Al falò dell’intelligenza

I danni di una televisione senza qualità

Mai come oggi la televisione offre una scelta infinita di programmi eppure mai come oggi impera un’assoluta povertà di idee. La gente si inebetisce davanti a trasmissioni dove il nulla viene spacciato per il tutto. Sotto i riflettori televisivi  passano corpi perfetti e menti leggere. E, sullo sfondo, l’accettazione di modelli imposti dall’alto, senza ideali alti, senza sogni che non siano il denaro e la notorietà. La situazione è chiara a molti, eppure, almeno per ora, è questa Tv spazzatura che continua a vincere e ad imperversare. Come fosse una tossicodipendenza.

È la tv che condiziona i giovani, le loro scelte e abitudini, o sono loro a influenzare con «nuovi modelli» la creazione dei format televisivi?
Un dubbio amletico, a cui possiamo tentare di dare alcune risposte: basta fare zapping in tv; frequentare le scuole, soprattutto superiori; avere figli adolescenti e ascoltare i discorsi dei loro amici e compagni…
La tv ha un potere enorme, ben superiore a quello (già notevole) di giornali, riviste, web. E lo esercita.
Quella scatola sempre più tecnologizzata, accessoriata, esercita il fascino disarmante di un giocattolo attraente e pericoloso allo stesso tempo.
Adolescenti e adulti ne sono attratti, fagocitati, plasmati, modificati, per poi essere ributtati, da bravi soldatini ubbidienti (qualcuno un po’ più recalcitrante), nel ciclo riproduttivo del consumismo in modo da perpetuae il modello.
I canali televisivi sono tanti e se si aggiungono quelli satellitari, la scelta è enorme. Ma è solo un’apparenza: a parte qualche eccellente eccezione (documentari, film d’autore, programmi culturali), si passa senza notare sensibili differenze da un reality-show all’altro, da una trasmissione demenziale all’altra. Il menù è lo stesso dovunque: mariti-mogli, fidanzati che si mandano a quel paese davanti a milioni di telespettatori; politici, attori, assessori alla cultura-esperti d’arte (!) che insultano; veline-schedine-letterine-vallette che s’aggirano esibendo pochi centimetri di stoffa che cerca di coprire il bendiddio; attricette-portavoci che dissertano nei salotti tv di quel poco che sanno e di quel molto che ignorano; grandi fratelli e grandi sorelle che recitano di far finta di essere spontanei. E poi ancora, secchioni-bruttoni che gareggiano in stupidità con bellone-sciacquette; telepremi, lotterie, quiz per semi-ignoranti; e isole, e case, e una noia mortale…
Una tv che vorrebbe essere di continuo intrattenimento ma che si riduce a spazzatura, e che mette in luce i nostri «istinti più bassi»: la stupidità, la collera, l’animalità. Che indubbiamente riflette una parte di noi stessi, come singoli, e una parte come nazione.
E che, per questo, attira, affascina, seduce. E conforma.
È la tv commerciale, studiata per produrre lauti guadagni alle aziende pubblicitarie, alle industrie, alle multinazionali, e ai proprietari delle emittenti, ai loro azionisti, per i canali privati; per incentivare carriere, promozioni, poltrone, ecc.- per quelli pubblici. Ma anche per omologare i gusti e le idee, gli usi e i comportamenti del pubblico. Per renderlo duttile e pronto consumatore, insofferente alla politica e alle scelte nazionali e inteazionali, per indurlo ad accettare soprusi, violenze, ingiustizie e nuove guerre di rapina.
Siamo di fronte a un momento di svolta epocale, non solo per i cambiamenti climatici planetari, ma anche per la democrazia occidentale, per la nostra vita quotidiana.
Tutto ormai passa attraverso l’immagine. Attraverso il tubo catodico.  È la «democrazia del tubo catodico». O la «mediumcrazia». I nostri figli saranno la chiave di volta per comprendere il prossimo futuro dell’umanità. E i nostri figli, con qualche eccellente eccezione, guardano la tv, questa tv, per ore, ogni giorno.

UNA TV DISEDUCATIVA E MANIPOLATRICE

A questi ragazzi, adolescenti, abbiamo chiesto cosa pensano della televisione e quali programmi seguono. L’occasione ci è stata offerta durante un corso di giornalismo che abbiamo svolto presso alcuni istituti scolastici superiori.
Nel corso delle lezioni, abbiamo dato loro qualche elemento del mestiere, e delle tecniche di cui spesso i mezzi di informazione si avvalgono per «manipolare le notizie». Abbiamo parlato della «scomparsa dei fatti a favore dei commenti». Abbiamo creato simulazioni del lavoro in redazione.
E abbiamo discusso, elaborato. E loro hanno scritto, soprattutto di tv. Ne è emerso un quadro complesso. Uno spaccato generazionale interessante.
Nei paragrafi che seguono, proponiamo alcune riflessioni degli allievi di tre classi (III anno) dell’«Istituto tecnico Oscar Romero» di Rivoli, in provincia di Torino. Si tratta di adolescenti di 16-17 anni.

L’ADEGUAMENTO AL POSTO DELL’UTOPIA

Il dato che ci è balzato subito agli occhi è il realismo, la piena, o quasi, consapevolezza da parte di questi ragazzi dei meccanismi della televisione e di quel mondo che essa propaganda.
È disarmante ascoltare ragazzine di 16 anni raccontare che, sì, fare la velina che «sculetta davanti alle telecamere non è molto dignitoso, ma questo le permette di essere conosciuta e di fare carriera in fretta», e allora, «se le cose vanno così, e se per avere successo, e in fretta, bisogna mettere in mostra tette e sederi e andare a letto con persone importanti, perché io dovrei fare diversamente e impiegare vent’anni per arrivare laddove mi sono prefissa?».
Il pensiero maschile non è molto diverso: «Se partecipando a trasmissioni televisive come il Grande Fratello o Amici, ed esibendo muscoli ben palestrati, e cervello poco allenato, io ho successo, perché devo fare tanta fatica in altro modo? Perché seguire strade più faticose e lunghe?».
La coscienza di un sistema fasullo e malato non scatena una reazione eguale e contraria che implica una volontà o un desiderio di cambiamento – azzardiamo, di sovversione – ma, al contrario, in molti casi suscita un totale adeguamento.
Questa, forse, è la più percepibile differenza rispetto alle generazioni passate, dove tra sogni e utopie (poi tutte clamorosamente disilluse), s’intravedevano velleità di cambiamento. Anche qui i sogni ci sono, ma sono quelli che la tv coltiva, amplifica, proietta con forza al di là dello schermo. E sono spesso simili per tutti, come avviene con l’abbigliamento e gli atteggiamenti conformati di molti adolescenti. Manca l’utopia, che ha lasciato il posto al realismo spicciolo, pratico: «Se è necessario, se è richiesto, lo faccio».
Ma la colpa non è certo loro, dei ragazzi: questo è il modello offerto dagli adulti, che l’hanno creato (forse dopo aver visto frantumarsi le giovanili utopie…). E molti vi si adeguano, almeno a parole, senza contestare più di tanto.
Ovviamente, non tutti sono così: né tra gli adolescenti che abbiamo incontrato a Rivoli né in altre zone dell’Italia. Non sono pochi, infatti, quelli che lottano con tutte le forze per cambiare «il marcio che c’è in giro». Lo abbiamo visto con i giovani in Calabria, lo osserviamo con chi si impegna contro le mafie e l’illegalità, o si interessa di ambiente, natura, squilibri nord-sud del mondo, chi fa politica, chi ha una passione profonda (non per il calcio, s’intende!). Laddove ci sono modelli positivi, guide forti da seguire, in casa o nell’ambiente esterno, i giovani si lanciano in coraggiose sfide. Dove c’è il vuoto umano, culturale, sociale, ci sono altri miti: quello della velina e del palestrato o del calciatore, corpi perfetti e pensieri leggeri. Soldi a volontà e riflettori, in stile Francesco Totti-Hilary Blasi, la coppia vincente a livello nazionale.

LA TV SPAZZATURA: ATTRAZIONE IRRESISTIBILE?

La consapevolezza del basso livello e della ripetitività imposti dall’attuale tv – pubblica e commerciale – è piuttosto diffusa. Qualche adolescente arriva a palesare segni di «stanchezza», di tedio. Come Alessia: «(…) cercavo di trovare un programma televisivo “furbo”, che attirasse la mia attenzione… Soap opere, fìction, programmi che, come argomento principale hanno la vita artificiale dei vari vip, sfilate di moda con modelle che rasentano l’anoressia, talk show dove le persone si insultano gratuitamente, notizie artefatte solo per fare ascolti più alti. Spuntano come funghi nuovi reality show (…)». Nuovi nei titoli e nei luoghi, ma i contenuti sono tutti uguali: volgarità, bestemmie, sesso a volontà; sovente i protagonisti sono senza qualità, non sanno ballare, cantare e discutere e per emergere danno il peggio di loro stessi. «Cominciamo veramente a non potee più, considerato che programmi interessanti e ben fatti ne esistono, alcuni però vengono trasmessi in orari impossibili o sono poco pubblicizzati… (…)».
Alessia sembra riuscire a non farsi fagocitare dalla «scatola magica» e a mantenere lucidità, arrivando a consigliare che è «molto meglio spegnere il televisore e rilassarsi in compagnia di un buon libro».
Il senso di fastidio per la volgarità imperante in programma cult domenicali per famiglie medie italiane emerge anche negli scritti di Giulia e Valeria: «Nella trasmissione (del 7 gennaio 2007, ndr) Buona domenica si è parlato dell’impiccagione di Saddam. Alcune persone erano pro e altre contro. Questi ultimi hanno solamente urlato le loro opinioni pur sapendo di essere in onda».
Sulla relazione di interdipendenza tra società e tv, Valentina sembra nutrire pochi dubbi: «Un fattore che influenza molto la gente di oggi è la televisione, da una parte molto utile per informare tutti su quello che accade nel mondo oltre ai giornali, ma in alcuni programmi ci sono veramente scene e avvenimenti orribili!».          
In un’intervista simulata, invece, Simona spiega a Denise: «Non sono un’amante della televisione, preferisco ascoltare musica e leggere. La tv la guardo ogni tanto, quando si trasmette un bel film, a volte i telegiornali, e a volte i video musicali. Mi è però capitato di fare zapping in tv e trovare programmi poco soddisfacenti e dal mio punto di vista poveri di sostanza e di interesse. (…) non sopporto assolutamente le loro finzioni e le liti che si svolgono frequentemente».          
Roberta si chiede: «Le menti che inventano, creano, generano programmi televisivi, hanno perso la fantasia? O meglio, gli italiani si accontentano di tutto ciò che passa sullo schermo del loro televisore? La televisione propone sempre gli stessi programmi, con lo scopo di tenere incollati ad essa tutti gli spettatori, colpendoli con pubblicità, concedendo loro un contentino alla fine, rendendoli soddisfatti e appagati». E poi conclude: «Sinceramente non trovo nulla che la renda insostituibile anzi, sarebbe meglio trovare un modo di decantare le macerie di una televisione ormai corrotta dall’ignoranza collettiva».
Valentina V. è molto netta: «La tv odiea è diventata un contenitore di disinformazione o di informazione manipolata. Nonostante ciò riesce ad accattivare l’interesse di tantissimi giovani e di molte casalinghe. La tv spazzatura si fonda su programmi dal basso contenuto educativo, tali trasmissioni televisive sono quindi volte e rendere le menti degli spettatori sempre più pigre nel ragionamento e più predisposte alla non selezione delle informazioni».

«PIÙ SEI VOLGARE, PIÙ SEI INVITATO»

Anche Denis A. lascia poco spazio alla «compassione» nei confronti dei palinsesti televisivi: «Da qualche anno a questa parte, si è assistito nel mondo televisivo all’intensificazione della tv trash, o spazzatura. Questo fenomeno consiste nella presenza di programmi di bassissimo livello culturale e di utilità sociale, e che però attirano le masse. Basti pensare alla situazione che c’era l’anno scorso nei nostri schermi: su ogni rete trasmittente (Rai e Mediaset) c’era almeno un reality per canale – da Wild West e l’Isola dei famosi su Raidue, a La pupa e il secchione su Mediaset. Il tutto era seguito dagli ulteriori approfondimenti pomeridiani con sintesi della settimana, ecc… Se tutto si limitasse a questo, saremmo tutti felici, ma non basta! Anche alla fine di questi programmi seguono gli show di Costanzo & Company con i concorrenti dei reality che raccontano le loro esperienze e che discutono vivacemente con i loro compagni. È proprio in questo periodo che si è raggiunto il massimo livello di grossolanità nei programmi. Personaggi che si scambiano insulti l’un l’altro e che poi vengono invitati presso altri studi di altri programmi e di altre emittenti, dove raccontano cosa li ha mandati in uno stato di coma cerebrale, dove era solo la lingua a muoversi. Ovviamente in questi programmi non possono mancare altri opinionisti con cui fare battaglia di insulti».
In alcuni scritti emergono giudizi di valore, di tipo etico-morale: «È incredibile come la gente riesca ad accettare alcune parti per diventare famoso – si sorprende Valentina -, ma allo stesso tempo anche a farsi passare per ignorante, come ad esempio le ragazze e i ragazzi che sprecano la loro intelligenza nello show La pupa e il secchione».
«La televisione spazzatura (o tv trash) – sottolinea Marco –  provoca nei telespettatori, in particolare nei giovani una perdita di valori, in particolare di quello culturale. Ne è un esempio il programma televisivo La pupa e il secchione, in cui le belle ragazze, le “pupe” vengono dipinte come “stupide” e i “secchioni” devono essere per forza “brutti”; cosa che insegna a molti giovani che si fanno trascinare da queste idee che essere secchioni è una brutta cosa e che se lo sei, non hai una vita sociale o sei lo “sfìgato” di tuo. Secondo me i reality show o comunque tutti i programmi non educativi o destinati ad una visione unicamente adulta, dovrebbero essere spostati in seconda serata o comunque dopo le undici di sera».
Per Eleonora «i giovani guardano sempre di più la televisione limitando lo studio e le uscite con gli amici e parenti. Alla lista dei programmi spazzatura si stanno aggiungendo programmi volgari e senza alcun senso logico, e mentre le trasmissioni trash aumentano, documentari e telegiornali diminuiscono a vista d’occhio. Lentamente ci stiamo dirigendo verso l’era della televisione che non ci lascerà più tempo per fare altro, saremo talmente persi in quella scatola parlante da non potee più fare a meno. (…) La televisione è lo spettacolo delle vite altrui e gli spettatori persi nella loro insoddisfazione cercano di colmare il vuoto che c’è in loro».
«Se i vostri ragazzi non hanno un buon rendimento scolastico – tuona Carla rivolgendosi direttamente ai genitori – è perché occupano tutto il tempo che stanno a casa per guardare questi programmi che, caso strano, iniziano nel pomeriggio  e finiscono la sera sul tardi. Se i vostri ragazzi sono violenti è perché guardano questi programmi che istigano fortemente alla violenza».
Denis non usa mezzi termini: «La cosa curiosa è che sicuramente questi programmi fanno schifo, ma la stragrande maggioranza della popolazione li guarda con una frequenza record. Sembra che la violenza e la voglia di (cfr ANGELA) il carattere e i modi di fare dei concorrenti sia più forte della ragionevolezza».

