Cari missionari

Lula: il «calamaro»

Cari missionari,
per l’attuale presidente del Brasile avete avuto sempre un debole e anche nel 1° numero del 2007 non vi siete smentiti, riproponendo tra l’altro un’immagine dell’allora candidato premier Lula il giorno che venne a farvi visita (1999). Come darvi torto? Anche a me Lula è simpatico: ho sempre sperato che, con lui, i brasiliani potessero aprire un nuovo corso nel segno della giustizia, della pace e, data la sua predilezione per san Francesco, della salvaguardia del creato.
Come sappiamo, Lula oltre agli amici, ha sempre avuto tanti nemici: i media hanno provato più volte a screditarlo, a presentarlo come uno smidollato incapace, giocando sul fatto che, in portoghese, «lula» significa «seppia, calamaro», ossia animali invertebrati, privi di spina dorsale.
Questo tipo di attacchi non deve sorprenderci… La sorpresa invece – e non è stata una sorpresa gradevole – è venuta quando ci siamo accorti che, con il ministro dell’Ambiente, Marina Silva (un’altra persona per la quale chi ama il Brasile, indios e giungle amazzoniche non può non provare simpatia) Lula i contrasti li aveva eccome: contrasti sulle autorizzazioni da rilasciare per le piantagioni di soia ogm e, più in generale, sulla gestione sostenibile delle foreste.
Non so se, come asserisce qualcuno, in Amazzonia le cose siano andate peggio sotto Lula che sotto i suoi predecessori, ho l’impressione però che il premier qualche grosso errore l’abbia fatto: per questo è tempo di far qualcosa per rimediare a tali errori.
Spero vivamente che il secondo quadriennio del presidente sia migliore del primo: Lula pensi al suo nome, che non è semplicemente il nome di un invertebrato, ma di creature fantastiche, dotate di occhi e sistemi di adattamento alle condizioni estreme, che non hanno eguali in natura. Grazie ad essi i calamari giganti degli oceani riescono in imprese che sono precluse a tutti gli altri animali: anche il Lula presidente dunque, usi i suoi occhi per vedere le sofferenze di quell’oceano, ahimé sempre meno verde, che è l’Amazzonia, li usi per circondarsi di collaboratori leali, onesti, coerenti, in grado di resistere alle lusinghe dei potenti, e dotati a loro volta di occhi grandi, che li mettano nelle condizioni di disceere la luce dalle tenebre, la verità dalla menzogna, tecnicismo e sviluppismo dall’autentica civiltà e autentico progresso.
Ludovico Torrigiani
Fano (PU)

Anche noi speriamo e auguriamo a Lula di usare tutto il suo coraggio per realizzare i suoi programmi nel segno della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato, per il bene dei brasiliani, degli americani e altri popoli del globo.

«Usati»… a scuola

Caro Direttore,
qualche anno fa, mi capitò di imbattermi in uno scritto di padre Pietro Parcelli a Cava dei Tirreni (SA), quando insegnavo alle elementari in località Pregiato. Non l’ho conosciuto personalmente, ma idealmente è scattata una molla e da allora sono un Parcelli boy.
Mi si è aperto anche un mondo attraverso la vostra rivista, che stampa reportage sconvolgenti, che non trovano spazio da nessuna parte. Perché seguendo il dettato evangelico «la verità vi farà liberi» continuate per la vostra strada, io continuo con caparbietà la mia opera alle scuole medie e cerco di «usarvi», per comprendere il mondo attraverso occhi diversi da quelli dell’ufficialità, dove i silenzi superano la verità.
Anche io spero in un mondo migliore e di dare sempre il massimo, seguendo l’esempio dei miei genitori e di quanti mi hanno preceduto. Forse non farò mai carriera, ma è certo che i miei ideali non sono in vendita; come il senatore Bob Kennedy, deploro questa insensata violenza che non ci permette di cogliere il senso pieno e ultimo della nostra esistenza, che non si può ridurre e banalizzare di continuo, mentre c’è qualcosa di Alto che è da sempre lì e ci aspetta.
Come giornalista a voi il mio totale apprezzamento, come cattolico la mia stima, come insegnante il mio rispetto.
Vi auguro buon lavoro.
Giuseppe Bonavita
Saleo

Continui pure a «usarci», prof. Bonavita. Da parte nostra continueremo «la nostra strada» con altrettanta «caparbietà», per difendere e proporre gli ideali del regno di Dio: giustizia, pace e frateità.

Complimenti di… autore

Caro Paolo,
sono riuscito finalmente a dare uno sguardo organico al mio articolo (dossier di febbraio 2007: «Vivere e sopravvivere in tempi di Inteet. Nuove tecnologie e sud del mondo, ndr). Debbo farti i complimenti per l’ottima qualità del lavoro redazionale. Avete impaginato e trattato il mio pezzo in modo mirabile. La tua rivista conferma la mia posizione per un giornalismo di qualità, con una grafica accattivante e raffinata, che non uccide il testo, ma anzi lo esalta. In quanto a presentazione e impaginazione del testo, è di gran lunga l’articolo più bello sul tema, tra tutti quelli che ho potuto vedere finora. Le immagini non sono mai state banali e ho visto che hai corredato il tutto con opportuni link e didascalie.
 Mi è piaciuta molto soprattutto la titolatura che, oltre a essere efficace e attraente, denota anche una perfetta comprensione degli elementi davvero salienti del testo. Così come i sommari che hai scritto. Mi è piaciuta in particolare la doppia titolatura degli articoli: sei riuscito ad assegnare a ogni articolo un titolo accattivante pur mantenendo in background il vecchio titolo da me suggerito (più libresco).
Ho preso poi dei brani a campione per verificare il testo e non ho trovato alcun refuso.
Infine mi è piaciuta davvero molto la tua introduzione, che sottoscrivo in pieno per la lucidità e la lungimiranza della prospettiva. Inutile dire che hai fatto venire voglia anche a me di rinunciare al telefonino…!
Visto il risultato, mi piacerebbe avere il più alto numero possibile di copie della rivista, in modo da poter divulgare il dossier ogni volta che me ne capiti l’occasione.
GianMarco Schiesaro
Roma

Ringraziamo dei complimenti e ricambiamo di cuore, poiché il primo a meritarli è l’autore del dossier. E passiamo i complimenti anche alle nostre collaboratrici che hanno corretto le bozze nei vari passaggi e prove di stampa.

Troppo… bravi!

Carissima Redazione,
sono un vostro abbonato e leggo sempre con molto interesse la vostra rivista. Ho anche consigliato l’abbonamento a vari amici e amiche e ne ho fatto regalo ad altri. Finalmente mi è arrivato il numero di gennaio, con un mese di ritardo; mentre altri amici di Prato, anche loro abbonati, l’hanno ricevuto puntualmente.
Sono abbonato a 4 riviste missionarie e ogni tanto ne leggo anche altre, ma la vostra è fra quelle che più apprezzo.  Grazie per il vostro lavoro, il vostro servizio, la vostra sensibilità, l’equilibrio: siete proprio bravi!
Carlo Faggi
Prato

Rivista… a ruba

Sto tenendo un corso di storia delle religioni presso l’Università popolare di Torino; ho portato copie della vostra rivista con il dossier sulle religioni (gennaio 2007) e sono andate a ruba… Grazie e complimenti per la lodevole iniziativa.
Piergiacomo Oderda
Torino

Ecologista anandro… sarà lei!

Egregio Direttore, da ragazzo sono vissuto a pane e… missionari della Consolata (padri Broggi, De Agostini e tanti altri che vivevano nella chiesa di  san Matteo). Sono cattolico e ho il nonno materno di cui è in corso il processo di beatificazione.
Prossimo ai 65 anni, non posso essere tacciato di spirito polemico; ma non sono d’accordo con quanto pubblicato da Bellesi a pag. 3 del numero di febbraio 2007 (Occhio ai Poli, ndr), né in parte con quanto si legge alle pagine 53 e seguenti (articolo sugli inquinanti atmosferici nelle città, ndr).
Il fatto è che oggi si fa terrorismo, anche da parte dei media, parlando di cose di cui non si sa nulla, così per sentito dire e per egocentrismo. Il famoso antropologo Carapezza ebbe a dire che ci sono troppi «anandro ecologisti» (io dico che se ci fossero stati al tempo dei romani non avremmo il Colosseo e l’acquedotto).
Non sono i mari che si sollevano per lo scioglimento dei poli (mettete in un bicchiere cubetti di ghiaccio e acqua fino all’orlo: quando il ghiaccio si liquefarà il livello diminuirà e non traboccherà una goccia); è la terra che si rattrappisce! Vi accludo quanto detto dal prof. Zichichi.
Quanto alle polveri sottili apprezzo lo sfoggio di erudizione (troppo ridondante e magari in parte copiato), ma si dà il caso che il prof. U. Veronesi ha sostenuto, anche in tv, che sono irrilevanti per il tumore ai polmoni (Milano ha meno casi statistici di tale affezione rispetto a Torino). E le mascherine, con le quali tanti ridicolamente  vanno in giro, non le fermano!
avv. Vittorio Cuccia – Palermo

Lasciamo la risposta (né polemica, né offensiva) agli autori dell’articolo, che scrivono né per sentito dire, né copiando, ma in base alla loro esperienza trentennale. 

«La lettera dell’avvocato Vittorio Cuccia offre l’occasione per alcune utili precisazioni.
Il prof. Veronesi non ha detto che le polveri sottili non fanno male, ma che c’è di peggio nei cibi. Il problema non sta nelle polveri in generale, ma nella loro dimensione e composizione. Ad esempio, il prof. Veronesi ha lanciato l’allarme per le polveri di amianto, che sono cancerogene e che, notoriamente, fanno parte delle polveri sottili.
Sulle mascherine comunemente utilizzate l’avvocato ha ragione, servono solo per fermare le polveri grossolane, ma sono inutili per vapori, CO2, ecc.
Il prof. Zichichi non dice che l’uomo non può modificare il clima, ma che le attività dell’uomo possono influire sull’ambiente per una percentuale ipotizzabile fino al 10%, che è un valore sicuramente non trascurabile!
Il ghiaccio che si scioglie e che preoccupa è quello dei ghiacciai: l’acqua che si forma va a finire in mare e può aumentae il livello.
Infine, Torino è una delle città più inquinate d’Italia ed è quella dove si riscontra il maggior numero di tumori polmonari da amianto: se l’avvocato vuol venire a trovarci potrà rendersene conto di persona!
Non è terrorismo su cose di cui non si sa nulla, ma un’attenta analisi basata su dati scientifici incontestabili».
dr. Rosanna Novara e dr. Roberto Topino




AMERICANI… «ANTI-AMERICANI»

Lettera aperta all’ambasciatore statunitense in Italia, Ronald Spogli, a proposito di «anti-americanismo»

Egregio Ambasciatore,  
            

come cittadini statunitensi in Italia le scriviamo per chiedere una fine alle ingerenze della nostra Ambasciata nella vita politica dell’Italia. La sua lettera firmata da altri 4 ambasciatori per fare pressione sul governo italiano perché continui la sua partecipazione alla guerra in Afghanistan è stata una inaudita e inaccettabile interferenza dell’Ambasciata Usa nella dialettica democratica di questo paese, oltre a suonare offensiva alla grande maggioranza degli italiani, che, secondo i sondaggi, vorrebbero il ritiro delle truppe italiane, anche in rispetto dell’art. 11 della Costituzione, che dichiara che «l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie inteazionali».
Pochi giorni dopo, l’Ambasciata Usa ha compiuto, a parere nostro, una seconda grave scorrettezza: ha inviato a noi statunitensi in Italia una lettera di avvertimento di possibile pericolo per noi qualora avessimo voluto andare a Vicenza il 17 febbraio per protestare, insieme ai cittadini italiani, contro la creazione di una megabase Usa… La lettera caratterizzava tale manifestazione come «anti-statunitense» e consigliava a tutti di stare lontano dalla città dal 16 al 18 febbraio per evitare di diventare «bersagli di manifestanti anti-Usa». I contenuti della lettera non corrispondono alla realtà, diffondono paura e ignoranza, offendono l’intelligenza degli statunitensi in Italia e la realtà democratica della società italiana.

Prima di tutto, la manifestazione del 17 febbraio non è anti-statunitense; è contro la richiesta da parte del governo Usa di costruire una nuova megabase statunitense nei pressi del centro di Vicenza, città riconosciuta dall’Unesco come patrimonio culturale dell’umanità.
La verità è che la stragrande maggioranza dei vicentini e del popolo italiano non vuole questa ennesima base Usa (siamo già presenti in Italia con circa 20 installazioni militari). Il 2 dicembre 2006 circa 30 mila persone hanno manifestato a Vicenza contro la base, con un bel corteo colorato e pacifico, al quale hanno partecipato delegazioni di cittadini statunitensi di Firenze e Roma, senza mai incontrare episodi «anti-Usa». Anzi, la nostra presenza è stata molto apprezzata.
Distribuire una lettera ai cittadini per dire che corrono dei pericoli in Italia a causa di una manifestazione politica è un tentativo neppure troppo nascosto di scoraggiare o mettere il bavaglio ai cittadini che vorrebbero esprimere il loro dissenso dalle politiche di guerra dell’amministrazione Bush.
Lei, Ambasciatore, certamente rappresenta il governo di Bush e Cheney, ma le ultime elezioni federali negli Usa dimostrano che quel governo non rappresenta più la maggioranza del nostro popolo, soprattutto per quanto riguarda politica estera e guerra. La società Usa è profondamente malata di militarismo e i nostri concittadini dicono sempre di più: basta!
Alle manifestazioni contro le basi (Vicenza, Camp Darby, Aviano, Sigonella), alle manifestazioni contro la guerra, qui in Italia e in tanti altri paesi come negli Usa (le centinaia di migliaia di manifestanti a Washington e altre città Usa il 27 gennaio scorso erano dei pericolosi anti-americani?), la gente protesta non contro il popolo statunitense, ma contro la violenza delle guerre e delle occupazioni militari sostenute dal governo Usa in Iraq (più di 655 mila morti dall’inizio della guerra), ma anche in Afghanistan e Palestina. Protesta contro la militarizzazione del territorio e dell’economia, contro la presenza di basi straniere con lo stoccaggio di armi nucleari e all’uranio impoverito; chiede, come Amnesty Inteational, la chiusura del campo di Guantanamo e di tutte le carceri segrete e la fine dei voli segreti della Cia (p.es. il caso di Abu Omar), oltre alla fine della pratica della tortura e la violazione dei diritti umani: sono richieste «anti-americane»? Chiede un altro mondo possibile con una nuova cultura di pace e giustizia globale.

