La parabola del «figliol prodigo» (11): Quando desiderare tutto signigica possedere nulla

«Tutto mi è lecito». Ma io non mi lascerò dominare da nulla

N ella puntata precedente abbiamo elencato i sedici affreschi dei vv. 13-16 ed esaminato i primi sette riportati nel v. 13. Proseguiamo l’approfondimento esaminando altri tre affreschi contenuti nel v. 14.

Quando ebbe speso tutto
Al v. 13 avevamo lasciato il figlio giovane che aveva «raccolto tutto»; ora, al v. 14, lo ritroviamo che ha «speso tutto». Nella vita del giovane figlio, il «tutto» è sinonimo di «nulla». Al raccolto possessivo corrisponde la dispersione immediata. L’illusione di essere ricco non si è ancora sedimentata che già si trova vuoto di tutto. Aveva considerato il «possesso» della ricchezza il fondamento della sua libertà e si ritrova la povertà assoluta che diventa precarietà e inconsistenza. Voleva essere «adulto» e indipendente, ma ha solo dimostrato di essere imprevidente e incapace di calcolare le sue forze.
È evidente che nello «sforzo» superficiale di «spendere tutto» c’è anche il sarcasmo che egli non ha speso «del suo» perché il «tutto» come abbiamo visto era la vita del padre, che egli ha sperperato e svenduto.
Il «figlio più giovane» è il vero erede di Adam ed Eva che nel giardino di Eden, pur avendo tutto («di tutti gli alberi del giardino puoi mangiare», Gen 2,16), vogliono ancora di più e aspirano all’esclusività assoluta, cioè prendere il posto di Dio e possedere «l’albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2,17). Solo così possono affrancarsi dalla libertà reale che posseggono e che essi ritengono insufficiente, ritenendosi capaci di una libertà infinita.
Adam ed Eva si ritrovano «nudi», cioè spenti di vita e di luce, senza alcun potere e privi della loro stessa personalità. «Nudi» che scappano a nascondersi in mezzo agli alberi del giardino (Gen 3,10): desiderare una libertà maggiore di quella che si può contenere genera frustrazione e paura.
Una persona libera che si nasconde è una contraddizione esistenziale. Come i suoi progenitori, il giovane fi-glio è «nulla» in sé e per l’ambiente che lo circonda: egli è in «un paese lontano», dove per essere qualcuno deve comprare non gli amici, ma i compagni di baldoria. Spende tutta la parte di padre di cui si era impossessato per accreditarsi per quello che non è: un uomo ricco. Alle prime avvisaglie di una avversità, crolla la ricchezza che non c’è mai stata e sprofonda lui stesso nella sua inconsistenza. Inaspettata giunge una «potente carestia», che frantuma tutti i sogni del giovane illuso.
La libertà non è mai affrancarsi da qualcuno o da qualcosa perché resterebbe una finta libertà esteriore, cioè solo materiale. Non avere catene ai piedi non significa affatto essere liberi. La libertà è un atteggiamento dell’anima, un moto dello spirito che si compie e si realizza in gesti concreti di liberazione. Il giovane figlio non è libero nel cuore, perché egli è schiavo delle sue «presunte» ricchezze con le quali ha confuso la vita stessa di suo padre. Perdute le ricchezze, disperso il «patrimonio», egli annaspa nel vuoto e nel nulla. Si è liberi quando non si ha nulla da difendere perché nulla appartiene a chi ha regalato anche la propria libertà.
La persona libera è il povero nello spirito (Mt 5,3) perché accoglie i suoi stessi bisogni come compagni di viaggio senza mai trasformarli in padroni o peggio in «idoli» a cui ogni giorno bisogna sacrificare un pezzo di sé. È libero colui che sa dipendere dalle relazioni che sperimenta come strutture di crescita e come strumenti per generare altre relazioni che a loro volta generano ancora pienezza di vita. La persona gretta invece vive le relazioni (affettive, di amicizia, con Dio) in modo e forma «golosi», ma non ha tempo per assaporarli perché è solo preoccupato e occupato di avere di più per ritrovarsi alla fine senza nulla in mano e in cuore.