CONSAPEVOLI E RASSEGNATI? O SOLTANTO REALISTI?

Chi in un modo chi nell’altro, molti degli studenti delle tre classi III con cui abbiamo lavorato hanno espresso giudizi negativi nei confronti dei programmi tv più di «tendenza» e più seguiti dal pubblico.
Ed è proprio su questo punto che la questione si complica: pur considerati «trash», spazzatura, questi spettacoli riscuotono successo. Fanno «audience», anche tra chi li critica. Quindi, anche tra i ragazzi.
«La domanda da porsi – sbotta Eleonora – è perché nonostante le critiche, che noi stessi facciamo alla televisione, continuiamo a guardarla? Una delle cose più indecenti, è che, chi produce questa tv “spazzatura” ci guadagna incantando milioni di spettatori con programmi che non valgono nulla perché non trasmettono niente».
Per Roberta «il problema è che la maggior parte degli italiani non nega a se stesso il piacere di farsi trasportare in una tv demenziale o banale, pur essendone in parte consapevoli».
Denise e Simona sembrano stupite del fatto che i programmi-spazzatura come i reality «hanno portato a un incremento dei telespettatori, specialmente fra i giovani». E ancora Denise: «Nella mia classe queste trasmissioni vengono molto seguite, e spesso discusse. Mi è capitato di sentire parlare alcune mie compagne scambiandosi informazioni sull’accaduto delle puntate precedenti del programma».
Stefano sembra quasi divertito dall’interesse che certi programmi suscitano: «Uomini e donne (di Maria De Filippi, ndr): Un ragazzo va a cercare la donna della sua vita. Ma… scusate, per cercare la donna della sua vita deve per forza cercarla in uno studio? Ma sai quante donne ci sono nella vita? C’è posta per te, ma ditemi voi cos’è questo “C’e posta per te”. Io non capisco come questi reality riescono ad appassionare milioni di questi telespettatori che vedono, sentono e guardano attentamente cosa combinano gli altri. Sono tutti pazzi».
In un’intervista Linna chiede a Barbara se si ritiene una «spettatrice assidua» e la compagna le risponde: «Sì, assolutamente, credo che se non ci fosse la televisione sarei persa. È diventata realmente un elemento fondamentale della vita quotidiana». E conclude: «Per me è come una droga, ma non penso di essere l’unica a pensarla così».
Molto interessante è questo botta-risposta tra Giulia C. e Margherita:
G.: Cosa intendi per tv «trash»?
M.: Intendo quei programmi che non hanno nessun fine educativo, ed oggi ce ne sono veramente troppi.
G.: Ad esempio?
M.: Ce ne sarebbe una lunga lista: i reality show; Buona Domenica.
G.: Tu che genere di programmi proporresti?
M.: Sarebbe, o meglio, sono più interessanti ed educativi i cartoni animati, e i programmi culturali.
G.: Se posso permettermi… se hai queste opinioni riguardo i programmi televisivi perché ti ostini a guardare la tv?
M.: Non saprei darti una valida risposta ma probabilmente ormai è entrata a far parte della nostra routine e viene automatico guardarla.
G.: Quindi tu sprechi energia elettrica inutilmente?
M.: Effettivamente sì!

LA TV LIBERA LA MENTE? NO, LA COLONIZZA

Talvolta la scelta di incollarsi davanti a programmi-spazzatura è dettata dal semplice desiderio di riposarsi, di «liberare la mente», o di non trovae altri più validi, come racconta Giulia D.P. a Valeria: «A volte capita di vedee uno, ma solo perché in tv non c’è altro di decente, oppure sono trasmessi solo reality».
C’è chi, come Valentina V., si addentra in analisi di tipo antropologico-sociologico: «I generi di programmi prediletti sono i reality show o i talk show, dove gli ascoltatori possono saziare le loro curiosità guardando da vicino la vita di altre persone. È proprio la curiosità innata nell’uomo a renderlo dipendente da una tv estremamente priva di qualsiasi spunto educativo, ma sempre più ricca d’ipocrisia e corruzione. Dalle statistiche e dalle interviste è pervenuto che la maggior parte dei programmi apprezzati sono quelli che permettono alla mente di evadere, quindi che escludono il ragionamento. I lavoratori hanno ammesso in gran parte di preferire l’ascolto di programmi meno articolati poiché tornati a casa dal lavoro hanno voglia di rilassarsi e non di riflettere su tematiche elevate. Così anche gli spettatori dal loro canto non sembrano contrariati dall’assorbimento di informazioni superflue ma, anzi, appaiono consenzienti. Si auspica che non tutti approvino questo bombardamento di notizie leggere, ma che si ribellino poiché una televisione così strutturata esaurisce la sua utilità di media».
Forse è proprio quel «danno il peggio di loro stessi», di cui parla Alessia nel suo scritto in riferimento ai protagonisti dei reality, a costituire la chiave di lettura del successo della tv trash: nei vizi pubblici, nella rozzezza elevata a sistema nei rapporti interpersonali, il telespettatore medio proietta se stesso e, specchiandosi, si perdona e, alla fine, si piace pure. Ne è convinta anche Debora: «Non c’è che dire, chi ha creato il programma ha messo in piedi, con una notevole arguzia, un business incredibilmente redditizio: ha posto l’italiano davanti ai suoi peggiori difetti, ed ha ottenuto perfino che ne ridesse con gusto».
Vanessa sostiene che nel Grande Fratello «ciascun telespettatore ha la possibilità di identificarsi in qualche modo nelle aspirazioni e nelle inevitabili disillusioni di personaggi “normali”, tratti dalla vita reale».
Tuttavia, non bisogna dimenticare l’«insegnamento» che veline-letterine-schedine e palestrati offrono ai ragazzi che li guardano in tv: «Se ti spogli, se ti esibisci davanti alle telecamere hai la carriera garantita e senza faticare tanto sui libri. Anche se sei una con poco cervello, ma sei bella e disponibile, le porte ti si apriranno». Alessia è molto critica: «Questi ragazzi ci vanno perché pensano che questo programma sia un “trampolino” di lancio  per una carriera televisiva… io penso che per condurre un programma o recitare in una fiction piuttosto che in un film, bisogna avere delle basi e sapere ad esempio recitare, avere quindi fatto una scuola o un corso. (…) Con questo tipo di programma viene lanciato un semplice messaggio: «Sono diventate in breve tempo l’idolo di alcune ragazze. Perché pur essendo ignoranti (si riferisce a “La pupa e il secchione”, ndr) vengono imitate in alcuni programmi e vengono anche fatte discutere su alcuni problemi. Grazie a questi programmi adesso in tv avremo solo ragazze ignoranti, che fanno degli stacchetti e dei calendari».
Nel dialogo tra Linna e Barbara, la prima chiede: «Esiste secondo te qualcosa per combattere questo fenomeno?», e la seconda risponde quasi con cinismo: «Penso proprio di no. Come ho detto prima penso che sia questa la televisione che piace (reality show ecc….) se si mettessero a confronto programmi culturali o programmi detti “demenziali” non ci sarebbero dubbi sui vincitori».
Per Valentina non sembrano possibili cambiamenti positivi. Lo scenario che percepisce non dà speranza, e allora, tanto vale smetterla di prendersela, anche se non è scontato che per lei sarà così: «Non resta che rassegnarsi perché questi saranno i programmi che proprio non verranno mai tolti dalla televisione poiché attirano troppi ascolti, anzi si arriverà addirittura a diminuire lo spazio dedicato a programmi intelligenti (telegiornali, programmi culturali ecc..) per inventae di nuovi, magari anche più sciocchi!».
Come conclusione di questa carrellata di scritti, riflessioni e discussioni, proponiamo i «consigli» di Carla: «Cari signori, penso che spetti a noi decidere se essere stupidi o no, ma soprattutto miei cari genitori se volete dei figli più seri e intelligenti non abbandonateli davanti al televisore perché siete stanchi, ma dedicategli più tempo giocando con loro». 

Di Angela Lano

Angela Lano




La prevalenza dell’«homo videns»

Introduzione

Secondo la rivista scientifica Biologist, in Gran Bretagna i bambini di 6 anni hanno già passato in media un anno a guardare la televisione. Questa teledipendenza produrrebbe deficit visivo, obesità, autismo, alterazione dei ritmi biologici di sonno-veglia (1). D’altra parte, per capire l’invadenza della televisione nella vita quotidiana, è sufficiente osservare l’evoluzione delle sue dimensioni fisiche. I televisori sono talmente grandi che le persone sembrano uscire dallo schermo. Oppure sono talmente piccoli (si pensi ai videofonini), che possono stare in una tasca. Sia in un caso che nell’altro, la televisione «entra» nella vita delle persone. Se si ascoltano le sirene della pubblicità, questo è un vantaggio che il progresso ci regala. Se invece si fanno prevalere l’intelligenza e la razionalità, le cose non stanno proprio così.

Il Grande Fratello e la globalizzazione del trash

La cosa che più impressiona è la globalizzazione del trash televisivo. Attraverso i format (2), in mezzo mondo si vedono gli stessi programmi (magari adattati all’audience nazionale) e soprattutto gli stessi reality show o reality game. Ecco qualche titolo.
Uno dei format più famosi è il Grande Fratello (in inglese Big Brother, in spagnolo Gran Hermano), proprietà della società olandese Endemol. Vari programmi di quiz – Il prezzo è giusto, La ruota della fortuna, ecc. – sono stati prodotti dall’australiana Grundy, oggi proprietà del colosso tedesco Bertelsmann. Alla Grundy-Bertelsmann si debbono anche il reality show West Wild West e l’impossibile Distraction, condotto da Enrico Papi, che già aveva avuto la conduzione de La pupa e il secchione, format sessista della società statunitense The WB Television.
Altri reality noti della televisione italiana sono L’isola dei famosi (Rai), La fattoria (Mediaset) e La talpa (Mediaset). Questi programmi hanno come protagonisti personaggi noti, tali da garantire un adeguato ritorno pubblicitario. Sono programmi che non faticano a trovare autogiustificazioni alla loro esistenza. Sono programmi infarciti di pubblicità (diretta o indiretta), di luoghi comuni, di divismo ridicolo. Con l’aggravante di essere girati in luoghi naturali affascinanti – gli ultimi sono stati l’Honduras, il Marocco, il Kenya -, che vengono «usati» con l’arroganza tipica dei ricchi e potenti verso i meno fortunati.   
Non mancano neppure i programmi sui «buoni sentimenti», l’«amore» e le «lacrime»: Uomini e donne (Mediaset), C’è posta per te (Mediaset), Stranamore (Mediaset), Amici di sera (Mediaset). Insomma, parafrasando uno slogan, in televisione c’è di tutto e di più.
Si dice che questi programmi vogliono regalare momenti di serenità, facendo evadere da una realtà spesso faticosa o insopportabile. Nessuno nega che la televisione possa perseguire anche una finalità di questo tipo. Ma quando questo obiettivo diventa prevalente, la finzione (attenzione a questo termine!) televisiva finisce con il sostituirsi alla realtà, che diventa secondaria.

La pubblicità snatura l’informazione (o la uccide)
Abbiamo già introdotto il tema della pubblicità. Ebbene, una delle regole fondamentali di chi fa informazione dovrebbe essere quella di tenere ben distinte informazione e pubblicità. Invece, da una parte la pubblicità sta soffocando l’informazione; dall’altra, dove la pubblicità viene a mancare (come nei media più deboli) l’informazione rischia di scomparire per carenza di risorse economiche.  Insomma, in un caso o nell’altro, l’informazione si dibatte in un circolo mortale.
La conseguenza ultima, in atto in tutto il mondo, è la concentrazione dei media nelle mani di poche multinazionali dell’informazione e della comunicazione. Si pensi all’impero mediatico di Rupert Murdoch, che spazia dall’Australia agli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna all’Italia (dove possiede la televisione satellitare Sky).
Ora, la prima conseguenza della concentrazione è la riduzione del pluralismo (esempio: se tutti i principali telegiornali dicono che i cattivi sono quello stato o quel gruppo, è evidente che con più difficoltà il pubblico potrà elaborare un’idea diversa; è accaduto per tutte le ultime guerre dall’Afghanistan all’Iraq, dal Libano alla Somalia fino al possibile, prossimo attacco all’Iran). D’altra parte, la crescita di potere delle multinazionali produce altre gravi conseguenze: la sottomissione dell’informazione al potere economico (esempio: «se parlate male di quell’industria, di quella banca, di quel farmaco, di quella grande opera, di quel fondo d’investimento o di quella privatizzazione, i vostri posti di lavoro saranno a rischio»; «se scrivete che i Suv sono una mostruosità ambientale, il nostro ufficio marketing si rivolgerà ai vostri concorrenti») (3) da cui – nessun dubbio al riguardo – dipende il potere politico (esempio: «se tu politico ti schieri diversamente, io ordino ai miei giornali e alle mie televisioni di fare una campagna contro di te e il tuo partito»).  
Ancora più complesso è il caso italiano. In Italia, infatti, forse non sarà mai possibile una riforma del sistema della comunicazione e in particolare del sistema televisivo. E il motivo è presto detto: chi è da tempo sul mercato (la Rai, ma soprattutto Mediaset), non vuole perdere neppure una fettina della torta pubblicitaria di cui si è impossessato. Con una duplice conseguenza: i programmi (in primis, quelli di Mediaset) trasudano pubblicità e gli altri media (in particolare, la stampa) non raccolgono pubblicità sufficiente a far quadrare i bilanci, mettendo quindi a rischio la loro indipendenza o, per i più piccoli tra essi, la loro stessa sopravvivenza.

Leggere o vedere? Vedere, vedere, vedere
Toiamo alla tv e cerchiamo di capire perché ha surclassato gli altri media. La prima risposta è (apparentemente) facile facile: leggere costa più fatica che guardare.
Come ha splendidamente spiegato Giovanni Sartori: «La televisione – lo dice il nome – è “vedere da lontano” (tele), e cioè portare al cospetto di un pubblico di spettatori cose da vedere da dovunque, da qualsiasi luogo e distanza. E nella televisione il vedere prevale sul parlare, nel senso che la voce in campo, o di un parlante, è secondaria, sta in funzione dell’immagine, commenta l’immagine. Ne consegue che il telespettatore è più un animale vedente che non un animale simbolico. Per lui le cose raffigurate in immagini contano e pesano più delle cose dette in parole. E questo è un radicale rovesciamento di direzione, perché mentre la capacità simbolica distanzia l’homo sapiens dall’animale, il vedere lo riavvicina alle sue capacità ancestrali, al genere di cui l’homo sapiens è specie» (4). Insomma, «l’homo sapiens viene soppiantato dall’homo videns».
In Italia, il Censis distingue 5 categorie di utenti dei media: i pionieri (con 8 o più diversi media), gli onnivori (con 6-7 media), i consumatori medi (con 4-5 media), i poveri di media (con 2-3 media) e i marginali (con un solo mezzo).  Tra i marginali, la categoria meno evoluta di utenti dei media, la televisione è il mezzo nettamente prevalente. Nel 2006, la popolazione italiana ha usato la televisione (94,4%), i quotidiani (59,1%), i libri (55,3%), internet (37,6%). La televisione, dunque, vince alla grande, ma – dicono le indagini – il grado di soddisfazione degli utenti è modesto (5).
Lo strapotere della televisione è chiarito dai numeri. Nel 2006 il quotidiano più letto d’Italia è stato La Repubblica, con una media giornaliera di 3.015.000  lettori (6). Confrontiamo questo dato con alcuni dati televisivi relativi al 21 e 22 febbraio: il Tg2 delle 20.30 ha avuto un’audience di 3.131.000 spettatori; il programma di intrattenimento Cultura modea slurp ha avuto 5.519.000 e il reality show Grande Fratello è arrivato a 5.693.000 spettatori (7).

