Un progetto pilota per la riabilitazione delle baraccopoli di Nairobi
Storia di una comunità che vuole trasformare lo slum in cui vive e del progetto che si incaricherà
di coronare questo sogno. Con l’aiuto della parrocchia, del Comune di Nairobi, delle Nazioni Unite e del Goveo italiano.
Mama Esther ha un’età indefinibile; la diresti giovane per l’entusiasmo che anima i suoi occhi, ma il suo volto porta inequivocabili segni di stanchezza dovuti ai 25 anni passati a Soweto, vivendo e tirando su figli in questo ammasso di stradine che chiudono il quartiere di Kahawa, a Nord di Nairobi.
Soweto-Kahawa West è uno slum, uno dei circa 200 insediamenti abusivi urbani che costellano la grande metropoli kenyana, vera e propria galassia di formicai umani. Un chilometro quadrato di terra polverosa, adagiato lungo la linea ferroviaria Nairobi-Naniuki, in cui circa 6 mila persone vivono ammassate, in una situazione di degrado ambientale e sociale ai limiti della sopravvivenza: baracche fatiscenti, costruite «a casaccio», senza un’adeguata progettazione; strade strette, quasi dei sentirneri schiacciati fra le pareti di legno e fango delle case; assenza totale di impianti igienico-sanitari e di spazi aperti, per permettere una minima socializzazione fra le persone dell’insediamento.
Niente di tutto ciò. Questa è Soweto fin dai giorni delle sue origini, immediatamente successivi all’indipendenza del Kenya (1963), la Soweto che Mama Esther ricorda, in cui ha sempre vissuto fino a oggi, anzi… fino a «ieri».
Sì perché, in effetti, oggi a Soweto sta accadendo qualcosa di diverso, di unico, di speciale, quel «qualcosa» che riempie di luce e di orgoglio gli occhi di Mama Esther e degli altri abitanti dello slum: l’area sta cambiando, rinascendo, vivendo una fase della sua storia che fino a pochi anni fa sarebbe stata assolutamente inconcepibile.
Soweto-Kahawa West si propone, oggi, come modello per il Kenya Slum Upgrading Program (Kensup), un programma per la riabilitazione e lo sviluppo degli slum della nazione che il governo del Kenya ha lanciato nell’aprile del 2006, stanziando la cifra di 880 miliardi di scellini per i prossimi 14 anni (10 miliardi di Euro).
L’opera di miglioramento ha potuto prendere il via grazie a un progetto elaborato dalle Nazioni Unite-Habitat, in collaborazione con il Comune di Nairobi e finanziato dal Goveo italiano con la cifra di 240 mila dollari.
L’intervento dell’Italia è anche frutto della campagna «WNairobiW», iniziativa promossa da un gruppo di associazioni e Ong italiane e keniane contro la demolizione degli slum e il diritto alla terra. La campagna ha inoltre insistito sulla proposta di riconversione del debito del Kenya verso l’Italia, di circa 44 milioni di Euro.
L’accordo, siglato il 27 ottobre scorso, impegna il governo del paese africano a investire, per un periodo di dieci anni, 4,4 milioni di euro in progetti di sviluppo a favore delle zone degradate, urbane e rurali, del paese.
Inoltre, Soweto rappresenta un frutto significativo dell’attività dell’organizzazione Kutoka-Exodus Network, che riunisce 15 parrocchie cattoliche presenti negli slum e che dai suoi inizi si è battuta per migliorare la qualità di vita e la difesa dei diritti fondamentali degli abitanti delle baraccopoli.
La scelta di iniziare questo programma di upgrading proprio da Soweto è stata fatta grazie all’impegno della comunità, organizzatasi per difendere il diritto di abitare nell’insediamento e di migliorare gradualmente il livello di vita al suo interno.
Già nel 1998, per proteggersi dalle pretese di alcuni speculatori che millantavano la proprietà dei terreni, gli abitanti si erano riuniti in comitato, presentando un reclamo alle autorità locali e dichiarandosi nel medesimo tempo idonei alla proprietà del territorio che, come in altri casi di insediamenti abusivi, appartiene allo stato.
