Angioletto nero
Ricordando un missionario … e il suo estro artistico
Nato a Moncalieri (TO) nel 1927, Giulio Cesare frequenta la scuola di avviamento professionale, si specializza come incisore di metalli e per un decennio si dedica a tale professione. All’età di 25 anni entra nell’Istituto dei missionari della Consolata. Terminato il percorso formativo a Rosignano Monferrato, Certosa di Pesio e Torino, viene ordinato prete nel 1962. Due anni dopo parte per il Kenya e vi lavora fino al 1970, quando è richiamato in Italia, per attendere alla formazione degli studenti del seminario teologico di Torino. Dal 1976 ricopre vari incarichi, come superiore di comunità ad Alpignano e Gambettola, parroco di San Martino (Alpignano) e Regina delle Missioni (TO), animatore di gruppi laicali. Per 30 anni continua a mettere a disposizione dell’Istituto, confratelli e amici le sue doti di artista, fino alla sua scomparsa, avvenuta ad Alpignano il 17 novembre 2006.
Quando il giovanotto Giulio Cesare manifestò al suo datore di lavoro la nuova vocazione a cui si sentiva chiamato, l’orefice torinese esclamò sconsolato: «Chiudo bottega. Mi mancherà la mia mano destra!». Sì, perché il nostro nuovo acquisto alla causa missionaria aveva… l’oro nelle mani. Anche una comunissima scritta sulla copertina di un quaderno diventava un piccolo capolavoro.
Entrato nel seminario per vocazioni adulte a Rosignano Monferrato (AL), lo studente Giulio Cesare imparò a faticare sui libri, destreggiandosi con latino e greco, invece che fondendo oro e modellandolo in spille e anelli. Ma il gusto artistico rimase e si perfezionò.
Ancora prima di diventare sacerdote (1962), durante gli studi di teologia, i pennelli si abbinarono alla penna e tante cupe e monotone stanze del seminario maggiore di Torino acquistarono luce e gioia con i colori alla «Giulio Cesare», così li ribattezzammo.
Vari anni dopo ci ritrovammo insieme in Kenya nella diocesi di Meru. Il vescovo mons. Lorenzo Bessone aveva un gran bisogno di un segretario tuttofare. In quel concetto di «tuttofare» era compreso anche il compito di preparare nuovi progetti di chiese, asili, scuole, centri sociali, mostre…, che la diocesi, in fase di grande sviluppo, necessitava. Il nostro «artista» era davvero un mago nei suoi disegni e novità.
Mago lo era pure nel modo di eseguire certi progetti. Forse, la sua «magia di esecuzione» era dovuta a una caratteristica del maestro artista: la sua generosità nel dire sempre di sì a tutti e le sue grandi distrazioni.
Tante volte abbiamo visto padre Giulio fare il saltimbanco per completare un’opera, o addirittura incominciae l’esecuzione, il giorno prima dell’inaugurazione. Una di tali «avventure» mi è rimasta stampata nella mente con inchiostro indelebile: si trattava di allestire uno stand nella fiera agricola locale, alla quale la diocesi di Meru era stata invitata per far conoscere al pubblico le varie opere realizzate o in fase di progettazione in diverse parti del territorio. In modo particolare bisognava illustrare i progetti che riguardavano il problema dell’acqua!
Mancava un giorno all’apertura della fiera. Lo stand offriva in quel momento ai curiosi (i soliti scugnizzi) una lunga tela di sacco e nulla più. Quel mattino, padre Giulio arrivò con un camioncino zeppo di barattoli, scope e pennelli. Scaricò tutto davanti a sé e poi si mise pensieroso ad ammirare il panorama di sacco, grattandosi la barbetta. Poi intinse un pennellone dentro un bidone di colore, lo assicurò a un manico di scopa e via… partì in quarta «sporcando» quella tela lunga più di 30 metri. Dieci minuti di sosta, tanto per dar modo al colore di asciugarsi un poco e… via un’altra cavalcata.
«Cosa sta facendo questo muchenge?» (bianco) si domandavano i curiosi. Il muchenge si allontanò di una quindicina di metri a meditare la prossima manovra. Poi partì deciso senza ripensamenti, dal bel mezzo della lunga tela. Qui un’ombra nera, là un tocco di verde, macchiette sparpagliate di ocra.
Qualcosa di familiare cominciava ad apparire… ma non troppo. Ultimo spazzolone: sì, perché davvero questo era uno spazzolone tanto era grande. Un cielo azzurro prese a coprire quel lungo accavallarsi di colori sottostanti e l’inconfondibile silouette della grande montagna sacra del Kenya prese a far capolinea come da una massa di nubi. Zak e zak! Ed eccoti servito.