L’obiettività? Non esiste
Altra risposta per spiegare la vittoria della televisione sugli altri media, potrebbe essere quella di una maggiore credibilità della tv.
Sfortunatamente, l’obiettività non esiste. Non può esistere. Tanto meno in televisione. Scrive Claudio Fracassi: «La distinzione, necessaria ma non ovvia, tra fatti e notizie, tra realtà e racconto, si confonde quando – attraverso la tv – siamo messi apparentemente in grado di vedere i fatti, e quindi di viverli direttamente. L’immagine – essa stessa frutto di una scelta (quella certa fetta di realtà, quella certa inquadratura) – ha assunto la forza propria della concretezza e della verità.  (…) Eppure dovrebbe essere evidente che l’immagine della cosa non è la cosa, né può sostituirsi ad essa» (8).
«La televisione – scrive la psicologa Anna Oliverio Ferraris – ha l’ambizione di mostrare la realtà. Ma mentre la mostra la filtra, la trasforma. E lo fa secondo le proprie regole. Secondo la propria ottica. (…) Purtroppo però la gente, molta gente, crede ciecamente a ciò che vede in tv, soprattutto nei Tg grazie al clima di autorevolezza che li circonda. (…) Prendiamo il caso dell’uomo politico che, nel corso di una manifestazione, si trovi al centro delle proteste di un gruppo di cittadini: il giornalista, insieme all’operatore, può decidere di mostrare, attraverso le immagini e il più fedelmente possibile, ciò che sta avvenendo indipendentemente dalle proprie simpatie politiche; oppure può accentuare la protesta inquadrando soltanto il gruppo dei contestatori e non il resto dei partecipanti; può anche, al contrario, ridurre le immagini della protesta confinandola a un impercettibile sottofondo mostrando soprattutto primi piani del politico mentre, sorridente, riceve gli applausi della folla» (9).

Se i fatti diventano irrilevanti
Dopo aver parlato tanto male della televisione (meglio: di questa televisione), uno si chiede se i media scritti siano migliori e più affidabili della tv. La risposta è «no». Per raccogliere acquirenti, i giornali imitano la tv e scelgono di stupire, a qualsiasi costo. Emblematico l’esempio di Libero, uno dei pochi quotidiani italiani che negli ultimi anni ha conquistato lettori (probabilmente proprio per la sua volgarità). Così, nel numero del 22 febbraio, il giorno seguente alla caduta del governo Prodi, il quotidiano di Vittorio Feltri, per esteare la propria gioia, ha fatto una prima pagina di bassissima pornografia (10).
Lo stato dell’informazione in Italia è analizzato, senza fare sconti, da Marco Travaglio nel suo ultimo libro (11). «C’è chi nasconde i fatti – scrive il giornalista – perché non li conosce, è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, di informarsi, di aggioarsi. C’è chi nasconde i fatti perché ha paura delle querele, delle cause civili, delle richieste di risarcimento miliardarie, che mettono a rischio lo stipendio e attirano i fulmini dell’editore, stufo di pagare gli avvocati per qualche rompi… in redazione. C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti, dove s’incontrano sempre leader di destra e leader di sinistra, controllori e controllati, guardie e ladri, prostitute e cardinali, principi e rivoluzionari, fascisti ed ex lottatori continui, dove tutti sono amici di tutti ed è meglio non scontentare nessuno. C’è chi nasconde i fatti perché contraddicono la linea del giornale. C’è chi nasconde i fatti anche a se stesso perché ha paura di dover cambiare opinione».

Anno 2040: la morte dei giornali
«La stampa scritta – ha riconosciuto con preoccupazione Ignacio Ramonet, direttore del prestigioso mensile Le Monde Diplomatique – sta attraversando la crisi peggiore della sua storia» (12).
Per non soccombere, i media tradizionali si sono dovuti reinventare (vendendo il giornale assieme a svariati gadget: libri di ogni fatta, cd, video, ma anche orologi, magliette ecc.) oppure adattarsi ad una mera logica mercantile (che guarda al profitto e non alla qualità dell’informazione). «Forse la logica mercantile e del profitto fine a se stesso ha preso il sopravvento sulle altre funzioni dei mass media», conclude amaramente Giuseppe Altamore. Comunque, la morte dei giornali e dei media scritti in generale è stata prevista per il 2040.

Persi tra telecomandi,  MP3 ed Sms
«Il mondo di oggi – scrive John Pilger – è pieno di illusioni. La prima di tutte consiste nel credere che viviamo nell’”era dell’informazione”. In realtà ci muoviamo nell’era dei media, un’epoca caratterizzata da un apparente eccesso di informazioni, che di fatto non è altro che la ripetizione di notizie rigorosamente controllate, quindi non pericolose» (13).
Lo scorso 15 febbraio è morto negli Stati Uniti Robert Adler, lo scienziato che nel 1956 inventò il telecomando, uno strumento che non è esagerato definire rivoluzionario. Uno strumento essenziale per fare zapping. Lo spettatore che cambia di continuo canale televisivo (zapper) è come l’utente che cambia di continuo il sito web o il brano sull’I-pod. Per questo, con il diffondersi delle nuove tecnologie e del bombardamento di notizie (information overload), si è iniziato a discutere di «economia dell’attenzione».
Per esempio, mentre legge queste righe uno studente può – contemporaneamente – spedire un Sms ed ascoltare una canzone sul lettore MP3. Ma alla fine cosa gli sarà rimasto in testa? Gli esperti dicono che il nostro cervello è flessibile (soprattutto quello delle donne) e capace di suddividere l’attenzione su molteplici attività, ma che nessuna di queste va a fissarsi sulla memoria a lungo termine.  
Questo dossier andrà in alcune scuole superiori, anche perché prende spunto da una serie di temi scolastici sulla televisione. E allora auguriamoci che sia letto e discusso da molti giovani. Magari mettendo da parte, almeno per qualche momento, il cellulare o il telecomando. Anzi, osiamo di più: speriamo che, dopo aver letto, qualcuno di loro riuscirà a ridere di un programma spazzatura, a guardare con sospetto ad una pubblicità, ad ascoltare criticamente un telegiornale o, magari, a spegnere la televisione.  

 Paolo Moiola


Note:
(1) Citato da Daniele Damele, Università di Udine.
(2) Si veda il glossario finale. Sito: www.tvformats.com.
(3) Si veda l’illuminante saggio di Giuseppe Altamore, I padroni delle notizie, Bruno Mondadori Editore 2006. A pagina 41 di questo dossier un’intervista all’autore.
(4) Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Editori Laterza 1997.
(5) Pasquale Borgomeo, Le diete mediatiche degli italiani, in «La civiltà cattolica», 3 febbraio 2007. Si tratta di un commento ai dati del Censis.
(6) Dati Audipress, seconda indagine 2006. Va precisato che gli acquirenti sono sempre in numero inferiore ai lettori. Ad esempio, con 3 milioni di lettori La Repubblica vende circa 600.000 copie al giorno.
(7) Questi dati – riferiti al 21 e 22 febbraio 2007 – sono facilmente reperibili sul sito di Auditel: www.auditel.it.
(8) Claudio Fracassi, Sotto la notizia niente. Saggio sull’informazione planetaria, I libri dell’Altritalia, 1994; un saggio vecchio di qualche anno, ma sempre attuale e certamente utile per un percorso didattico sui media e l’informazione.
(9) Anna Oliverio Ferraris, Grammatica televisiva. Pro e contro la Tv, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
(10) Ciò non ha impedito al suo direttore di continuare a pontificare da tutti i canali televisivi, di cui è un assiduo frequentatore.
(11) Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti, Editrice Il Saggiatore, Milano 2006.
(12) Ignacio Ramonet, Minacce all’informazione, Le Monde Diplomatique, gennaio 2007.
(13) John Pilger, Sydney Moing Herald, 28 dicembre 1995, ripreso dal settimanale Internazionale, marzo 1996.

Paolo Moiola




Proibito … sognare

Ricordi del passato e realtà presente … a confronto

A 10 anni di distanza non sono molte le cose cambiate in Eritrea. Anzi, sotto alcuni aspetti la situazione è peggiorata. Rimangono intatti i ricordi dell’ospitalità goduta e le amicizie intessute nei precedenti viaggi.

Avevo un certo timore nel ritornare in Eritrea dopo 10 anni di assenza, dal momento che più volte, rivisitando alcuni paesi a distanza di tempo, ho visto aumentata la povertà e, di conseguenza, diminuita la dignità delle persone. Questa volta l’impatto è stato forte, per il numero dei mendicanti e per l’aspetto macilento e sofferente delle persone, soprattutto anziani e donne.

PER LE VIE DI ASMARA

All’Asmara sono rimasta interdetta: qualcosa è cambiato, ma non molto. La città ha conservato il fascino dell’architettura italiana del primo Novecento, anche se in periferia sono stati costruiti alti edifici in cemento.
Sui gradini delle chiese la notte si vedono dormire i bambini, ammucchiati uno sull’altro  per riscaldarsi, come fanno i gatti. Sono loro, i bambini di strada, che soffrono l’abbandono e la fame. Poi gli anziani, quelli soli, che hanno perso i figli morti in guerra; donne che restano per ore accoccolate lungo il muro della chiesa, avvolte nel velo bianco, il viso rugoso e stanco. Una di esse ha le mani rose dalla lebbra.
Nei quartieri centrali della capitale, invece, un tempo riservati agli italiani,  passano gruppi di giovani ben vestiti e studenti con le uniformi delle scuole di stato. Sono stati aperti nuovi locali,  caffè e pasticcerie; l’atmosfera è serena e anche la notte si gira per le strade in tutta sicurezza.
La polizia è sempre presente, anche in borghese. Sono più volte fermata, mentre cerco di fotografare gli edifici d’epoca coloniale, rimasti intatti, ora passati allo stato e utilizzati come uffici pubblici.
Nei nuovi negozi di elettronica e di elettrodomestici, come pure nelle farmacie, c’è abbondanza di prodotti impensabili 10 anni fa. I numerosi  internet café sono affollati, anche se per avere una connessione ci vogliono ore. Ho aspettato inutilmente in fila per inviare un messaggio a casa; ho anche provato con difficoltà a collegarmi  per telefono. Questo paese mi pare il più isolato e chiuso: la gioventù sogna di aprirsi e comunicare col mondo e il regime blocca ogni aspirazione e movimento. Gli stranieri, poi, sono sorvegliati speciali: per muoversi da una città all’altra occorre il permesso della polizia.
Il settore indigeno di Asmara è rimasto intatto, con i mercati e il caravanserraglio denso di attività, rumori e odori. Sono salita  sulla collina di Nda Mariam: la cattedrale ortodossa al tramonto è un trionfo di luce e colori. Vecchie grinzose, sedute contro il muro della torre, si godono l’ultimo sole, curiose di vedermi tra loro. Rimango incantata, come tanti anni fa, osservando i fedeli  prostrati davanti il portale e quelli che pregano col capo appoggiato al muro. Passa un sacerdote e una donna si inchina a baciare la croce.
Le ombre si allungano e il vasto piazzale è un’oasi di serenità, con i muri fioriti, il via vai di fedeli tra i vari edifici, ideati da un italiano, ispirato, nella sua opera di architetto,  dai motivi tradizionali eritrei.

FRANCO RITORNA

Franco è appassionato di internet, di fotografia e della Dankalia, regione estremamente inospitale, situata in una depressione tra il Mar Rosso e l’Etiopia; terra di vulcani e laghi salati, che conosce molto bene. Sta preparandosi alla prossima spedizione, con un gruppo di antropologi toscani che da anni studiano e ricercano le tracce di uomini primitivi.
Italiano naturalizzato eritreo, Franco è nato e vissuto qui fino al 1973, quando gli italiani vennero espulsi. «Mio nonno, originario  della provincia di Lecco, giunse in Africa nel 1890 con l’intenzione di raggiungere il Congo. Sbarcato a Massawa, si arrampicò a dorso di mulo fin sull’altopiano e in Congo non ci arrivò mai, perché decise di stabilirsi qui, all’Asmara». Franco parla arabo e tigrigno, ha frequentato le scuole italiane e conosce quasi tutti in città. Appena ha potuto è ritornato in Eritrea, per nostalgia del paese e anche perché in Italia aveva trovato difficile inserirsi.
Con internet ora si può collegare con gli amici italiani e lavorare sulle impressionanti foto prese nella depressione dancala.
Parte della casa di famiglia è stata venduta; ora gli rimangono poche stanze; ma il piccolo giardino è un orto botanico, curato da Franco con vera passione in questo bel clima di eterna primavera. Piante endemiche e altre esotiche come l’araucaria e la ginko, che non so come potranno trovare spazio per svilupparsi. La jacaranda è stata potata drasticamente, perché copriva tutto il tetto, che dovrebbe essere riparato. Durante la stagione estiva delle piogge, la lamiera arrugginita lascia filtrare l’acqua, che gonfia pareti e soffitti.

SUOR ZAUDI

Le ho telefonato e lei ha subito deciso di raggiungermi all’Asmara, prendendo la prima corriera da Keren, dove lavora con le orfane. Ci eravamo conosciute proprio a Keren, nel ’95, durante il viaggio che avevo fatto con i padri cappuccini per raggiungere il bassopiano e seguire le feste tradizionali di Tesseney e Barentu.
L’anno successivo ero ritornata per restare più a lungo con queste meravigliose suore di Sant’Anna e apprezzare il loro prezioso lavoro. Mi ero anche presa la malaria, un’esperienza forte, che  mi aveva fatto capire il paese e la sua gente meglio di tanti viaggi. Quando pochi anni dopo  suor Zaudì venne mandata a Roma per studiare, mi raggiunse a Torino per un periodo di vacanza.
Abbiamo tante cose da dirci e da ricordare. Le bambine di casa Foca,  le orfanelle di Keren che avevo conosciuto allora, sono sposate con figli e Zaudì ha sempre lo stesso sorriso dolcissimo. Parliamo di Akrur, il remoto villaggio con la bella chiesa di san Giustino, che avevo visitato con le sue consorelle e dove avevo deciso di costruire un pozzo per portare l’acqua. Pare che la situazione sia molto migliorata per gli abitanti, ma è difficile poterlo raggiungere, non ci sono mezzi pubblici e occorre un fuori strada.