Noi cittadini statunitensi in Italia, come milioni di altri concittadini negli Usa, ci opponiamo alla politica di guerre all’estero e di cancellazione dei diritti civili nel nostro paese, portata avanti dal governo di Bush e Cheney, mentre seri problemi sociali vengono ignorati.
Negli Usa abbiamo il peggior sistema sanitario del mondo occidentale, con circa 50 milioni di persone senza assicurazione sanitaria. Abbiamo il più alto numero di persone in carcere e il più alto tasso di incarcerazione di tutto il mondo (siamo 5% della popolazione globale con 25% degli incarcerati), con più di 4 mila persone nel braccio della morte. Chiediamo risorse non per le forze armate, ma per la sanità, scuola, ambiente, lavoro, ricostruzione delle città, trasporto pubblico, solidarietà con il resto del mondo.
Quarant’anni fa, ai tempi della guerra in Vietnam, Martin Luther King dichiarò: «Siamo al punto, nelle nostre vite, in cui bisogna agire in prima persona, affinché il nostro paese sopravviva alla propria follia. Ogni uomo con le convinzioni umane deve decidere la protesta che meglio si adatta alle sue convinzioni, ma dobbiamo tutti protestare». E aggiunse: «Viene il momento in cui il silenzio è tradimento».
Noi, cittadini statunitensi in Italia, il 17 febbraio saremo presenti a Vicenza, perché a parere nostro la manifestazione contro le basi e contro le guerre è una manifestazione di sostegno anche alla maggioranza dei cittadini statunitensi che desidera un cambio di rotta nella politica statunitense, all’estero e in patria.

Statunitensi contro la guerra (Firenze)
Statunitensi per la pace e la giustizia (Roma)
www.peaceandjustice.it

statunitensi contro la guerra




Quando «euro» non fa rima con «democrazia»

Desidero esprimervi i miei più sinceri apprezzamenti per la lucidità, la serietà, il rigore con cui avete affrontato, nel numero monografico di ottobre-novembre, la spinosissima questione dell’unità europea.
Io non sono né euroscettico né europessimista; al contrario, sono entusiasta della moneta unica e spero che, dopo la Slovenia, altre nazioni possano presto aggiungersi al cosiddetto «gruppo dei dodici» (espressione sulla quale nessuno ha mai trovato nulla da ridire, ma che non rende giustizia al Principato di Monaco, Repubblica di San Marino e Stato del Vaticano, che all’euro hanno aderito dall’inizio…).
Proprio la simpatia per l’euro ha fatto nascere in me il desiderio di sapee di più sui motivi per i quali è ancora così contestato in alcuni dei paesi, dove è stato adottato (nella nostra Italia, per esempio, non sono certo pochi quelli che rimpiangono la lira…) e guardato con tanto sospetto in quelli che, secondo gli esperti, potrebbero e dovrebbero adottarlo.
In particolare, pensando all’estremo nord dell’Europa, mi sono chiesto perché vi sia tanta ostilità verso la moneta unica, tant’è che Svezia, Danimarca, Norvegia, Islanda preferiscono tenersi le loro corone, anziché seguire il percorso della Finlandia.

Il caso svedese forse merita qualche parola in più: infatti nel settembre 2003 lo schieramento favorevole all’introduzione dell’euro subì una bruciante sconfitta e dovette accontentarsi del 41% (i contrari, invece, superarono il 56%…) dei suffragi. Secondo i sondaggisti lo scarto sarebbe stato sicuramente maggiore se, pochi giorni prima del referendum, un fanatico, legato ad ambienti neonazisti, non avesse barbaramente ucciso l’allora ministro degli Esteri, Anna Lindh, una delle più convinte sostenitrici dell’adesione all’euro.
Come mai neppure l’ondata emotiva scatenata dal mai abbastanza deprecato assassinio riuscì a far incanalare i voti verso il «sì»? Come mai tanta differenza con le proiezioni dei sondaggisti che avevano dato i due schieramenti praticamente alla pari? Il politologo Hans Magnus Johansson diede una spiegazione molto chiara, usando termini e concetti molto simili a quelli adoperati da Alessandra Algostino e da Beard Cassen negli articoli pubblicati nel vostro numero monografico: «Il ragionamento è stato: no, in Svezia abbiamo la democrazia. A Bruxelles non c’è…».
Credo di poter dire che in questi ultimi 4 anni la situazione non è migliorata; anzi, ho la sensazione che lo schieramento sfavorevole all’euro si sia nel complesso rafforzato.
L’avversione degli scandinavi per la moneta unica dovrebbe costituire anche per noi italiani un ulteriore motivo di riflessione: siamo sicuri che più Europa voglia dire più democrazia? Siamo sicuri che le nuove tasse che le leggi finanziarie ci costringono in un modo o nell’altro a pagare (più tasse sulla casa, sul lavoro, sui servizi essenziali, sulle rendite da capitale accumulato in modo… normale, non per mezzo di speculazioni ai danni della collettività) servono davvero a risanare il debito pubblico e a rilanciare il paese? Non sarà invece che tutti questi miliardi vengono impiegati per aumentare lo stipendio, la pensione, la liquidazione ai superburocrati di tuo?

I paesi scandinavi hanno tanti difetti (certe piaghe come la criminalità, specie quella di stampo politico, e quella legata all’uso di alcornol e droghe, sono purtroppo lungi dall’essere debellate), ma a Stoccolma, a Oslo, a Coopenaghen e dintorni, è impensabile che chi ha amministrato per meno di 2 anni le ferrovie se ne vada con una buonuscita di 5-6 o 7 milioni di euro e chi è alla guida della compagnia aerea di bandiera percepisca 8 mila euro al giorno o giù di lì. È impensabile che codesti compensi vengano corrisposti a manager che hanno lasciato le aziende loro affidate in condizioni molto peggiori di quelle in cui le avevano trovate all’inizio del loro mandato.
Ma soprattutto è inimmaginabile che queste stesse persone e i politici che hanno avuto la sciagurata idea di piazzarle su certe poltrone, continuino, anche dopo aver provocato disastri finanziari dell’ordine di miliardi di euro, a predicare in nome della stabilità, della competitività, dello sviluppo, in nome dell’Europa e ad esigere altri tagli, altro rigore, altre tasse, altri scempi ambientali (Tav, Ponte sullo Stretto, ecc…).
In Svezia la pressione fiscale è, non da ora, una delle più elevate al mondo, ma gli svedesi le imposte le hanno sempre pagate volentieri, perché sono sempre servite ad assicurare servizi di qualità e una lotta efficace contro la povertà, contro la precarietà, contro il disagio, contro l’esclusione sociale, contro la sperequazione retributiva.
In Italia e nel resto dell’area euro possiamo dire la stessa cosa?

C. E. Pace (Pesaro)

Pace




Farla scomparire una volta per tutte

Malattie dimenticate (8): framboesia

Quarant’anni fa si pensava di averla sotto controllo e che appartenesse al passato. Ma la framboesia non è mai sparita e conta mezzo milione di casi nel mondo.

Un nome pressoché dimenticato per una malattia infettiva che sembrava scomparsa, ma che non lo era e ha ricominciato a diffondersi: framboesia (yaws in inglese). Deriva  dalla parola francese framboise, per l’aspetto delle manifestazioni sulla pelle caratteristiche di questa infezione, che ricordano il lampone: colore rosso vivo e superficie irregolare.
I numeri non sono altissimi: per quanto le stime non possano essere precise, oggi nel mondo sarebbero circa 500 mila le persone con questa infezione. Cinquecentomila casi, però, di una malattia che 40 anni fa si pensava di avere sotto controllo.

ANCORA UNA VOLTA INFANZIA E POVERTA’

La framboesia è una malattia infettiva causata da un batterio, di nome Treponema pertenue, che appartiene alla stessa famiglia del batterio responsabile della sifilide (il Treponema pallidum); al contrario di quest’ultima però, non è una malattia venerea. I treponemi della framboesia si trovano principalmente nella pelle: le lesioni ulcerative della cute ne sono piene e il passaggio del batterio avviene a seguito del contatto pelle contro pelle o attraverso lesioni per traumi, escoriazioni eccetera. La malattia è diffusa soprattutto fra i bambini, al di sotto dei 15 anni di età, che rappresentano i due terzi dei malati; la fascia di età con un maggior numero di casi è fra i 6 e i 10 anni.
Dal punto di vista climatico e geografico, la si trova diffusa soprattutto in ambienti caldi, umidi, nelle aree tropicali di Africa, Asia e America Latina, in particolare nelle comunità povere, nelle zone rurali, che vivono in condizioni di sovraffollamento e con scarsa igiene e inadeguato apporto di acqua.

CICATRICI E INVALIDITA’

L’infezione da Treponema pertenue coinvolge in particolare la pelle e le ossa. Una volta che il batterio è arrivato nell’organismo, a seguito del contatto diretto con la pelle di una persona infetta, dopo circa 2-4 settimane si forma una lesione nel punto di ingresso. La ferita iniziale è piena di treponemi e, dopo 3-6 mesi, va incontro a una cicatrizzazione naturale. Se il paziente non viene curato, compaiono in seguito numerose lesioni in tutto il corpo e possono manifestarsi dolori e lesioni alle ossa.
Nello stadio più avanzato della malattia, dopo 5 anni circa dall’infezione iniziale, il paziente può avere conseguenze invalidanti al volto (che può rimanere sfigurato), alle ossa, alle mani e ai piedi. Raramente la framboesia è causa di morte, ma in assenza del trattamento appropriato (che prevede un’unica iniezione di un antibiotico economico ed efficace, e le ricadute con ripresa della malattia sono rare), un paziente su dieci riporta le conseguenze invalidanti prima accennate, per la distruzione di pelle e ossa causata dall’infezione, con deformità in particolare di gambe, naso, palato e mascella.

TORNATA DALLA CENERI

Fra il 1950 e il 1970, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef) hanno portato avanti una campagna per il controllo della framboesia in 46 Paesi. Grazie a quella campagna, sono stati raggiunti con la terapia 50 milioni di persone e nel 1970 la prevalenza della malattia era crollata del 95%.
Il successo ottenuto in 20 anni ha ridotto il controllo sulla presenza e diffusione di questa infezione. Negli anni ‘70, riporta l’Oms, sono stati smantellati i programmi verticali indirizzati alla eliminazione della framboesia e le iniziative contro questa malattia sono state incluse nelle altre attività di sanità di base. Piano piano si è arrivati a un’attenzione sempre minore nei confronti della framboesia che, alla fine degli anni ‘70, è tornata a far parlare di sé.
Gli sforzi compiuti negli anni ‘80, soprattutto nell’Africa occidentale, sono falliti nel giro di pochi anni, per una mancanza di volontà politica e di risorse insufficienti; dal 1995 si sono rinnovati gli sforzi per eliminare la framboesia in diverse zone del mondo, ma senza un cornordinamento globale degli interventi.
Attualmente non è noto il numero esatto di casi di framboesia in tutto il mondo, perché in molti paesi, a partire dal 1990, non è prevista la segnalazione dei casi. Secondo una valutazione dell’Organizzazione mondiale della sanità, negli anni ‘90 la prevalenza globale, cioè il numero complessivo di persone con questa malattia, era pari a 2 milioni e mezzo, delle quali 460 mila nuove infezioni.
Nonostante non sia possibile sbilanciarsi su una cifra di diffusione attuale, vengono segnalati ogni anno 5 mila nuovi casi di infezione nel Sudest dell’Asia, e in particolare in Indonesia (4 mila casi) e Timor Est (mille casi), cui si aggiungono pochi casi in India.
Inoltre, anche se non si hanno resoconti precisi, la framboesia dovrebbe essere ancora presente in alcuni paesi dell’Africa subsahariana e nelle regioni del Pacifico occidentale: nel 2005 sono stati segnalati circa 26 mila casi in Ghana e 18 mila in Papua Nuova Guinea. Infine, non si sa quanti siano i casi di questa malattia nelle Americhe.

