Proibito … sognare
Ricordi del passato e realtà presente … a confronto
A 10 anni di distanza non sono molte le cose cambiate in Eritrea. Anzi, sotto alcuni aspetti la situazione è peggiorata. Rimangono intatti i ricordi dell’ospitalità goduta e le amicizie intessute nei precedenti viaggi.
Avevo un certo timore nel ritornare in Eritrea dopo 10 anni di assenza, dal momento che più volte, rivisitando alcuni paesi a distanza di tempo, ho visto aumentata la povertà e, di conseguenza, diminuita la dignità delle persone. Questa volta l’impatto è stato forte, per il numero dei mendicanti e per l’aspetto macilento e sofferente delle persone, soprattutto anziani e donne.
PER LE VIE DI ASMARA
All’Asmara sono rimasta interdetta: qualcosa è cambiato, ma non molto. La città ha conservato il fascino dell’architettura italiana del primo Novecento, anche se in periferia sono stati costruiti alti edifici in cemento.
Sui gradini delle chiese la notte si vedono dormire i bambini, ammucchiati uno sull’altro per riscaldarsi, come fanno i gatti. Sono loro, i bambini di strada, che soffrono l’abbandono e la fame. Poi gli anziani, quelli soli, che hanno perso i figli morti in guerra; donne che restano per ore accoccolate lungo il muro della chiesa, avvolte nel velo bianco, il viso rugoso e stanco. Una di esse ha le mani rose dalla lebbra.
Nei quartieri centrali della capitale, invece, un tempo riservati agli italiani, passano gruppi di giovani ben vestiti e studenti con le uniformi delle scuole di stato. Sono stati aperti nuovi locali, caffè e pasticcerie; l’atmosfera è serena e anche la notte si gira per le strade in tutta sicurezza.
La polizia è sempre presente, anche in borghese. Sono più volte fermata, mentre cerco di fotografare gli edifici d’epoca coloniale, rimasti intatti, ora passati allo stato e utilizzati come uffici pubblici.
Nei nuovi negozi di elettronica e di elettrodomestici, come pure nelle farmacie, c’è abbondanza di prodotti impensabili 10 anni fa. I numerosi internet café sono affollati, anche se per avere una connessione ci vogliono ore. Ho aspettato inutilmente in fila per inviare un messaggio a casa; ho anche provato con difficoltà a collegarmi per telefono. Questo paese mi pare il più isolato e chiuso: la gioventù sogna di aprirsi e comunicare col mondo e il regime blocca ogni aspirazione e movimento. Gli stranieri, poi, sono sorvegliati speciali: per muoversi da una città all’altra occorre il permesso della polizia.
Il settore indigeno di Asmara è rimasto intatto, con i mercati e il caravanserraglio denso di attività, rumori e odori. Sono salita sulla collina di Nda Mariam: la cattedrale ortodossa al tramonto è un trionfo di luce e colori. Vecchie grinzose, sedute contro il muro della torre, si godono l’ultimo sole, curiose di vedermi tra loro. Rimango incantata, come tanti anni fa, osservando i fedeli prostrati davanti il portale e quelli che pregano col capo appoggiato al muro. Passa un sacerdote e una donna si inchina a baciare la croce.
Le ombre si allungano e il vasto piazzale è un’oasi di serenità, con i muri fioriti, il via vai di fedeli tra i vari edifici, ideati da un italiano, ispirato, nella sua opera di architetto, dai motivi tradizionali eritrei.
FRANCO RITORNA
Franco è appassionato di internet, di fotografia e della Dankalia, regione estremamente inospitale, situata in una depressione tra il Mar Rosso e l’Etiopia; terra di vulcani e laghi salati, che conosce molto bene. Sta preparandosi alla prossima spedizione, con un gruppo di antropologi toscani che da anni studiano e ricercano le tracce di uomini primitivi.
Italiano naturalizzato eritreo, Franco è nato e vissuto qui fino al 1973, quando gli italiani vennero espulsi. «Mio nonno, originario della provincia di Lecco, giunse in Africa nel 1890 con l’intenzione di raggiungere il Congo. Sbarcato a Massawa, si arrampicò a dorso di mulo fin sull’altopiano e in Congo non ci arrivò mai, perché decise di stabilirsi qui, all’Asmara». Franco parla arabo e tigrigno, ha frequentato le scuole italiane e conosce quasi tutti in città. Appena ha potuto è ritornato in Eritrea, per nostalgia del paese e anche perché in Italia aveva trovato difficile inserirsi.
Con internet ora si può collegare con gli amici italiani e lavorare sulle impressionanti foto prese nella depressione dancala.
Parte della casa di famiglia è stata venduta; ora gli rimangono poche stanze; ma il piccolo giardino è un orto botanico, curato da Franco con vera passione in questo bel clima di eterna primavera. Piante endemiche e altre esotiche come l’araucaria e la ginko, che non so come potranno trovare spazio per svilupparsi. La jacaranda è stata potata drasticamente, perché copriva tutto il tetto, che dovrebbe essere riparato. Durante la stagione estiva delle piogge, la lamiera arrugginita lascia filtrare l’acqua, che gonfia pareti e soffitti.
