Quando le città (italiane) vanno in Africa
I perché della «cooperazione decentrata»
Negli ultimi dieci anni chi si occupa di cooperazione internazionale allo sviluppo ha visto crescere un fenomeno nuovo. Le città italiane, così come province e regioni hanno iniziato a interessarsi sempre più ai comuni e alle entità loro simili in Africa e America Latina. Sono nati cornordinamenti per la pace tra comuni italiani e altri enti territoriali.
Piccole quote dei bilanci comunali sono state allocate a progetti di cooperazione nel Sud del mondo, mentre alcune regioni e province si sono connotate come promotrici e finanziatrici di cooperazione.
Il fenomeno non coinvolge solo l’istituzione, ma questa funziona da «attivatore» delle realtà sul proprio territorio. Così associazioni di base e di categoria, istituti scolastici di vario grado, università, parchi, hanno creato le loro iniziative per mettere il proprio «mattone» di sviluppo in qualche sperduto paese africano o latino americano. Non senza commettere errori o prestare il fianco alle critiche.
Spesso tanti micro interventi su un territorio non creano sviluppo, ma arricchiscono qualche personaggio locale, oppure creano ancora più disuguaglianze. Fondamentale è l’approccio territoriale. Questo significa avere uno sguardo che coinvolge le diverse competenze di un comune italiano. Ma anche affrontare il tema dello sviluppo locale in un territorio lontano in modo integrato e con conoscenze in materia. Per questo, per interessare i territori, l’ente locale diventa l’istituzione più adatta a interagire con un ente analogo in un paese povero. Chi meglio conosce, o dovrebbe conoscere, il proprio territorio, da entrambe le parti.
C’è poi la questione della politica della cooperazione, che su base locale è, necessariamente, di competenza degli enti locali (che non dovrebbero essere in conflitto con le linee guida della cooperazione governativa). Per quanto riguarda le conoscenze tecniche e di contesti così diversi dal nostro è obbligatorio farsi accompagnare da chi queste tematiche le affronta da sempre come propria missione: le Ong di sviluppo e talvolta gli istituti missionari. Sono loro i veri «traduttori culturali» oltre che i tecnici dello sviluppo.
Nasce così un modo di fare cooperazione «dal basso» che coinvolge decine di attori diversi (ed è questa la grossa difficoltà dell’approccio), ognuno dei quali deve mantenere il proprio ruolo. Una cooperazione che ha tutte le caratteristiche per essere quella più vicina alla gente, del Sud come del Nord. Infatti un effetto positivo della cooperazione decentrata è che le ricadute sono anche nei nostri comuni, dove si crea maggiore conoscenza, sensibilità e forse si formano le coscenze per nuovi stili di vita. Perché per creare sviluppo, è obbligatorio passare attraverso a una nuova redistribuzione di risorse e di consumi, a livello planetario.
Marco Bello