CON RINNOVATO VIGORE

Le caratteristiche della framboesia ne fanno una malattia che può scomparire dalla faccia della terra. Secondo gli esperti, come riportato dall’Oms, può essere controllata ed eliminata perché si tratta di un’infezione che interessa solo gli esseri umani (non vi è un passaggio attraverso gli animali), e la sua diffusione è ormai limitata a poche zone nel mondo, focolai localizzati dove programmare e mettere in atto interventi mirati. Inoltre, è disponibile un trattamento efficace, che prevede una singola iniezione di antibiotico: in questo modo non solo si ottiene la guarigione dei malati, ma viene anche bloccata la trasmissione del Treponema pertenue da una persona all’altra.
Infine, la diagnosi clinica è facile con un minimo di formazione del personale sanitario e le esperienze del passato in diversi paesi, e più di recente in India, hanno dimostrato che quella dell’eliminazione è una strada percorribile con successo.
A fine gennaio 2007, l’Organizzazione mondiale della sanità, con un comunicato, ha richiamato l’attenzione sulla framboesia, sottolineando come stia riemergendo nei contesti poveri e nelle popolazioni isolate di Africa, Asia e Sudamerica.
Lorenzo Savioli, direttore del dipartimento dell’Organizzazione mondiale della sanità sulle «Malattie tropicali dimenticate», ha sottolineato come sia inaccettabile la persistenza nel ventunesimo secolo di questa malattia infettiva, per la quale è disponibile una terapia non costosa ed efficace.
Ritornano dunque, ad anni di distanza dalla campagna del 1950, gli sforzi per eliminare la framboesia e le sue devastanti conseguenze, trattando tutti i casi di malattia e le persone che ne sono venute a contatto, interrompendone così la trasmissione e prevenendo le possibili complicanze invalidanti.
L’obiettivo complessivo è quello di ridurre al minimo la sofferenza e le conseguenze socioeconomiche della framboesia nelle popolazioni ove è presente, incoraggiati in questo dai successi ottenuti in India in tempi recenti. Nel Sudest dell’Asia è stato messo come termine per l’eliminazione della malattia il 2012, in particolare in India, Indonesia e Timor Est; inoltre, si stanno confrontando sul tema i paesi dove la framboesia è ancora diffusa, per sviluppare una strategia globale che si spera porti al successo, come quarant’anni fa.
«Una volta per tutte», però, conclude il comunicato dell’Oms. Senza riabbassare la guardia. 

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




La parabola del «figliol prodigo»(9)

La pateità / mateità è scandalosa

Nel numero precedente di MC non avevamo esaurito del tutto il v.12. Lo riprendiamo per approfondie la portata alla luce della scrittura. Abbiamo visto che il versetto riporta la richiesta del figlio e il gesto del padre come risposta (12b-c: bPadre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. cE il padre divise tra loro le sostanze).
Apparentemente tutto sembra pacifico e lineare, ma così non è perché ci troviamo di fronte a una tragedia.

Solo il primogenito eredita
La richiesta dell’eredità, infatti, da parte del figlio «più giovane», cioè non del primogenito, è contro il diritto e quindi illegale. Per la legislazione biblica il passaggio di eredità da padre in figlio avviene per testamento o per diritto naturale solo dopo la morte, pena l’invalidità (Eb 9, 16-17). Il diritto ereditario del primogenito supera qualsiasi altro legame, anche quello di amore tra marito e moglie:

Se un uomo avrà due mogli, l’una amata e l’altra odiosa, e tanto l’amata quanto l’odiosa gli avranno procreato figli, se il primogenito è il figlio dell’odiosa, quando dividerà tra i suoi figli i beni che possiede, non potrà dare il diritto di primogenito al figlio dell’amata, preferendolo al figlio dell’odiosa, che è il primogenito; ma riconoscerà come primogenito il figlio dell’odiosa, dandogli il doppio di quello che possiede; poiché egli è la primizia del suo vigore e a lui appartiene il diritto di primogenitura (Dt 21,15-17).
L’eredità spirituale di Eliseo
Si può pensare che la stessa idea soggiaccia al racconto di Eliseo che insegue il suo maestro, il profeta Elia a cui, mentre è rapito in cielo da Dio, chiede in eredità due terzi del suo spirito per proseguire la sua stessa missione:

Elia disse a Eliseo: «Domanda che cosa io debba fare per te prima che sia rapito lontano da te». Eliseo rispose: «Due terzi del tuo spirito diventino miei». Quegli soggiunse: «Sei stato esigente nel domandare. Tuttavia, se mi vedrai quando sarò rapito lontano da te, ciò ti sarà concesso; in caso contrario non ti sarà concesso»… Vistolo da una certa distanza, i figli dei profeti di Gerico dissero: «Lo spirito di Elia si è posato su Eliseo». Gli andarono incontro e si prostrarono a terra davanti a lui (2Re 2,9-15).
La Legge enumera dettagliatamente gli eventuali passaggi in base alla parentela, perché lo scopo dell’eredità è quello di non frammentare il bene, ma di consegnarlo alle generazioni indiviso, sotto la responsabilità di un garante che è il primogenito:

Quando uno sarà morto senza lasciare un figlio maschio, farete passare la sua eredità alla figlia. Se non ha neppure una figlia, darete la sua eredità ai suoi fratelli. Se non ha fratelli, darete la sua eredità ai fratelli del padre. Se non ci sono fratelli del padre, darete la sua eredità al parente più stretto nella sua famiglia e quegli la possiederà (Nm 27,8-11; per le figlie cf Nm 36,7-9).
Salvaguardia del patrimonio familiare
Al figlio primogenito dunque spettavano due terzi dell’eredità, mentre al minore solo un terzo. Egli però non poteva vendere il proprio terzo prima della morte del padre, che comunque mantiene il diritto dell’usufrutto. Il principio dell’unità del patrimonio è così forte che, anche al tempo di Gesù, se un figlio voleva vendere la parte del proprio patrimonio, vivo ancora il padre, il compratore ne sarebbe entrato in possesso solo dopo la morte del genitore del venditore. Il padre può fare una donazione in vita, ma è sconsigliata per le conseguenze negative che possono sopravvenire:

Al figlio e alla moglie, al fratello e all’amico non dare un potere su di te finché sei in vita. Non dare ad altri le tue ricchezze, perché poi non ti penta e debba richiederle. Finché vivi e c’è respiro in te, non abbandonarti in potere di nessuno. È meglio che i figli ti preghino che non rivolgerti tu alle loro mani (Sir 33,20-22).
 Il primo dato che emerge dalla parabola lucana è l’illegittimità della richiesta del «figlio più giovane» che diventa così una richiesta di morte anticipata del padre per potere godere del suo patrimonio. Nello stesso tempo «il figlio più giovane» viola la Toràh e le sue prescrizioni, dimostrandosi uno senza timore di Dio: per lui nulla ha valore, né il padre che vuole morto, né la Legge di Dio, che trasgredisce senza ritegno, rivelandosi non «figlio della Toràh», ma figlio pagano.

Amare da padre può significare perdere
Egli chiede la «parte di eredità che mi spetta» (v.12), sapendo bene che come «figlio più giovane», cioè secondogenito, non gli spetta alcuna eredità, ma solo quel terzo che nemmeno può alienare.
A rigore di legge, il padre avrebbe potuto buttare fuori di casa il «figlio più giovane» senza dargli nulla; oppure, come abbiamo visto, poteva condurlo in giudizio e chiedee la morte per lapidazione. Chi poteva dargli torto da un punto di vista giuridico?
Al padre però non interessa l’osservanza materiale della legge o avere riconosciuto il suo diritto al prezzo della vita del figlio; egli preferisce distruggere la propria vita, ma tentare di salvare il figliolo, piuttosto che non perdere la faccia, ma perdere il figlio. Non può obbligare con la forza della Legge ad amare con il cuore, perché nessuna legge può imporre i sentimenti e tanto meno l’amore. Non si ama perché si deve, ma si ama perché si vive.
Nel gesto del padre che prende la sua vita e la divide tra i due figli troviamo qualcosa di scandaloso: egli va oltre il diritto, oltre le convenienze, oltre le apparenze e pone se stesso come prezzo della colpa del figlio.
Il figlio pecca, ma è il padre che ne assume il peso e consapevolmente ne intende scontare la pena: «Divise la vita tra loro» (v.12). L’iconografia cristiana nel Medio Evo raffigurava il pellicano che si strappa il cuore per nutrire i suoi figli come simbolo del sacrificio di Cristo che il padre della parabola rappresenta perfettamente:

«A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,7-8).

Vangelo puro, senza se e senza ma
Troviamo nel gesto del padre qualcosa di più dell’amore affettivo di un padre: il figlio è un pagano, nemico del padre, e il padre lo ama senza porre condizioni, svelando così nel suo anonimato il volto intimo del Padre dei cieli «che fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45):

Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso… Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperae nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (Lc 6,32.35-36).
Il figlio chiede la «natura» del padre e questi va oltre la richiesta e dona tutta la sua stessa vita, con una abbondanza che va contro ogni logica e razionalità. Il padre ha un comportamento decisamente scandaloso: «A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo» (Lc 6,29-30).
Il padre che apparentemente sembra un remissivo senza spina dorsale, è invece un campione evangelico, l’esempio vivente dell’incarnazione del messaggio di Gesù:

Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi  vuol portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a camminare per un miglio, tu fanne due con lui (Mt 5,38-41).

Il padre e la vedova
Il figlio pretende la parte dei beni che non gli spettano perché non ne ha diritto, mentre il padre rinuncia al suo diritto e offre gratuitamente tutto ciò che è, perché sa che tutto ciò che ha proviene da Dio: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rom 3,23-24).
Egli è la controfigura della vedova che mette nel tesoro del tempio non quello che gli avanza, ma solo tutto ciò che è e tutto ciò che ha per vivere: due monetine, cioè la sua vita (cf Lc 21,2-4).
Chi rappresenta la vera «natura» di Dio è una vedova insignificante e un povero padre che si lascia depredare dal figlio non solo la proprietà, ma la sua stessa vita. Di fronte al figlio peccatore e parricida il padre si offre liberamente contro ogni logica, perché la misericordia non ha la logica della ragione, ma è la ragione dell’amore che genera e salva.
Il figlio è già salvo, anche mentre pecca, perché il padre lo ha riportato nel suo grembo per rifarlo nuovo, per redimerlo. Questo figlio non può perdersi e noi già ora sappiamo che egli si salverà, non perché si convertirà di sua iniziativa, ma solo perché il padre ha posto le premesse della sua redenzione.
Il figlio porterà con sé la vita del padre che si premurerà di custodirlo anche in mezzo ai porci; ma alla fine quella vita del padre che egli sperpererà sarà la forza che lo farà ritornare a casa. Il padre sa che solo lui può salvare il figlio, ma per salvarlo deve morire: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

Si è liberi quando si regala la propria libertà
Il figlio guarda al suo tornaconto immorale, il padre al contrario svuota se stesso, perché nulla vada perduto del figlio che vuole dannarsi da solo: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39) e per questo  non esita fino a lasciarsi uccidere per non condannare quel figlio che deve ad ogni costo essere salvato: «Spogliò se stesso» (Fil 2,7).
La fede è tutta qui, il cristianesimo non è altro: la libertà di regalare la propria libertà. L’espressione violenta del figlio più giovane, «dammi la parte che mi spetta», significa: vecchio, togliti di mezzo perché sei di ostacolo alla mia realizzazione e quando ti decidi di morire è anche troppo tardi. Io sono giovane e ho la vita davanti, ma tu sei vecchio e quindi inutile: dammi la tua vita che ci penso io a sperperarla.
Il padre sa quello che fa per questo figlio, a cui riconosce il diritto di chiedere la sua vita, perché è lui, il padre, che lo ha chiamato alla vita e non il contrario: «Chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25).
È lui, il padre, che deve fare testamento per il figlio e non il contrario, che sarebbe innaturale: dividendo la sua vita tra i due figli, il padre sceglie di stare con loro fino in fondo,  annullando così la pretesa del figlio di volere vivere per conto suo. Dando la sua vita, il Padre mantiene unito non il patrimonio, ma la vita dei due suoi figli e la sopravvivenza della sua famiglia.

L’Agàpe è Cristo
In greco il verbo «divise – dieîlen» è al tempo aoristo, che indica un’azione definitiva e irreversibile: divise completamente/del tutto/definitivamente, senza possibilità di tornare indietro; il padre non esiste più, perché ora vive nei figli.
Questo padre anonimo, perché espressivo del volto di Dio, è l’opposto del ricco stolto che accumula ricchezze e ingrandisce i suoi silos come se fosse eterno: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divertiti… Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita» (Lc 12,19-20). Al contrario, il padre della parabola considera le sue proprietà nulla, di fronte alla vita del figlio, e non esita ad offrire se stesso gratuitamente, senza chiedere nulla in cambio: egli è l’immagine incarnata dell’Agàpe di cui Paolo tesse le caratteristiche divine:

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’Agàpe, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’Agàpe, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi l’Agàpe, niente mi giova. L’Agàpe è paziente, è benigna l’Agàpe; non è invidiosa l’Agàpe, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’Agàpe non avrà mai fine… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e l’Agàpe; ma di tutte più grande è l’Agàpe! (1Cor 13,1-8.13).
Luca è discepolo di Paolo e sa perfettamente che per Paolo l’Agàpe non è un sentimento o un atteggiamento morale dovuto, quasi un imperativo della coscienza. Luca sa che l’Agàpe in Paolo non è altri che Gesù Cristo, che manifesta il cuore stesso della rivelazione e cioè che «Dio Agàpe è» (1Gv 4,8).
Qualsiasi morale, qualsiasi comportamento etico, qualsiasi osservanza di regole o precetti… tutto è vanificato e vale nulla, se non è vissuto e sperimentato e consumato nell’amore a… perdere, nell’amore gratuito che dona se stesso, perché soltanto nel dono si compie e si realizza, come il padre della parabola lucana, come Gesù Cristo da cui Paolo si è «lasciato afferrare» (Fil 3,12):

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi Cristo, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi Cristo, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi Cristo, niente mi giova. Cristo è paziente, è benigno Cristo; non è invidioso Cristo, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Cristo non avrà mai fine… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e Cristo; ma di tutte più grande è Cristo!
Non ci resta che tacere, adorare e amare, accogliendo anche noi l’invito di Gesù al dottore della legge: «Va’ e fa anche tu lo stesso» (Lc 10,37).           (continua – 9)

A cura di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Tu chi sei?

