza, di diritto e solidarietà.
Il grande mistero è di che cosa viva tutta questa massa di persone. Di che cosa e «come».  Infatti, uomini e donne non si trovano qui perché la città ha bisogno di loro, ma solo perché la miseria li ha scacciati dalle campagne. Sono fuggiaschi, in cerca di salvezza e di sopravvivenza.
Mangiano tutto senza lasciare una briciola, nessuno ha provviste da parte, né saprebbe dove conservarle o rinchiuderle. Si vive alla giornata. Non è realistico pensare al futuro.
Nelle bidonville non vi sono inquilini fissi. È tutto un avvicendarsi di nomadi cittadini in continuo movimento.
A prima vista una baraccopoli si presenta come un’enorme stazione ferroviaria dove però non ci sono né treni né manager e impiegati, esiste solo il corollario: gente seduta, volti anonimi, traffici vari, sporcizia, via vai frenetico, come se ognuno avesse qualcuno da cui fuggire o da inseguire. È un luogo senza alberi alla cui ombra fermarsi a discutere o ascoltare gli anziani che raccontano una storia. È un luogo fatto di persone che stanno perdendo la memoria, che sanno sempre meno da dove vengono e non sanno dove andare. È anche un luogo di creatività, dove una vecchia lamina d’alluminio diventa una valigia, un barattolo si trasforma in una lampada, tanti piccoli pezzi di lamiera diventano una parete.
Ai lati delle strade, di là dai rigagnoli, ferve la vita economica e familiare. Le donne cucinano chapati, friggono pesci, vendono frutta e verdura, biscotti, vestiti usati, lavano e asciugano la biancheria. Tutto in vista, quasi vigesse l’obbligo di uscire di casa alle sette del mattino e di riversarsi sulle strade. La ragione vera è un’altra: le abitazioni sono piccole, misere, anguste. Si soffoca, il tetto di lamiera moltiplica il calore del sole, blocca la circolazione dell’aria, manca il respiro. È nella strada che ferve la vita sociale. Si passa la giornata all’aperto in movimento tra la gente.                   

Di Fabrizio Floris

LE ORIGINI DEGLI SLUM

In tutta l’Africa sub-sahariana, nonostante le rilevanti differenze esistenti tra le varie popolazioni indigene, il possesso della terra poggiava sul concetto di proprietà comune. La terra apparteneva alla comunità e veniva amministrata, con il favore degli antenati, dagli anziani. Ogni adulto aveva diritto di usare la terra e questo diritto variava a seconda dello status, dell’età, ecc. Il capo della comunità aveva il potere e la responsabilità di destinare la terra non utilizzata, oltre che di arbitrare le dispute e i diritti di usufrutto ereditabili.
L’impatto del colonialismo su queste forme di distribuzione della terra è stato considerevole. I  modelli dell’organizzazione coloniale hanno modificato sia i rapporti esistenti tra le tribù, sia le relazioni all’interno delle tribù, con effetti progressivamente negativi. La conflittualità è così aumentata, favorendo anche l’insorgere di guerre, magari non sempre fisiologiche ma talvolta orchestrate ad hoc secondo il ben noto principio divide et impera. Ma l’impatto più radicale si è notato nelle città dove è stato instaurato il concetto europeo di proprietà terriera. Nasce il mercato della terra, le transazioni derivano dalla capacità economica dei contraenti, si sviluppa il gioco anonimo della domanda e dell’offerta che determina un incremento dei prezzi e una crescita della speculazione.

Nel periodo coloniale, agli africani fu negato il diritto di essere proprietari di terreni, così come era loro vietato costruire case. Di conseguenza, chi fra loro aveva il permesso di lavorare in città adattò il proprio concetto di utilizzo della terra all’interno della nuova realtà urbana. Del resto, gli africani alloggiati nelle città non potevano essere proprietari dell’abitazione, e questa misura serviva da garanzia del loro ritorno al villaggio una volta terminato il periodo.
Durante la loro residenza in città, questi lavoratori erano muniti di un permesso di occupazione a durata predefinita, di un permesso di abitazione revocabile in ogni momento e non trasferibile o ereditabile, di una concessione fondiaria che diventava definitiva solo quando si fossero completate varie formalità e a patto di avere rispettato tutti i regolamenti. Il governo della colonia limitava in ogni caso le possibilità degli africani di risiedere in modo permanente nelle aree urbane esclusivamente a chi possedeva un regolare contratto di lavoro e, comunque, non si poteva portare la famiglia, per la quale non erano previste strutture adeguate.
Nacquero così, e furono mantenuti, speciali «insediamenti indigeni» per gli africani, i quali, a causa dell’eccessiva espansione della città, furono successivamente trasferiti verso la periferia.

