Tra gli ismaliti del Pamir

Una delle Ong più attive in Tagikistan è la Fondazione Aga Khan (Fak), arrivata nel 1993. L’origine di tale presenza è da ricondurre al sostegno che la Fak offre in tutto il mondo alle comunità dei musulmani ismailiti di cui l’Aga Khan è il capo spirituale.
È la seconda comunità sciita, staccatasi dagli sciiti duodecimani. Lo scisma risale al 760 circa. I duodecimani sono così chiamati perché riconoscono nella storia l’autorità di 12 santi imam, discendenti in linea diretta dalla famiglia del profeta. Alla morte del sesto imam, Giafar, tra gli sciiti si produsse una spaccatura: alcuni seguirono la linea dinastica che faceva capo al primogenito Ismail, morto prima del padre; gli altri riconobbero come imam il figlio minore Musa.
Nel XX secolo gli imam ismailiti, che da metà ’800 portano il titolo onorifico di Aga Khan ricevuto dallo scià di Persia, cominciarono a promuovere istituzioni per lo sviluppo economico e sociale delle loro comunità. L’attuale Aga Khan, Karim, diventato il 49° imam nel 1957, ha proseguito sulla stessa strada e nel 1967 ha costituito la Fondazione che porta il suo nome e opera nei paesi in cui vivono le comunità ismailite, ma estende i propri interventi anche agli altri abitanti, senza distinzione di razza e religione.
Concentrati soprattutto in Iran e paesi vicini, gli ismailiti si sono diffusi anche in Africa Orientale, Europa e Nord America.

