Ti amo da morire

Amore materno e figlicidio: intervista

Sempre più casi di genitori che uccidono i propri figli. Un «contrasto» psicosociale  in evoluzione ma prevenibile. E curabile. Un fenomeno moderno o una pratica antica? Come individuare la patologia, prima che sia troppo tardi. La parola alla specialista.

Da tempo si parla, più o meno con competenza, di disagio mentale grave e delle conseguenze sociali che comporta, come gli omicidi in famiglia in generale. Una realtà ancora più allarmante considerando il fatto che i riflettori sono puntati sul reato di figlicidio, ossia delle madri (o padri) che sopprimono la loro creatura in tenera età. Storie di dolore e sofferenza a cui la società non è ancora pronta (o non è in grado) di farvi fronte, nonostante tale «fenomeno» tenda ad aumentare, sia per numero di casi che per la molteplicità delle cause che sono all’origine del problema. Per sapee di più abbiamo intervistato la dottoressa Alessandra Bramante, psicologa, specialista in criminologia clinica ed esperta in psicodiagnostica forense. È pure consulente del Centro Depressione Donna all’ospedale Macedonio Melloni che fa capo al Fatebenefratelli di Milano. Autrice della recente pubblicazione Fare e disfare… dall’amore alla distruttività. Il figlicidio materno (ed. Aracne); inoltre membro e socio fondatore dell’associazione (onlus) Progetto Panda, che si occupa di prevenzione e trattamento del disagio psicosociale della donna in gravidanza, della puerpera e della mamma con bambini piccoli.

Dottoressa Bramante qual è la differenza tra infanticidio e figlicidio?
Infanticidio è un termine giuridico e si riferisce all’articolo 578 del nostro codice penale che prevede una pena diminuita per la madre che cagiona la morte del figlio durante il parto o subito dopo la nascita, in condizioni di abbandono materiale e morale. Quando si parla dell’uccisione di un bambino appena nato è quindi preferibile utilizzare il termine criminologico neonaticidio, che non ha valenza giuridica come il termine figlicidio, con il quale si intende l’uccisione di un figlio dal giorno di vita in poi.

In ogni caso si tratta di una realtà dal notevole impatto sociale. Quali le origini?
Sicuramente la notizia che una madre ha tolto la vita al proprio bambino suscita sgomento e profonda ansia collettiva, sia perché la vittima è un bambino sia perché viene ucciso nel luogo in cui dovrebbe essere protetto (la casa), e da chi più di ogni altro dovrebbe prendersi cura di lui. Ma le origini del fenomeno sono lontane: è un reato «vecchio come il  mondo», sempre esistito e addirittura in qualche periodo accettato o incentivato.

Cosa spinge una mamma a compiere un gesto così contro natura?
Sono molteplici le motivazioni che portano una madre a commettere figlicidio. Le più frequenti sono la presenza di una grave patologia psichiatrica, il neonaticidio, che ha motivazioni tutte sue, il troppo amore (sindrome di Munchausen per procura) e la sindrome di Medea.

Cos’è la sindrome di Medea?
La sindrome è un complesso di sintomi che caratterizzano uno stato morboso. In questo caso è riferito a quelle madri che uccidono il figlio per punire il vero oggetto d’odio e cioè il partner, proprio come fece Medea con Giasone. Tale sindrome, è nata per definire la madre figlicida, e oggi sembra essere più frequente nei padri che, incapaci di sopportare il dolore della separazione, uccidono il figlio per punire chi li ha abbandonati.

Il maggior numero di figlicidi riguarda più le madri o i padri?
Si tratta più o meno dello stesso numero di casi ma ben sappiamo che colpisce molto di più la notizia di una madre che uccide la propria creatura. In primo luogo perché le mamme uccidono bambini piccoli al contrario dei padri che uccidono giovani adulti. In secondo luogo perché spesso quando i padri uccidono non si parla di figlicidio ma di stragi famigliari, in quanto nel reato vengono coinvolti più membri della famiglia.

Tra le cause di figlicidio non meno importante sembra essere la depressione post-partum. In cosa consiste questa patologia? E in quanti casi si manifesta?
È una forma di depressione che colpisce il 10 per cento delle neomamme, ed è caratterizzata da sintomi ben precisi e riconoscibili quali: disturbi del sonno (non solo legati al pianto notturno del bambino), tristezza, perdita di interesse, isolamento sociale, senso di inadeguatezza, disturbi dell’alimentazione e trascuratezza di sé.

Perché la depressione post-partum è considerata il «lato oscuro» della mateità?
Perché è difficilmente riconosciuta dalle donne, in quanto è un aspetto negativo dell’essere mamma: piange, non dorme la notte, si sente insicura e crede che non sarà mai una buona madre per il suo bambino. La depressione post-partum è un «ladro che ruba la mateità», un qualcosa che fa paura. Ma se si prende coscienza del fatto che anche la mente si può ammalare senza vergogna, e si accetta di essere aiutati, è possibile uscie e godere appieno della propria mateità.

È una patologia prevenibile e curabile?
È una malattia troppo spesso non riconosciuta e sovente è sottovalutata, ma che se individuata in tempo è curabile. Ecco allora l’importanza di intervenire preventivamente soprattutto perché vi sono fattori di rischio già presenti durante la gravidanza come la familiarità psichiatrica, una gravidanza non desiderata, la vicinanza tra due gravidanze, la presenza della sindrome premestruale, oppure un rapporto di coppia conflittuale.