C on la fine del colonialismo, tuttavia, gli stati africani indipendenti hanno ereditato lo strabico  sistema di possesso della terra: da un lato è stato applicato il modello europeo di proprietà terriera, di cui usufruivano ovviamente gli europei, mentre dall’altro lato gli africani hanno dovuto inventare forme di adattamento loro proprie. In pratica, l’accesso alla terra risultava bloccato per gli africani. Ne è derivata, per contrappeso, la costruzione di case abusive, senza alcun tipo di servizio e in aree prive di infrastrutture.
Col tempo, il problema ha assunto dimensioni imponenti tanto che si è cercato di darvi soluzione attraverso le demolizioni. Si pensava che, in questo modo, le persone sarebbero ritornate ai villaggi di origine, ma il risultato, di certo non atteso, è stato un semplice spostamento di questi gruppi verso periferie contigue e più estee.
Successivamente, gli insediamenti si sono consolidati e per certi versi organizzati: è iniziata la commercializzazione delle abitazioni abusive, si sono diffusi i contratti di affitto, sono nate e cresciute sia le attività commerciali e sia quelle artigianali, mentre sorgevano le strutture di servizi. In pratica, i dormitori temporanei sono diventati luoghi permanenti, sono diventati «città».        

Fa. Flo.

Fabrizio Floris




Il pianeta bidonville

Le isole infelici delle grandi metropoli

Più di un miliardo di persone vive oggi nelle sovraffollate periferie urbane delle megalopoli di tutto il mondo. Un fenomeno in folle crescita, destinato a raddoppiare nei prossimi 15 anni,  rendendo totalmente insostenibile la vita delle nostre città e, di riflesso, del nostro pianeta.