Malawi: Torino – Blantyre e ritorno

Vivere in Africa è un’esperienza molto particolare. E quando si torna c’è qualcosa che ti rimane dentro.
Gli ampi spazi, la natura, o forse il rapporto che si instaura con la gente. Un antropologo –  volontario in Malawi ci racconta i suoi perché.

Mi viene spesso chiesto da amici e parenti che cosa mi spinga a ritornare a vivere e lavorare in Africa, se sono anche io vittima di questo indefinibile stato d’animo detto «mal d’Africa» per il quale sembra, per fortuna, non essere stato ancora trovato il vaccino.
Credo che il desiderio di godere di una natura così generosa (spesso più alla vista dello straniero di passaggio che per la gente che la abita da sempre) sia sicuramente un aspetto non trascurabile. Il ricordo di tante mattinate trascorse in viaggio verso le zone di progetto (lo scrivente è volontario in Malawi, vedi box, ndr), per una riunione con le autorità locali piuttosto che per l’inizio di un nuovo pozzo, tra acacie deformate dal vento e pianure impolverate, mi risulta sicuramente più piacevole e meno stressante dell’imbottigliamento mattutino in corso Unità d’Italia per raggiungere il centro di Torino. Dunque sì, i famosi spazi africani hanno giocato un ruolo importante nell’avvicinarmi e apprezzare sempre più questo continente, oltre al fatto che questi posti sono popolati e ulteriormente arricchiti dalla presenza di animali che sin da bambino hanno stuzzicato la mia fantasia.
Come non stupirsi dinanzi all’imponenza di un elefante, all’eleganza di una giraffa, all’esibizionismo quasi snob di un leopardo disteso all’ombra di un ramo, al goffo riemergere dalle acque di un ippopotamo. Si sente spesso parlare dei cieli d’Africa, delle savane. Effettivamente la natura sembra dilatarsi, di giorno puoi godere di orizzonti non deturpati (o almeno non dappertutto) dalla cementificazione e di notte gli amanti delle costellazioni si possono perdere, in assenza di luci artificiali, in questo affascinante linguaggio del cielo.

Ma la vita che conduco qui in Malawi non è sempre fatta di parchi e savane, di spazi e cieli stellati. Allora mi chiedo, che cosa mi porta a ritornare in Africa, al di là di una bellezza paesaggistica indiscutibile?
Credo che la gente, il rapporto che si riesce a creare con le persone, anche se spesso solo «di passaggio» e con inevitabili barriere linguistiche, sia l’altro elemento determinante dell’interesse e del fascino che questo continente suscita.
Mi piace l’informalità e la spontaneità dei rapporti.
Se da una parte lo straniero è percepito come una sorta di «banca ambulante», un’opportunità per tirar su due soldi, dall’altra è spesso la semplice curiosità verso l’altro ad attirare le persone. Vengo sovente avvicinato da qualcuno, soprattutto in città, con la richiesta di un lavoro.
Ma il più delle volte le persone fanno seguire a uno sguardo incuriosito una serie di domande che ricordano i quesiti esistenziali di filosofi e pensatori o, se vogliamo, di tutti noi: «Chi sei? Da dove vieni? Dove stai andando?». Mi trovo così ogni tanto a urlare a uno sconosciuto che mi pone queste domande dall’altro lato della strada, tra il traffico di carretti e autobus fumosi: «Sono Dario, vengo dall’Italia, sto andando all’Inteet Caffè!». Un sorriso, un saluto, ognuno continua per la sua strada, tutto qua. E probabilmente segue, per lui, una serata nella propria abitazione a raccontare a genitori e famigliari che in mattinata ha incontrato un azungu (o musungu, uomo bianco) di nome Darewo che arriva dall’Italia, in cammino verso l’Inteet Caffè. Questa curiosità, il gusto della chiacchierata, dell’aggioamento, è sicuramente accentuato quando l’incontro avviene con lo straniero, ma è comune anche tra i locali. Per loro qualsiasi luogo e momento (il mercato, il caffè, in coda per la macinazione del mais o per l’acquisto delle sementi, all’ombra dell’albero) sono l’occasione per uno scambio, di sguardi e di parole.
Mi viene da pensare come spesso da noi avviene esattamente l’opposto. Si evita lo sguardo, c’è imbarazzo o disagio quando ci si trova a condividere uno spazio, magari limitato come un ascensore o la coda alle poste.

Ho sempre un po’ di difficoltà a riadattarmi, dopo mesi trascorsi in Africa, alla formalità di linguaggi e comportamenti, all’apatia e disinteresse verso chi ti circonda, anche solo per il tempo di un’attesa all’Asl piuttosto che alla cassa del supermercato. Mi trattengo dal chiedere alla signora che mi precede nella coda: «Ma lei chi è? Da dove viene? Cosa farà e cosa cucinerà dopo essere uscita da questo negozio?». Verrei probabilmente squadrato come un poco di buono, inopportuno curioso degli affari altrui.
Lo stesso se si entra in un locale, un ristorante o un bar.  In Malawi, se il locale è vuoto, ci si siede nel posto vicino all’unico tavolo occupato da un cliente, perché probabile occasione per fare due chiacchiere. E allora si attacca: «Da dove vieni, cosa ci fai qui?…», e così via. Nel corrispettivo bar del centro di Torino questo «avvicinamento» verrebbe probabilmente vissuto come un’invasione di campo. Mi immagino la signora di prima, quella del supermercato, commentare tra sé e sé: «Ma dico, con tutto lo spazio e i tavolini vuoti del bar, proprio qui vicino si doveva sedere…?».
È proprio così, il rientro a casa, in Italia, dopo periodi più o meno lunghi in Africa: è fatto di tante aspettative e voglia di ritornare alle radici, ma anche di tante delusioni.  Trovo la gente spenta o nervosa. I negozianti o non ti considerano oppure ostentano una gentilezza forzata e finalizzata alla vendita del loro prodotto. Ovviamente dopo qualche settimana mi abituo alla generale apatia, l’entusiasmo e la voglia di salutare «il mondo intero» si allentano, ma ogni tanto, come in un flash, mi chiedo come reagirei se il barista o la panettiera di tuo mi chiedessero: «Tu chi sei? Da dove vieni? Dove vai ora?». Probabilmente risponderei: «Sono Dario, sono di Torino, sto cercando di tornare in Africa».  

Di Dario Devale

Un paese sconosciuto

POCO CIBO, MOLTO AIDS

Il Malawi, paese dell’Africa australe sconosciuto ai più, è una striscia di 118 mila km quadrati (un terzo dell’Italia) incastrata tra l’omonimo lago, lo Zambia e il Mozambico. Per portarlo agli onori delle cronache mondiali c’è voluta la pop star Madonna, con la sua adozione «forzata», ovvero al di là del rispetto di ogni regola o procedura, di un bambino di quel paese.
Con una popolazione di circa dodici milioni di abitanti, è classificato dalle Nazioni Unite come uno dei paesi meno sviluppati al mondo, sulla base dell’analisi degli indicatori dello sviluppo umano. Il livello di mortalità infantile è di circa 103 decessi su mille nascite, mentre l’aspettativa di vita è intorno ai 42 anni.

Dotato di scarse risorse minerarie e un’alta densità di popolazione, la sua economia dipende fortemente dall’agricoltura. La posizione geografica priva di sbocchi sul mare, ha inoltre conseguenti costi penalizzanti sulla commercializzazione con l’estero. I principali prodotti di esportazione sono il tabacco (60% dell’export) e il tè. Anche zucchero e cotone sono esportati, mentre il mais è il principale prodotto di auto consumo.
Il settore agricolo fornisce il 38,4% del prodotto nazionale e occupa l’80% della forza lavoro. Questa forte dipendenza dalle esportazioni di pochi prodotti agricoli rende il paese fortemente vulnerabile agli andamenti dei prezzi sui mercati mondiali (quello del tabacco si è dimezzato negli ultimi anni), oltre alle ripetute siccità che colpiscono il paese. L’alto costo dei trasporti costituisce un ulteriore limite, senza dimenticare che il Malawi deve importare tutto il combustibile dall’estero. Quasi metà della popolazione è al di sotto dei 15 anni e la crescita demografica, superiore al 2%, impone una forte pressione all’ambiente.
Il terreno coltivato è intensamente lavorato, mentre la crescita della popolazione diminuisce la disponibilità di terra per persona, aumentando l’insicurezza alimentare (definita come quella condizione per la quale alla gente viene a mancare il livello minimo di cibo che permette un’esistenza energica e produttiva).
La pratica molto diffusa della monocoltura, prevalentemente mais, riduce nel tempo la fertilità dei terreni. A questo si aggiungono problemi legati all’erosione del suolo e all’inappropriata applicazione di concimi e fertilizzanti. Si calcola che il 60% dei malawiani vivono sotto la soglia di povertà e la malnutrizione rimane importante, con un 30% di bambini sottopeso.

L’attuale presidente, Bingu wa Mutharika, al potere dal maggio 2004, in seguito a elezioni contestate, ha l’oneroso incarico di lottare contro l’alto livello di corruzione e l’inefficienza dell’apparato statale. Il Malawi ha infatti estremo bisogno dei finanziatori inteazionali, come Banca mondiale e Unione europea i quali chiedono chiarezza nella gestione dei conti pubblici. I difficili obiettivi di Mutharika e il suo governo si possono riassumere come: limitare il deficit del bilancio, ridurre il debito pubblico, migliorare la qualità dei servizi pubblici e soprattutto stabilizzare l’economia.

Il Malawi è anche uno dei paesi più colpiti dall’Aids. Il 14,4 % della popolazione nella fascia tra i 15 e i 49 anni è affetta dal virus (fonti Unicef), e tra questi ragazze e giovani donne sono le più esposte al contagio. Le statistiche contano 900 mila sieropositivi, di cui 70 mila sono bambini. Questi contraggono il virus dalla madre, durante la gravidanza, il parto o l’allattamento. Gli orfani, invece, sono circa un milione, di cui la metà ha perso uno o entrambi i genitori a causa dell’Aids. Ogni anno sono circa 80 mila i morti per questo virus nel paese.
I bambini orfani e sieropositivi sono discriminati, oltre a non ricevere cure adeguate. Restano spesso esclusi dal sistema scolastico, dai servizi sanitari e di assistenza e sono più a rischio, rispetto ai loro coetanei, di abusi e sfruttamento.

D.D. e Ma.B.

Un progetto di sviluppo

CHI HA PAURA DELLA CARESTIA?

Il progetto al quale lavoro qui in Malawi mira a favorire una maggiore diversificazione della produzione agricola, attraverso la semina di patate dolci, cassava, cavoli e fagioli, oltre a piante di frutta, principalmente banane e manghi. Ovviamente non mancherà il mais, principale coltura del paese, dalla quale si ricava la nsima, una polenta locale, dieta quotidiana della famiglia malawiana.
Un adeguato sistema di irrigazione, basato sull’installazione di una pompa e pannelli solari, dovrebbe garantire la continuità nella produzione e raccolta, anche in tempi di scarsità o assenza di piogge, che quest’anno sono state abbondanti, ma che in passato hanno causato non pochi problemi, come nell’inverno del 2002, quando le scarse  piogge hanno sacrificato del tutto la produzione.
Al di là degli strumenti materiali (pozzo, sementi, sistema irriguo) il progetto dà importanza alla formazione delle persone, per un corretto utilizzo delle risorse, un’adeguata manutenzione delle stesse, per garantire quella fatidica «sostenibilità», cruccio e aspirazione di un qualsiasi progetto di sviluppo.
Un comitato di gestione dell’acqua verrà nominato dalla gente del posto e sarà responsabile del corretto utilizzo e manutenzione di tutto il sistema.

Gran parte del lavoro, almeno fino ad ora, è consistito nell’andare in giro a recuperare dati relativi alle varie fasi del progetto oltre che andare sul sito a consultare la popolazione beneficiaria. Per conoscere meglio il contesto dove lavoro ho cercato di incontrare e chiacchierare con molte persone, dall’infermiere del centro sanitario all’insegnante della scuola primaria. Si impara sempre molto, si conosce meglio il posto e forse si riesce a lavorare meglio.
Nel mese di novembre sono state distribuite sementi e fertilizzanti e ora la gente aspetta impaziente il raccolto, previsto per aprile. È questo un periodo dell’anno piuttosto difficile per i malawiani, perché da una parte si sta riducendo la riserva di produzione agricola precedente, ormai quasi del tutto esaurita, dall’altra non è ancora il momento di raccogliere la produzione successiva. È sempre un periodo di sacrifici e limiti, ai quali si aggiunge un incremento dei casi di malaria, legata al fatto che si è ancora in piena stagione delle piogge. Inoltre, soprattutto nelle aree rurali, si rischia di trascurare i sintomi e di non ricorrere tempestivamente alle cure del più vicino centro di salute, il più delle volte a qualche ora di cammino dal proprio villaggio.