Nel nostro paese ci sono strutture socio-sanitarie preposte all’assistenza di queste donne considerate «a rischio»?
A Milano è sorto il Centro (primo in Italia) dedicato allo studio e al trattamento della psicopatologia della gravidanza e del post-partum. La struttura, denominata Centro Depressione Donna, ha compiuto due anni il 21 dicembre scorso, si trova all’interno dell’ospedale Macedonio Melloni e fa capo al Fatebenefratelli. L’équipe, guidata dal professor Claudio Mencacci e dalla dottoressa Roberta Anniveo, responsabile del centro. È uno staff in «rosa» formato da psichiatre e psicologhe, il cui lavoro si basa su colloqui psichiatrici, psicoterapia individuale e di gruppo, corsi di rilassamento, valutazione della relazione madre-bambino in collaborazione con la neuropsichiatria e lezioni ai corsi di preparazione al parto.

In alcuni casi dopo il parto la donna prova un senso di vergogna o addirittura di rifiuto al punto da dover sopprimere la propria creatura?
Può capitare che una neomamma non abbia fin da subito quello che viene detto «istinto materno» e che non senta quella forte attrazione verso il neonato. Ma sappiamo che non è vero che fare la madre è un’attitudine innata: si impara ad allevare un figlio giorno dopo giorno. Tuttavia, esistono casi estremi in cui la madre rifiuta totalmente il neonato o addirittura si vergogna di averlo generato, casi in cui si può arrivare all’abbandono oppure all’omicidio.

Cos’è la mateity blues?
È quella tristezza che accomuna il 70% delle neomamme, ed è caratterizzata da umore depresso (che non dura per tutto il giorno), ansia, crisi di pianto e senso di inadeguatezza che tende a risolversi nel giro di una o due settimane ma che se non sparisce rischia di trasformarsi in depressione post-partum.

In queste donne particolarmente fragili e «a rischio», quanto incide la solitudine o la poca attenzione nei suoi riguardi prima e dopo il parto?
Ha una grande importanza per tutte le donne, soprattutto nel post-partum, avere l’appoggio non solo materiale ma anche psicologico delle persone che gli stanno intorno, ancor di più ciò è importante per quelle donne più fragili e a rischio.

Quanto sono coinvolti il marito o i famigliari della neo madre che ha commesso il figlicidio?
Studiando questo fenomeno ma anche occupandomi di depressione post-partum, mi sono resa conto di come si tratti di donne sole, incomprese nella loro sofferenza che, se pur spesso manifestata, viene minimizzata e in certi casi anche negata dal partner e dai famigliari.

Che ruolo ha un padre nell’equilibrio di madre (moglie) durante la gravidanza e dopo il parto?
Nei corsi di preparazione al parto insegniamo alle future mamme l’importanza di essere aiutate e di coinvolgere il futuro padre in tutto ciò che riguarda la cura del bambino. Quello di un padre presente e accudente, non solo con il bambino ma anche con la neomamma, è un ruolo di basilare importanza al fine di prevenire la psicopatologia così come gesti estremi.

In quali casi, e perché, la memoria dell’accaduto viene rimossa? E dopo quanto tempo la madre che si è privata del proprio figlio «ritorna» coscientemente alla realtà e con quali reazioni?
Capita a tutti noi nella vita di accantonare quei pensieri o eventi che più ci spaventano e feriscono. Tale meccanismo di difesa si chiama rimozione ed è utilizzato dalla nostra mente per allontanare ciò che ci fa male. Ma nulla è dimenticato e il rimosso prima o poi riaffiorerà. In questo senso è importante il lavoro psicoterapeutico per accompagnare queste donne nel cammino di elaborazione di ciò che hanno commesso, dal momento che la donna quando realizza di avere lei stessa tolto la vita alla propria creatura, si trova a dover affrontare un dolore lacerante. In questo momento il rischio di atti autolesivi è elevato e da lì in poi la donna dovrà affrontare la vita con dentro di sé una ferita che mai potrà essere sanata ma con la quale dovrà imparare a convivere.

Cosa fa oggi la società per stare accanto alla donna che si appresta a diventare madre?
Purtroppo la società fatica ancora a muoversi in tal senso, anche se in quest’ultimo periodo c’è un po’ di attenzione a tutto ciò che riguarda la mateità. Rimangono comunque da sfatare quei miti sulla mateità che la società ci propone sotto diversi aspetti, come ad esempio il fatto che avere un bambino sia esclusivamente fonte di gioia, quando sappiamo che non sempre è così e che esistono fattori che possono impedire alla donna di vivere serenamente la mateità.

I mass media nel dare notizia di questi eventi sono sempre responsabili tanto da creare quell’impatto mediatico che potrebbe, in alcuni casi, compromettere il rispetto della privacy e della dignità della persona?
Troppo spesso accade che la privacy venga violata dall’accanimento mediatico e che resti la grave infrazione di essersi intromessi, non solo gli addetti ai lavori ma noi tutti spettatori, nella vita e nel dolore dei protagonisti di queste tragedie famigliari. Se una madre è innocente la sua immagine sarà infangata e, al contrario se colpevole, il suo atto deve riguardare la giustizia e la medicina, e senza ombra di dubbio sarebbe necessario spegnere i riflettori su di lei lasciando, a lei e alla famiglia, il tempo e lo spazio per elaborare il loro dolore. 

a cura di Eesto Bodini

Eesto Bodini

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