Siamo di fronte a una delle principali svolte della storia dell’umanità: per la prima volta, nel 2007, la popolazione urbana del pianeta avrà superato la popolazione rurale. Di fatto, vista l’imprecisione delle statistiche che riguardano il terzo mondo, forse questa transizione storica è già avvenuta.
Il processo di urbanizzazione del globo è progredito ancor più rapidamente di quanto non avesse previsto il Club di Roma nel suo famoso rapporto: «I limiti della crescita». Nel 1950, esistevano al mondo 86 agglomerati con oltre un milione di abitanti. Oggi sono 400 e nel 2015 saranno almeno 550.
A partire dal 1950, i centri urbani hanno assorbito quasi due terzi dell’esplosione demografica mondiale e, ogni settimana, il dato aumenta di un milione di persone, tra neonati e nuovi immigrati. In questo momento la popolazione urbana (3,2 miliardi di abitanti) è più numerosa di quanto non fosse l’insieme della popolazione mondiale nel 1960.
Le previsioni indicano che il 95% di questa crescita finale dell’umanità avrà luogo nelle zone urbane dei paesi in via di sviluppo. Secondo queste stime, la popolazione di queste aree dovrebbe raddoppiare per raggiungere quasi 4 miliardi di abitanti nel corso della prossima generazione (il dato aggregato della popolazione urbana di Cina, India e Brasile oggi è quasi allo stesso livello di quello di Europa e Nord America). L’esito più spettacolare di questa evoluzione sarà il moltiplicarsi delle metropoli con oltre 8 milioni di abitanti e, più incredibile ancora, sarà l’impatto delle megalopoli con oltre 20 milioni di abitanti (dato che corrisponde all’intera popolazione urbana del pianeta all’epoca della Rivoluzione francese).
Nel 1995, solo Tokyo aveva raggiunto questi livelli. Secondo la «Far Easte Economic Review», attorno al 2025, nel solo continente asiatico saranno già presenti una decina di conurbazioni di queste dimensioni, tra cui Giacarta (24,9 milioni), Dacca (25 milioni) e Karachi (26,5 milioni).
La popolazione dell’immensa metro-regione fluviale di Shangai, la cui crescita è stata bloccata durante i decenni della politica maoista di sotto-urbanizzazione, potrebbe raggiungere 27 milioni di abitanti.
Le previsioni per Bombay indicano una popolazione di 33 milioni di abitanti, benché nessuno sia in grado di sapere se una concentrazione così colossale di povertà sia biologicamente ed ecologicamente sostenibile.
Se le megalopoli sono le stelle più brillanti del firmamento urbano, tre quarti della crescita della popolazione urbana avverrà in agglomerati più piccoli, zone urbane secondarie praticamente prive di pianificazione e servizi adeguati.
In Cina (paese ufficialmente urbanizzato per il 43% nel 1997), il numero ufficiale delle città è passato da centonovantasei a seicentoquaranta dal 1978 ad oggi.
Tuttavia, la quota relativa delle grandi metropoli, nonostante la loro straordinaria crescita, è in realtà diminuita rispetto all’insieme della popolazione urbana, e sono soprattutto le «piccole» città e i borghi recentemente diventati città ad aver assorbito la maggioranza della manodopera rurale costretta ad abbandonare le campagne dalle riforme successive al 1979.
Anche in Africa, alla crescita esplosiva di alcune megalopoli come Lagos (passata dai 300 mila abitanti del 1950 ai 10 milioni di oggi) si accompagna la trasformazione di decine di «piccole» città come Ouagadougou, Nouakchott, Douala, Antananarivo e Bamako, città ormai più popolose di San Francisco o Manchester.
In America Latina, mentre in precedenza la crescita era stata monopolizzata a lungo dalle principali metropoli, oggi l’esplosione demografica avviene a Tijuana, Curtiba, Temuco, Salvador, Belem e altre città secondarie che contano tra 100 mila e 500 mila abitanti.
Urbanizzazione non significa solo crescita delle città, ma anche trasformazione strutturale e crescente interazione di un vasto continuum urbano-rurale. Al contrario, il nuovo ordine urbano potrebbe tradursi in una crescente disuguaglianza all’interno delle città e tra città con dimensioni e funzioni diverse.
La dinamica dell’urbanizzazione del terzo mondo sintetizza e nel contempo contraddice le precedenti urbanizzazioni in Europa e Nord America nel xix e xx secolo. In Cina, paese essenzialmente rurale per millenni, la più importante rivoluzione industriale della storia si realizza con lo spostamento, di una popolazione pari a quella europea, dalle profonde campagne verso un habitat di grattacieli e smog.
Tuttavia, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, la crescita urbana non è alimentata dall’energia della potente macchina cinese dell’industria e dell’esportazione, né dal flusso costante di capitali stranieri.
In questi paesi, il processo di urbanizzazione è completamente svincolato dall’industrializzazione e da ogni forma di promozione sociale.
L’urbanizzazione
della povertà
L’esplosione delle bidonville è stata analizzata dal rapporto delle Nazioni Unite, «La sfida degli slums». Il testo, primo vero studio su scala mondiale sulla povertà urbana, comprende diverse inchieste locali, da Abidjan a Sydney, e statistiche globali che includono per la prima volta la Cina e i paesi dell’ex blocco sovietico.
Il rapporto lancia un avvertimento sulla minaccia planetaria della povertà urbana. Gli autori definiscono le bidonville come spazi caratterizzati da sovrappopolamento, abitato precario o informale, ridotto accesso all’acqua corrente e ai servizi igienici e vaga definizione dei diritti di proprietà.