La stessa distribuzione del raccolto tra i beneficiari del progetto dovrà tenere conto delle esigenze delle singole famiglie, ma anche di un’adeguata politica di marketing e vendita del raccolto in esubero. Questa operazione consentirà di acquistare ulteriori sementi e fertilizzanti negli anni a venire.
Nelle prossime settimane inizieranno inoltre una serie di incontri con un responsabile regionale dell’ufficio «servizi sociali». Verranno trattati temi come la ricerca di fondi, la stesura di un progetto, la gestione finanziaria e contabile. In futuro non ci dovrà più essere il musungu a suggerire eventuali attività di sviluppo dell’area, attraverso la gestione del progetto e il contatto con le autorità locali e i donatori. Una buona preparazione teorica, unita all’esperienza, dovranno favorire un approccio dinamico, attivo e partecipato dei soggetti del progetto.

Dario Devale

Cronologia essenziale

Regno di Kitwara, parte degli stati retti dal re dello Zimbabwe.
1835 Sessanta anni di guerre tra ngoni e chewa, alleati degli yao.
1859 Il paese è esplorato da Livingstone.
1891 Diventa protettorato britannico con il nome di Nyasaland, dal nome del lago Malawi, chiamato anche Nyasa.
1964 6 luglio Indipendenza, il paese è chiamato Malawi.
1967 Hatings Kamuzu Banda eletto presidente.
1971 Banda si definisce presidente a vita. Lungo regime dittatoriale legato al Sudafrica. Incarcerati e uccisi i dissidenti.
1990-91 Terremoti e inondazioni aggravano la scarsità di generi alimentari.
1993 14 giugno Adottato il multipartitismo nel paese grazie al referendum. Banda ha dovuto cedere a pressioni intee e estee (Banca Mondiale).
1994 17 maggio Prime elezioni libere, presidenziali e politiche. Bakili Muluzi, leader del United Democratic Front (Udf) all’opposizione viene eletto presidente.
1999 15 giugno Bakili Muluzi è rieletto presidente in seguito a elezioni non molto regolari.
2001 Il presidente dichiara lo stato di calamità naturale. La carestia causa molte morti in ambiente rurale.
2002 luglio Muluzi propone un emendamento alla costituzione per potersi ripresentare senza limite di mandato. Il parlamento lo respinge.
2004 20 maggio Bingu wa Mutharika, candidato dell’Udf è eletto presidente per cinque anni.
2006 David Banda, 14 mesi di età, raggiunge a Londra la cantante Madonna, contro ogni procedura di adozione del paese. Attualmente c’è un ricorso in tribunale di 67 associazioni malawiane.

Dario Devale




Con un tika sulla fronte

Reportage dal paese himalayano

Sebbene stretto tra due giganti come Cina e India, il regno del Nepal si è sempre mantenuto indipendente, a lungo difeso dalle montagne più alte del mondo. Paese povero, ma dignitoso, il Nepal è un esempio di tolleranza religiosa. Induismo e buddhismo, le religioni nettamente maggioritarie, non si sono mai combattute. Anzi, i fedeli hanno trovato molti elementi in comune. Intanto, il tempo è passato. Sono arrivati i turisti occidentali e le lotte politiche.

Bhaktapur. Appena superato l’arco della porta cittadina, sembra di entrare in un altro mondo. Un tiepido sole illumina la pavimentazione in mattoncini rossi di Durbar Square, la piazza del palazzo (durbar) reale. Sono le prime ore della giornata e per questo le strade, sempre interdette al traffico automobilistico, non sono ancora affollate.  Ma i nepalesi non mancano. Uomini, ma soprattutto donne si fermano davanti ai vari altari e tempietti induisti che sorgono ai lati della piazza. Fanno la prima puja quotidiana, l’offerta alla divinità. I fedeli sfiorano la statua con la mano, si toccano il capo e se ne vanno. Le donne portano piccoli vassoi con grani di riso, polvere di rosso carminio e soprattutto petali di fiore, che depongono sulle statue delle divinità. Il tutto è svolto singolarmente e in rispettoso silenzio.
Per questo suo carattere religioso Bhaktapur è chiamata anche Bhadgaon, che significa «città dei devoti». Fu fondata dal re Ananda Deva nell’899, ma la sua bellezza è dovuta principalmente ai sovrani della dinastia Malla, che a partire dal 1400 regnarono sulla città per alcuni secoli, fino alla conquista gurkha del 1769. La popolazione appartiene al gruppo newar, i più antichi abitanti della valle di Kathmandu, una minoranza (attualmente sarebbero circa 630 mila, ovvero il 3% della popolazione nepalese) famosa per le capacità organizzative e soprattutto per le innate doti artistiche. I sovrani di Bhaktapur poterono costruire i magnifici palazzi e templi della città soltanto grazie alle abilità dei newar. A loro si devono finestre, colonne, tetti in legno finemente intarsiato; sculture in pietra, legno, terracotta e bronzo; i progetti stessi di pagode (templi a più piani) e palazzi. Inizialmente buddhisti, oggi i newar sono in maggioranza induisti, ma, come in tutto il Nepal, le differenze religiose non hanno mai costituito un problema.
Percorrendo i vicoli, andiamo verso l’affascinante Taumadhi Tole,  dominata dal tempio di Nyatapola, a 5 tetti sovrapposti. Taumadhi è la piazza (tole) del mercato. I venditori stanno arrivando con la mercanzia sulla bicicletta o nella gerla (dhoko) che mantengono sulla schiena con una bretella di juta (namlo) che cinge il capo (così da mantenere libere le mani). Trovato il proprio spazio, sistemano tutto per terra. Al centro della piazza, ci sono i commercianti di vestiario, con articoli per la maggior parte di produzione indiana o cinese; su un lato, stanno invece i contadini, con i loro prodotti agricoli. Dai vicoli circostanti arriva sempre più gente. Tra poco la piazza sarà affollata e vociante.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              
Sempre a piedi, raggiungiamo Potters’ Square, la piazza dei vasai. Nome appropriato: sotto le tettornie sono raccolti centinaia di pezzi. In mezzo alla piccola ma affascinante piazza, gruppi di donne dispongono al sole le terrecotte ancora fresche.
Sotto un porticato in legno,  disposti in circolo su delle stuoie, un gruppo di uomini con il topi, il tradizionale copricapo dalla forma conica tronca, sono seduti a confabulare e a controllare alcuni strumenti musicali (tamburi e piatti). In mezzo al gruppo, anche un paio di lunghe pipe di legno (hookah). Parte la musica, ritmata e ripetitiva.
Intanto, in una via vicina, su un altare di pietra, si sta svolgendo un sacrificio animale, rituale comune nella religione induista. Accanto alla figura della divinità, ci sono piatti di frutta e ghirlande di fiori. Due persone, con gesti sicuri, su gradini già macchiati di sangue, tagliano la testa ad un capretto.  Poi lo sventrano. L’intestino viene estratto con cura e pulito con acqua. Alcune parti andranno sul fuoco,  altre verranno distribuite. Tutto è svolto con grande naturalezza sulla pubblica via. Dietro all’altare del sacrificio, un gruppo di soli uomini, dopo il saluto con le mani giunte, è pronto a suonare e cantare.     

La scoperta della dura realtà

Bhaktapur è storicamente una città di contadini, come si capisce girando per le stradine dove le pannocchie di mais e i peperoncini rossi sono appesi ai balconi di legno o distesi nei cortili, davanti alle porte di casa.                                                                                                                 Ma Bhaktapur è anche una città di artigiani. Entriamo in una piccola fabbrica tessile. Siamo accolti dal tipico suono dei telai in legno. Al lavoro ci sono soltanto donne dai vestiti sgargianti, che, scalze, pigiano sui pedali e con una rapidità impressionante muovono le mani sui fili del telaio. Ci accompagnano nella sala adiacente dove il suono diventa rumore. I macchinari, rudimentali, stridono e gracchiano per le operazioni di filatura. Le donne si sono distratte, ma non sembrano dispiaciute dell’interruzione.
«C’è qualcosa d’irreale negli edifici nei quali ci si trova. Ci si sente come comparse sul palcoscenico di un teatro, in mezzo alle quinte. Ci si aspetta di sentire un fischio e di vedere emergere gli operai che improvvisamente smonteranno questi palazzi e questi templi fantastici».  Così scriveva Alexandra David-Néel, scrittrice ed esploratrice francese (1868-1969). L’atmosfera non viene intaccata neppure dagli inevitabili simboli della modeità: il Namaste Cyber Cafe, un bar con postazioni internet, o il Money Exchange, una casa di cambio. Eppure, neppure Bhaktapur, città dall’affascinante aspetto medioevale e dalle atmosfere particolarissime, ha potuto fermare il tempo. La realtà quotidiana non può rimanere fuori dalla porta soltanto per il piacere di visitatori e turisti.  O magari per girare le scene di qualche film, come infatti fece il regista Beardo Bertolucci per  Il piccolo Buddha.

Il re c’è, Prachanda anche

Bhaktapur ha i problemi di tutte le città dei paesi poveri e per essi c’è chi propone soluzioni politiche diverse. In Nepal sono attivi vari partiti di filosofia comunista. Anche nella «città dei devoti» i manifesti (abusivi) dei maoisti sono attaccati sui muri di case e palazzi. I più raffigurano il volto del leader Prachanda, con baffetti, occhiali da intellettuale e, alle sue spalle, una bandiera rossa sventolante la falce e il martello.  Ma neppure il leader maoista rinuncia al tika induista sulla fronte. «Prachanda è un nome di battaglia, che significa più o meno “il più forte”», ci spiega Jeevan Nayabhari, giovane manager di un piccolo hotel cittadino.  Tanto è comprensivo con il leader maoista, quanto è duro con re Gyanendra, del quale dice: «Non è stato amato dalla popolazione fin dalla sua salita al trono, avvenuta nel 2001 in circostanze drammatiche. Nonostante la versione ufficiale, in pochi ritengono che lui non sia il responsabile del massacro di re Birendra e della famiglia reale». Un anno dopo quella tragedia, Gyanendra ha sciolto il parlamento e nel 2005 anche il governo. «Gyanendra – spiega Jeevan – ha violato la costituzione e si è preso tutto il potere. Soltanto dopo le rivolte di piazza ha fatto un passo indietro e ha riaperto il parlamento».
Re e bandiere maoiste, sacrifici animali e fedeli induisti: il puzzle sembra formare un disegno troppo astratto per essere vero. Vedremo a Kathmandu, la capitale nepalese, verso quale futuro si muove il paese himalayano.
(fine prima puntata – continua)

Paolo Moiola

Nepal, tra induismo e buddhismo

NEL PANTHEON NEPALESE

Nel paese himalayano non si sono mai viste guerre di religione. 
Sarà dipeso dalle religioni o dagli uomini?

Il Nepal è un paese che non ha conosciuto «guerre di religione». Anzi, secondo i professori nepalesi Chandra e Kumar, tutte le religioni si sono sviluppate in perfetta armonia, senza lotte ed intolleranza. Il paese himalayano ha tuttavia una particolarità assoluta: è l’unico paese al mondo ad essere una monarchia induista. Anche per la nuova Costituzione (datata 1990) la religione del paese è l’induismo. Tanto che, fino a metà del secolo scorso, il sovrano nepalese era considerato una incarnazione di Vishnu (che, con Shiva e Brahma, forma la Trimurti hindù). Oggi, in seguito ai recentissimi accadimenti politici (si veda la cronistoria), il re rischia di dover addirittura lasciare il paese.
 Il Nepal è dunque induista, nonostante abbia dato i natali al principe Siddhartha Gautam, chiamato «Buddha» (il risvegliato, l’illuminato) dopo che ebbe raggiunto l’illuminazione. Il fondatore del buddhismo nacque nel 566 avanti Cristo (ma la data è incerta) a Lumbini, un villaggio dell’India nord-orientale, che oggi è parte del paese himalayano. Secondo il censimento del 2001, l’80.6% della popolazione nepalese è induista e il 10,7% buddhista. Esistono inoltre alcuni esigui gruppi di musulmani (4,2%) e cristiani (0,4%).
Il buddhismo si divide in due scuole principali: quella dell’Hinayana («piccolo veicolo») e quella del Mahayana («grande veicolo»). La prima, avendo norme di comportamento molto rigorose e un’etica severa, consente a pochi di raggiungere il Nirvana, cioè la salvezza, l’armonia con il cosmo, la fine della vita materiale, la pace interiore, la felicità senza sofferenza. La seconda, al contrario, è più permissiva e dunque molti di più possono giungere alla salvezza. In generale, il buddhismo enfatizza la rinuncia alle cose del mondo, l’introspezione, la meditazione; il destino dell’uomo sta nelle sue mani, attraverso scelte e stili di vita adeguati. I monaci e le loro comunità fanno della realizzazione della dottrina del Buddha il contenuto esclusivo della loro vita. In Nepal, si è diffuso il buddhismo mahayana, ma con grandi influenze provenienti dal buddhismo praticato in Tibet (lamaismo) ed anche dal tantrismo di origine indiana. Il buddhismo è seguito dalle popolazioni nepalesi che vivono nella regione himalayana, tra cui gli sherpa, i gurung e i tamang, oltre che dai molti profughi tibetani che vivono nel paese.