In quel paese venne una
carestia grande
(lett.: forte/potente)
Non basta allontanarsi dalla casa del padre per essere autonomo: la soglia di casa non è il confine tra l’autonomia e la dipendenza, ma la misura del confronto sia in casa che fuori. Il figlio giovane ora si trova in «quella regione» che diventa anche tragica, perché arriva la carestia. Nella casa di suo padre poteva raccogliere «tutto» ciò che non era nemmeno suo, mentre lontano da casa può incontrare solo la fame, cioè la privazione anche del necessario per vivere.
Da un punto di vista letterario, l’espressione è «una forte/potente carestia» ed è collocata al centro del versetto; sembra quasi personificata, perché domina la scena come un fantasma pauroso. Non è solo carestia, è anche «potente» ed è contrapposta alla scena tragica del giovane che ha «speso tutto». Da una parte il vuoto totale, la nullità, e dall’altra la potenza della fame che avanza e sovrasta. Il viaggio della libertà è durato poco, lo spazio di una illusione.
Giobbe sconsolato e frustrato esclama: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre (= dalla terra) e nudo vi farò ritorno» (Gb 1,21), mentre il giovane della parabola lucana, non solo non è uscito «nudo» dalla casa di suo padre, perché aveva «raccolto tutto», cioè la metà della vita del padre, ma ora si trova anche nudo e senza niente. Per chi ha preteso «tutto» è un bel successo!
Il giovane è l’opposto del patriarca Abramo, che andò in Egitto a causa di una «carestia» (Gen 12,10). Luca usa la stessa espressione greca: «egèneto limòs – accadde/avvenne una fame/carestia». Il patriarca fugge dalla carestia e va in Egitto alla ricerca di cibo; il giovane fugge dal cibo e va verso la carestia. Il patriarca guarda al futuro; il giovane lucano guarda a se stesso. Abramo lascia la sua terra perché costretto; il figlio lascia la casa di suo padre per scelta e decisione. Abramo sta seguendo il disegno di Dio, suo Padre; il figlio si allontana dal padre che considera un ostacolo ai suoi disegni. Abramo commette una indegna ingiustizia (per salvare se stesso, non esita a concedere sua moglie Sara all’harem del faraone, Gen 12,12-13), ma lo fa per paura di trovarsi in terra straniera; il figlio va volutamente in «una terra lontana» a sperperare la vita del padre.
Anche Giacobbe, il fondatore delle dodici tribù, manda i figli due volte in Egitto, allontanandoli da sé e dalla propria terra. La prima volta «perché nel paese di Canaan c’era la carestia» (Gen 42, 5) e la seconda volta perché «la carestia andava diventando potente/forte» (Gen 43,1). Giacobbe allontana i figli da sé per salvarli dalla morte, mentre il figlio della parabola si allontana dopo avere ucciso il padre per raccogliere in forma di patrimonio la stessa vita patea che ha preteso anzitempo.
Giacobbe pensa alle generazioni future, il figlio lucano semplicemente non pensa: è troppo occupato a godersi la vita per accorgersi che sta arrivando la carestia. Egli crede di essere radicato nel presente e dà sfogo al suo carpe diem: «Fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero – Fugge il tempo geloso: cogli l’attimo e confida meno possibile nel domani» (Oratio, Carmina I,11,7-8). È talmente immerso nel suo presente da non accorgersi di essere già nel passato, in quel vuoto esistenziale da cui voleva fuggire, ma da cui non può scappare, perché nessuno può fuggire da se stessi, in quanto noi non possiamo non inseguirci dovunque andiamo.
Il testo greco è puntiglioso perché non dice che la carestia piombò «in quel paese», ma usa la preposizione  «katà – giù per» con l’accusativo, nel senso di «lungo quella regione», con valore distributivo locale, col significato di dappertutto: «Avvenne/accadde una carestia forte/potente lungo tutta quanta/dappertutto in quella regione».
Nemmeno un anfratto è sicuro, non c’è un posto dove ripararsi dalla fame. Il «paese lontano» del v. 13, verso cui camminava il desiderio di liberazione dal padre, ora diventa una prigione senza scampo e senza futuro: dappertutto c’è carestia e privazione. Anticipo di morte e di tragedia.

Ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno
Il verbo greco «hysterèō» significa «manco/sono privo/escluso» ed è preceduto da un verbo ausiliare «àrchō – io comincio a», per cui si può dire che indica un’azione ingressiva, che cioè sta per iniziare e di essa ora si vede solo il principio, ma è destinata a durare nel tempo o nello spazio. Inizia una nuova storia, imprevista e non programmata.
Il bisogno come privazione di qualcosa era assolutamente impensabile e quindi bandito dai pensieri del giovane figlio. Egli aveva un solo ed esclusivo bisogno: lasciare la casa del padre per affrancarsi da ogni forma di dipendenza e di bisogno; il suo unico bisogno era affrancarsi dall’affetto del padre, che considera opprimente. Questo unico bisogno diventa il motore della sua vita futura che egli immagina roseo, spensierato e senza problemi economici: egli ha «tutto» con sé ed è sufficiente a se stesso. Non ha bisogno della dipendenza nemmeno affettiva.
Egli deve andare lontano; il suo desiderio di libertà non nasce dal suo cuore, ma si misura solo con il metro della distanza. Più si allontana dalla sorgente della vita, più s’illude di trovare la pienezza di vivere. Tutto sacrifica per questo miraggio: padre, fratello, casa, amici, terra. Anche Dio diventa superfluo, mero accessorio. Quando il bisogno s’ingigantisce, fino a diventare una esigenza irrefrenabile, anche Dio si trasforma in ostacolo; anzi, in un persecutore senza cuore, qualcuno da cui allontanarsi.
Il giovane somiglia allo stolto del vangelo che avendo avuto uno straordinario raccolto non sa come gestire l’abbondanza e sogna una vita piena di sé e di ricchezze, prevedendo un futuro ancora più ricco: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divèrtiti! Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce davanti a Dio» (Lc 12,16-21, qui 19-21). Coperti di ricchezze, hanno schiacciato la vita e con essa i bisogni e anche i sogni.
Il figlio della parabola sperimenta sulla sua pelle le parole del castigo predette dal libro del Deuteronomio e che egli avrebbe dovuto bene conoscere: «Non avendo servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici, che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame [gr. limòs], alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa; essi ti metteranno un giogo di ferro sul collo, finché ti abbiano distrutto» (Dt 28,57-48).
Nella bibbia la carestia o la fame (con la siccità) è sempre un castigo mandato da Dio, come conseguenza dell’allontanamento da lui o come segno dell’assenza della parola di Dio (Am 8,11) e quindi della mancanza di profezia. In una parola, la carestia significa che Dio ha abbandonato a se stesso Israele che ha rotto l’alleanza con il Signore (cf Ez 5,17).
Il giovane non ha servito il Signore «in mezzo all’abbondanza» nella casa del padre, ora sperimenta la logica conseguenza del suo peccato voluto e con determinazione perseguito: sarà schiavo (come vedremo commentando il v. 15) e sperimenterà ogni sorta di privazione: fame, sete, nudità e ogni altra sventura che lo soggiogheranno, riducendolo a uno stato animalesco, fino al livello più infimo oltre il quale è impossibile andare per un Ebreo: compagno e commensale dei porci. Egli non è andato solo «in un paese lontano», cioè in terra pagana, si è diretto invece nel regno dell’impurità che lo rende inabile alla preghiera e al sacrificio cultuale. Diventando impuro, egli si allontana dall’intimità e diventa estraneo a Dio e a se stesso.
Non è Dio, non è il padre a infierire sul giovane e la carestia non è un capriccio di Dio per farlo rinsavire; al contrario la fame, la sete e il bisogno improvvisi sono il risultato o, se si vuole, il segno esteriore della condizione interiore in cui l’uomo si trova. Attraverso le scelte libere e autonome, il figlio più giovane si esclude da sé dalla pateità, dalla frateità, dalla comunione (casa) per restare solo e privo di tutto. Bisogno e privazione, solitudine e fame sono le cicatrici della sua insipienza che non ha saputo pensare alla carestia in tempo di abbondanza (cf Sir 18,25).
Dopo avere speso tutto, non gli resta che il nulla totale, perché pur di mangiare qualcosa, egli vende addirittura se stesso, negando la sua stessa natura e apparendo per quello che realmente è: un morto che vive in una regione morta, devastata dalla carestia.  (continua – 11)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella

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