Senza lavoro e senza casa
Introduzione
Kibera è una delle più estese e popolate bidonville africane. Alle 6 del mattino chi si piazza alle entrate della baraccopoli può assistere alla versione keniana dell’esodo biblico. Un oceano di formiche umane si scrolla di dosso la notte africana e inizia la lunga marcia verso le strade caotiche della capitale. Alle 7 di sera è nuovamente in fila per compiere il percorso inverso, carico delle frustrazioni accumulate in 12 ore di «scuola di sopravvivenza» nella grande città. Succede così, giorno dopo giorno, fintanto che il sole continua a sorgere e filtrare fra i tetti di lamiera delle baracche fatiscenti in cui vivono, compresse come sardine, quasi 800 mila persone. Migliaia di storie diverse, tutte apparentemente insignificanti, ma tutte indice di un dato tanto inquietante quanto incontrovertibile: la popolazione urbana sta crescendo a dismisura e presto, molto presto, supererà per numero quella rurale.
La migrazione dalle campagne alle città è un fenomeno che ha accompagnato la storia dell’uomo nel corso dei secoli: carestie, guerre, epidemie hanno sempre provocato movimenti di persone dalle zone rurali a quelle urbane, ma mai, come in questo ultimo secolo, il fenomeno ha assunto proporzioni così consistenti. Viene da chiedersi seriamente se il flusso così imponente di persone verso le città sarà sostenibile da un punto di vista sociale e ambientale o se questa realtà sarà destinata a implodere con conseguenze che vanno al di là delle possibili previsioni. Ciò che già sembra certo è che il convergere così velocemente e in forma tanto massiccia negli spazi urbani sta cambiando radicalmente il volto delle città. Insediamenti urbani di medie dimensioni stanno diventando autentiche metropoli, mentre le metropoli di un tempo si stanno trasformando in megalopoli con valori demografici superiori a quelli di tanti stati del pianeta.
Slum, baraccopoli, bidonville, insediamento informale sono alcuni dei nomi, ormai tutti entrati nell’uso corrente, per definire un’unica realtà: il posto infame dove, in città, vanno a vivere o dove cercano di sopravvivere i più poveri della terra. Oggi, un sesto degli abitanti della terra vive in uno slum; ciò significa che circa un miliardo di persone vive in ambienti sovrappopolati e malsani, con un abitato che i documenti definiscono eufemisticamente «informale», ma che dovrebbe essere etichettato invece come «indegno di qualsiasi essere umano».
Nel suo recente saggio «Città Ombra: viaggio nelle periferie del mondo», Robert Neuwirth scrive: «Ho cominciato a interrogarmi sulla moralità di un mondo che nega alle persone un posto di lavoro nella zona dove abitano, e poi gli nega un’abitazione nella zona dove sono arrivati per ottenere un lavoro. E ho cominciato a riflettere sulla mia responsabilità». La «mia» responsabilità. Questo appello alla moralità e alla responsabilità dovrebbe toccare un po’ tutti, ma soprattutto coloro che, per scelta o vocazione, dedicano la loro vita ai poveri, primi fra tutti i missionari. È importante continuare ad essere inseriti nelle comunità che abitano le baraccopoli per condividere il desiderio che le persone hanno di uscire dal fango e dare alla loro vita una dignità perduta e un futuro diverso. È importante insistere nell’appoggiare progetti di sostegno, solidarietà e promozione umana. È però anche importante «dar voce» a chi non ce l’ha, facendo rete e protestando contro quelle politiche economiche inique dei paesi sviluppati che continuano a considerare i paesi in via di sviluppo come terre da conquistare, colonizzare e spolpare, incuranti dei danni umani e sociali che tali politiche provocano. Una responsabilità verso le periferie del mondo che soprattutto chi vive al centro e vive bene può e deve in coscienza assumere.
Ugo Pozzoli