Il termine «induismo» – avverte il Dizionario delle religioni – non può indicare (come originariamente si credette e tutt’oggi si continua erroneamente a credere) una determinata religione indiana, bensì va visto come un nome collettivo indicante un gruppo di religioni affini, ma tra loro diverse, che sono nate nell’Asia  meridionale (India, Pakistan, Bangladesh). L’induismo non è opera di un fondatore e non è costituito in chiesa. Esso ammette l’esistenza di un grande numero di divinità, molte con figura antropomorfa (ovvero con sembianze umane), altre con figura teriomorfa (ovvero con sembianze completamente o parzialmente animali). Ma – spiega il Dizionario delle religioni non cristiane – oltre alla fede in un mondo politeistico, l’induismo rivela anche tendenze inequivocabili verso il monoteismo, espresse dall’idea che molti déi sono in sostanza soltanto le maschere di un unico dio, denominato spesso Ishvara, cioè semplicemente «il Signore», un dio creatore a cui i buddhisti invece non credono. L’induismo non ha comunità monastiche come il buddhismo, ma prevede i brahmani, membri della casta sacerdotale, gli unici autorizzati a recitare i mantra vedici durante i riti sacrificali. Inoltre, mostra grande considerazione e rispetto verso coloro che hanno fama di vivere in santità e di possedere saperi segreti, come i guru (maestri spirituali, guide) e gli sadhu (asceti).

In Nepal, induismo e buddhismo convivono a tal punto che, soprattutto agli occhi degli occidentali, a volte risulta difficile distinguerle. E, d’altra parte, tra le due religioni esistono effettivi elementi di contatto. Entrambe parlano del karma, l’atto, l’azione del singolo individuo. Nell’induismo tuttavia il concetto è più complesso perché il karma si prolunga su più esistenze, cioè sia prima della nascita che dopo la morte. Entrambe, inoltre, prevedono la metempsicosi, ovvero la rinascita, la reincarnazione. La differenza forse più gravida di conseguenze pratiche è la non accettazione, da parte del buddhismo, della suddivisione in caste, che in Nepal (come in India) sopravvive nonostante sia stata ufficialmente abolita.

a cura di Paolo Moiola

Cronistoria essenziale

2007, l’anno del nuovo nepal

Dal IV al XVIII secolo:
Le dinastie più importanti sono quelle dei Licchavi (IV e V secolo) e dei Malla (X-XVIII secolo). I Malla edificano i palazzi e i templi più significativi di Kathmandu, Patan e Bhaktapur.
1768:
Il dominio della dinastia Malla viene chiuso da Prithivi Narayan Shah, re dei gurkha, che riunisce il Nepal. 
1846-1951, regno dei Rana:
Nel 1846, con una sanguinosa rivolta, i Rana, una dinastia di primi ministri, si impadroniscono del potere ai danni degli Shah, che divengono figure formali, recluse nel palazzo reale. I Rana si alleano con gli inglesi, colonizzatori della vicina India, riuscendo a mantenere indipendente il Nepal, ma accentuando anche il suo isolamento. Kathmandu fornisce milizie gurkha all’esercito anglo-indiano. 
1950-1959:
Il vicino Tibet è invaso dalla truppe della Repubblica popolare cinese (ottobre 1950). Inizia un esodo di massa della popolazione tibetana verso il Nepal e l’India. Nel marzo 1959 il Tibet è definitivamente annesso alla Cina e si verifica una seconda ondata migratoria.
1951, febbraio:
Finisce dopo 104 anni di dominio, il regno della famiglia Rana.
1961-1990:
Nel paese vige il sistema detto Panchayat, che attribuisce tutti i poteri al sovrano e non consente l’esistenza di partiti politici.
1990, novembre:
La nuova Costituzione nepalese trasforma la monarchia in una monarchia costituzionale e multipartitica.
1996, 13 febbraio:
Con l’attacco al posto di polizia di Holleri (Rolpa), in Nepal inizia la ribellione maoista. Durerà 10 anni e farà quasi 14.000 morti.
2001, 1 giugno:
Massacro nella famiglia reale. Vengono assassinati a colpi d’arma da fuoco il re Birendra e la regina Aishwarya, assieme ad altri 6 membri della famiglia reale. Il presunto assassino, il principe ereditario Dipendra, tenta di togliersi la vita ed entra in coma. Viene nominato re, ma muore dopo 3 giorni. Tocca allo zio Gyanendra, fratello di Birendra, essere incoronato re. Sulla sua estraneità alla tragedia rimangono però molti dubbi.
2002, maggio-ottobre:
Re Gyanendra scioglie il parlamento (22 maggio). Pochi mesi dopo (4 ottobre), licenzia il primo ministro Deuba.
2004, aprile:
Scioperi ed incidenti contro la politica del re.
2005, 1 febbraio:
Re Gyanendra assume poteri assoluti, giustificandosi con la necessità di combattere i ribelli maoisti.
2006, 10 aprile:
Re Gyanendra decide di riaprire il parlamento, chiuso nel maggio 2002.
2006, 21 novembre:
Pushpa Kamal Dahal detto «Prachanda», leader dei ribelli maoisti, firma un accordo di pace con il governo nepalese, guidato da Girija Prasad Koirala. In base all’accordo, esercito governativo e ribelli deporranno le armi sotto la supervisione dell’Onu. Entro giugno 2007 si terranno le elezioni per creare un’assemblea costituente che dovrà scegliere tra monarchia e repubblica. Intanto, nel parlamento ad interim entrano i rappresentanti degli ex-ribelli maoisti. Sono 83 su 330 parlamentari.
2007, 19 gennaio-26 febbraio:
Violente proteste antigovernative nella regione meridionale del Terai, al confine con l’India. Il popolo madhesi chiede più considerazione e autonomia.
2007, 27 febbraio:
In attesa della nuova costituzione, il governo decide di sequestrare le proprietà ereditate (dopo il massacro del 2001) da re Gyanendra.

Fonte:
Prakash A. Raj, «The Dancing Democracy. The Power Of the Third Eye», Rupa, New Delhi 2006.

Paolo Moiola




Davanti alla Tv, felicemente inebetiti

Qualche conclusione

2 marzo 2007, ore 15.00, in tv c’è Maria – I Simpson, il cartone quotidiano sulla famiglia «modello» statunitense, sono appena terminati portandosi dietro la loro dissacrante ironia sui vizi e le virtù di un intero popolo. Il tasto del telecomando scivola per sbaglio su un altro programma Mediaset molto quotato: Uomini e donne, condotto da Maria De Filippi. Un universo si schiude davanti a noi!
La scena ci appare così: due file di poltrone ospitano un pubblico composto da donne di mezz’età, tutte con i capelli biondi tinti e i vestiti «trendy». È il «coro greco»‚ de Roma. Al centro del palcoscenico se ne stanno, uno a fianco all’altro, tre maschietti palestrati, truccati e abbronzati in stile solarium. Sono gli «eroi». Dalla parte opposta, uno stuolo di belle figlie del popolo, le «villane» disperatamente innamorate e alla ricerca del fidanzato ideale.
Gli elementi della tragedia… italica ci sono tutti: il tono, nient’affatto solenne, scende nello slang buzzicone. La «lotta tra bene e male» è trasformata in battaglia per conquistare er coatto di tuo. La «catarsi» degenera in cagnara accusatoria: il coro di biondone attempate urla insulti ai ragazzotti muscolosi e narcisisticamente truccati, le vergini in trepida attesa si trasformano anch’esse in borgatare sbercianti. Una vera scenetta appassionante e liberatoria (nel senso che, dopo cinque minuti, una persona normale dovrebbe cambiare canale, tirando un sospiro di sollievo).
Ma veniamo alla piéce teatrale così come ci appare. I tre giovani uomini (bellocci) se ne stanno seduti ostentando i loro muscoli. Le fanciulle (belline) li guardano adoranti (ammiccando alle telecamere): «Sei bello, ti voglio conoscere», dice una a quello seduto in mezzo agli altri due; «Quanto sei figo, voglio frequentarti», gli dice un’altra; «Quanto mi piaci, sono venuta su dalla Calabria per vederti». Il prescelto, da buon galletto, non sa chi scegliere, fa il prezioso, il capriccioso. Gli altri due ragazzi si arrabbiano, perché «le ragazze sono tutte per lui». Il coro di madame inizia a inveire, a insultarlo. La De Filippi cerca di mediare; le giovani si inviperiscono perché lui le osserva «solo dal punto di vista fisico e non lascia trasparire la personalità di ciascuna». Insomma, un mercato all’ora di punta. Uno spettacolino costruito sul niente. Anzi, sul vuoto totale. L’amore, i sentimenti, la ricerca del fidanzato/a qui non c’entrano nulla, e neanche i rapporti tra «uomini e donne». C’entra la messa all’asta televisiva di carne umana, di facce, tette, muscoli e sederi. C’entra la pornografia, la perdita di ogni senso della misura e del pudore. C’entra la spazzatura.
La sintesi: 30 anni di «femminismo» buttati via grazie a un gruppetto di aspiranti veline pronte a prostituirsi pur di mettersi in mostra. Chi scrive e organizza questo zoo trash mira in basso, pensa a non far accendere il cervello.

Le ragazze «cin cin» – «Cin cin – cin cin assaggia e poi mi dici – cin cin, cin cin diventeremo amici…». Era la sigletta cantata dalle «ragazze cin cin» di Colpo Grosso, una delle prime trasmissioni a sfondo erotico, mandata in onda alla fine degli anni ’80 su Italia 7 e condotta da Umberto Smaila. Fece gran concorrenza ai programmi della Rai e di Mediaset.
Lo studio di Colpo Grosso era una sorta di sala scommesse: chi vinceva faceva svestire le «mascherine«, maschi e femmine. Poi, nel programma vennero inserite le ragazze «portafortuna» o «ragazze cin cin» usate per alcuni giochi e per eseguire gli «stacchetti» con tanto di strip tease.
Il format, vincente, venne acquistato da Svezia, Germania, Spagna e Brasile. Insomma, divenne un programma di successo nazionale e internazionale.
Colpo Grosso fece da apripista a tutte la spazzatura a sfondo commerciale-sessuale-antifemminile mandata in onda da allora in poi. Una vera vittoria per la tv italiana…
Se a quei tempi fece un po’ di scandalo e rivoluzionò il «varietà« nostrano con tette e sederi come madre natura li aveva fatti, ora tutte le sere e su tutti i canali Rai e Mediaset possiamo trovare «stacchetti» di veline, di corpi mercificati e esposti alle telecamere, programmi pseudo-culturali o di informazione che fanno scempio di ogni valore e intelligenza umana, fiction insulse con attori che non hanno mai imparato a recitare, telefilm comprati a chili dagli scarti americani, cartoni giapponesi intrisi di cattiverie e violenza, e così via.

«Ma perché te la prendi?» – Abbiamo scritto, nelle pagine di questo dossier, che i nostri figli (io ne ho 2) stanno crescendo di fronte a questa tv, usata come baby-sitter per tutte le stagioni, nutrendosi delle schifezze vomitate dal tubo catodico. Schifezze che livellano verso il basso ogni velleità intellettuale, ogni possibilità di far buon uso della ragione, del cervello; che insegnano a diventare indolenti, che anestetizzano di fronte ai problemi nazionali e inteazionali. Che tengono incollati davanti allo schermo a guardare, felicemente inebetiti, Sanremo sapendo che, per strapagare Baudo e la Hunziker e i loro ospiti, il governo ha emendato una legge che poneva un tetto ai cachet televisivi. Quello stesso governo che ha introdotto nuovi ticket, mentre le scuole hanno i banchi rotti e i laboratori di chimica e di informatica e di inglese e di biologia non funzionano perché non ci sono soldi… Quello stesso governo che per rifinanziare la missione di guerra in Afghanistan (approvata da destra-centro-sinistra insieme), potrebbe levarci altri servizi pubblici o per pagare l’inutile, dannosa e costosissima Alta Velocità, potrebbe ipotecare i Tfr dei lavoratori… Da bravi spettatori addormentati non ci accorgiamo che stanno facendo a pezzi il nostro presente, il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti e pronipoti…
«Massì, dài, perché te la prendi? In tv danno il Grande Fratello!».

Angela Lano

Angela Lano




I temi degli studenti

Macerie televisive

Una domanda che si faranno in molti: ma le menti che inventano, creano, generano programmi televisivi, hanno perso la fantasia? O meglio, gli italiani si accontentano di tutto ciò che passa sullo schermo del loro televisore?
La televisione propone sempre gli stessi programmi, con lo scopo di tenere incollati ad essa tutti gli spettatori, colpendoli con pubblicità e attesa, concedendo loro un contentino alla fine, rendendoli soddisfatti e appagati.
Palinsesti sommersi da valanghe di reality show tutti uguali: un gruppo di persone chiuse in un posto diverso, controllate dalla popolazione attraverso telecamere, che fanno prove, distruggendosi a vicenda, insultandosi, e all’arrivo di una becera maratona, vincono addirittura dei premi.
Oppure talk show dove lo scopo è intromettersi nella vita dei VIP, convinti che a tutti possano interessare gli amori, i fatti o le abitudini di attori o, addirittura, di politici. Purtroppo i documentari, i programmi di approfondimento giornalistico, o di cultura vengono trasmessi solo in seconda serata o alla mattina, nel fine settimana, facendo in modo di non urtare il tasso di ascolto di una rete.
Il problema è che la maggior parte degli italiani non nega a se stesso il piacere di farsi trasportare in una TV demenziale o banale, pur essendone in parte consapevoli. Ma cosa la rende così “irresistibile”? Sinceramente non trovo nulla che la renda insostituibile anzi, sarebbe meglio trovare un modo di decantare le macerie di una televisione ormai corrotta dall’ignoranza collettiva.

Roberta Panero

Quanti soldi buttati!