Si tratta di una definizione pluridimensionale e in parte restrittiva, sulla base della quale si stima comunque che la popolazione delle bidonville ammontava nel 2001 ad almeno 921 milioni di persone. Gli abitanti delle bidonville rappresentano il 78,2% della popolazione urbana dei paesi meno sviluppati e un sesto dei cittadini del pianeta.
Se si considera la struttura demografica della maggior parte delle città del terzo mondo, almeno metà di questa popolazione ha un’età inferiore ai vent’anni.
La quota più importante di abitanti di bidonville è in Etiopia (99,4% della popolazione urbana) e in Ciad (99,4%), seguono Afghanistan (98,5%) e Nepal (92%).
Tuttavia, le popolazioni urbane più nella miseria sono certamente quelle di Maputo e Kinshasa, dove il reddito di due terzi degli abitanti è inferiore al minimo vitale giornaliero.
A Delhi, gli urbanisti deplorano l’esistenza di «bidonville all’interno di bidonville»: negli spazi periferici, alla storica classe povera della città brutalmente espulsa alla metà degli anni Settanta, si aggiungono nuovi arrivi che colonizzano gli ultimi interstizi liberi.
Al Cairo e a Phnom Penh, i nuovi arrivati occupano e affittano parti di abitazioni sui tetti, generando nuove bidonville sospese in aria.
La popolazione delle bidonville è spesso deliberatamente sottostimata, talvolta in grandi proporzioni. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, Bangkok aveva un tasso di povertà «ufficiale» solo del 5%, mentre alcuni studi dimostravano che un quarto della popolazione (1,16 milioni di persone) viveva nelle bidonville e in abitazioni di fortuna.
Esistono oltre 250 mila bidonville nel mondo. Le cinque grandi metropoli dell’Asia del Sud (Karachi, Bombay, Delhi, Calcutta e Dacca) ospitano quasi 15 mila zone urbane tipo bidonville, per una popolazione totale di oltre 20 milioni di persone.
Gli abitanti delle bidonville sono ancora più numerosi nella costa dell’Africa Occidentale, mentre immense conurbazioni di povertà si estendono verso l’Anatolia e gli altopiani dell’Etiopia, coinvolgono le zone ai piedi delle Ande e dell’Himalaya, proliferano all’ombra dei grattacieli di Città del Messico, Johannesburg, Manila, San Paolo e colonizzano le rive del Rio delle Amazzoni, del Congo e del Niger, del Nilo, del Tigri, del Gange, dell’Irrawaddy e del Mekong.
I nomi del «pianeta bidonville» sono tutti intercambiabili e allo stesso tempo unici nel loro genere: bustees a Calcutta, chawl e zopadpatti a Bombay, katchi abadi a Karachi, kampung a Giacarta, iskwater a Manila, shammasa a Karthoum, umjondolo a Durban, intra-muros a Rabat, bidonvilles a Abidjan, baladi al Cairo, gecekondou ad Ankara, conventillos a Quito, favelas in Brasile, villas miseria a Buenos Aires e colonias populares a Città del Messico.
Un recente studio pubblicato dalla «Harvard Law Review» stima che l’85% degli abitanti delle città del terzo mondo non possiede alcun titolo di proprietà legale. È all’opera una contraddizione stridente, perché il terreno dove crescono gli slums è di proprietà dei governi, mentre le case costruite sono in possesso degli structures owners, che impongono affitti salati ai poveri urbani e che non hanno la proprietà nemmeno della baracca in cui vivono.
I modi di insediamento delle bidonville sono molto variabili, dalle invasioni collettive estremamente disciplinate di Città del Messico e Lima fino ai complessi (e spesso illegali) sistemi di affitto di terreni alla periferia di Pechino, Karachi e Nairobi.
In alcune città, per esempio Nairobi, lo stato è formalmente proprietario della periferia urbana, ma la speculazione fondiaria permette al settore privato di realizzare enormi profitti a spese dei più poveri. Gli apparati politici nazionali e regionali contribuiscono generalmente a questo mercato informale (insieme alla speculazione fondiaria illegale) e riescono addirittura a controllare i vassallaggi politici degli abitanti e a sfruttare un flusso regolare di affitti e mazzette. Privi di titoli di proprietà legali, gli abitanti delle baraccopoli sono costretti ad una dipendenza quasi feudale rispetto a politici e burocrati locali. Il minimo strappo alla legalità clientelare si traduce con l’espulsione.
L’offerta d’infrastrutture, al contrario, è ben lontana dai ritmi di urbanizzazione, e le bidonville alla periferia della città non hanno spesso alcun accesso all’igiene e ai servizi del settore pubblico. Eppure, nonostante siano luoghi che si definiscono in termini di assenza (ciò che non hanno dice ciò che sono), le bidonville raggiungeranno i 2 miliardi di abitanti nel 2030 perché rappresentano l’unica soluzione abitativa per l’umanità in eccesso del xxi secolo.
Le grandi bidonville potrebbero trasformarsi in vulcani pronti ad esplodere? Gli abitanti possono trasformarsi in soggetto politico capace di «fare storia»?
Non è facile rispondere, molto dipenderà dalla capacità di sviluppare una cultura di organizzazione collettiva, anche se, come spiegava Kapuściński: «I poveri, di solito, stanno zitti. La miseria non piange, non ha voce. La miseria soffre, ma soffre in silenzio. La miseria non si ribella. Infatti, i poveri insorgono solo quando pensano di poter cambiare qualcosa».
Sapremmo noi essere parte di questo cambiamento?