È un principio che ha subito voluto puntualizzare Dovlatjar, uno dei responsabili della Fondazione in Tagikistan, da me incontrato nella sede di Dushanbe. Egli è un pamiri, appartiene a quelle popolazioni iraniche che, abitando le impervie regioni del Pamir, non furono toccate dalle invasioni turco-mongoliche e convertitesi all’islam ismailita all’inizio del secondo millennio.
Dovlatjar segue il programma della Fak per lo sviluppo delle comunità montane proprio nel Pamir. «Quando la Fondazione vi arrivò nel 1993, dovette fronteggiare l’emergenza cibo, causata dalla guerra civile e dall’isolamento della regione. Qui vivevano 250 mila persone, cui si aggiunsero i profughi provenienti da altre parti del Tagikistan. Passata l’emergenza, dal 1995 si è potuto pensare a uno sviluppo a lungo termine, con un programma di riabilitazione e costruzione di infrastrutture: strade, ponti, scuole, infermerie, canali d’irrigazione. Dal ’98 abbiamo incominciato a istituire le organizzazioni di villaggio».
A questo punto Dovlatjar ha dovuto darmi qualche spiegazione aggiuntiva. «In Asia Centrale c’è sempre stata la consuetudine di eleggere un capo villaggio, l’aksakal (barba bianca): persona autorevole e da tutti ascoltata, con il compito di guidare la comunità. Molti lavori erano fatti da tutto il villaggio: l’aksakal assegnava i compiti, stabiliva i tui per lo sfruttamento dei pascoli, che erano in comune; a lui ci si rivolgeva per un consiglio e dirimere una lite».
Gli abitanti di un villaggio si riuniscono, elencano le cose da fare, stabiliscono le priorità; poi le comunicano alla Fondazione che cerca di trovare il necessario contributo finanziario. Così le comunità sono responsabili nell’individuare le necessità, pianificare gli interventi, costruire e mantenere le infrastrutture.
Dopo un’ora di colloquio con Dovlatjar, cominciavo a capire come il sistema funzionava in teoria, ora desideravo vederlo in opera. L’ho visto a Garm, il centro principale della valle Rasht, dove la Fondazione opera in sette province. Qui ho conosciuto Azam, che tiene i contatti con le 43 organizzazioni di villaggio della provincia e che mi ha invitato a visitae qualcuna.
I l nostro primo villaggio è Shulmak. Vi scorre un torrente cristallino dove si pescano delle trote piccole e saporitissime, «ma anche molto difficili da acchiappare», aggiunge Azam. Si chiamano gol mâhi (pesce fiore), perché la loro pelle è cosparsa di puntini rossi, come minuscole corolle.
All’inizio della collaborazione con la Fak c’è sempre un’assemblea, in cui si stabilisce quanti intendono costituire una propria organizzazione di villaggio. Se almeno l’85% degli abitanti è d’accordo, si elegge un presidente, vicepresidente, contabile e la responsabile del gruppo delle donne. La Fac tiene a che le donne costituiscano un loro gruppo, perché in un ambito tutto femminile, senza la presenza dei mariti e altri uomini, hanno più agio di discutere e formulare le loro richieste.
A Shulmak quasi tutte le famiglie hanno aderito. Il presidente Rakhimov lo spiega così: «Ci siamo accorti che ognuno per sé non poteva risolvere i suoi problemi; così abbiamo deciso di metterci insieme e chiedere aiuto alla Fondazione. Ci siamo riuniti per decidere quali erano le cose da fare. Ne è venuto fuori un lungo elenco: infermeria, strada, scuola, canali d’irrigazione, ripetitore televisivo rotto, vasca per pulire il bestiame, centro per i giovani, ponte, generatore (abbiamo l’elettricità solo per due ore il giorno). Abbiamo scelto di cominciare con l’infermeria».
La stanno costruendo lì accanto. La Fondazione fornisce i materiali, ma il lavoro lo fanno gli uomini del villaggio. Nel frattempo sono stati avviati anche altri programmi: una piantagione di alberi per legname da costruzione, difficile da reperire; microcrediti per le donne, che possono così sviluppare la loro economia domestica e ricavae ortaggi e animali da vendere al mercato.
Arrivata l’ora del pranzo, sul tavolo sotto gli alberi, dove il presidente aveva disteso le sue carte e io prendevo appunti, sono arrivati piatti con anguria, melone, biscotti, pane. Pensavo si trattasse di una merenda veloce; ma di lì a poco è comparso un grosso piatto di carne, poi una montagna di pescetti grigiastri, con dei puntini rossi (i gol mâhi), da ultimo la minestra.
Capivo che non era cosa semplice per questa gente mettere insieme un pranzo del genere; ma alle mie rimostranze è venuta fuori la frase classica, che chiude ogni discussione: «Lei è un ospite!». La legge dell’ospitalità in questi luoghi è ferrea. All’ospite si offre tutto quello che c’è in casa, per accoglierlo si uccide anche l’ultima bestia. Non si può fare altro che accettare con riconoscenza.

D opo pranzo abbiamo visitato il villaggio di Loyoba. Il presidente ci ha ricevuto in casa sua. In questo villaggio c’è il problema dell’acqua. «Non ce n’è a sufficienza per irrigare i campi – spiega il presidente -; la falda acquifera è profonda e i pozzi normali non ci arrivano. Una volta c’era una piccola centrale che pompava l’acqua dal fiume, ma adesso non funziona. Con l’aiuto della Fondazione abbiamo costruito un pozzo profondo. La situazione è migliorata, però non basta. Dovremmo costruire una pompa, ma i macchinari sono costosi». Più della metà degli uomini del villaggio lavorano all’estero. Da una parte è un bene, perché a casa arriva qualche soldo; dall’altra non ci sono braccia a sufficienza e molti lavori ricadono su donne e bambini. Peggio di tutto, però, quando di uomini in famiglia non ce ne sono affatto: una vedova fa fatica a provvedere a sé e ai figli.

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra

image_pdfimage_print
/

Sei hai gradito questa pagina,

sostienici con una donazione. GRAZIE.

Ricorda: IL 5X1000 TI COSTA SOLO UNA FIRMA!