Fu uno scroscio di mani e un bornato di approvazione: la giogaia del monte Kenya era ora tutta davanti agli spettatori increduli. E c’era ancor tempo per il sole pomeridiano per asciugare quella distesa di colori.
Inutile dire che il giorno seguente la giuria assegnò il primo premio allo stand diocesano.
Tra padre Giulio e il sottoscritto c’è stato un piccolo segreto, che oggi posso rivelare, dato che il missionario ci ha lasciati. È un segreto che inizia con una storia triste. Era il 7 gennaio 1965, festa di san Luciano.
Appena tornato dalla cava di sabbia, dove ero andato a far rifoimento per i lavori della missione, la suora del dispensario mi chiama e mi fa vedere, in braccio a un uomo, un fagotto di stracci con un bimbo di età indefinita, moribondo.
Si decide di fare almeno un tentativo: portarlo all’ospedale.
Vestito come sono da manovale muratore, carico l’uomo e il bimbo e cerco di accelerare i tempi. Ci son cinque chilometri per giungere all’ospedale, ma su una strada da specialisti in autocross.
Tengo d’occhio il bimbo. Lo vedo aprire gli occhi alla ricerca di un ultimo filo di vita. Non sono neppure a un terzo del tragitto e manca proprio il più difficile. In prima ridotta il Land Rover si arrampica come può.
Decido di fermarmi. Mettiamo il bimbo sull’erba perché possa respirare meglio. Mi faccio coraggio e inizio un dialogo con l’uomo che sostiene il moribondo.
– Ni mekriste? (è cristiano)?
– Are (no).
– Vuoi che lo battezzi?
– È affare tuo! (come per dirmi: fai quello che credi bene).
Afferro la bottiglia dell’acqua che per prudenza ho sempre nella cabina del camioncino. Ohimé! è vuota. Neppure una goccia. Avevo infatti aggiunto poco prima acqua nel radiatore. Ora l’acqua più vicina è a venti minuti di corsa.
Sento però l’acqua del radiatore bollire e uno spiffero di vapore uscire da qualche parte. Afferro il tappo della bottiglia e raccolgo con ansia le poche gocce che si condensano.
«Luciano, vai con gli angeli di Dio. Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Mi è venuto così spontaneo ricordare mio fratello che in Italia celebrava san Luciano.
Meno di un minuto e … quell’angioletto è già in paradiso.
Con fare guardingo l’uomo ha già nascosto tra gli stracci il morticino. Se lo è messo in cabina tra le gambe. E mi dice di tornare alla missione. Giunto a casa, devo tribolare non poco per capire le intenzioni dell’uomo. Mi supplica di portarlo nella foresta. Toccare i morti per lui è tabù. Potrebbe essere costretto a fare un sacrificio agli spiriti.
Lo faccio salire nel cassone posteriore del camioncino e giunto nel bosco appena fuori della missione, faccio marcia indietro per isolarmi il più possibile nel semibuio delle piante. Vedo l’uomo scendere guardingo, armeggiare un pochino con il suo machete per scavare una buca… Poi tutto diventa silenzio. Anche l’uomo è sparito. Sotto dieci centimetri di terra, coperto da poche foglie, giace il corpicino del piccolo Luciano. La iena, nella stessa notte non faticherà a portarselo via!
Quell’angioletto, mandato per direttissima in paradiso con quattro gocce d’acqua rugginosa, continuò a occupare i miei sogni per almeno tre anni, finché un giorno mi venne un’idea. Avevo pregato padre Giulio Cesare di farmi una «vetrata» per la nuova chiesa parrocchiale di Amugenti. Si trattava di una vetrata «all’africana»: carta velina a colori racchiusa tra due vetri, ma dall’effetto strabiliante!
Padre Giulio cominciò a fare un bozzetto. Mentre lo guardavo, mi venne in mente il piccolo Luciano. E cominciai a cantare:
«Pittore ti voglio parlare
mentre dipingi un altare.
Io sono un povero negro
e d’una cosa ti prego.
Pur se la Vergine è bianca…
fra gli arcangeli ti prego
metti un angioletto nero!».
Raccontai la storia dell’angioletto a padre Giulio. Si commosse anche lui e mi fece la sorpresa. Tutte le volte che ammiro nel mio breviario la foto di quella vetrata, penso a quel bimbo che più di 40 anni fa avevo battezzato con quattro gocce d’acqua, portato nella foresta e mai più trovato.
Avevo concordato con padre Giulio di non dire a nessuno come mai in quella vetrata c’è un angelo bianco e un angelo nero. Ora lo sapete anche voi.
Giuseppe Quattrocchio