VIAGGIO A MASSAWA

Alganesh  mi ha tenuto un posto accanto a lei, in prima fila sul pulmino di fabbricazione giapponese che ci porterà a Massawa. Ha 24 anni e l’aspetto di una donna forte e indipendente. Il viaggio dura poco più di tre ore, con la sosta a Ghinda per un tè.
Sono scomparse le vecchie corriere, importate dall’Italia e molto malandate, e lontano è il ricordo del mio primo viaggio, nel 1995, durato 11 ore a causa di lavori in corso. La strada è stata allargata e consente di andare veloci, lungo i tornanti che scendono ripidi tra i monti aridi e pietrosi. Babbuini curiosi ci osservano tra le acacie; passano piccole carovane con cammelli e capre. Donne ricurve trasportano sul dorso mucchi di legna, taniche d’acqua riempite alle rare fonti.  Intanto sul pulmino vedo salire e scendere contadini e pastori, che approfittano di brevi passaggi. 
Alganesh è felice di raccontare la sua vita. Due anni e mezzo di duro servizio militare le hanno consentito di accedere poi alla facoltà di economia, laurearsi e ottenere un posto di lavoro statale.
Domani è domenica, 7 gennaio, natale per gli ortodossi. Alganesh, come gli altri viaggiatori, sta ritornando a casa dai suoi per festeggiare e mi invita a unirmi alla sua famiglia, per il pranzo tradizionale. Pochi saranno in grado domani di uccidere l’agnello, i prezzi sono saliti troppo, ci si accontenta di shirò e ngera, con contorno di verdure.

MASSAWA

Ho trovato l’antica città silenziosa e melanconica. Nel ’95, terminata la guerra con l’Etiopia, ero rimasta affascinata da quest’isola, duramente colpita dai bombardamenti. Era piena di calore, di odori, di gente affaccendata. Si iniziava allora a restaurare le preziose case di madrepora, in stile arabo-turco. Ora vedo che gran parte delle case è in uno stato penoso di abbandono e alcune stanno per crollare.
Hanno spianato la zona del lungomare, dove sorgevano i capannoni delle barche e alcune belle case. Molta gente deve essersi  spostata in terraferma, dove è sorta una vasta zona di baracche, fatte di assi, corde e lamiere.
Questa sera c’è la luna piena, momento magico per questa città. La luce bianca fa risaltare i merletti dei palazzi, nascondendone le ferite.
Trovo un solo uscio aperto sulla via, con una donna intenta a preparare la cerimonia del caffè. Ricordo il profumo dell’incenso che riempiva i vicoli, ancora pieni di vita. Io sostavo, invitata a gustare il caffè, seduta su piccoli sgabelli accanto a mamme occupate a dare l’ultima poppata al loro piccolo.
Brhane non lavora più al bar Savoia, che trovo già chiuso. Ci incontriamo al molo, dove ora fa il guardiano, la notte. Fatica a riconoscermi, poi ci abbracciamo. Chiedo della figlia, allora era una ragazzina bella e gentile, unica superstite della famiglia. La moglie e i quattro figli di Brhane furono uccisi dalle bombe etiopi.
«Portala in Italia con te!» mi aveva supplicato allora, questo vecchio malconcio, i denti guasti e gli occhi malati. È magrissimo, sotto gli abiti logori da far paura. Ora ci sono quattro bimbi da crescere e il marito della figlia è scappato in America e non si fa più sentire.
Situazione che pare essere comune oggi nelle giovani famiglie, dove gli uomini sono costretti a fare il servizio militare e appena possono scappano. Chi riesce a raggiungere il Sudan e successivamente la Libia, si dirige verso le coste italiane. Disperati, ma decisi a fuggire da un paese che non vuole ancora parlare di pace.  La frontiera con l’Etiopia non è definita e la guerra incombe. Dovevano esserci libere elezioni, dieci anni fa. Il presidente è sempre lui, combattente eroe di guerra, che ora si può definire un dittatore.
 Taulud è  l’isola degli edifici eleganti, dove gli italiani avevano le ville più belle. Quella dei Melotti, proprietari della famosa fabbrica di birra, è stata rasa al suolo solo l’anno scorso. Un dispetto? Direi un gran peccato, era opera di un bravo architetto, in stile africano, sul mare, con molo privato e parco. Accanto c’è la villetta dove il presidente trascorre i fine settimana e le vacanze, ma non mi posso avvicinare, la polizia mi ferma.
Il palazzo del sultano ha squarci nelle cupole e lo scalone va in rovina. Il degrado pare irrimediabile, ma qualcuno ha autorizzato un’impresa coreana a costruire non lontano due orribili edifici a sei piani, in cemento armato grigio.
Una piacevole sorpresa è stato il pronto soccorso dell’ospedale, dove ho trovato assistenza gratuita in un ambiente moderno e pulito per un piccolo incidente avuto sulle isole. Sono stati costruiti ospedali nuovi di stato anche all’Asmara, Ghinda e Keren. Bisogna riconoscere che per la sanità, come per i trasporti pubblici,  c’è stato un grande sforzo da parte del governo. Le spese militari sono comunque molto pesanti e condizionano l’economia del paese.

L’ISOLA VERDE

«Il mio paese ha sempre fatto una politica imperialistica, di aggressione: dalle Filippine al Sud America, poi il Vietnam e ora l’Iraq». Michel viene da Berkley, Califoia, e ha le idee chiare in fatto di politica. Esperto in energia alternativa, lavora per il governo eritreo nell’installazione di  pannelli e collettori solari per portare l’elettricità nei villaggi più remoti.
Ci siamo incontrati sull’Isola Verde, un lembo di sabbia che affiora nel mare di fronte a Massawa. Un luogo magico, dove numerose colonie di uccelli marini vivono e nidificano indisturbate.
Il rudere di un’antica moschea è circondato da dense mangrovie e si specchia sul mare che racchiude le meraviglie della barriera corallina. Siamo sbarcati qui dopo aver attraversato in pochi minuti il canale che ci separa dalla città, ancora ingombro di relitti della guerra. Michel e i suoi colleghi sono felici di essere in Eritrea, un paese così diverso dagli altri paesi africani, affascinante per i ritmi sereni di vita e per l’atmosfera ancora italiana delle città.

ISOLE DAHALK

È un arcipelago al largo di Massawa, con una lunga storia: contese a lungo tra abissini e arabi, le isole furono nei secoli un importante scalo per le navi dirette in India, luogo di confino per gli avversari dei califfi e successivamente centro di studi coranici.
Il tempo è molto brutto, tira vento, il mare è mosso, tanto che anche il cuoco, un anziano sottile dal viso rugoso, soffre il mal di mare. Arriva da Assab e ha sempre lavorato su grandi bastimenti.
La nostra è una piccola barca a motore. Portiamo con noi tende e rifoimenti per poter trascorrere quattro giorni sulle isole, che emergono di pochi metri dalla superficie del mare, banchi di sabbia corallina, circondate da barriere ricchissime di vita.  Il plancton è molto abbondante e  i pesci colorati hanno dimensioni enormi. Trigoni, squali e tartarughe sono frequenti da osservare, ma bisogna sapere bene dove immergersi.
Ci fermiamo a Dissei, l’unica delle isole Dahlak di origine vulcanica.  Un minuscolo villaggio di poche capanne è abitato dagli afar, gente proveniente dalla Dankalia.
Ho portato con me la foto scattata qui dieci anni fa. Barbarossa, il capovillaggio,  era seduto davanti alla capanna e mi offriva polipo fritto in una ciotola. Ora non c’è più, è morto due anni fa; ma sua figlia mi vuole vedere e mi invita nella sua casa, fatta di pali di acacia contorti. La cucina è separata dalla camera, dove ci sono due letti alti, in legno e stuoia, con le leggere coperte bianche ricamate a punto croce; letti identici a quelli visti nelle case di Zebid e Hays, nello Yemen. La regione yemenita della Tihama e l’Eritrea si affacciano sullo stesso mare e da sempre hanno avuto rapporti culturali e commerciali.
Gli uomini parlano italiano: da piccoli erano stati mandati a studiare a Massawa, nelle scuole elementari delle suore di Sant’Anna.
Dall’altra parte dell’isola si intravede un villaggio turistico in costruzione, fatto da capanni in cemento. Forse il turismo potrebbe aprire la società eritrea, ma la gente del luogo è sospettosa: si dice che tale progetto appartenga a un eritreo, arricchitosi in Italia con la gestione di una larga rete di venditori ambulanti, e sia appoggiato dal fratello di un politico italiano, amico del presidente eritreo.   n

Claudia Caramanti




Annuncio in profondità

Aprirà a Dar es Salaam un nuovo Centro di animazione missionaria

Evangelizzare «in profondità» è l’imperativo dato dalla Conferenza Episcopale del Tanzania ai cristiani del paese.  Come? Serve un «faro di missionarietà» per orientarsi fra le tante sfide che il mondo contemporaneo propone al continente africano e alla fede della sua gente. I missionari della Consolata ne hanno individuato uno e confidano sia quello giusto.

Dar es Salaam è una città costiera che si affaccia sull’Oceano Indiano. Sulla costa i fari abbondano. Non lontano dal mare, su un territorio rubato alla steppa e suddiviso dal governo in migliaia di lotti, si aggiunge un faro nuovo ma diverso. La sua luce non è per aiutare i pescatori a giungere a riva. La sua luce è per condurre al largo, al mondo: un faro di missionarietà!
La lettera apostolica Novo Millennio Ineunte di papa Giovanni Paolo II ci invitava ad iniziare il terzo millennio nella contemplazione del volto di Cristo. Una contemplazione che fluisse in santità di vita, entusiasmo rinnovato, annuncio fervoroso, testimonianza cristallina, fantasia di carità, e iniziative concrete per la missione… in profondità ed estensione. Difatti, il biblico Duc in altum, più volte ripetuto nella lettera, ha nel vangelo di Luca un duplice significato: avanzare in acque profonde e prendere il largo. Si tratta, quindi, di una missione all’interno della chiesa, sempre discepola e serva della Parola, che ha come scopo quello di far vivere la fede in profondità e con coerenza. Ma è pure una missione rivolta ai popoli, affinché riconoscano nel Cristo il Salvatore, perfezionamento di tutti i valori religiosi e culturali. La doverosa stima per questi non deve far dimenticare il mandato evangelico dell’universalità, pur lasciando che i semi di vangelo sparsi nel corso dei secoli maturino secondo i  tempi di Dio.
Per carisma i missionari e le missionarie sono votati alla missione ad gentes, cioè a testimoniare ed annunciare il vangelo nelle situazioni prive o povere del Verbo di Dio, parola che salva e nobilita l’umanità. Dove è possibile lo fanno in cooperazione, affinché la missione sia più ricca e assuma il volto paterno e materno di Dio. Annunciare, difatti, è sempre un partorire, come afferma l’apostolo Paolo parlando di se stesso nelle lettere scritte  ai Galati e ai Corinzi.
Con lo spirito e le caratteristiche ereditate dal Beato Allamano lo fanno i missionari della Consolata, attraverso molteplici attività che mirano ad educare, formare e trasformare. Lo fanno inserendosi in situazioni di estrema indigenza e accompagnando minoranze trascurate o in contesti che hanno ragion d’essere nella sola testimonianza silenziosa o nel dialogo interreligioso. La missione ad gentes, a tutti i popoli, non è univoca, ma ha più volti e più vie, che mutano con la storia e le sue sollecitazioni. Una cosa è certa: che la missione è obbedienza al comando esplicito del Risorto, e ha valore perenne. La staticità è morte, mentre il pellegrinaggio per le vie del mondo è vita. La chiusura è suicidio, mentre il dono rigenera. L’ardere della contemplazione… diventa illuminazione: «Voi siete la luce del mondo!».
Tuttavia, non si può dare per scontato che la tensione missionaria sia sempre incandescente e presente ovunque. Essa va generata e rafforzata in continuità, poiché è facile lasciarsi prendere dal torpore e, dalle necessità proprie, chiudersi nella miopia. Apertura e solidarietà vanno radicate in una spiritualità e nutrite con un processo di informazione e formazione. Tutto ciò prende il nome di: animazione missionaria. Essa tende a fare di ogni persona, famiglia, comunità e chiesa un punto luce e di irradiazione universale. Tale compito educativo rientra nella specificità della missione stessa.
È il compito che i missionari e le missionarie della Consolata si sono assunti anche in relazione alla chiesa che è in Tanzania. La cosa non è nuova. Già ci sono espressioni missionarie della chiesa locale – come pure in altri paesi d’Africa – che può vantare di avere inviato missionari, uomini e donne, in più nazioni. Ma sono necessarie una cultura e una spiritualità missionaria. Sono queste l’humus che garantiscono cattolicità e che permettono di essere una chiesa missionaria a se stessa e per il mondo, come si esprimeva Paolo VI in Uganda. La chiesa che è in Africa, con le sue ricchezze di umanità, solidarietà, gioia, pazienza, né può, né deve mancare all’appuntamento del donare e ricevere, che riconosce ad ogni chiesa pari dignità, vocazione e missione. Questo è pure l’imperativo che Giovanni Paolo II rivolge alle chiese giovani nell’enciclica Redemptoris Missio.

Per favorire questo processo, vicino a Dar es Salaam sta nascendo (inizierà le attività a partire dalla fine di quest’anno) il «Consolata Mission Centre»: faro di missionarietà. La costruzione di un centro di animazione missionaria in Tanzania corona un sogno che i missionari operanti in questo grande paese dell’Africa Orientale hanno nutrito per molti anni e che risponde anche alla «provocazione» lanciata dalla Conferenza Episcopale del Tanzania  a tutti gli agenti pastorali di lavorare per un’evangelizzazione che scenda il più possibile in profondità. Per dirlo in swahili: Uinjilishaji wa kina. Una prima evangelizzazione che tenga soprattutto conto della promozione umana e che si definisca in base alla dimensione delle opere di sviluppo e carità non può e non deve assolutamente tralasciare l’aspetto spirituale se non vuole vedere vanificati i frutti della sua azione. Per rendersi conto del rischio causato da un’evangelizzazione che si fermi alla superficie e non tocchi in profondità il cuore delle persone basta fare un giro per le strade di Dar es Salaam e notare il grande numero di chiese appartenenti alle sètte più disparate presenti ormai in ogni angolo della città e alla loro capacità di richiamare proseliti.
Proprio Dar es Salaam è stata scelta come sede del nuovo centro di animazione missionaria, e questo non a caso. La città costiera, porto marittimo, da sempre importante sede di scambi e commerci per tutta l’Africa Orientale è ormai una metropoli di circa 4 milioni di abitanti. Qui convergono genti di tutte le tribù, provenienti da ogni angolo del Tanzania, che fanno della città un luogo estremamente vivace e vario. L’ubicazione precisa sarà in una delle tante nuove periferie della città, Bunju, e dovrà servire anche come centro propulsore di attività e integrazione per il quartiere.
La dotazione del centro prevede una cappella, cuore dell’edificio e delle attività. Due spazi riservati all’ospitalità, con 48 camere a doppio letto, il refettorio, un salone conferenze e salette più piccole per incontri di gruppo. Il centro ospiterà anche l’abitazione e gli uffici dei missionari addetti all’attività di animazione missionaria. Accanto alla costruzione sorgerà anche la casa delle suore della Consolata che collaboreranno direttamente nella stesura dei programmi e nella conduzione delle attività di animazione e formazione.
Il Centro pubblicherà l’unica rivista missionaria in swahili di tutto il Tanzania: Enendeni (vedi box). Inoltre, pubblicherà vari sussidi di carattere pastorale-missionario.