Da qualche anno a questa parte, si è assistito nel mondo televisivo all’intensificazione della tv trash, o spazzatura.
Questo fenomeno consiste nella presenza di programmi di bassissimo livello culturale e di utilità sociale, e che però attirano le masse.
Basti pensare alla situazione che c’era l’anno scorso sui nostri schermi: su ogni rete trasmittente (Rai e Mediaset) c’era almeno un reality per canale da Wild West e l’Isola dei famosi a Raidue, a Realitycorsos, e la Pupa e il secchione su Mediaset. Il tutto era susseguito dagli ulteriori approfondimenti pomeridiani con sintesi della settimana ecc… Se tutto si limitasse e finisse qua saremmo tutti felici, ma non basta! Anche alla fine di questi programmi seguono gli show di Costanzo e company con i concorrenti dei veri reality che raccontano le loro esperienze e che discutono vivacemente con i loro compagni.
È proprio in questo periodo che si è raggiunto il massimo livello di grezzità dei programmi.  Personaggi che si scambiano insulti l’un l’altro e che poi vengono invitati presso altri studi di altri programmi di altre emittenti dove raccontano cosa li ha mandati in uno stato di coma cerebrale, dove era solo la lingua a muoversi. Ovviamente in questi programmi non possono mancare altri opinionisti con cui fare battaglia di insulti. Quello che mi fa pensare di più e che allo stesso tempo mi sciocca maggiormente è il fatto che tutte queste porcherie viene fatto dietro lauto compenso, soldi buttati per vedere la gente rivoltarsi…
La cosa curiosa è che sicuramente questi programmi fanno schifo, ma la stragrande maggioranza della popolazione li guarda con una frequenza record. Sembra che la violenza, la voglia, il carattere e i modi di fare dei concorrenti sia più forte della ragionevolezza.

Denis Agostini

Quel telegiornale di «Italia Uno»…

La tv di oggi sta cambiando, cerca di adattarsi alle attenzioni ed ai bisogni dei giovani in particolare. Nei canali televisivi, da diversi anni ormai, vengono trasmessi reality show; il primo trasmesso in Italia, che ha spianato la strada ad un grande successo ai reality show in televisione è stato il Grande fratello. Negli anni successivi sono stati trasmessi diversi altri reality show, quali: L’Isola dei famosi, La pupa e il secchione, La fattoria e molti altri ancora. A mio parere, questi programmi sono stupidi, finalizzati unicamente a raggiungere un alto livello di odiens lasciando poco spazio ai programmi culturali sicuramente più intelligenti e rivolti maggiormente ad un pubblico generalmente adulto, ma che però riscuotono un minore livello di odiens e per questo spesso sono costretti a slittare o in seconda serata o nelle ore mattutine. La televisione spazzatura (o tv trash) provoca nei telespettatori, in particolare nei giovani una perdita di valori, in particolare di quello culturale. Ne è un esempio il programma televisivo La pupa e il secchione, in cui le belle ragazze, le «pupe» vengono dipinte come «stupide» e i «secchioni» devono essere per forza «brutti»; cosa che insegna a molti giovani che si fanno trascinare da queste idee che essere secchioni è una brutta cosa e che se lo sei, non hai una vita sociale o sei lo «sfìgato» di tuo. Secondo me i reality show o comunque tutti i programmi non educativi o destinati ad una visione unicamente adulta, dovrebbero essere spostati in seconda serata o comunque dopo le undici di sera. Oltre ai reality show, possono essere considerati «televisione spazzatura» tutti i programmi prodotti al solo scopo di raggiungere un alto livello di odiens che tralasciano alcuni aspetti fondamentali di una buona trasmissione, anche i telegiornali possono rientrare in questa categoria, per esempio quando i giornalisti sono «di parte» e lo fanno vedere o quando si assume un giornalista più in base all’ importanza del nome che alla bravura del soggetto: ne è un chiaro esempio Cristina Parodi, passata dal condurre varie trasmissioni come “Verissimo” al condurre il telegiornale di Canale Cinque oppure telegiornali che si preoccupano più di parlare di gossip e del mondo dello spettacolo che trattare i vari problemi che affliggono l’Italia e il mondo nella vita quotidiana, come ad esempio il telegiornale di Italia Uno.

 Marco Querro

La febbre del Grande Fratello

È ormai appurato e consolidato: la febbre Grande Fratello travolge tutti, favorevoli o meno, nel suo impeto distruttivo continuamente interrotto dagli spot pubblicitari: è inutile cercare di sfuggire all’attrazione irresistibile che questo programma della tv spazzatura esercita sul pubblico televisivo.
Marina, Roberta, Francesca, Pietro, Rocco, Salvo, Maria Antonietta, Sergio, Cristina, Lorenzo, aleggiano sopra di noi come i postumi di una sbornia, una sbornia architettata brillantemente da chi conosce bene l’indole umana, o più precisamente quella italiana: l’italiano guardone, pettegolo, moralista nei confronti della donna (vedi Marina, la «gattamorta») ed al contempo emulatore del grande Pietro Taricone, lo «sciupafemmine» che ha irretito la povera e indifesa Cristina, la quale pende dalle sue labbra, un italiano che s’illude di aver scoperto qualcosa di nuovo, un «Truman Show» in cui può interagire limitandosi ad alzare la cornetta del telefono (al modico costo di 1 Euro al minuto più scatto alla risposta), mentre non si accorge di una cosa che invece dovrebbe sembrare ovvia: quello che la tv ci propina sono le frustrazioni, le paranoie, la staticità della nostra vita, su cui purtroppo non possiamo agire così semplicemente.
Chi non si riconosce, o si vorrebbe riconoscere, in Pietro, il superpalestrato ma che è don Giovanni, o in Rocco, l’ambiguo e troppo sensibile, dalle argomentazioni deboli per le quali viene sempre preso in giro? Chi non vede se stessa in Cristina, così forte in apparenza ma in realtà vulnerabile e facile al pianto da una parola in su, oppure in Maria Antonietta, la docile Heidi della situazione, ma pronta a sfoderare una sensualità casalinga e poco credibile?
Laddove non ci riconosciamo, poi, siamo pronti alla critica: giudichiamo il comportamento di Roberta, spregiudicata e sempre sincera, dalla lingua tagliente, o quello di Marina, accusata di raggirare gli uomini né più né meno di quanto  lo faccia con le donne il «big Jim» Taricone, o la franchezza di Salvo che, ammette di aver bisogno dei 250 milioni delle vecchie Lire per sua moglie e sua figlia.
Non c’è che dire, chi ha creato il programma ha messo in piedi, con una notevole arguzia, un business incredibilmente redditizio: ha posto l’italiano davanti ai suoi peggiori difetti, ed ha ottenuto perfino che ne ridesse con gusto.

Debora Manzo

Una tv per spettatori pigri e manipolati

La tv odiea è diventata un contenitore di disinformazione o di informazione manipolata. Nonostante ciò riesce ad accattivare l’interesse di tantissimi giovani e di molte casalinghe. La tv spazzatura, si fonda su programmi dal basso contenuto educativo, tali trasmissioni televisive sono quindi volte e rendere le menti degli spettatori sempre più pigre nel ragionamento e più predisposte alla non selezione delle informazioni.
I generi di programmi prediletti sono i reality show o i talk show dove gli ascoltatori possono saziare le loro curiosità guardando da vicino la vita di altre persone. È proprio la curiosità innata nell’uomo a renderlo dipendente di una tv estremamente priva di qualsiasi spunto educativo ma sempre più ricca d’ipocrisia e corruzione. Dalle statistiche e dalle interviste è pervenuto che la maggior parte dei programmi apprezzati sono quelli che permettono alla mente di evadere, quindi che escludono il ragionamento. I lavoratori hanno ammesso in gran parte di preferire l’ascolto di programmi meno articolati poiché tornati a casa dal lavoro hanno voglia di rilassarsi e non di riflettere su tematiche elevate. Così anche gli spettatori dal loro canto non sembrano contrariati dall’assorbimento di informazioni superflue ma, anzi, appaiono consenzienti. Si auspica che non tutti approvino questo bombardamento di notizie leggere, ma che si ribellino poiché una televisione così strutturata esaurisce la sua utilità di media e di contenitore di informazione. Gli stessi politici e anche la moglie dell’ex presidente della repubblica Ciampi hanno definito la televisione del nostro secolo una televisione che non offre spunti intellettivi alla gioventù causando così un immagazzinamento di notizie di tutti i generi senza permettere loro di effettuare una revisione, una selezione e una pulizia di esse.

Valentina Venturuzzo

Veline, letterine o schedine?

Nella tv spazzatura che abbiamo oggi, dove veline, letterine o schedine… tanto non fa differenza… si spogliano, fanno calendari…
Abbiamo programmi che ci fanno vincere soldi, reality che mettono in evidenza la profonda ignoranza di alcune persone e allora come poteva mancare un programma che ci permette di fidanzarci? Visto che fuori non ne abbiamo la possibilità, e quindi bisogna andare in un programma!
La domanda che ci si pone è perché delle ragazze e dei ragazzi di bell’aspetto devono andare in tv per fidanzarsi?
Le risposte sono tante: questi ragazzi ci vanno perché pensano che questo programma sia un «trampolino» di lancio  per una carriera televisiva… io penso che per condurre un programma o recitare in una fiction piuttosto che in un film, bisogna avere delle basi e sapere ad esempio recitare, avere quindi fatto una scuola o un corso. Oppure forse pensano che verranno invitati in altri programmi…
Toando sul discorso dei reality, ad esempio, la pupa e il secchione, che senso ha mettere dei ragazzi che nemmeno si conoscono, a dormire nella stessa stanza e addirittura nello stesso letto?
Ma oltre questo, che senso ha mettere in evidenza le profonde lacune di queste ragazze… che oltretutto sono anche laureate (cosa che mette in evidenza il livello della scuola italiana).
Con questo tipo di programma viene lanciato un semplice messaggio: «Anche se sei stupida puoi fare televisione». E sì perché queste «pupe» sono diventate in breve tempo le idole di alcune ragazze. Perché pur essendo ignoranti vengono imitate in alcuni programmi e vengono anche fatte discutere su alcuni problemi.
Grazie a questi programmi adesso in tv avremo solo ragazze ignoranti, che fanno degli stacchetti e dei calendari.

Alessia

Voglia di identificazione

La televisione, oggigiorno, è diventata un mezzo di comunicazione molto importante per tutti: attraverso la tv si può essere al corrente delle ultime notizie attraverso i telegiornali; si possono imparare «cose» nuove seguendo i documentari; se ci si sta annoiando, si può passare del tempo guardando cartoni, per i bambini, e programmi trash per ragazzi e adulti.
Ci si può quindi chiedere: a chi sono rivolte queste tre tipologìe di programmi? I telegiornali vengono seguiti da buona parte delle persone e sono idealizzati per mettere a conoscenza dell’uomo ciò che avviene quotidianamente all’interno e/o all’esterno della propria Nazione. È anche vero, però, che i fatti di cronaca mettono alla luce avvenimenti terribili come attentati, omicidi, suicidi, guerre… possono quindi essere da ispirazione ai bambini, che ne traggono modelli da imitare. I documentari sono invece indirizzati a persone di qualsiasi età perché servono per l’istruzione e la cultura generale di ognuno di noi. Sono purtroppo seguiti da pochi perché considerati noiosi e meno graditi, ad esempio, di film o telefilm. I programmi trash,come soap opere e reality sono seguiti da molte e molte persone: bambini, ragazzi, aduIti. proprio perché intrigano. Un esempio di programma trash è il reality «Grande Fratello», conosciuto in tutte le parti del mondo. Il tema di un Grande Fratello che ci sorveglia e ci condiziona in ogni nostro pensiero e in qualsiasi scelta personale è tornato alla ribalta: ciascun telespettatore ha la possibilità di identificarsi in qualche modo nelle aspirazioni e nelle inevitabili disillusioni di personaggi «normali», tratti dalla vita reale. Come spiegare il gradimento? La risposta forse è che ciascuno di noi è sollecitato dal penetrare nelle vicende segrete delle persone e che certa televisione abbia elevato lo spettacolo stesso della vita della gente «della porta accanto». Un altro motivo per cui questi tipi di programmi vengono seguiti da molti, oltre che per il contenuto, è perché vengono trasmessi in una fascia oraria in cui sono tutti a casa: vengono appunto mandati in onda in prima serata, cioè alle 21.00, quando le famiglie hanno già finito di mangiare e sono sedute davanti alla televisione. È quindi giusto e istruttivo guardare questo genere di programmi? Non è possibile cambiare le abitudini delle persone facendo in modo che i programmi trash vengano seguiti di meno e i documentari di più? Tutto ciò spetta solo a noi decidere, sperando in un cambiamento del pensiero
«umano»…

Vanessa Mortari

«Stupidi» a chi?

I Vostri figli vanno male a scuola?
Hanno attegiamenti violenti? Vi sorprende che la maggior parte delle persone giovani non hanno un livello culturale elevato?
È solo colpa della «tv spazzatura», o quasi.
I ragazzi compresi dai 6 ai 18 anni adorano guardare  reality show, ma la maggior parte di questi programmi vengono ritenuti dalla società «tv spazzatura».
Almeno un ragazzo su due guarda questi reality, affermando che è consapevole della sua stupidità ma è fortemente attratto dall’odiens che produce!
Se i vostri ragazzi non hanno un buon rendimento scolastico è perché occupano tutto il tempo che stanno a casa per guardare questi programmi che, caso strano, iniziano nel pomeriggio  e finiscono la sera sul tardi.
Se i vostri ragazzi sono violenti è perché guardano questi programmi che istigano fortemente alla violenza. Ma non è questo il problema. Quello vero è che questi programmi vengono mandati in onda troppo presto in modo che anche i bambini che non riescono a distinguere completamente ciò che si deve fare da quello che non si deve, in quanto vengono seguiti poco dai genitori ma dai nonni e dalle bambinaie che si sa, li viziano o li lasciano fare ciò che vogliono.
Ma allora come fare per evitare questi problemi?
C’è chi dice. «Sono stupidi, bisogna eliminarli e sostituirli con programmi più culturali», e altri che dicono. «No, non eliminiamoli, spostiamo semplicemente gli orari!».
Beh, sicuramente in questi tempi è difficile dire a qualcuno di non fare o produrre qualcosa, in quanto abbiamo la libertà di pensiero, di stampa, di parola, ma è ancora più difficile mettersi contro i produttori in quanto sono già stati autorizzati dai vari programmi a mandarli in onda.
Ma secondo voi è davvero colpa dei produttori? Cari signori, penso che spetti a noi decidere se essere stupidi o no, ma soprattutto miei cari genitori se volete dei figli più seri e intelligenti non abbandonateli davanti al televisore perché siete stanchi, ma dedicategli più tempo giocando con loro.

