Le sfide della nuova cooperazione
I comuni italiani sono sempre più impegnati in progetti di cooperazione con città del Sud del mondo. Che sia per aiutare il decentramento amministrativo, fornire consulenze specifiche o realizzazioni pratiche, si scontrano con le diversità culturali e il divario di risorse. Per questo si fanno spesso accompagnare da associazioni e Ong del loro territorio.
In nessuno dei Paesi cosiddetti «ricchi» del mondo è ancora stata scoperta la formula magica che permetta di stabilire quale sia il giusto equilibrio di ripartizione dei poteri (legislativo, giudiziario e amministrativo) tra un governo centrale e i suoi enti locali per un’ottimale gestione del territorio ed il miglioramento del benessere dei suoi abitanti. Non c’è bisogno di ricordare, ad esempio, quanto in Italia sia ancora oggi acceso il dibattito su come attuare il decentramento, o anche solo il federalismo fiscale, sulla base di quanto scritto nella nostra costituzione oltre mezzo secolo fa, all’articolo 5 e nell’ormai famoso titolo V.
La verità è che questa formula non esiste. I nostri politici (a tutti i livelli istituzionali) dovranno continuare a cercare i migliori compromessi per adattare quanto le teorie economiche e ideologie propongono, in funzione dei cambiamenti sociali e delle continue difficoltà finanziarie che ogni governo si ritrova ad affrontare in questa epoca di globalizzazione.
è in questo contesto che, da più di dieci anni, in Italia va sviluppandosi una nuova forma di cooperazione internazionale che viene ormai comunemente definita come «cooperazione decentrata». Una cooperazione che vede come protagonisti gli enti locali italiani (comuni, province, regioni, ecc.), che a partire dagli anni ‘90 hanno avuto la possibilità di spendere fuori dal loro territorio e per progetti di cooperazione e solidarietà internazionale una cifra pari all’otto per mille dei primi tre titoli delle entrate correnti dei propri bilanci di previsione. Nel 2000, ad esempio, la cifra complessivamente stanziata dagli enti locali italiani nel loro insieme ha cominciato a superare in termini economici i 50 milioni di euro annuali.
Un mondo più giusto?
Fra le ragioni di questa cooperazione decentrata normalmente vengono citati diversi aspetti.
Prima di tutto la volontà della società civile nel suo insieme di partecipare attivamente alla costruzione di un mondo più giusto e più pacifico. Volontà di cui le istituzioni locali vogliono sempre più spesso farsi portavoce e anche promotrici in prima persona.
In secondo luogo la determinazione delle istituzioni locali di promuovere iniziative che permettano di avere ricadute importanti in termini di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che vivono in zone più svantaggiate della terra. Azioni che al tempo stesso permettano la crescita di una cultura di pace e di solidarietà sul loro stesso territorio. Soprattutto alla luce dei sempre più rilevanti fenomeni migratori e dell’importanza che questi vengano gestiti in un’ottica di integrazione sociale e di valorizzazione delle diversità culturali. Questa ultima motivazione è fra le più utilizzate per spiegare ai cittadini perché per fare cooperazione internazionale vengono in realtà usate le loro tasse due volte, cioè prima quelle da loro pagate a livello locale per la cooperazione decentrata e poi quelle già pagate dagli stessi cittadini allo stato per fare la stessa cosa nel quadro più ampio della politica estera nazionale.
Infine, il desiderio di mettere a disposizione le competenze maturate nel corso della nostra esperienza di decentramento politico e amministrativo. Questo punto è sempre più spesso sottolineato quando si vogliono difendere le spese sostenute per entrare in contatto e costruire un rapporto di collaborazione duraturo con un ente «omologo» (comune, ecc.) di un paese estero.
Naturalmente sperando che tutto ciò possa essere utile, in particolare che altri, grazie al nostro impegno e alla nostra disponibilità, possano evitare di ripetere errori da noi commessi, in un passato comunque molto recente.
Aiuto al decentramento
Quindi la cooperazione non solo come ulteriore impegno e contributo delle istituzioni locali a favore della pace e della lotta contro la povertà a livello globale. Ma come un processo, che se non nel breve termine, nel medio o lungo, potrà aiutare i governanti degli stati e degli enti locali partner a elaborare i loro propri modelli di gestione del territorio, promozione dello sviluppo locale, ripresa economica. Ma soprattutto di lotta contro le micidiali disuguaglianze che vedono nei paesi più poveri poche élites vivere sulle spalle di masse di persone in condizioni di estrema povertà.
Facendo questo ambizioso e ammirevole ragionamento, comuni e regioni italiane danno però quasi per assodato (così come la maggior parte delle organizzazioni inteazionali prime fra tutte la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale) che il decentramento politico e amministrativo dei poteri nei paesi cosiddetti in «via di sviluppo» sia un fatto assolutamente necessario, perché gli Stati centrali da soli non ce la possono fare. Così come spesso viene dato per certo che l’apertura al liberalismo sia l’unica possibilità di salvezza per le economie più deboli (ma la partecipazione di 8 regioni, 21 province e 29 comuni al recente Forum sociale mondiale di Nairobi dimostra che molti la pensano diversamente).
Queste due tesi sono tutt’altro che dimostrate. Ed è proprio qui che si dovrebbe inserire il ruolo cruciale delle organizzazioni non governative italiane (Ong), che lavorano per la cooperazione allo sviluppo da oltre mezzo secolo. Così come l’innumerevole schiera di esperti italiani che a livello nazionale e internazionale hanno lavorato e lavorano al ministero Affari esteri, nelle agenzie delle Nazioni Unite, presso l’Unione Europea. Ma anche il mondo universitario, che da sempre si occupa di studiare le politiche socio-economiche a livello internazionale e che da una decina di anni ha avviato simili percorsi di cooperazione decentrata (si chiama sempre così) con gli atenei di numerosissimi paesi del Sud del mondo.
