La voce della Regione Piemonte, intervista a Giorgio Garelli
Il dottor Giorgio Garelli lavora al Settore Affari Inteazionali e Comunitari, Gabinetto della Presidenza della Giunta Regionale del Piemonte. Ha una grossa esperienza in cooperazione internazionale e in particolare di quella realizzata dagli enti locali. Conosce bene anche il «terreno» in quanto è stato volontario in Africa.
Dal vostro punto di vista cos’è la cooperazione decentrata?
Il nostro concetto si rifà alle linee guida della direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del ministero Affari Esteri, che risale al marzo 2000. Si parla di cooperazione tra territori che acquisisce titolo solo se sono coinvolti i rappresentanti istituzionali che garantiscono questo legame. Secondo questa definizione il contatto tra i singoli gruppi non è cooperazione decentrata, ma è rapporto tra associazioni di base della società civile. Tali azioni rientrano nella cooperazione decentrata solo se c’è una relazione tra autorità elette, che in quanto tali rappresentano una comunità, un territorio e hanno mandato e responsabilità per realizzare iniziative a nome della comunità stessa.
Negli ultimi cinque anni i finanziamenti propri delle amministrazioni locali per la cooperazione decentrata sono aumentati da 20 a oltre 50 milioni di euro, perché secondo lei?
La cooperazione decentrata è un processo che vede protagoniste le comunità territoriali, realtà disponibili anche a mettere risorse proprie, al di là dei fondi pubblici dello Stato. Il territorio chiede, perché ne sente l’esigenza, di diventare attore «attivo». Questo comporterà una diversa consapevolezza, una piccola rivoluzione culturale, nell’analisi degli squilibri tra Nord e Sud. Oggi, infatti, non riusciamo a concepire in modo corretto la cooperazione, né noi né loro. Per noi è una donazione di qualcosa di superfluo, per loro, spesso, un’accettazione passiva di risorse. Non esiste un’idea, condivisa da tutti, che tenga conto della necessità di ricercare un futuro compatibile e sostenibile per ciascuna realtà. Dobbiamo relazionarci con l’Africa, come diceva Robert Schuman, uno dei padri dell’Europa, «il problema dell’Europa è lo sviluppo dell’Africa». Ma in questi 50 anni l’Africa non si è sviluppata.
Iniziamo a capire anche noi che c’è bisogno di una nuova cultura della cooperazione. Non dobbiamo fare progetti perché è giusto, ma perché altrimenti non c’è futuro. è un obbligo economico, sociale, tecnico.
La cooperazione decentrata può dare il suo contributo perché spinge i cittadini a diventare protagonisti, li mette davanti ai problemi e nell’impossibilità di eluderli.
Cosa pensa del processo in corso per riformare la legge sulla cooperazione internazionale in Italia?
è importante la volontà del governo che intende procedere alla riforma della legge in tempi brevi (tramite la legge delega, vedi box).
È una grande occasione per analizzare i nuovi percorsi di cooperazione che stanno sviluppandosi in Italia e per costruire una nuova disciplina che rafforzi, cogliendone gli aspetti positivi, queste esperienze, mettendole in sinergia con le altre forme di cooperazione più classica (multilaterale, bilaterale e non governativa).
Purtroppo nella proposta di legge non è chiaro questo importante obiettivo, ma le dinamiche del rapporto dello stato con le regioni e la società civile, dovrebbe portare in parlamento un dibattito utile per una maggior consapevolezza del legislatore sulla necessità di un nuovo approccio, anche culturale, in questa materia.
Quali sono le priorità della Regione Piemonte in termini di cooperazione internazionale?
Una priorità «intea» è legata alle politiche di sviluppo sul nostro territorio: far crescere la capacità di fare cooperazione. Vuol dire dare strumenti, organizzare eventi, per migliorare la capacità di azione delle istituzioni locali. Renderle in grado di attivare il loro territorio. In questa logica, per noi, il comune è il «mattone» base. I risultati sono buoni, se si considera che sono circa 100 i comuni capofila ad avere presentato una richiesta di finanziamento all’ultimo bando. Tutto questo è stato sviluppato negli ultimi tre – quattro anni.
Abbiamo anche richieste di partecipazione e finanziamento da altre componenti della società civile che hanno competenza in materia: associazioni, istituzioni religiose, ecc. Quando ci propongono delle idee cerchiamo di metterli in contatto con gli altri elementi dal proprio comune, creando così reti complesse. Oggi abbiamo più di 800 enti piemontesi che lavorano nei progetti di cooperazione decentrata sostenuti dalla regione.