 Carla

Studenti




Senza pubblicità, senza censura

Arcoiris Tv, un’esperienza unica al mondo

La televisione via internet di Modena è nata prima della (più) famosa «You Tube» …
intervista a Rodrigo Vergara

Arcoiris è un esempio di televisione intelligente.  Arcoiris è una tv gratuita, accessibile via internet.
Lo spettatore può decidere cosa vedere in qualsiasi momento, senza più vincoli d’orari e palinsesto. I filmati sono girati dall’equipe della tv e da contribuiti estei.
L’accesso è semplice: basta entrare nel sito www.arcoiris.tv, scegliere un film all’interno delle categorie presenti attraverso la connessione adeguata al proprio modem (Adsl per le connessioni a larga banda, 56K per i modem analogici), e il film è immediatamente visibile.
Con Arcoiris Tv è lo spettatore a scegliere cosa vedere e quando e accedere a informazioni che la tv tradizionale non offre per questioni di censura o altro.
Il sito offre un servizio di newsletter per informare gli iscritti sull’inserimento di nuovi filmati o di comunicazioni utili. Chiunque può collaborare con Arcoiris Tv con filmati o idee, scrivendo a comunicazioni@arcoiris.tv.
Rodrigo Vergara, argentino da anni in Italia, è il responsabile di Arcoiris. Lo abbiamo intervistato:  dice di non sapere nulla di tv…

Quando è nata Arcoiris?
«A novembre del 2003. Avvertivamo la necessità di fare qualcosa di diverso in campo televisivo: una tv senza pubblicità e senza censura, gratuita e senza palinsesto. E grazie a internet tutto ciò è stato possibile. Abbiamo in archivio 8.365 video (al 25 febbraio 2007, ndr), ma il numero non è stabile: ogni giorno ne arrivano di nuovi, tanto che non riusciamo a stare dietro alla mole di filmati da inserire online. Non hanno valore commerciale, ma culturale. Ci stiamo specializzando in tutto ciò che non viene trasmesso dalla tv tradizionale, commerciale, appunto. Quando abbiamo iniziato eravamo i soli: la tv via internet era una novità. Ora ce ne sono altre, per esempio You Tube».

Ha parlato di «noi». Chi siete? Avete una redazione?
«Per “noi” intendo il gruppo di lavoro a Modena e i tanti che sono iscritti alla nostra newsletter – 54 mila – e chi ci invia video da tutto il mondo e in tante lingue. Quanto alla redazione, no, non esiste. Ci limitiamo a fare film e ricevere quelli che ci inviano e a mandarli in onda senza manipolazioni o censure. Noi, l’informazione, non la manipoliamo. Infatti, il nostro slogan è: “Non vogliamo dimostrare, ma mostrare”. L’unica selezione che operiamo è sui contenuti razzisti, volgari, sul terrorismo e sulla pornografia (di video poografici è già piena internet). Per il resto, diffondiamo tutto ciò che ci inviano».

Da chi siete finanziati?
«Dalla Fondazione Logos, che si occupa anche di inviare a una mailing-list di 198 mila persone in tutto il mondo una frase tratta da opere letterarie, politiche o culturali in genere, tradotta in diverse lingue. Siamo finanziati anche da chi è iscritto, chi ci manda video, insomma, dalla gente comune che apprezza il nostro progetto e che vi contribuisce con offerte. Dunque, la nostra è la “tv di tutti” anche per questo».

Siete molto democratici, allora…
«Beh, questo non lo so. Ma sappiamo per certo che tanta gente ci segue e ci scrive. Abbiamo capito che c’è il forte desiderio di partecipare, di discutere su ciò che si vede e noi offriamo questa possibilità. Inoltre, abbiamo anche un satellite. Attraverso un meccanismo di votazioni, i nostri visitatori scelgono i video che vogliono guardare nel nostro canale satellitare: il film che ha ottenuto maggiori richieste viene proiettato».  

Lo spettatore, dunque, è attivo, non passivo ricettore delle scelte altrui.
«Certo, noi non siamo una tv tradizionale. La tv tradizionale è commerciale, cioè è fatta per vendere prodotti, non per informare, diffondere cultura, sapere. Manipola lo spettatore, lo convince subliminalmente a consumare tutto ciò che, in realtà, non serve. I contenuti della tv commerciale sono gli spot, che vengono interrotti per trasmettere programmi o film. Ora, c’è pubblicità anche all’interno degli stessi programmi: se si potessero eliminare e trasmettere solo spot, le aziende e chi beneficia dei proventi della pubblicità sarebbero molto più contenti. Ecco perché le tv puntano tanto all’audience: più spettatori ha un programma – con la sequenza ininterrotta di spot – più il prezzo della pubblicità per i prodotti reclamizzati sale. Più gente sta davanti alla tv più pubblicità si riesce a vendere. Questa logica vale sia per le tv private sia per quelle pubbliche, in Italia e nel resto del mondo».

In quanti paesi vi vedono?
«In 176, insomma in tutto il pianeta. La tv via web è visibile dovunque. È veramente globale. È una televisione fatta dalla gente e per la gente. Possiamo chiamarla della “società civile”, dove lo spettatore è attivo e non passivo fruitore. Riteniamo importante che le persone diventino capaci di fare tv da sole, ormai con le telecamere digitali è possibile. Noi foiamo loro l’attrezzatura e il mezzo per diffondere il lavoro così realizzato. Con la televisione tradizionale, invece, il ruolo attivo è solo di pochi, in genere raccomandati. Inoltre, essa ha lo scopo di raggiungere il grande pubblico, quante più persone si può, questo, per le ragioni pubblicitarie e commerciali di cui abbiamo parlato prima. Per essere attraente verso una fascia sempre più ampia di spettatori, la tv deve proporre programmi e film di qualità sempre più bassa, scadente. Chi, infatti, vuole palinsesti di qualità, sceglie ormai la tv satellitare e i video, ma deve pagare decine e decine di euro al mese di abbonamento. Non tutti possono permetterselo. La stragrande maggioranza dei telespettatori deve accontentarsi di ciò che propone la tv commerciale, con le ore di pubblicità giornaliere e i programmi “spazzatura”. Per fortuna c’è internet. Speriamo che attraverso questo spazio libero nascano migliaia di tv, libere e gratuite. Purtroppo, adesso le televisioni tradizionali sono monopolio di pochi che si spartiscono una percentuale altissima di spettatori. Nel prossimo futuro sarà il pubblico a scegliere».

La televisione ha un grande potere, soprattutto sui giovani.
«Sì, non è come i giornali: uno li può sfogliare distrattamente e non capire nulla di quello che sta scritto. Con la tv non hai bisogno di essere attento, di avere il cervello sveglio e recettivo: lei ti influenza comunque. Con i suoi programmi spazzatura rovescia tonnellate di schifezza sulla gente, e più il pubblico è costituito da bambini, da persone deboli e più il suo potere persuasivo è forte. Ci si stupisce della violenza che imperversa nelle scuole – handicappati picchiati e videoregistrati – o negli stadi, ma da dove si apprende un comportamento tanto incivile? Dalla tv. E, bisognerebbe aggiungere, dai parlamentari che si insultano e si aggrediscono l’uno con l’altro davanti alle telecamere che li inquadrano e mandano in onda nei Tg… Uno spettacolo penoso che incoraggia i ragazzi a imitarli: “Se lo fanno deputati e senatori, perché non lo posso fare anche io?”, pensano. E giù botte, magari contro il più indifeso. O allo stadio.
Poi, ci sono le emulazioni dei “personaggi”: molti giovani vorrebbero seguire le orme dei loro “eroi” in tv. Fare le veline o i palestrati opinionisti. Grandi risultati con poco sforzo. Allora, perché studiare? Perché sudare al liceo e poi fare l’università, se basta spogliarsi in tv o esibire qualche muscolo? Questo è il messaggio devastante che passano certi – molti – programmi televisivi. E i risultati disastrosi si stanno vedendo. D’altronde, la tv commerciale ha come “valore” il consumismo. L’importante è “far girare” l’economia, di tutto il resto, chi se ne frega! Abbiamo importato il modello statunitense».

Angela Lano

Il potere economico della pubblicità

MADE IN COCA-COLA

L’obiettivo della televisione non è più informare, ma formare il consumatore

È vice-caporedattore di Famiglia Cristiana e saggista. Nel suo ultimo libro, «I padroni delle notizie (come la pubblicità occulta uccide le notizie)», Giuseppe Altamore (www.giuseppealtamore.it) ha l’ingrato compito di farci riflettere sullo stato dell’informazione in Italia. 

Chi sono i «padroni delle notizie»?
«Gli inserzionisti pubblicitari, le concessionarie di pubblicità e le imprese editoriali controllate da queste. La minaccia alla libertà di informazione arriva dal potere economico della pubblicità. Il vero obiettivo dei mezzi di comunicazione non è quello di informare il cittadino, ma quello di formare il consumatore. Il lettore e il telespettatore sono diventati i “consumatori”. Ecco che, partendo da questa logica, si è sviluppato un giornalismo da “intrattenimento”».

La tv italiana è accusata di proporre programmi sempre più scadenti, sembra che nulla riesca a fermare la sua caduta verso il basso.
«La tv, questa tv, è profondamente influenzata dagli introiti pubblicitari. I programmi sono creati per soddisfare le esigenze degli inserzionisti, che mirano a raggiungere un pubblico sempre più vasto. È chiaro che tutto è orientato al ribasso. I programmi trash costano poco e rendono molto e, nella logica del profitto, questo conta più di tutto. La tv attuale non svolge funzioni educative, come invece faceva la “vetero-televisione” (quella degli esordi), ma mira a catturare un grande numero di telespettatori da influenzare nelle scelte commerciali. È una televisione influenzata dagli introiti e dai marchi pubblicitari.
Un esempio di quanto possa manipolare la pubblicità è rappresentato da Babbo Natale, inventato dalla Coca-Cola nel 1931. Il rosso dei suoi abiti riprendeva il colore delle bottiglie della bibita. Una réclame è stata trasformata in simbolo per milioni di persone! Il potere del marchio, della pubblicità è così forte da influenzare tutto il resto. Il pubblico, noi tutti, siamo vittime di un sistema in cui si deve produrre sempre di più. Tutta la nostra vita ne è plagiata».

Secondo lei, sono i programmi tv che offrono modelli di comportamento alla società, o è la società che influenza i format televisivi?
«È un problema che ha a che fare con la comunicazione: c’è un ricevente e un emittente, e entrambi influenzano la comunicazione. Se uno ha gli strumenti culturali adeguati, quando vede che in tv trasmettono certi programmi spegne o cambia canale, se non li ha, subisce. I programmi interessanti costano e adesso che la televisione è finanziata quasi esclusivamente da inserzionisti pubblicitari, la qualità è scesa molto. È un problema economico e andrebbe affrontato con leggi, regole che limitino l’intromissione pubblicitaria. Il nostro è un caso unico in tutta l’Europa: all’estero, la distribuzione delle risorse pubblicitarie è più equa. Quando un gruppo come Mediaset controlla con il 45% la stragrande maggioranza del mercato pubblicitario, il problema è serio. Il bombardamento pubblicitario è passato dai 20 mila spot della Rai monopolista (prima degli anni ’80) agli 800 mila di Rai e tv commerciali negli anni ’90. È un crescendo inarrestabile di interruzioni pubblicitarie che fruttano capitali incredibili e che manipolano, influenzano, condizionano il pubblico».
I bambini e gli adolescenti sono le categorie di spettatori più a rischio. Come si possono tutelare?
«Prima di tutto, i bambini piccoli non dovrebbero stare molto davanti alla tv, invece ci passano ore, ogni giorno, e spesso da soli, assimilando di tutto. Durante le pause pubblicitarie vengono veicolati messaggi che li influenzano profondamente, per non parlare dei programmi in sé. In secondo luogo, bisogna fornire ai ragazzi più grandi strumenti critici che li rendano in grado di difendersi. Nelle scuole bisognerebbe parlare di comunicazione, di pubblicità, fare corsi di giornalismo, mentre questo accade di rado».

Come mai tutti criticano il Grande Fratello eppure è un programma di grande successo?

«Perché quei personaggi rappresentano delle maschere, sono vicini alla persona qualunque. Non incarnano l’eroe irraggiungibile… Sono uomini e donne in cui chiunque può identificarsi. Si badi bene a non limitarsi a definire questi programmi semplicisticamente “spazzatura”: dietro ognuno di essi c’è una strategia comunicativa efficace. Chi li progetta – gli autori – ha un’abilità notevole nel saper veicolare messaggi. All’interno del programma nulla è casuale: è costruito per attirare proponendo modelli facilmente imitabili».                                                        

Angela Lano

Angela Lano