Il cammino della comunità è stato accompagnato in tutti i suoi passi dalla parrocchia di Kahawa-West, amministrata dai missionari della Consolata e partner fondamentale in quest’opera di riabilitazione dello slum. Soprattutto negli ultimi due anni, la collaborazione fra parrocchia e comunità si è fatta più stretta e ha condotto ai risultati che oggi si possono toccare con mano.
L’impegno della gente è stato fondamentale. Lo riconosce padre Franco Cellana, oggi superiore provinciale dei missionari della Consolata in Kenya. È lui la mente del progetto di riabilitazione sin dal giorno in cui è entrato alla guida della parrocchia di Kahawa West.
«Dal gennaio 2004 ad oggi si sono fatti grandi passi in avanti e tutto ciò è stato possibile grazie al coinvolgimento degli abitanti di Soweto che, attraverso i loro rappresentanti, hanno saputo coinvolgere le persone, facendo comprendere loro l’importanza di queste proposte. È da due anni – continua padre Franco – che lavoriamo con la gente, raduniamo la popolazione, in un processo graduale, lento e faticoso, per superare le diffidenze, le rivalità e la speculazione selvaggia da parte dei proprietari delle baracche, che vivono fuori dallo slum e chiedono affitti esorbitanti anche su pezzi di lamiera vacillanti sorretti da mura di argilla».
Sammy Chomba e Peter Kamau rappresentano la voce della comunità e due diverse generazioni di abitanti di Soweto.
Il primo è, dal 2004, il presidente del Comitato per la riabilitazione dello slum. Eletto dagli stessi abitanti, è anche il responsabile per tutti gli affari interni della comunità. Quando sorge un problema o c’è una disputa fra residenti è a lui che tocca intervenire.
È un uomo silenzioso e quando inizia a raccontare la storia del progetto sembra persino intimidito. Fino a quando chiede il permesso di esprimersi in Kiswahili, lasciando a Peter il compito di tradurre in inglese. Le parole escono lentamente, ma fluide, facendo intuire a chi lo ascolta l’autorità che Sammy riveste all’interno dello slum. La memoria scava e va alla radice del problema, legato al possesso della terra.
«La grande difficoltà – dice – sta nel fatto che non esiste nessun documento legale che garantisca la proprietà del terreno su cui sorge lo slum. Il terreno appartiene al governo, mentre ci sono molti proprietari di baracche che vivono al di fuori dello slum e alle quali la gente deve pagare un affitto, talvolta molto alto. Il cammino intrapreso è stato quello di fondare una sorta di cornoperativa che rappresenti tutti gli abitanti di Soweto e a cui venga ceduta collettivamente la proprietà della terra».
Peter Kamau, è il segretario della comunità. Spetta a lui fornire i dati tecnici del lavoro che si sta portando avanti. «Attualmente siamo alla prima fase del processo di miglioramento dello standard di vita di Soweto.
Il primo grosso impulso è stato dato dall’installazione di un grande palo della luce in grado di illuminare a giorno le buie notti nello slum. Il lampione, alto 40 metri, ha di fatto cambiato la vita della comunità, rendendo le strade sicure e la comunità molto più tranquilla.
Sebbene Soweto non abbia mai avuto i problemi di criminalità che si presentano in altri slum della città, il cambio è stato radicale. Se di giorno si poteva camminare anche prima relativamente sicuri per le strade, di notte si verificavano episodi di criminalità, anche con una certa frequenza. Oggi si può vivere e dormire tranquilli, senza più paura di aggressioni, furti o accoltellamenti».
La prima fase di miglioramento dello slum prevede innanzitutto l’ampliamento di quattro strade per poter permettere di raggiungere con un veicolo il centro dell’abitato. Questo è un passo avanti fondamentale.
SL’attuale rete viaria del quartiere non consente la circolazione su quattro ruote, rendendo impossibile l’intervento di un’ambulanza o dei pompieri in caso di emergenza.