Questa nuova iniziativa desidera avere una finalità educativa e formativa, orientata secondo una prospettiva squisitamente missionaria. I programmi dovranno avere un raggio molto vasto, in modo da cogliere la persona nelle sue varie dimensioni: umana, spirituale, apostolica e missionaria. Essi prenderanno in considerazione i vari aspetti della chiesa, della società e del mondo: vocazione missionaria di ogni persona e comunità, servizio, inculturazione,  dialogo interreligioso, ecumenismo, giustizia, pace e armonia del creato, promozione della donna, giovani. Inoltre, si approfondiranno argomenti come la pandemia Hiv-Aids e altri temi di scottante attualità in contesto africano, che richiedono risposte chiare da parte di animatori e operatori missionari ben formati.
Le attività del centro avranno come destinatari sacerdoti, religiosi, catechisti, leader comunitari, membri di associazioni e gruppi ecclesiali, i giovani e le famiglie. I programmi verranno preferibilmente condotti in modo partecipativo, «stile laboratorio», così da ottenere un maggior coinvolgimento personale di chi vi prende parte. Avranno inoltre una forte componente spirituale, in modo da offrire ai partecipanti le motivazioni e la forza per l’azione che deve seguire l’attività formativa. Il desiderio è quello di offrire qualità e profondità, in modo che i partecipanti trovino nel centro una fonte spirituale a cui abbeverarsi e contenuti solidi che ne appoggino l’azione pastorale e di testimonianza.
Attingendo al loro carisma e all’esperienza maturata sul campo, i missionari e le missionarie della Consolata si propongono di rendere questa iniziativa una scuola di universalità e di missione. Sarà necessaria la creatività degli artisti, la pazienza dei coltivatori, l’umiltà dei poveri e il coraggio dei profeti. Non sappiamo quale risonanza e risposta attingeranno i programmi offerti e le attività svolte. Sappiamo però che questo è il nostro dovere: animare, perché la chiesa che è in Tanzania viva l’ardore della Pentecoste, evento di missione per tutti i popoli. 

Di Giuseppe Inverardi e Gianni Treglia


ENENDENI
Gazeti la Kimisionari
(ANDATE – Rivista Missionaria)


«Andate… ammaestrate tutte le nazioni». Queste parole, comando di Gesù prima di ascendere al cielo, hanno caratterizzato l’attività missionaria della chiesa fin dal suo principio e animano ancora oggi i missionari sparsi per il mondo a portare il suo annuncio di pace e di liberazione ai popoli. Sono state anche il motivo per cui i missionari della Consolata in Tanzania hanno dato vita ad una rivista missionaria, uno strumento che, assieme a tante altre opere missionarie, portasse a tutti l’annuncio della «Buona Notizia».
La rivista Enendeni ha iniziato ad essere pubblicata nel 2003 ed è la più giovane fra le riviste pubblicate dai missionari della Consolata. Ha scadenza bimensile ed una tiratura di circa tremila copie. Alla base della riflessione che ha dato il via a questa rivista c’è sicuramente il fatto che le pubblicazioni cattoliche in Tanzania sono pochissime, tanto che si possono contare sulle dita di una mano. Tra queste, però, Enendeni si distingue per il desiderio di animare missionariamente la chiesa locale tanzaniana.
Impostata in modo molto semplice, la rivista si rivolge alla gente comune e ai giovani in modo particolare. Esperienze ed attività missionarie compiute in Tanzania e nel resto del mondo, messaggi della chiesa locale ed universale per occasioni particolari, riflessioni di natura biblico-missionaria, argomenti di vocazione missionaria costituiscono l’ossatura della rivista e il contenuto della maggior parte dei suoi articoli. Di grande impatto sui lettori sono le testimonianze dell’ormai buon numero di giovani missionari tanzaniani sparsi per il mondo, i quali, raccontando la loro vita spesa “per la missione”, contribuiscono al risveglio missionario e all’apertura di nuovi orizzonti.
Enendeni, pur essendo fondata e diretta dai missionari della Consolata, ha voluto, sin dal suo inizio, coinvolgere anche le altre forze missionarie del paese, altri istituti missionari, le diocesi, i laici. In questa linea, molto importante, e determinante per la sua divulgazione, è stata la collaborazione creatasi tra la rivista e le Pontificie Opere Missionarie del Tanzania. Ogni nuovo numero contiene un inserto gestito direttamente dal direttore delle Pontificie Opere Missionarie del Tanzania che spiega le attività svolte da questo ufficio nell’intero paese. Questa collaborazione ha fatto sì che la rivista raggiungesse tutte le diocesi del Tanzania e da tutti sembra essere molto apprezzata.
Con l’apertura del nuovo Centro di animazione missionaria a Dar es Salaam, la sede della rivista avrà una nuova casa. Non è certo uno spostamento di ordine pratico! Centro e rivista lavoreranno in stretta collaborazione in modo che, «essendo la Chiesa per sua stessa natura missionaria», possano proporre e promuovere insieme una sensibilità alla missione al servizio della chiesa tanzaniana.

Giuseppe Inverardi e Gianni Treglia




Ti amo da morire

Amore materno e figlicidio: intervista

Sempre più casi di genitori che uccidono i propri figli. Un «contrasto» psicosociale  in evoluzione ma prevenibile. E curabile. Un fenomeno moderno o una pratica antica? Come individuare la patologia, prima che sia troppo tardi. La parola alla specialista.

Da tempo si parla, più o meno con competenza, di disagio mentale grave e delle conseguenze sociali che comporta, come gli omicidi in famiglia in generale. Una realtà ancora più allarmante considerando il fatto che i riflettori sono puntati sul reato di figlicidio, ossia delle madri (o padri) che sopprimono la loro creatura in tenera età. Storie di dolore e sofferenza a cui la società non è ancora pronta (o non è in grado) di farvi fronte, nonostante tale «fenomeno» tenda ad aumentare, sia per numero di casi che per la molteplicità delle cause che sono all’origine del problema. Per sapee di più abbiamo intervistato la dottoressa Alessandra Bramante, psicologa, specialista in criminologia clinica ed esperta in psicodiagnostica forense. È pure consulente del Centro Depressione Donna all’ospedale Macedonio Melloni che fa capo al Fatebenefratelli di Milano. Autrice della recente pubblicazione Fare e disfare… dall’amore alla distruttività. Il figlicidio materno (ed. Aracne); inoltre membro e socio fondatore dell’associazione (onlus) Progetto Panda, che si occupa di prevenzione e trattamento del disagio psicosociale della donna in gravidanza, della puerpera e della mamma con bambini piccoli.

Dottoressa Bramante qual è la differenza tra infanticidio e figlicidio?
Infanticidio è un termine giuridico e si riferisce all’articolo 578 del nostro codice penale che prevede una pena diminuita per la madre che cagiona la morte del figlio durante il parto o subito dopo la nascita, in condizioni di abbandono materiale e morale. Quando si parla dell’uccisione di un bambino appena nato è quindi preferibile utilizzare il termine criminologico neonaticidio, che non ha valenza giuridica come il termine figlicidio, con il quale si intende l’uccisione di un figlio dal giorno di vita in poi.

In ogni caso si tratta di una realtà dal notevole impatto sociale. Quali le origini?
Sicuramente la notizia che una madre ha tolto la vita al proprio bambino suscita sgomento e profonda ansia collettiva, sia perché la vittima è un bambino sia perché viene ucciso nel luogo in cui dovrebbe essere protetto (la casa), e da chi più di ogni altro dovrebbe prendersi cura di lui. Ma le origini del fenomeno sono lontane: è un reato «vecchio come il  mondo», sempre esistito e addirittura in qualche periodo accettato o incentivato.

Cosa spinge una mamma a compiere un gesto così contro natura?
Sono molteplici le motivazioni che portano una madre a commettere figlicidio. Le più frequenti sono la presenza di una grave patologia psichiatrica, il neonaticidio, che ha motivazioni tutte sue, il troppo amore (sindrome di Munchausen per procura) e la sindrome di Medea.

Cos’è la sindrome di Medea?
La sindrome è un complesso di sintomi che caratterizzano uno stato morboso. In questo caso è riferito a quelle madri che uccidono il figlio per punire il vero oggetto d’odio e cioè il partner, proprio come fece Medea con Giasone. Tale sindrome, è nata per definire la madre figlicida, e oggi sembra essere più frequente nei padri che, incapaci di sopportare il dolore della separazione, uccidono il figlio per punire chi li ha abbandonati.

Il maggior numero di figlicidi riguarda più le madri o i padri?
Si tratta più o meno dello stesso numero di casi ma ben sappiamo che colpisce molto di più la notizia di una madre che uccide la propria creatura. In primo luogo perché le mamme uccidono bambini piccoli al contrario dei padri che uccidono giovani adulti. In secondo luogo perché spesso quando i padri uccidono non si parla di figlicidio ma di stragi famigliari, in quanto nel reato vengono coinvolti più membri della famiglia.

Tra le cause di figlicidio non meno importante sembra essere la depressione post-partum. In cosa consiste questa patologia? E in quanti casi si manifesta?
È una forma di depressione che colpisce il 10 per cento delle neomamme, ed è caratterizzata da sintomi ben precisi e riconoscibili quali: disturbi del sonno (non solo legati al pianto notturno del bambino), tristezza, perdita di interesse, isolamento sociale, senso di inadeguatezza, disturbi dell’alimentazione e trascuratezza di sé.

Perché la depressione post-partum è considerata il «lato oscuro» della mateità?
Perché è difficilmente riconosciuta dalle donne, in quanto è un aspetto negativo dell’essere mamma: piange, non dorme la notte, si sente insicura e crede che non sarà mai una buona madre per il suo bambino. La depressione post-partum è un «ladro che ruba la mateità», un qualcosa che fa paura. Ma se si prende coscienza del fatto che anche la mente si può ammalare senza vergogna, e si accetta di essere aiutati, è possibile uscie e godere appieno della propria mateità.

È una patologia prevenibile e curabile?
È una malattia troppo spesso non riconosciuta e sovente è sottovalutata, ma che se individuata in tempo è curabile. Ecco allora l’importanza di intervenire preventivamente soprattutto perché vi sono fattori di rischio già presenti durante la gravidanza come la familiarità psichiatrica, una gravidanza non desiderata, la vicinanza tra due gravidanze, la presenza della sindrome premestruale, oppure un rapporto di coppia conflittuale.

Nel nostro paese ci sono strutture socio-sanitarie preposte all’assistenza di queste donne considerate «a rischio»?
A Milano è sorto il Centro (primo in Italia) dedicato allo studio e al trattamento della psicopatologia della gravidanza e del post-partum. La struttura, denominata Centro Depressione Donna, ha compiuto due anni il 21 dicembre scorso, si trova all’interno dell’ospedale Macedonio Melloni e fa capo al Fatebenefratelli. L’équipe, guidata dal professor Claudio Mencacci e dalla dottoressa Roberta Anniveo, responsabile del centro. È uno staff in «rosa» formato da psichiatre e psicologhe, il cui lavoro si basa su colloqui psichiatrici, psicoterapia individuale e di gruppo, corsi di rilassamento, valutazione della relazione madre-bambino in collaborazione con la neuropsichiatria e lezioni ai corsi di preparazione al parto.

In alcuni casi dopo il parto la donna prova un senso di vergogna o addirittura di rifiuto al punto da dover sopprimere la propria creatura?
Può capitare che una neomamma non abbia fin da subito quello che viene detto «istinto materno» e che non senta quella forte attrazione verso il neonato. Ma sappiamo che non è vero che fare la madre è un’attitudine innata: si impara ad allevare un figlio giorno dopo giorno. Tuttavia, esistono casi estremi in cui la madre rifiuta totalmente il neonato o addirittura si vergogna di averlo generato, casi in cui si può arrivare all’abbandono oppure all’omicidio.

Cos’è la mateity blues?
È quella tristezza che accomuna il 70% delle neomamme, ed è caratterizzata da umore depresso (che non dura per tutto il giorno), ansia, crisi di pianto e senso di inadeguatezza che tende a risolversi nel giro di una o due settimane ma che se non sparisce rischia di trasformarsi in depressione post-partum.

In queste donne particolarmente fragili e «a rischio», quanto incide la solitudine o la poca attenzione nei suoi riguardi prima e dopo il parto?
Ha una grande importanza per tutte le donne, soprattutto nel post-partum, avere l’appoggio non solo materiale ma anche psicologico delle persone che gli stanno intorno, ancor di più ciò è importante per quelle donne più fragili e a rischio.

Quanto sono coinvolti il marito o i famigliari della neo madre che ha commesso il figlicidio?
Studiando questo fenomeno ma anche occupandomi di depressione post-partum, mi sono resa conto di come si tratti di donne sole, incomprese nella loro sofferenza che, se pur spesso manifestata, viene minimizzata e in certi casi anche negata dal partner e dai famigliari.

Che ruolo ha un padre nell’equilibrio di madre (moglie) durante la gravidanza e dopo il parto?
Nei corsi di preparazione al parto insegniamo alle future mamme l’importanza di essere aiutate e di coinvolgere il futuro padre in tutto ciò che riguarda la cura del bambino. Quello di un padre presente e accudente, non solo con il bambino ma anche con la neomamma, è un ruolo di basilare importanza al fine di prevenire la psicopatologia così come gesti estremi.

In quali casi, e perché, la memoria dell’accaduto viene rimossa? E dopo quanto tempo la madre che si è privata del proprio figlio «ritorna» coscientemente alla realtà e con quali reazioni?
Capita a tutti noi nella vita di accantonare quei pensieri o eventi che più ci spaventano e feriscono. Tale meccanismo di difesa si chiama rimozione ed è utilizzato dalla nostra mente per allontanare ciò che ci fa male. Ma nulla è dimenticato e il rimosso prima o poi riaffiorerà. In questo senso è importante il lavoro psicoterapeutico per accompagnare queste donne nel cammino di elaborazione di ciò che hanno commesso, dal momento che la donna quando realizza di avere lei stessa tolto la vita alla propria creatura, si trova a dover affrontare un dolore lacerante. In questo momento il rischio di atti autolesivi è elevato e da lì in poi la donna dovrà affrontare la vita con dentro di sé una ferita che mai potrà essere sanata ma con la quale dovrà imparare a convivere.

Cosa fa oggi la società per stare accanto alla donna che si appresta a diventare madre?
Purtroppo la società fatica ancora a muoversi in tal senso, anche se in quest’ultimo periodo c’è un po’ di attenzione a tutto ciò che riguarda la mateità. Rimangono comunque da sfatare quei miti sulla mateità che la società ci propone sotto diversi aspetti, come ad esempio il fatto che avere un bambino sia esclusivamente fonte di gioia, quando sappiamo che non sempre è così e che esistono fattori che possono impedire alla donna di vivere serenamente la mateità.