Meglio soli o accompagnati?
Il Consorzio delle Ong piemontesi (Cop) ha accettato nel 2004 (ma diverse singole Ong lo facevano sin dal 1997) la proposta fatta dalla Regione Piemonte di «accompagnare» i processi di cooperazione decentrata intrapresi dai suoi enti locali in otto paesi dell’Africa Occidentale, arrivando a fine 2006 alla firma di un accordo programmatico triennale (in forma di Convenzione) sulla base del quale Regione e Consorzio definiranno gli interventi progettuali annuali e co-progetteranno le azioni di dettaglio. Questo, con l’idea di aprire una discussione e un confronto costruttivo, oltre che per mettere a disposizione l’esperienza delle Ong. Il quadro è quello del Programma regionale per «la sicurezza alimentare e la lotta alla povertà». Un’esperienza unica in Italia, che dal 1997 vede la Regione Piemonte impegnata con uno stanziamento annuale di circa 2 milioni di euro. Dopo soli 10 anni di lavoro ha coinvolto in collaborazione con le Ong una rete di oltre 150 enti locali piemontesi e un grande numero di associazioni, enti religiosi, scuole, parchi regionali, strutture sanitarie, enti di formazione e associazioni di categoria.
Due mondi
Un lavoro enorme che, se si guarda oltre le innumerevoli opere obiettivamente concrete e positive realizzate insieme ad altrettanti partner locali, come ad esempio pozzi, interventi agricoli, corsi di formazione, ecc. ha davanti a sé proprio l’immensa sfida di collaborare con le autorità locali africane per capire ed elaborare, magari insieme e in un’ottica di disinteressata solidarietà, i modelli politici e amministrativi capaci di generare uno sviluppo locale partecipato.
Sfida immensa, appunto. Soprattutto considerando le sconvolgenti differenze esistenti tra il nostro paese e i loro, evidenti quando si leggono ad esempio gli indici di sviluppo umano delle Nazioni Unite, a partire da quello dell’aspettativa di vita che in Italia ha ormai raggiunto gli 80 anni e, ad esempio, in Burkina Faso è appena di 48. Può sembrare banale, ma immaginatevi una discussione con un sindaco cinquantenne di una cittadina burkinabè su cosa si possa fare nei prossimi dieci anni per migliorare la situazione della sua città. Vi risponderà vedremo, cominciamo a sperare che io sia ancora qui l’anno prossimo.
Ma soprattutto, continuando con il caso del Burkina, consideriamo che il Pil (prodotto interno lordo) italiano supera i 1.800 miliardi di dollari (2005), quello del Burkina Faso è poco meno di 6 miliardi. E quasi a parità di dimensioni, in Italia siamo 58 milioni di abitanti e in Burkina solo 14. In Italia sono oltre 40 milioni le persone che vivono in città (70% del totale), mentre in Burkina circa 2 milioni (il 17% del totale). E a proposito delle finanze pubbliche? Se in Italia la spesa per l’amministrazione pubblica nazionale equivale al 25% del Pil e quella dei comuni a circa il 6%, in Burkina il governo centrale spende il 12% del Pil e i comuni solo lo 0,3% (e il Pil del Burkina è meno di un centesimo del nostro). In altri termini, da noi i comuni gestiscono risorse pari al 26% di quanto gestisce il governo centrale, mentre in Burkina questa percentuale scende al 2%. Un sindaco del Burkina Faso ha in realtà in questo momento ben pochi euro da spendere, e non può pretendere più di tanto il pagamento di tasse da parte di una cittadinanza che come reddito procapite annuale guadagna in media circa 430 euro mentre la nostra, di media (si intende) è pari a 20.000 euro.
Quante potenzialità
Di fronte a questi dati, certo è difficile sostenere che il decentramento politico e amministrativo può essere uno strumento in grado di consentire nel breve termine ai paesi del sud del mondo di risolvere i problemi legati alla povertà estrema della maggioranza della popolazione e della pressoché totale mancanza di servizi pubblici per i cittadini. Oppure che il decentramento può creare spazi per la partecipazione della società civile alla promozione dello sviluppo locale, o ancora garantire una più efficiente allocazione delle poche risorse disponibili (incluso quelle provenienti dalla cooperazione internazionale) e promuovee anche la maggiore mobilitazione a livello locale. O ancora che possa migliorare la governance a livello locale così come a livello nazionale. Tutto questo si scontra per il momento con una sostanziale mancanza di risorse come rivelano gli sconfortanti dati appena considerati, situazione nella quale si trova la maggior parte dei paesi del mondo non industrializzato.
Ma è proprio in questo contesto che la cooperazione decentrata può e deve cercare di muoversi, a piccoli passi e chiamando alla riflessione su quali siano le possibili soluzioni, il maggior numero di soggetti, dal mondo del terzo settore e delle Ong a quello delle istituzioni pubbliche, dagli enti fornitori di servizi (educativi e di ricerca, sanitari, ambientali, ecc.) fino al mondo imprenditoriale ed economico. Senza scoraggiarsi, ben inteso, e nella consapevolezza che anche un piccolo impegno può dare vita, in questo contesto, a grandissimi risultati.
Andrea Micconi