Inoltre, in questi mesi sono stati costruiti cinque complessi sanitari e tre depositi per l’immondizia, un tempo ammassata ai lati delle abitazioni e causa di malattie e infezioni fra gli abitanti. «Questi depositi devono servire anche al recupero di materiali che possono essere riciclati, dando così un’opportunità di lavoro ad alcuni abitanti dello slum. Inoltre – continua Peter – è stato costruito il Resource Centre, sede del Comitato per la ristrutturazione di Soweto e salone comunitario multifunzionale. Infine, si è anche iniziata la ristrutturazione di alcuni degli attuali spazi abitativi. La prima fase prevede la sistemazione di 130 strutture delle 304 (su 676 totali) che si prevede di mettere in ordine».
Sl lavoro di ampliamento delle strade, di messa a punto di alcune abitazioni e di costruzione delle unità sanitarie e dei depositi di immondizia non è stata un’impresa facile. Molte famiglie hanno dovuto esser ubicate altrove e alcuni proprietari delle strutture si sono inizialmente opposti all’iniziativa vedendo toccati i loro interessi.
A questo riguardo è stata fondamentale l’opera attuata dal Comitato della comunità. Alcuni incaricati si sono fatti carico di responsabilizzare gli abitanti, cercando di far loro intendere i benefici derivanti da uno sforzo collettivo per il bene comune.
«Del resto – ha aggiunto il segretario – la gente ha iniziato a vedere un cambiamento in atto. La gente si è convinta e ora è contenta perché tocca con mano il miglioramento che si vuole dare al posto dove viviamo. La speranza diventa più forte quando si vedono dei risultati e quando si incontrano delle persone che desiderano aiutarci. Vogliamo che Soweto diventi un posto differente, che non venga più equiparato ad altri slum. Anzi, cerchiamo di usare la parola «slum» il meno possibile. Quelli di fuori definiscono Soweto in questo modo, ma noi preferiamo chiamarla «villaggio» e fare di tutto per cambiare la percezione che anche gli altri hanno di noi».
Oggi, Mama Esther è la store-keeper della comunità, ovvero la persona che si incarica di ricevere il materiale che serve per i lavori di costruzione e ristrutturazione; lo immagazzina, ne tiene un registro e si incarica di farlo trasportare lì dove c’è bisogno.
Anche lei pensa che Soweto possa diventare un posto diverso, dove far crescere i bambini che adesso frequentano un affollatissimo asilo pieno di allegria e di colori e sognare per loro un altro mondo possibile. È stato il lavoro di tanti a dare a questo posto un aspetto diverso. Lo stesso padre Franco si dice stupito della sua gente.
Due anni fa aveva incontrato una comunità che iniziava a darsi un’organizzazione e, soprattutto, era desiderosa di crescere. Oggi, ha davanti una realtà in cammino.
Il lavoro da fare rimane molto; il progetto Soweto prevede una seconda fase nella quale si ultimerà la costruzione di altri cinque unità di servizi igienici, altrettanti raccoglitori di immondizia e, soprattutto, si darà il via alla costruzione di 80 nuove case in muratura, piccole abitazioni a due piani che daranno al luogo un aspetto finalmente dignitoso.
Mama Esther ci crede e lavora per questo. Vede, attraverso i suoi profondi occhi neri, le nuove possibilità che il processo di riabilitazione potrà offrire in futuro. Il suo pensiero corre soprattutto alle donne, le persone più legate al «villaggio» a causa della loro condizione di madri.
Mary, la segretaria della parrocchia che dall’inizio accompagna il processo di riabilitazione chiarisce bene il concetto: «Gli uomini, vanno e vengono, sono più liberi. La maggior parte delle donne, invece, sono sole, con più figli a carico e quindi rimangono bloccate il questo posto. Alcune di loro riescono a coltivare qualcosa da andare a vendere al mercato di Kahawa, altre raccolgono un po’ di stracci o vestiti usati, ma a volte le bocche da sfamare sono tante e le entrate molto poche. Pensare – dice con rammarico – che alcune di noi sarebbero anche preparate professionalmente, avrebbero la capacità di iniziare una propria attività se non avessero problemi di finanziamento. Invece, alcune devono vivere con il piccolo aiuto che altre donne della comunità riescono a fornire; si mette insieme qualche scellino, un po’ di farina e un mese si aiutano tre madri, il mese successivo altre tre. Sarebbe tutt’altra cosa se si potessero creare delle piccole imprese all’interno di Soweto».
