Tra baracche e grattacieli

Nairobi e la sua gente

Nairobi è una città di gente in fila.  Code di macchine ai semafori, di persone davanti alle banche sempre piene e lunghe file, anche davanti ai dispensari, di gente che cammina, cammina senza sosta per chilometri e chilometri perché non può permettersi di pagare l’autobus. Una città in balia dei predicatori americani che garantiscono miracoli in cambio di soldi.  Come i gatti li trovi puntuali all’ora di pranzo, davanti agli uffici, ai parchi e ai luoghi di passaggio.  Altoparlante in mano iniziano lunghe giaculatorie, urlano per dire che c’è un solo Dio, ma quale? Una città dove puoi restare a terra ferito per ore fino alla morte se non hai denaro da dare a qualcuno che ti accompagni in ospedale. È un luogo di potere: non si contano i casi di corruzione, furto, doppie contabilità all’interno degli ospedali, così come delle scuole.
L’altro non esiste. La peggiore eredità che ha lasciato il colonialismo è questo apartheid sociale. Pochi hanno la possibilità di pensare agli altri, schiacciati come sono dai problemi personali.  Sarà un lusso che solo le società ricche possono permettersi? O, forse, è un sistema di valori di questo luogo che convenzionalmente chiamiamo Nairobi, ma che di fatto non esiste perché ciò che lo caratterizza è l’eterogeneità delle situazioni. Frammenti di spazi dove vivono nuclei omogenei per reddito e status sociale, che non vedono chi vive a pochi chilometri di distanza come se si trattasse di gente che proviene da un altro pianeta: aliens, così gli statunitensi chiamano i sudamericani che tentano di passare la frontiera. Pianeti diversi: alcuni hanno campi da golf, piscine, grattacieli altri fogne e discariche a cielo aperto, case di fango dove, per poterci restare, pagano l’affitto.
Nairobi è una città fatta di buchi: per le strade, nei bilanci, nei canali fognari e negli acquedotti, nelle mani dei donatori inteazionali e nelle vene dei malati di Aids, così come nella cultura. Nairobi è specchio di un mondo che spinge tutto verso gli eccessi, dove tutto assume forme iperboliche, esorbitanti, istericamente eccessive, dove spariscono le forme di mediazione, nulla mitiga o mòdera la situazione: non esistono compromessi, gradualità, stadi intermedi. È una continua battaglia per la morte o per la vita.
A Nairobi è come se si fosse sempre di fronte a un limite che impone delle scelte. O di qua o di là, senza vie intermedie. Ogni scelta, a  Nairobi, diventa lo specchio delle scelte di ogni abitante del pianeta, è lo status confessionis: o con l’uomo o contro.
Il «buco» più vistoso è nella storia. Si è pensato di far crescere questa città, modificare la sua cultura e le sue tradizioni un po’ come un bambino che si mette a tirare una pianta per farla crescere più in fretta. Come le donne allungano i capelli con le treccine di plastica, così hanno trasformato le case basse in grattacieli ma non si può ingannare la crescita di un bambino, così come quella di una città. Il Kenya è un paese di ricchi, ma i keniani sono poveri. Ne è conseguito un orizzonte schizofrenico dal quale emergono baracche di fango e grattacieli, antiche credenze ed internet, telefoni cellulari ed individualismo. E poi problemi su problemi che si concentrano su uomini e donne che sono il volto della Sindone che cammina.
In questa situazione di insicurezza generalizzata tutti sono poveri, tutti sono a rischio, tutti non possono aiutare perché tutti hanno bisogno di essere aiutati. Ognuno è mendicante. Queste contraddizioni sono talmente forti al punto da risultare inaccettabili al visitatore esterno, ma chi vive qui sa di non avere scelta e faticosamente cammina. Cammina. Quando non c’è l’elettricità lavora di notte, si alza alle 5 del mattino per arrivare in orario al lavoro. E sa anche essere felice, donare un sorriso e una stretta di mano, ridere e scherzare.
In questa città mancano luoghi pubblici e spazi di confronto autentico. Ogni voce è sola lungo queste strade e dentro questi autobus. I ricchi vanno dall’ufficio a casa, dal negozio alla banca sempre di giorno e in auto, senza aprire i finestrini e con le porte bloccate perché può essere pericoloso. Le loro case sono più chiuse e controllate di un carcere: guardia giurata al cancello, allarme sul comodino, rete elettrica di recinzione o muro con filo spinato, allarme elettronico in casa, finestre con inferriate. E mentre i grattacieli salgono sempre più in alto, su fino al cielo, cresce l’ansia nel domani.
Gli spazi più vitali sotto questo aspetto sembrano essere gli slum, dove per necessità o altro, la gente sta iniziando a mettersi insieme per uscire dal vicolo cieco dell’individualismo e a costruire percorsi di cittadinanza, di diritto e solidarietà.
Il grande mistero è di che cosa viva tutta questa massa di persone. Di che cosa e «come».  Infatti, uomini e donne non si trovano qui perché la città ha bisogno di loro, ma solo perché la miseria li ha scacciati dalle campagne. Sono fuggiaschi, in cerca di salvezza e di sopravvivenza.
Mangiano tutto senza lasciare una briciola, nessuno ha provviste da parte, né saprebbe dove conservarle o rinchiuderle. Si vive alla giornata. Non è realistico pensare al futuro.
Nelle bidonville non vi sono inquilini fissi. È tutto un avvicendarsi di nomadi cittadini in continuo movimento.
A prima vista una baraccopoli si presenta come un’enorme stazione ferroviaria dove però non ci sono né treni né manager e impiegati, esiste solo il corollario: gente seduta, volti anonimi, traffici vari, sporcizia, via vai frenetico, come se ognuno avesse qualcuno da cui fuggire o da inseguire. È un luogo senza alberi alla cui ombra fermarsi a discutere o ascoltare gli anziani che raccontano una storia. È un luogo fatto di persone che stanno perdendo la memoria, che sanno sempre meno da dove vengono e non sanno dove andare. È anche un luogo di creatività, dove una vecchia lamina d’alluminio diventa una valigia, un barattolo si trasforma in una lampada, tanti piccoli pezzi di lamiera diventano una parete.
Ai lati delle strade, di là dai rigagnoli, ferve la vita economica e familiare. Le donne cucinano chapati, friggono pesci, vendono frutta e verdura, biscotti, vestiti usati, lavano e asciugano la biancheria. Tutto in vista, quasi vigesse l’obbligo di uscire di casa alle sette del mattino e di riversarsi sulle strade. La ragione vera è un’altra: le abitazioni sono piccole, misere, anguste. Si soffoca, il tetto di lamiera moltiplica il calore del sole, blocca la circolazione dell’aria, manca il respiro. È nella strada che ferve la vita sociale. Si passa la giornata all’aperto in movimento tra la gente.                   