Africa e città
In Africa la popolazione delle grandi città è aumentata di 10-12 volte tra il 1960 e il 2005. Questo incremento non è stato associato ad uno sviluppo economico correlato, anzi il Pil si è ridotto dello 0,66% all’anno. Nondimeno, le città in Africa giocano un ruolo cruciale nella crescita delle economie nazionali.
Oggi, più in generale, il tasso annuale medio di crescita della popolazione africana si aggira intorno al 4%, mentre quello delle grandi città raggiunge l’8%. Non sono più casi eccezionali quelli di città che crescono del 10% o più, specialmente là dove l’esodo rurale si accentua a causa di calamità naturali o fenomeni legati allo sviluppo disuguale del territorio. Il tasso di crescita degli insediamenti urbani precari e marginali, poi, è a volte superiore al 25% annuo.
In Africa, ogni anno, oltre cinque milioni di persone cercano nuovo alloggio alla periferia delle città. La grande maggioranza della nuova popolazione urbana sembra destinata a sopravvivere nella totale incertezza, nella precarietà, nella ricerca (priva di opportunità reali) di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, ai margini del «grande miraggio» costituito dalla città modea.
Una città che, in Africa, si è venuta formando e sviluppando nel tempo coloniale, con una struttura urbana pianificata su modelli non africani che hanno esposto gli abitanti a un modo di vita estraneo alla realtà e alla cultura locale.
Il resto lo hanno fatto l’incuria verso le zone rurali – assenza di investimenti e di sostegno all’economia familiare, mancanza di politiche di protezione dei suoli – e assenza di investimenti in edilizia popolare nelle città.
Il primo fattore, ovvero la mancanza di progetti tesi a proteggere le aree rurali, provoca la fuga dai villaggi, determina la scelta di cercare «un altrove» dove soddisfare la pluralità di bisogni, che la vita nei villaggi non è in grado di soddisfare. Questa ricerca si concentra nella sola alternativa possibile: la città. Così, la presenza di un sistema urbano inarticolato implica e favorisce la concentrazione di popolazione verso pochissimi centri – uno o due – che devono accogliere flussi rilevanti di popolazione.
È una «crescita urbana senza città» quella che dà origine ai famigerati «slum». Spazi auto-costruiti su terreni demaniali senza che vi sia un solo mattone, dove non è passata una sola putrella di ferro e non vi si trova un solo metro quadrato di vetro. Nei paesi cosiddetti «in via di sviluppo» la bidonville accoglie i contadini rimasti senza terra e svolge un ruolo di mediazione tra città e campagna, offrendo ai suoi abitanti un «surrogato» di vita urbana, se si vuole miserabile, ma molto intensa.
Gli effetti di queste contraddizioni sono evidenti nell’espansione delle città. Si tratta di spazi  complessi in cui sono presenti molte delle contraddizioni che caratterizzano la vita del pianeta. Si tratta di città divise da tanti confini, il cui semplice attraversamento produce il senso di passaggio da una frontiera all’altra. Ma sono frontiere non semplicemente fisiche: per entrare negli slum si passa dalla frontiera della paura, mentre per accedere ai quartieri ricchi si attraversa il confine del benessere.
Le città così frammentate, invece di essere il luogo dell’incontro e dell’integrazione tra gruppi sociali diversi per livello economico, cultura e provenienza, si trasformano in una sorta di arcipelago costituito da molte isole (island),  segnate dalla qualità delle loro costruzioni, dalla presenza (o mancanza) di infrastrutture e servizi, dalle maggiori o minori condizioni di sicurezza.
Ovviamente le isole comunicano, i loro abitanti intrecciano rapporti, e una chiave di entrata da un’isola all’altra è la convenienza economica, capace di istituire relazioni e gradi di comunicazione. Ai ricchi serve la manodopera che costa poco e i poveri hanno bisogno di lavorare. Nascono così gli scambi, i subappalti, la foitura di servizi, il commercio negli slum di prodotti industriali.
Protagonista di questo flusso è il settore informale dell’economia, capace di generare posti di lavoro, reddito e capacità di risparmio per la maggioranza degli abitanti degli insediamenti informali.
Le island vivono fianco a fianco e nella quotidianità a volte si confondono, ma presentano aspetti fortemente contrastanti: ci sono island cities ricche del primo mondo ed altre povere del terzo mondo. Da un punto di vista estetico, il moderno grattacielo e la baracca sono i simboli di città-arcipelago come Nairobi, Johannesburg o, in America Latina, Rio de Janeiro.
Le island cities vivono su due livelli diversi, sia in senso stretto e sia in senso figurato. Una parte «sta in alto», legata economicamente con il resto del mondo, perché la tecnologia che sostiene la rete globale permette di lavorare e comunicare via etere. Questa parte dell’arcipelago sta al di sopra dell’altra, e spesso comunica di più in senso orizzontale, ovvero con le lontane città di pari grado, che non verticalmente con il resto della città stessa.
La parte povera dell’arcipelago invece è fortemente attaccata alla terra, perché lotta ogni giorno per appartenere a essa, sia occupando le strade con i lavori informali, sia cosruendo la propria casa, generalmente piccola per poter essere edificata nel minor tempo possibile.

Di Fabrizio Floris

Fabrizio Floris