Non lo dice con il tono di chi sta sognando ad occhi aperti, ma di chi vede il futuro partendo da un progetto concreto, una prospettiva completamente diversa, che apre lo spazio alla speranza. Domani, a Soweto, sarà davvero un altro giorno.
Soweto: l’inaugurazione
UN LAVORO DI SQUADRA
I l 23 gennaio 2007, nel pieno svolgersi del World Social Forum, Soweto ha vissuto un giorno memorabile. Alla presenza della vice Ministro degli Esteri del Goveo italiano, Patrizia Sentinelli, del rappresentante dell’organismo della Nazioni Unite per l’ambiente, dottor Daniel Biau, dell’ambasciatore italiano Enrico De Maio e del sindaco di Nairobi, sig. Dick Wathika, sono state inaugurate alcune costruzioni per la riabilitazione della vita degli abitanti dello slum previste da un progetto elaborato dalle Nazioni Unite, in collaborazione con il Comune di Nairobi e finanziato dal Goveo Italiano con la cifra di 240 mila dollari.
Abbiamo chiesto alla onorevole Sentinelli e al sindaco Wathika che condividessero con noi il loro pensiero a proposito di questo avvenimento.
MC: Onorevole, che cosa significa un progetto come questo per il Goveo italiano e per il Kenya?
On. Sentinelli: È un progetto importante e significativo per la realtà di questo slum, ma penso possa essere considerato un progetto pilota anche per altre situazioni come, per esempio, il grande slum di Korogocho. Abbiamo siglato un accordo con il governo del Kenya di riconversione del debito. Nel regolamento operativo di questo accordo vorremmo chiedere alla controparte che i fondi che abbiamo messo a disposizione vengano effettivamente destinati al recupero di particolari aree degradate, sia urbane che rurali. Vogliamo essere ambiziosi, ma sapere anche che le cose si costruiscono passo dopo passo; basta farlo con coerenza, semplicità e rigore.
MC: Quindi questo potrebbe essere davvero l’inizio di un cammino di utilizzo dei soldi della riconversione per la riabilitazione degli slum di Nairobi?
On. Sentinelli: Penso che i soldi della riconversione siano un primo passo, non sufficiente. Come Goveo, potremmo essere tra coloro che attraggono finanziamento di cooperazione anche dalle regioni, per costituire un sistema virtuoso, un «sistema-paese». Mettere insieme gli sforzi di tutti, quelli del Goveo, come quelli delle Ong e della cooperazione decentrata può servire meglio allo scopo.
MC: Signor sindaco, è una grande giornata per Soweto. Che cosa ne pensa di questo processo? Può essere l’inizio di un processo continuativo che miri al miglioramento anche di altri slum di Nairobi?
Wathika: Come sindaco sono molto grato per tutto quanto il Goveo italiano ha fatto per noi e per il lavoro svolto dall’ambasciata italiana. Speriamo che la collaborazione continui, la presenza del vice ministro degli esteri italiano lo conferma. Vorrei anche invocare l’intervento di altri governi che possano appoggiare l’opera di riabilitazione di altre baraccopoli.
MC: Quali sono le difficoltà più grandi da superare per poter arrivare a ultimare l’upgrading di queste aree?
Wathika: Senz’altro quelle riguardanti la proprietà dei terreni. Molte persone che vivono in uno slum stanno occupando abusivamente delle terre non loro. La parte più difficile sta nel regolare le questioni che sorgono fra i proprietari delle abitazioni, il proprietario dei terreni, cioè lo stato, e chi ci vive. La maggior parte dei proprietari delle abitazioni non vogliono il risanamento dello slum, in quanto preferiscono percepire gli affitti di chi abita le baracche. Fortunatamente, nel caso di Soweto non si presenterà questo problema. La terra diventerà di proprietà collettiva della comunità.
MC: In questi mesi si è formata una bella équipe. Pensa che questo «lavoro di squadra» possa funzionare anche per gli altri slum di Nairobi?
Wathika: L’approccio deve essere lo stesso. La gente dello slum e l’autorità locale devono avvalersi dell’esperienza tecnica delle Nazioni Unite e anche della chiesa. L’appoggio della chiesa è molto importante perché la gente ascolta ciò che la chiesa dice e di lei si fida.
Ugo Pozzoli