Di Fabrizio Floris

LE ORIGINI DEGLI SLUM

In tutta l’Africa sub-sahariana, nonostante le rilevanti differenze esistenti tra le varie popolazioni indigene, il possesso della terra poggiava sul concetto di proprietà comune. La terra apparteneva alla comunità e veniva amministrata, con il favore degli antenati, dagli anziani. Ogni adulto aveva diritto di usare la terra e questo diritto variava a seconda dello status, dell’età, ecc. Il capo della comunità aveva il potere e la responsabilità di destinare la terra non utilizzata, oltre che di arbitrare le dispute e i diritti di usufrutto ereditabili.
L’impatto del colonialismo su queste forme di distribuzione della terra è stato considerevole. I  modelli dell’organizzazione coloniale hanno modificato sia i rapporti esistenti tra le tribù, sia le relazioni all’interno delle tribù, con effetti progressivamente negativi. La conflittualità è così aumentata, favorendo anche l’insorgere di guerre, magari non sempre fisiologiche ma talvolta orchestrate ad hoc secondo il ben noto principio divide et impera. Ma l’impatto più radicale si è notato nelle città dove è stato instaurato il concetto europeo di proprietà terriera. Nasce il mercato della terra, le transazioni derivano dalla capacità economica dei contraenti, si sviluppa il gioco anonimo della domanda e dell’offerta che determina un incremento dei prezzi e una crescita della speculazione.

Nel periodo coloniale, agli africani fu negato il diritto di essere proprietari di terreni, così come era loro vietato costruire case. Di conseguenza, chi fra loro aveva il permesso di lavorare in città adattò il proprio concetto di utilizzo della terra all’interno della nuova realtà urbana. Del resto, gli africani alloggiati nelle città non potevano essere proprietari dell’abitazione, e questa misura serviva da garanzia del loro ritorno al villaggio una volta terminato il periodo.
Durante la loro residenza in città, questi lavoratori erano muniti di un permesso di occupazione a durata predefinita, di un permesso di abitazione revocabile in ogni momento e non trasferibile o ereditabile, di una concessione fondiaria che diventava definitiva solo quando si fossero completate varie formalità e a patto di avere rispettato tutti i regolamenti. Il governo della colonia limitava in ogni caso le possibilità degli africani di risiedere in modo permanente nelle aree urbane esclusivamente a chi possedeva un regolare contratto di lavoro e, comunque, non si poteva portare la famiglia, per la quale non erano previste strutture adeguate.
Nacquero così, e furono mantenuti, speciali «insediamenti indigeni» per gli africani, i quali, a causa dell’eccessiva espansione della città, furono successivamente trasferiti verso la periferia.

C on la fine del colonialismo, tuttavia, gli stati africani indipendenti hanno ereditato lo strabico  sistema di possesso della terra: da un lato è stato applicato il modello europeo di proprietà terriera, di cui usufruivano ovviamente gli europei, mentre dall’altro lato gli africani hanno dovuto inventare forme di adattamento loro proprie. In pratica, l’accesso alla terra risultava bloccato per gli africani. Ne è derivata, per contrappeso, la costruzione di case abusive, senza alcun tipo di servizio e in aree prive di infrastrutture.
Col tempo, il problema ha assunto dimensioni imponenti tanto che si è cercato di darvi soluzione attraverso le demolizioni. Si pensava che, in questo modo, le persone sarebbero ritornate ai villaggi di origine, ma il risultato, di certo non atteso, è stato un semplice spostamento di questi gruppi verso periferie contigue e più estee.
Successivamente, gli insediamenti si sono consolidati e per certi versi organizzati: è iniziata la commercializzazione delle abitazioni abusive, si sono diffusi i contratti di affitto, sono nate e cresciute sia le attività commerciali e sia quelle artigianali, mentre sorgevano le strutture di servizi. In pratica, i dormitori temporanei sono diventati luoghi permanenti, sono diventati «città».        

Fa. Flo.

Fabrizio Floris