I mass media nel dare notizia di questi eventi sono sempre responsabili tanto da creare quell’impatto mediatico che potrebbe, in alcuni casi, compromettere il rispetto della privacy e della dignità della persona?
Troppo spesso accade che la privacy venga violata dall’accanimento mediatico e che resti la grave infrazione di essersi intromessi, non solo gli addetti ai lavori ma noi tutti spettatori, nella vita e nel dolore dei protagonisti di queste tragedie famigliari. Se una madre è innocente la sua immagine sarà infangata e, al contrario se colpevole, il suo atto deve riguardare la giustizia e la medicina, e senza ombra di dubbio sarebbe necessario spegnere i riflettori su di lei lasciando, a lei e alla famiglia, il tempo e lo spazio per elaborare il loro dolore. 

a cura di Eesto Bodini

Eesto Bodini




Che donna!

Madre Maria Laura Montoya upegui (1874-1949)

Mistica sublime, missionaria d’avanguardia, scrittrice feconda, avvocata in difesa dei poveri, madre e maestra degli indigeni americani, Madre Laura ha rivoluzionato il concetto stesso di missione con mezzi pedagogici e metodi nuovi di evangelizzazione.

A Jericó, nella regione meridionale del dipartimento di Antioquia (Colombia), il 26 maggio 1874 nasce una bambina. La madre non vuole vederla né allattarla, finché non sia battezzata. Il padre, affannato, prende in braccio la piccina, corre in chiesa e prega il prete di battezzarla. Il tempo di trovare i padrini, e, a quattro ore dalla nascita, il prete versa l’acqua sul capo della piccola, dicendo: «Maria Laura di Gesù, io ti battezzo…». «Laura non è un nome di santa» interrompe il genitore. «Se non lo è, vuol dire che sarà essa a diventarlo» risponde brusco il prete, e prosegue la cerimonia.

«FAME DI AFFETTO»

Juan de la Cruz Montoya e Dolores Upegui, genitori di Maria del Carmen, Maria Laura e Juan de la Cruz, erano cristiani convinti. Entrambi originari di Medellin, si erano dovuti trasferire a Jericó, quando il padre assunse l’incarico di capo civile e militare.
In quegli anni la Colombia stava vivendo uno dei periodi più sanguinosi della sua storia. Odi ereditari, voglie di rivincita, lotte ideologiche si erano coagulate attorno a due partiti: conservatori e liberali. I conservatori, autodefinendosi paladini dell’ordine, si battevano per la perpetuità dei privilegi delle classi tradizionali e del clero; volevano fermamente che la Colombia fosse e restasse al servizio della vera fede, per cui eretici e miscredenti erano considerati nemici della patria.
I liberali difendevano con altrettanto ardore la separazione tra stato e chiesa e i «propri» princìpi di laicità, con viscerale fanatismo anticlericale, fino a dire che «fucilare vescovi e preti era un atto d’igiene e decenza pubblica». Così il paese era diviso in due accampamenti di partigiani: gli uni per cancellare la religione, gli altri per difendere religione e patria.
«Prima di insultare la regione a Jericó dovranno passare sul mio cadavere» diceva Juan de la Cruz. E così avvenne: la notte del 2 dicembre 1876, fu barbaramente assassinato e mutilato di un braccio. I rivoluzionari s’impadronirono di Jericó, confiscarono i beni della famiglia Montoya e degli altri anti-rivoluzionari.
La signora Dolores e i suoi tre figli si trovarono sul lastrico. Furono ospitati prima dai parenti patei e poi da quelli matei, ma senza mai sentirsi bene accolti. Alla fine Lucio Upegui, padre di Dolores, radunò la famigliola nella tenuta chiamata «La Vibora» vicino ad Amalfi.
Negli anni dell’infanzia Laura sperimentò «la fame di affetto», come scriverà nella sua autobiografia. Il nonno, infatti, non mostrò molta simpatia per questa nipotina seria e silenziosa.

«CHIAMATA DEL FORMICAIO»

Per non dare fastidio al nonno, Laura se ne andava per i campi, dove poteva abbandonarsi a giochi infantili, soddisfare la sua curiosità e contemplare la natura, rimanendo spesso per ore incantata dal laborioso via vai delle formiche.
A 7 anni Laura ebbe una straordinaria illuminazione, in cui scoprì la presenza personale di Dio, come racconta nell’autobiografia. «Una mattina me ne andavo con le formiche fino all’albero dove prendevano le foglie e tornavo con loro al formicaio… Venni ferita come da un raggio. Non so dire di più. Quel raggio fu conoscenza di Dio e della sua grandezza… Ho saputo che Dio esiste… Ho pianto a lungo di gioia, per il grande amore… Da allora mi sono lanciata nelle braccia di lui. Era proprio quello che cercavo e di cui sentivo la mancanza» (Autobiografia, p. 42). Laura definiva quest’incontro «la chiamata del formicaio».
Dopo tale illuminazione la bambina iniziò una vita di penitenza e di maggiore preghiera e ad amare e servire i poveri, soprattutto una vecchietta, a cui portava il conforto del suo servizio.

«LA CHIAMATA DEL BANCO»

Lontano dal paese, Laura non poté andare a scuola. Sua madre le insegnò a leggere, scrivere, fare un po’ di conti. Dalle labbra della madre imparò a pregare e perdonare: recitava tutti i giorni un Padre nostro per chi aveva assassinato suo padre. Apprese soprattutto il catechismo. Grazie alla sua memoria prodigiosa, Laura lo ripeteva a menadito, tanto che fu ammessa alla prima comunione all’età di 7 anni, anche se non si rendeva ancora conto della presenza di Gesù nell’eucaristia.
Ma un giorno, aveva 12 anni, mentre inamidava una tela su un banco da falegname, ebbe un’altra esperienza, da lei definita «chiamata del banco». «All’improvviso – racconta – un dolore intenso mi trafisse il petto; abbondanti lacrime mi inondarono le gote… sentii che l’eucaristia trafiggeva e penetrava nella mia anima. Sì Gesù era presente nell’eucaristia e il Verbo era in Gesù».
Da quel momento Laura non vedeva l’ora di poter comunicarsi e trovò uno stratagemma: di buon mattino sellava due cavalli del nonno e, insieme al fratello Juan, si recava ad Amalfi, riceveva la comunione e tornava a casa prima che qualcuno si svegliasse. Finché un giorno il nonno, esaminando i cavalli, domandò: «Come mai i cavalli sono così sudati, senza aver fatto ancora nulla?». I ragazzi non risposero, ma da quel giorno finì la santa avventura.

LAURA DIVENTA MAESTRA

La madre decise di inviare Laura a Medellin per farla studiare nel Colegio del Espiritu Santo, frequentato dalle figlie dell’alta società. Ospite nell’orfanotrofio gestito dalla zia Maria Jesus Upegui, doveva accompagnare una cuginetta capricciosa, che troppo spesso voleva tornare a casa e non permetteva a Laura di frequentare regolarmente le lezioni.  Per di più, senza libri e con un vestito da orfanella di panno giallo, era diventata lo zimbello delle compagne, che la chiamavano «canarino».
Smise di frequentare quel collegio e decise di diventare maestra, per sostenere se stessa e la madre con tale professione. Aveva 16 anni. Era senza il becco di un quattrino. Accettò di vivere nel manicomio diretto dalla stessa zia Maria Jesus, accudendo a oltre 80 malati. Non avendo libri, ottenne il permesso di frequentare la biblioteca dell’istituto magistrale, dove si preparò per l’esame di ammissione. Lo superò brillantemente e ottenne una borsa di studio del governo e, a 19 anni conseguì il diploma di maestra.
Laura prese con sé la madre e insegnò in vari posti del dipartimento di Antioquia, finché toò a Medellin, nel 1897, chiamata dalla cugina Leonor Echevarria per fondare insieme il collegio de La Inmaculada.
Considerava l’insegnamento come la migliore forma di apostolato, per cui non si accontentava di trasmettere il sapere umano, ma si dedicò particolarmente all’insegnamento religioso: con la sua vivacità, talento e ardore incantava le alunne e trasmetteva loro la propria esperienza di Dio, l’amore all’eucaristia, i valori cristiani.
La scuola diventò presto famosa, attirando le figlie delle principali famiglie della città. Quando la giovane Leonor morì, Laura prese le redini del collegio, aumentandone il prestigio, finché per un banale incidente dovette chiudere i battenti.
Una studentessa, Eva Castro, alla vigilia delle nozze fu presa dai dubbi, credendosi chiamata alla vita religiosa. I familiari attribuirono il fatto all’influenza della direttrice Laura Montoya. Eva, poi, si sposò felicemente, ma un suo fratello scrisse un romanzo intitolato «Figlia spirituale», in cui descriveva a tinte fosche Laura, le maestre e i loro metodi educativi. I genitori ritirarono le figlie e il collegio si svuotò.
Seguì un lungo periodo di fame, solitudine, disprezzo, persecuzione, emarginazione dalla società, insieme alla madre e alla sorella, finché il padre spirituale gli suggerì di scrivere una «Lettera Aperta», per confutare punto per punto le calunnie scritte nel romanzo. E lo fece con tale semplicità e maestria che la società, e lo scrittore stesso, le riconobbero l’innocenza, nobiltà d’animo e virtù. E ricominciò a insegnare in varie scuole pubbliche.

«LA PIAGA»

Da tempo Laura sentiva l’attrazione per la vita di consacrazione religiosa e pensava di diventare carmelitana, ma i suoi superiori non approvavano l’idea, finché ebbe tra le mani la rivista Annali della propagazione della fede e si sentì chiamata a salvare gli indigeni colombiani, con quello che lei chiamava «l’opera degli indios». Tale vocazione divenne così forte che, racconta nell’autobiografia, diventò «la piaga, un qualcosa che mi brucia e mi consuma».
Dopo un’escursione con due amiche tra gli indios del Choco, Laura scrisse inutilmente a varie congregazioni religiose chiedendo aiuto per questi indigeni. Decisa a recarsi a Roma, per presentare al papa la situazione degli indios americani, raccolse i suoi risparmi e, prima di partire, si recò nella cattedrale; si inginocchiò davanti alla statua dell’Immacolata e pregò: «Vedi, Signora, questo denaro: l’ho risparmiato per aiutare gli indios. Non vorrei sprecarlo in un viaggio difficile e costoso; ti prego: questa notte, quando il papa porrà la testa sul cuscino, fagli sentire i gemiti dei poveri indigeni del mondo e convincilo a fare qualcosa».
Nel giugno 1912 Pio x pubblicò l’enciclica Lacrimabili statu indorum, in cui esortava vivamente i vescovi d’America a interessarsi degli indigeni e facilitare il lavoro missionario in mezzo a loro.
Nel frattempo Laura decise di andare essa stessa a catechizzare gli indigeni. Scrisse a vari vescovi, presentando la sua «opera», finché ricevette una risposta da mons. Maximiliano Crespo, vescovo di Santa Fé de Antioquia. Questi le diede appuntamento per l’11 febbraio 1912 nell’episcopio di Medellin. Il prelato concluse l’incontro con queste parole: «Accetto la tua “opera” con anima, vita e cuore. Ti appoggerò sempre e, qualora scarseggiasse il denaro della diocesi, rimane il mio borsellino, che non è scarso, e lo metto a tua disposizione».

MISSIONE A DABEIBA

Laura cominciò subito i preparativi. Raccoglieva denaro, stoffa, specchi, stoviglie e quant’altro riteneva utile per gli indios e le compagne di avventura. Molti la prendevano per matta, ma alcune amiche si offrirono di andare insieme a lei. A tutte Laura domanda: «Sei disposta a patire la fame? Se è necessario, sei capace di mangiare lo stesso cibo degli indigeni, radici e foglie del bosco? Sei disposta a essere aggredita in qualsiasi momento dagli indigeni, a fuggire nella foresta e trascorrervi la notte? Sei disposta a lavorare senza nessun frutto e accettare il disprezzo degli indigeni?». A quell’epoca era chiedere l’eroismo e un pizzico di follia.
Cinque giovani, più la sua settantenne madre Dolores Upegui, accettarono di formare il primo gruppo di  «Missionarie catechiste degli indios». Il 5 maggio 1914 («il più bel giorno della loro vita») le sette donne lasciarono Medellin e, dopo 10 giorni a cavallo, raggiunsero il villaggio di Dabeiba, nella regione dell’Urabà, tra gli indios catios.
Le delicate ed eleganti signorine di Medellin iniziarono a costruire una grande capanna di fango e paglia con le loro mani, con la scarsa partecipazione di alcuni indigeni. L’abitazione grande serviva da salone di lavoro, scuola, luogo per ricevere visite, sala da pranzo; anguste camerette e una cucina completavano la casa.
All’inizio gli indios si mostrarono sospettosi e stavano alla larga. Ma poi, un fonografo attrasse la loro curiosità. Laura mise in atto tutte le sue doti pedagogiche per comunicare con gli indigeni, radunarli per parlare di Dio e della loro dignità, per istruirli e curare le loro infermità. Un po’ di bicarbonato e la dissenteria scompariva; un bicchiere di camomilla faceva passare tanti dolori; le ferite, spalmate di grasso, si cicatrizzavano…  per i catios erano miracoli.

NASCONO LE «LAURITE»

Laura non aveva nessuna intenzione di fondare una comunità religiosa. Ma mons. Crespo glielo aveva prospettato fin dal primo incontro: «Le condizioni poste alle tue compagne possono essere la base per una eventuale congregazione religiosa. Dovendo vivere con gli indios, per non sembrare loro mogli ci sarebbe il voto di castità; per non cadere nella tentazione di fare affari con loro ci sarebbe il voto di povertà; per non sbandare e per lavorare con ordine ci sarebbe il voto di obbedienza».
Aumentato il numero delle catechiste, constatando il loro esempio di generosità, abnegazione ed eroismo, il vescovo chiese a Roma di elevare quel gruppo di donne a congregazione religiosa diocesana.
Il 1° gennaio 1917 nasceva ufficialmente la congregazione delle «Missionarie di Maria Immacolata e santa Caterina da Siena» (poi note come «Laurite»), un’opera religiosa che rompeva con schemi e modelli tradizionali, lanciando le donne come missionarie nell’avanguardia dell’evangelizzazione dell’America Latina. Quello stesso giorno Laura emise la professione religiosa e 13 compagne, compresa la madre Dolores, iniziarono il noviziato canonico.
Grande maestra spirituale, Madre Laura così descrive la formazione impartita fin dall’inizio: «Nell’anima delle suore ho cercato d’imprimere l’idea che Dio non poteva essere conosciuto dagli indios se non si mostrava un riflesso di lui in noi e nel nostro modo d’essere… Dovevamo avere verso di loro una bontà tale da poter solo dire: così è Dio e ancora di più!».
Stile e scopo della nuova e, per quei tempi, rivoluzionaria comunità religiosa, sono riassunti nel comunicato che Madre Laura inviò a Roma per chiedere Decretum laudis, cioè l’approvazione definitiva della congregazione: «Cercare gli indigeni nella selva e avvicinarli con un metodo autenticamente materno; insegnare nei loro stessi villaggi;  cercare in ogni aspetto il miglioramento della sorte degli indigeni; continuare l’opera dei missionari con l’insegnamento, scuole, ospedali; alleviare i missionari in ciò che è possibile, assistendoli secondo le disposizioni dei vescovi; rivolgersi allo stesso modo agli indigeni a cui non può giungere l’azione di altre congregazioni».
Madre Laura era animata da zelo incontenibile e lo trasmetteva alle sue suore. Organizzava lunghe escursioni nella foresta, a dorso di mulo, sotto il sole canicolare, con poco cibo e molto entusiasmo, alla ricerca degli indigeni. Nei villaggi più lontani stabiliva nuovi centri o ambulancias, dove le suore, con la loro presenza, rassicuravano gli indios che erano persone, avevano un’anima ed erano figli di Dio, cose negate da certi leaders civili e religiosi.
Facendosi strada verso le montagne, navigano in canoa su fiumi dalla ripida corrente o in zattere costruite dagli indigeni o da loro stesse, le giovani Laurite si spingevano sempre più lontano, fino al Golfo di Urabà, in cerca dei caribes-kuna.