Le organizzazioni non governative, con le loro specifiche conoscenze delle realtà locali dei paesi del Sud del mondo, contribuiscono in modo essenziale al corretto sviluppo di queste esperienze e le rafforzano sotto il profilo tecnico e relazionale.
Ci sono poi priorità geografiche. Vogliamo avere impatto nelle aree in cui ci interessa essere presenti: Mediterraneo e Maghreb in particolare sia per il ruolo che intendiamo sviluppare nell’area, sia per la presenza di significative comunità di immigrati provenienti da questi paesi. Ma anche iniziative per i paesi che hanno presentato richiesta di pre-adesione all’Unione europea, e attenzione a quei paesi da cui proviene il flusso migratorio verso la nostra regione.
Un’altra area di particolare interesse economico e politico è il Brasile. Sia per l’importante ruolo che svolge in America Latina sia per le numerose relazioni con il nostro territorio dovute alla consistente presenza degli emigrati piemontesi.
Per le zone più lontane lavoriamo sulla base di priorità tematiche. La «sicurezza alimentare», che concentriamo geograficamente in alcuni paesi dell’Africa Occidentale, scelti anche dopo un’analisi dei soggetti piemontesi che vi operano. Oppure l’appoggio a comunità di immigrati strutturate presenti sul nostro territorio, come, per esempio, quella senegalese.
Quanto investite nella riflessione su queste tematiche oltre che sull’azione diretta?
Cerchiamo di creare situazioni per le quali il nostro sistema di cooperazione decentrata sia in grado di attivarsi. Vogliamo farlo crescere, per questo periodicamente realizziamo eventi o iniziative di riflessione intea.
In Italia siamo in ritardo rispetto a Spagna e altri paesi europei, perché secondo lei?
In Spagna il meccanismo è legato a una legge statale che impone una percentuale del bilancio da spendere in cooperazione. Questo fa crescere l’impegno di regioni ricche, come la Catalunya che arriva a 60 milioni di euro all’anno. Anche i francesi sono avanti, per una loro particolare attenzione verso i paesi ex coloniali. Gli spagnoli hanno forti motivazioni legate alla questione dell’immigrazione, che impone loro conseguenze operative. Su queste tematiche l’amministrazione intende dare segnali chiari al cittadino. Ciò sarebbe importante anche nella nostra realtà.
Che rapporti avete con la cooperazione governativa del ministero Affari esteri?
Il problema è che la cooperazione in Italia non riesce a fare politiche innovative. Da un lato il ministero degli Affari esteri ci assegna finanziamenti per fare cooperazione e dall’altra in alcune occasioni impugna le leggi regionali in materia di cooperazione internazionale perché ritenute incostituzionali. Il dibattito aperto con la riforma della legge sarà sicuramente un’occasione per riflettere sulle proprie competenze e sull’opportunità di costruire nuovi strumenti per favorire il cornordinamento e la valorizzazione delle rispettive specificità.
Un caso recente di collaborazione tra Ministeri e Regioni è il programma di sostegno alla cooperazione regionale. Lo ritengo particolarmente significativo in quanto vengono utilizzati fondi per le aree sotto utilizzate (Fas) tipicamente destinati per lo sviluppo dei territori regionali che in questo caso verranno impegnati per realizzare progetti di cooperazione internazionale nei Balcani e nel Mediterraneo concertati tra più regioni e con i diversi ministeri. L’utilizzo di tali fondi implica anche il riconoscere che per promuovere lo sviluppo dei nostri territori è necessario costruire relazioni inteazionali anche a livello locale. Un nuovo approccio che apre interessanti ipotesi di lavoro.
Quali sono le prospettive sul medio termine per questo modello di cooperazione?
Prevedo una forte crescita. Le problematiche della globalizzazione producono interrelazioni tra territori e comunità ed evidenziano la necessità di una cooperazione a 360 gradi. La richiesta che ci perverrà dalle nostre popolazioni sarà, a mio avviso, di creare le condizioni che consentano ad una società civile del Nord di relazionarsi con quella del Sud per affrontare gli effetti locali prodotti dalla globalizzazione. Ciò valorizzando la capacità di fare rete raccordando le diverse «proprie» specifiche conoscenze e capacità. Si tratta di un’esperienza già ricca, che nasce dal basso, da una domanda del territorio, a cui le diverse amministrazioni devono rispondere.
Marco Bello