SUCCESSI E CROCI

Nei primi 10 anni Madre Laura vide moltiplicarsi i frutti della sua travolgente opera apostolica: indigeni scolarizzati e avviati sul cammino della vita cristiana, altre giovani erano arrivate a rafforzare le file delle sue missionarie. Seguirono anni segnati da pregiudizi, incomprensioni e disprezzo da parte della società e dai prelati che non comprendevano quello stile di essere «religiose capre» (secondo la loro espressione). Con la morte di mons. Crespo, le suore dovettero abbandonare i primi centri costruiti con tanto eroismo.
«La comunità sembrava una barca rotta in mezzo al mare». Madre Laura affrontò le avversità con la solita giovialità e fede in Dio, infondendo coraggio alle sue figlie e aprendo nuovi campi di lavoro. Dopo aver migrato in varie località, Madre Laura ottenne di stabilire il noviziato e la casa centrale a Medellin, in un terreno chiamato Belencito. Qui si fermò sempre più a lungo, a causa della crescente obesità, che rendeva sempre più difficili i suoi viaggi. 
Negli ultimi 10 anni, la Madre fu costretta a vivere su una sedia a rotelle, da dove continua a vigilare sul cammino della congregazione e, seduta davanti a un piccolo scrittornio, arrivava con le sue lettere a tutte le sue figlie. Inviò alcune suore in Ecuador (1940) e in Venezuela (1948).
Il 21 maggio 1949 iniziarono terribili sofferenze alle gambe, che si riempirono di pustole dolorose. Dal mese di settembre dovette rassegnarsi a rimanere a letto, finché spirò serenamente, il 21 ottobre 1949, dopo 42 anni di vita secolare e 33 di vita religiosa.
Fu sepolta nella cripta della chiesa del Belencito, dove già riposavano i resti di suor Isabelita Tejada e di sua madre: suor Maria del Sacro Cuore.
Allora la congregazione delle Laurite contava 467 religiose e 93 novizie; erano state fondate 122 case, di cui erano aperte 90, irradiando il lavoro tra 22 popoli indigeni, la maggior parte in Colombia, altre in Ecuador e in Venezuela.

Nel 1930, Madre Laura si era recata a Roma, per chiedere l’approvazione pontificia della sua congregazione. In una delle visite alle basiliche romane, un prete le mostrò la galleria dei santi fondatori, i cui ritratti erano posti in belle nicchie. «In una di queste nicchie salirà anche lei Madre» le disse il prete. «Credo che, con queste gambe così pesanti, non riuscirò ad arrivare così in alto», rispose essa sorridendo.
Invece, il 25 aprile 2004, Giovanni Paolo ii la elevò alla gloria del Beini, dichiarandola beata e realizzando la profezia dello sbrigativo prete che l’aveva battezzata.  

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Una morte in più o tante morti in meno?

Ufficialmente è stato stroncato da un infarto fulminante, conseguenza di una polmonite che già si stava trascinando da tempo. L’aggressione subita dieci giorni prima nella missione di Manizales (Colombia), dove da anni risiedeva, aveva avuto pesanti effetti collaterali sul suo già precario stato di salute. Le botte, lo spavento, le ore passate disteso nel freddo e nell’umidità della notte, legato e imbavagliato in attesa di soccorso hanno minato le poche energie rimaste. È morto così padre Mario Bianco, missionario della Consolata novantenne, cinque decadi in Colombia, dopo una precedente esperienza in Mozambico. Uomo schivo, silenzioso, scioglieva la lingua solo quando poteva raccontare qualcuna delle sue tante avventure. Quest’ultima, purtroppo, ha avuto poco tempo per diffonderla.

La morte di padre Mario, avvenuta lo scorso 12 febbraio, ha coinciso con l’omicidio di una turista genovese assaltata a scopo di rapina mentre era in compagnia del marito, anch’egli ferito. Questa volta il fatto è avvenuto a Cartagena de las Indias, sulla costa atlantica, uno dei centri turistici più belli e frequentati del paese sudamericano. Due eventi senza nessun collegamento fra di loro se non quello di riguardare entrambi cittadini italiani. Due morti la cui causa è da ricondurre alla micro-criminalità urbana,  in cui non c’entra il conflitto armato che da decenni insanguina il paese; nonostante, va detto, il confine fra le morti a causa del conflitto e quelle dovute alla «violenza ordinaria» sia molto labile. Eppure, le fonti governative del paese continuano a parlare di drastiche diminuzioni nel numero di omicidi. Il comandante della polizia colombiana, generale Jorge Daniel Castro, ha comunicato recentemente che nel 2006 si sono verificati nel paese 17.206 omicidi, 500 in meno dell’anno precedente. Un netto calo si è registrato anche nel numero di sequestri. Il merito di ciò viene attribuito alla politica di sicurezza democratica lanciata dal presidente Uribe  e al conseguente rafforzamento della forza militare. I dubbi riguardano  la reale entità di questa diminuzione e, soprattutto, la vera ragione che l’ha prodotta.

Già nel 2005, il «Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo» (Pnud) aveva pubblicato un interessante studio sulle ragioni di questo calo, notando come a una diminuzione del tasso di omicidi nelle grandi città corrispondesse un aumento degli stessi in comuni più piccoli, meno facili da sottoporre a rilevazione statistica. Inoltre, la diminuzione si deve anche a precise strategie dei vari gruppi armati. Merita ricordare che le Auc, i gruppi paramilitari di estrema destra, in fase di trattative con il governo per la loro smobilitazione, hanno proclamato, a partire dal 2003,  vari «cessate il fuoco» che, sebbene molte volte non rispettati, hanno effettivamente portato a una diminuzione dei morti assassinati.

L’analisi del Pnud evidenzia come la decrescita degli omicidi nelle grandi città si debba soprattutto a politiche sociali di sicurezza cittadina e partecipazione democratica. Strategie di convivenza, azioni preventive concordate con i cittadini, programmi educativi nei quartieri più a rischio hanno dato molti più frutti della politica di sicurezza democratica sponsorizzata con forza dal governo. Perché non esportare questi modelli in altre zone del paese?

Avendo ereditato dal grande fratello nordamericano armi e vocabolario, Uribe si trova ora nelle condizioni di doverli usare  e continua a testa bassa nella lotta «contro il terrorismo». La parola «sociale» suona stonata ai suoi orecchi e le molte Ong (nazionali e inteazionali) che operano sul territorio sono da sempre sulla sua agenda nera. Non è esattamente questa la pista che la Colombia dovrebbe percorrere se vuole veder diminuire ulteriormente casi di morte violenta come quelli che hanno coinvolto l’incolpevole padre Mario.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Tra gli ismaliti del Pamir

Una delle Ong più attive in Tagikistan è la Fondazione Aga Khan (Fak), arrivata nel 1993. L’origine di tale presenza è da ricondurre al sostegno che la Fak offre in tutto il mondo alle comunità dei musulmani ismailiti di cui l’Aga Khan è il capo spirituale.
È la seconda comunità sciita, staccatasi dagli sciiti duodecimani. Lo scisma risale al 760 circa. I duodecimani sono così chiamati perché riconoscono nella storia l’autorità di 12 santi imam, discendenti in linea diretta dalla famiglia del profeta. Alla morte del sesto imam, Giafar, tra gli sciiti si produsse una spaccatura: alcuni seguirono la linea dinastica che faceva capo al primogenito Ismail, morto prima del padre; gli altri riconobbero come imam il figlio minore Musa.
Nel XX secolo gli imam ismailiti, che da metà ’800 portano il titolo onorifico di Aga Khan ricevuto dallo scià di Persia, cominciarono a promuovere istituzioni per lo sviluppo economico e sociale delle loro comunità. L’attuale Aga Khan, Karim, diventato il 49° imam nel 1957, ha proseguito sulla stessa strada e nel 1967 ha costituito la Fondazione che porta il suo nome e opera nei paesi in cui vivono le comunità ismailite, ma estende i propri interventi anche agli altri abitanti, senza distinzione di razza e religione.
Concentrati soprattutto in Iran e paesi vicini, gli ismailiti si sono diffusi anche in Africa Orientale, Europa e Nord America.

È un principio che ha subito voluto puntualizzare Dovlatjar, uno dei responsabili della Fondazione in Tagikistan, da me incontrato nella sede di Dushanbe. Egli è un pamiri, appartiene a quelle popolazioni iraniche che, abitando le impervie regioni del Pamir, non furono toccate dalle invasioni turco-mongoliche e convertitesi all’islam ismailita all’inizio del secondo millennio.
Dovlatjar segue il programma della Fak per lo sviluppo delle comunità montane proprio nel Pamir. «Quando la Fondazione vi arrivò nel 1993, dovette fronteggiare l’emergenza cibo, causata dalla guerra civile e dall’isolamento della regione. Qui vivevano 250 mila persone, cui si aggiunsero i profughi provenienti da altre parti del Tagikistan. Passata l’emergenza, dal 1995 si è potuto pensare a uno sviluppo a lungo termine, con un programma di riabilitazione e costruzione di infrastrutture: strade, ponti, scuole, infermerie, canali d’irrigazione. Dal ’98 abbiamo incominciato a istituire le organizzazioni di villaggio».
A questo punto Dovlatjar ha dovuto darmi qualche spiegazione aggiuntiva. «In Asia Centrale c’è sempre stata la consuetudine di eleggere un capo villaggio, l’aksakal (barba bianca): persona autorevole e da tutti ascoltata, con il compito di guidare la comunità. Molti lavori erano fatti da tutto il villaggio: l’aksakal assegnava i compiti, stabiliva i tui per lo sfruttamento dei pascoli, che erano in comune; a lui ci si rivolgeva per un consiglio e dirimere una lite».
Gli abitanti di un villaggio si riuniscono, elencano le cose da fare, stabiliscono le priorità; poi le comunicano alla Fondazione che cerca di trovare il necessario contributo finanziario. Così le comunità sono responsabili nell’individuare le necessità, pianificare gli interventi, costruire e mantenere le infrastrutture.
Dopo un’ora di colloquio con Dovlatjar, cominciavo a capire come il sistema funzionava in teoria, ora desideravo vederlo in opera. L’ho visto a Garm, il centro principale della valle Rasht, dove la Fondazione opera in sette province. Qui ho conosciuto Azam, che tiene i contatti con le 43 organizzazioni di villaggio della provincia e che mi ha invitato a visitae qualcuna.
I l nostro primo villaggio è Shulmak. Vi scorre un torrente cristallino dove si pescano delle trote piccole e saporitissime, «ma anche molto difficili da acchiappare», aggiunge Azam. Si chiamano gol mâhi (pesce fiore), perché la loro pelle è cosparsa di puntini rossi, come minuscole corolle.
All’inizio della collaborazione con la Fak c’è sempre un’assemblea, in cui si stabilisce quanti intendono costituire una propria organizzazione di villaggio. Se almeno l’85% degli abitanti è d’accordo, si elegge un presidente, vicepresidente, contabile e la responsabile del gruppo delle donne. La Fac tiene a che le donne costituiscano un loro gruppo, perché in un ambito tutto femminile, senza la presenza dei mariti e altri uomini, hanno più agio di discutere e formulare le loro richieste.
A Shulmak quasi tutte le famiglie hanno aderito. Il presidente Rakhimov lo spiega così: «Ci siamo accorti che ognuno per sé non poteva risolvere i suoi problemi; così abbiamo deciso di metterci insieme e chiedere aiuto alla Fondazione. Ci siamo riuniti per decidere quali erano le cose da fare. Ne è venuto fuori un lungo elenco: infermeria, strada, scuola, canali d’irrigazione, ripetitore televisivo rotto, vasca per pulire il bestiame, centro per i giovani, ponte, generatore (abbiamo l’elettricità solo per due ore il giorno). Abbiamo scelto di cominciare con l’infermeria».
La stanno costruendo lì accanto. La Fondazione fornisce i materiali, ma il lavoro lo fanno gli uomini del villaggio. Nel frattempo sono stati avviati anche altri programmi: una piantagione di alberi per legname da costruzione, difficile da reperire; microcrediti per le donne, che possono così sviluppare la loro economia domestica e ricavae ortaggi e animali da vendere al mercato.
Arrivata l’ora del pranzo, sul tavolo sotto gli alberi, dove il presidente aveva disteso le sue carte e io prendevo appunti, sono arrivati piatti con anguria, melone, biscotti, pane. Pensavo si trattasse di una merenda veloce; ma di lì a poco è comparso un grosso piatto di carne, poi una montagna di pescetti grigiastri, con dei puntini rossi (i gol mâhi), da ultimo la minestra.
Capivo che non era cosa semplice per questa gente mettere insieme un pranzo del genere; ma alle mie rimostranze è venuta fuori la frase classica, che chiude ogni discussione: «Lei è un ospite!». La legge dell’ospitalità in questi luoghi è ferrea. All’ospite si offre tutto quello che c’è in casa, per accoglierlo si uccide anche l’ultima bestia. Non si può fare altro che accettare con riconoscenza.

D opo pranzo abbiamo visitato il villaggio di Loyoba. Il presidente ci ha ricevuto in casa sua. In questo villaggio c’è il problema dell’acqua. «Non ce n’è a sufficienza per irrigare i campi – spiega il presidente -; la falda acquifera è profonda e i pozzi normali non ci arrivano. Una volta c’era una piccola centrale che pompava l’acqua dal fiume, ma adesso non funziona. Con l’aiuto della Fondazione abbiamo costruito un pozzo profondo. La situazione è migliorata, però non basta. Dovremmo costruire una pompa, ma i macchinari sono costosi». Più della metà degli uomini del villaggio lavorano all’estero. Da una parte è un bene, perché a casa arriva qualche soldo; dall’altra non ci sono braccia a sufficienza e molti lavori ricadono su donne e bambini. Peggio di tutto, però, quando di uomini in famiglia non ce ne sono affatto: una vedova fa fatica a provvedere a sé e ai figli.

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Peggio di così…

La più povera repubblica socialista dell’Urss, il Tagikistan è rimasto tale
con l’indipendenza (1991), tanto da rimpiangere il tempo che fu.
Il paese offre panorami mozzafiato, ma non ha strutture turistiche;
la gente è generosa, ma deve sopravvivere… con l’emigrazione.

Al turista frettoloso non consiglierei mai il Tagikistan: le strade sono in condizioni tali che qualsiasi spostamento, fuori dalla fascia di alcuni chilometri intorno alla capitale Dushanbe, è impresa assai ardua. Esse non vengono riparate da più di 10 anni, da quando il Tagikistan ha ottenuto l’indipendenza. È facile immaginare cosa ciò voglia dire in un paese in cui quasi metà territorio si trova oltre i 4 mila metri e meno di un quinto sotto i mille. Chiazze del vecchio asfalto sono rimaste qua e là; ma sono così sforacchiate che gli autisti preferiscono evitarle e passare sulla parte sterrata.
Ma per chi non ha fretta questa circostanza ha i suoi vantaggi.
La carretta su cui stavo viaggiando arrancava a fatica verso il passo di Anzob, a 3.700 metri. Per fare raffreddare il motore, ogni quarto d’ora l’autista si fermava accanto al solito ragazzino, pronto lungo il ciglio con la lunga canna dell’acqua. Intanto, avevo tutto il tempo di ammirare il paesaggio e abituare l’occhio alle sue bellezze sempre nuove. Scendevo dalla macchina, assaggiavo l’aria, sempre più frizzante, e tiravo fuori la macchina fotografica.
L’Asia Centrale riserva agli amanti della montagna mille sorprese ed emozioni. Non avrei mai pensato che in natura potessero esistere tali e tante varietà di forme, colori, vegetazione nello spazio di pochi chilometri. Da una parte del crinale le valli sono aperte, i declivi morbidi ed erbosi, la roccia bianca; dall’altra tutto è brullo: rocce nere, verdi, azzurrognole si levano perpendicolari. Passa qualche chilometro e la montagna si colora di rosso.
Il veicolo su cui stavo viaggiando era un’auto privata. I trasporti pubblici interurbani sono quasi inesistenti. In due settimane ho incrociato solamente un vecchio autobus, che faceva servizio (irregolare) tra alcuni paesi vicini. Chi ha vera necessità di muoversi deve armarsi di pazienza e aspettare un taxi collettivo o un privato che vada nella direzione voluta. Fino a che non sono riempiti tutti i posti, non si parte. Può capitare di metterci mezza giornata, uno, due giorni per compiere anche brevi percorsi. La va a fortuna.
RICORDI DI TERRORE
Ho aspettato più di tre ore, prima che si riempisse il taxi, diretto a Garm, cittadina a circa 200 chilometri da Dushanbe. Per ingannare l’attesa proposi al taxista Giamshid di andare a bere qualcosa.
Il nome del paese mette ancora paura. A Garm e nella regione omonima ha imperversato con particolare ferocia la guerra civile, che, tra il 1992 e il 1997, ha visto fronteggiarsi le bande paramilitari dei post-comunisti filogovernativi e quelle della cosiddetta Opposizione unita, un’insolita alleanza tra i partiti: democratico, nazionalista e islamico.
«Se sono ancora vivo lo devo a una donna», mi diceva il taxista Giamshid, ex insegnante di scuola, che aveva lavorato diversi anni a Mosca.
Non c’era niente di romantico nella sua storia. Giamshid era stato catturato da una banda di filogovernativi e stava già per essere ucciso, quando una donna, che faceva parte del commando, convinse i compagni a lasciarlo andare. Quell’improvviso gesto di pietà, che Giamshid non si sapeva ancora spiegare, gli aveva salvato la vita, ma per molti altri era andata peggio.
Nel suo villaggio, in un solo giorno, avevano ammazzato 11 persone. La regione di Garm era considerata dai post-comunisti una roccaforte dell’opposizione e ogni abitante maschio era un nemico da eliminare.
Per sottrarsi alle incursioni delle truppe, gli uomini scappavano sulle montagne, si rifugiavano nelle repubbliche vicine, arrivavano fino in Russia. Donne e bambini rimanevano, campando come potevano. Coltivare i campi era pericoloso: per sfamarsi vendevano o uccidevano il bestiame.
Sebbene la guerra sia durata diversi anni, le violenze maggiori sono avvenute nell’arco di sei mesi, tra l’estate del 1992 e i primi mesi del 1993. Si calcola che in questo periodo le vittime del conflitto siano state circa 50 mila, i profughi 800 mila.
Adesso, percorrendo la valle solcata dal fiume Sorkhâb (in tagiko «acqua rossa», per il colore del terriccio discioltovi), che parecchi chilometri più a sud, dopo la confluenza col Pianj, diventerà il famoso Amu Daria, non pare vero che quei luoghi siano stati il teatro di tante violenze; ma, se il discorso cade sulla guerra, negli occhi della gente riaffiora la paura e l’orrore di quei giorni, quando gli elicotteri volavano sulle teste e le truppe entravano nei villaggi in cerca degli uomini e nessuno poteva sentirsi sicuro.
INDIPENDENZA AMARA
All’indomani dell’indipendenza c’era chi in Tagikistan aveva immaginato un futuro finalmente libero e prospero, svincolato da Mosca e dal suo regime autoritario. Erano nati diversi movimenti e partiti politici, ispirati a ideali di rinascita nazionale, sia in senso laico che religioso, ma la mancanza di una tradizione democratica aveva velocemente portato al deterioramento della vita politica e la lotta per il potere era presto sfociata in guerra aperta.
Le forze in campo si dividevano, più che per appartenenza politica, per appartenenza a clan, radicati in un determinato territorio: il clan di Khogiand, al nord, da cui tradizionalmente provenivano i dirigenti del partito comunista, si era alleato con quello di Kuliab, una città del sud.
L’opposizione, invece, era concentrata nella provincia di Korgan Tube, sempre a sud, in quella di Garm, al centro, e nel Goo-Badakhshan, la regione del Pamir, a maggioranza ismailita. Sebbene la guerra sia ufficialmente finita nel 1997, con l’entrata nel governo dei partiti d’opposizione, per alcuni anni la situazione ha continuato a essere di estrema incertezza, perché l’esercito regolare non riusciva a controllare tutto il paese e non tutti i signori della guerra avevano deposto le armi.
La guerra ha dato il colpo di grazia a un’economia già molto fragile, messa in crisi dai rivolgimenti che hanno accompagnato il crollo dell’Urss e dall’esodo dei russi che, con l’indipendenza, furono emarginati e spinti a lasciare il paese. Il Tagikistan si ritrovò non solo a dover ridisegnare il proprio sistema economico in una coice politica completamente diversa, ma anche privo dei quadri tecnici e direttivi, quasi sempre russi, che avevano fino allora fatto muovere l’industria. Quasi tutte le fabbriche furono chiuse. Lungo le strade si vedono campeggiare le loro moli abbandonate. Alla fine del 1996 il Pil era appena il 40% di quello del ’91, il salario medio inferiore ai 10 dollari.
GUARDANDO… LE STELLE
Pur rimanendo assai critica, la situazione negli ultimi anni è andata lentamente migliorando, soprattutto grazie al sostegno delle organizzazioni inteazionali. Qui c’è tantissimo da fare, perché il governo, che manca di una strategia a lungo termine, è di fatto latitante e lascia che la gente provveda da sé (chissà poi come) alle proprie necessità.
A risentirne non sono solo le strade. La struttura sanitaria non funziona: le cure, o un’eventuale operazione, sono a carico del malato. Chi non può permetterselo si arrangia.
Stipendi statali e pensioni non consentono neanche di sopravvivere; le acque non vengono depurate e nei villaggi la mortalità infantile è alta, a causa della dissenteria; l’elettricità è razionata, perché, nonostante la grandissima abbondanza d’acqua – una delle maggiori risorse del paese – le centrali funzionanti sono poche e insufficienti al fabbisogno. L’illuminazione pubblica è così scarsa, che perfino nella capitale di notte si possono vedere le stelle. Ma la loro luce non è sufficiente per salire le scale di un condominio, per chi non ha l’occhio abituato. Difatti, mancano le lampadine, che, da quando si sono rotte o portate via, nessuno le ha più sostituite, perché sparirebbero subito.
Quando ho percorso la valle di Garm si era nel periodo della trebbiatura. Il fondo stradale era a tratti cosparso di spighe, distribuite in modo tale che i rari veicoli di passaggio fossero costretti a passarci sopra: è così che i contadini trebbiano il grano. Prima delle macchine agricole, i nostri padri utilizzavano i buoi; ma, con la guerra, ai tagiki non sono rimasti nemmeno quelli.
RIMPIANTI E NOSTALGIE
Sangin lavora alla stazione turistica di Iskanderkul da circa 20 anni. Il villaggio di spartani cottages, in tipico stile sovietico, si trova sulle rive di un lago (kul), dove la leggenda vuole che abbia sostato Alessandro il Macedone (Iskander) mentre era diretto in India. Il suo fedele cavallo Bucefalo aveva bevuto l’acqua fredda del lago e si era ammalato, così non era potuto ripartire insieme al padrone. Si dice che, il giorno in cui Alessandro morì, il cavallo abbia cominciato a nitrire disperato e si sia lanciato nelle acque del lago, scomparendovi. Ancora oggi nelle notti di luna piena lo si vede uscire dal lago, pascolare e giocare sulle rive, o saltare da una parte all’altra della valle, da una cima all’altra, per rituffarsi nell’acqua sul far del mattino.
Il lago è meritatamente famoso, incastonato com’è tra le aspre cime di due diverse formazioni montane. Un tempo la bellezza dei luoghi richiamava turisti da tutta l’Unione Sovietica e dall’estero. Nel villaggio c’era sempre una grande animazione e la sera il ristorante era pieno di gente, c’era la musica, si ballava fino a tardi. Ma dal ’93 i turisti hanno cominciato a disertare il posto. Ora il villaggio è in palese decadenza, come tante altre cose nel paese, i cottages fatiscenti e semivuoti.
Non ho incontrato nessuno, giovane o vecchio, che non rimpianga i tempi sovietici. Una signora, madre di sei figli, nella sperduta Girgatel, quasi al confine con la Kirghizia, non la finiva più di cantarmi l’apologia della vita sotto il passato regime, quando c’era la possibilità di andare a studiare in Russia, magari a Mosca, e di restarci, se si trovava qualcuno da sposare. «Ma perché mai non l’ho fatto anch’io?», si chiedeva.
Anche Sangin ricorda con nostalgia i vecchi tempi. Dopo la scuola era andato a studiare a Kiev. Poi era venuta l’ora del servizio di leva, per un disguido non era stato inserito nel contingente inviato in Afghanistan; era finito, invece, prima in Kazakistan, poi sull’Enisej, da ultimo oltre il circolo polare artico. Aveva, così, spaziato da un capo all’altro dell’Unione, aveva incontrato coetanei provenienti da tutte le repubbliche e insieme avevano formato, a suo dire, una compagnia multietnica e affiatata. Insomma, era tornato a casa con un prezioso bagaglio di esperienze.
NON RESTA CHE EMIGRARE
In Russia circola una barzelletta su simili sentimenti nostalgici. «Che cosa rimpiange del passato sovietico, dell’epoca di Breznev, per esempio?», chiede un giornalista a un anziano signore, seduto ai piedi del monumento a Marx. «Per lo meno due cose: la vodka costava meno; e poi le donne erano più giovani» spiega il signore.
La nostra memoria è selettiva: ritiene i ricordi piacevoli e tende a disfarsi di quelli brutti. Eppure, si deve ammettere che, a confronto del presente sfacelo, la vita di allora non può non apparire desiderabile.
Sebbene anche ai tempi dell’Unione il Tagikistan fosse la più povera delle repubbliche, la meno industrializzata, con il più basso livello d’istruzione e il peggiore servizio sanitario, la grande retorica dei popoli fratelli aveva avuto in queste lande un risvolto concreto e nei villaggi era arrivata l’acqua potabile, periodicamente passava il medico, la farina si acquistava a prezzi modici, i giovani di talento potevano andare a studiare nelle altre repubbliche.
Adesso queste possibilità sono sfumate. Spostarsi, non dico fuori dei confini nazionali, ma all’interno dello stesso Tagikistan, è diventato un lusso che non tutti si possono permettere: fare poche centinaia di chilometri costa quanto uno stipendio.
Per molte famiglie la salvezza è avere un marito, o un fratello, che lavora all’estero. Circa un milione di tagiki lavorano stagionalmente fuori del paese, principalmente in Russia e in Kazakistan. Si calcola che la valuta straniera che portano a casa ecceda il bilancio dello stato.
In Russia i tagiki sono considerati il gruppo etnico più derelitto tra quelli dell’ex-Urss. Sono disposti a fare qualsiasi lavoro a qualsiasi prezzo; sono lavoratori illegali, quindi soggetti a soprusi, ricatti e ogni genere di umiliazioni. Eppure, tutto è preferibile alla miseria di casa.
TANTA… OSPITALITÀ
La guida del Tagikistan elenca un numero esiguo di alberghi: qualcuno a Dushanbe, uno qua, uno là nei centri principali, e poi basta. Eppure il turismo potrebbe essere una grande risorsa per il paese; invece è quasi inesistente, né pare si stia facendo alcunché per incoraggiarlo.
A parte la mancanza di infrastrutture, la necessità di ottenere un permesso speciale per il Pamir (più della metà del territorio nazionale) e la difficoltà per avere un visto fanno il resto. Per i funzionari, da cui le formalità dipendono, il turista è un’occasione per arrotondare lo stipendio. Il console a Mosca mi ha rilasciato il visto come se mi facesse un favore personale; alla fine me lo ha fatto pagare una cifra esorbitante, senza rilasciarmi alcuna ricevuta.
Per fortuna, quando, superati tutti gli ostacoli, finalmente si arriva a destinazione, si è ricompensati dalla benevolenza della gente e dal sentimento di genuina meraviglia che la tua apparizione suscita. In città, come nei villaggi, è facile trovare ospitalità.
Khadisa, incontrata durante il lungo viaggio in treno da Astrakan a Dushanbe, è una grande conoscitrice di piante ed erbe medicinali. Le raccoglie nelle montagne vicino a casa e ne fa dei preparati per i suoi pazienti. Saputa della mia passione per la montagna, mi ha invitato ad andare con lei durante una delle sue spedizioni. Con mia meraviglia, non abbiamo portato con noi né cibo, né sacco a pelo.
La sera, dopo aver camminato tutto il giorno, entravamo in una casa, venivamo fatte sedere per terra, intorno all’unico, grande piatto di patate e verdura cotta, dal quale tutti attingevano, aiutandosi con fette di pane; poi ci preparavano il giaciglio in una stanza, o sull’aia, al riparo di una tettornia. Al mattino, prima di ripartire, ci offrivano latte, miele e tè. Si può forse desiderare di più?

Bianca Maria Balestra