SUOR ZAUDI
Le ho telefonato e lei ha subito deciso di raggiungermi all’Asmara, prendendo la prima corriera da Keren, dove lavora con le orfane. Ci eravamo conosciute proprio a Keren, nel ’95, durante il viaggio che avevo fatto con i padri cappuccini per raggiungere il bassopiano e seguire le feste tradizionali di Tesseney e Barentu.
L’anno successivo ero ritornata per restare più a lungo con queste meravigliose suore di Sant’Anna e apprezzare il loro prezioso lavoro. Mi ero anche presa la malaria, un’esperienza forte, che mi aveva fatto capire il paese e la sua gente meglio di tanti viaggi. Quando pochi anni dopo suor Zaudì venne mandata a Roma per studiare, mi raggiunse a Torino per un periodo di vacanza.
Abbiamo tante cose da dirci e da ricordare. Le bambine di casa Foca, le orfanelle di Keren che avevo conosciuto allora, sono sposate con figli e Zaudì ha sempre lo stesso sorriso dolcissimo. Parliamo di Akrur, il remoto villaggio con la bella chiesa di san Giustino, che avevo visitato con le sue consorelle e dove avevo deciso di costruire un pozzo per portare l’acqua. Pare che la situazione sia molto migliorata per gli abitanti, ma è difficile poterlo raggiungere, non ci sono mezzi pubblici e occorre un fuori strada.
VIAGGIO A MASSAWA
Alganesh mi ha tenuto un posto accanto a lei, in prima fila sul pulmino di fabbricazione giapponese che ci porterà a Massawa. Ha 24 anni e l’aspetto di una donna forte e indipendente. Il viaggio dura poco più di tre ore, con la sosta a Ghinda per un tè.
Sono scomparse le vecchie corriere, importate dall’Italia e molto malandate, e lontano è il ricordo del mio primo viaggio, nel 1995, durato 11 ore a causa di lavori in corso. La strada è stata allargata e consente di andare veloci, lungo i tornanti che scendono ripidi tra i monti aridi e pietrosi. Babbuini curiosi ci osservano tra le acacie; passano piccole carovane con cammelli e capre. Donne ricurve trasportano sul dorso mucchi di legna, taniche d’acqua riempite alle rare fonti. Intanto sul pulmino vedo salire e scendere contadini e pastori, che approfittano di brevi passaggi.
Alganesh è felice di raccontare la sua vita. Due anni e mezzo di duro servizio militare le hanno consentito di accedere poi alla facoltà di economia, laurearsi e ottenere un posto di lavoro statale.
Domani è domenica, 7 gennaio, natale per gli ortodossi. Alganesh, come gli altri viaggiatori, sta ritornando a casa dai suoi per festeggiare e mi invita a unirmi alla sua famiglia, per il pranzo tradizionale. Pochi saranno in grado domani di uccidere l’agnello, i prezzi sono saliti troppo, ci si accontenta di shirò e ngera, con contorno di verdure.
MASSAWA
Ho trovato l’antica città silenziosa e melanconica. Nel ’95, terminata la guerra con l’Etiopia, ero rimasta affascinata da quest’isola, duramente colpita dai bombardamenti. Era piena di calore, di odori, di gente affaccendata. Si iniziava allora a restaurare le preziose case di madrepora, in stile arabo-turco. Ora vedo che gran parte delle case è in uno stato penoso di abbandono e alcune stanno per crollare.
Hanno spianato la zona del lungomare, dove sorgevano i capannoni delle barche e alcune belle case. Molta gente deve essersi spostata in terraferma, dove è sorta una vasta zona di baracche, fatte di assi, corde e lamiere.
Questa sera c’è la luna piena, momento magico per questa città. La luce bianca fa risaltare i merletti dei palazzi, nascondendone le ferite.
Trovo un solo uscio aperto sulla via, con una donna intenta a preparare la cerimonia del caffè. Ricordo il profumo dell’incenso che riempiva i vicoli, ancora pieni di vita. Io sostavo, invitata a gustare il caffè, seduta su piccoli sgabelli accanto a mamme occupate a dare l’ultima poppata al loro piccolo.
Brhane non lavora più al bar Savoia, che trovo già chiuso. Ci incontriamo al molo, dove ora fa il guardiano, la notte. Fatica a riconoscermi, poi ci abbracciamo. Chiedo della figlia, allora era una ragazzina bella e gentile, unica superstite della famiglia. La moglie e i quattro figli di Brhane furono uccisi dalle bombe etiopi.
«Portala in Italia con te!» mi aveva supplicato allora, questo vecchio malconcio, i denti guasti e gli occhi malati. È magrissimo, sotto gli abiti logori da far paura. Ora ci sono quattro bimbi da crescere e il marito della figlia è scappato in America e non si fa più sentire.
Situazione che pare essere comune oggi nelle giovani famiglie, dove gli uomini sono costretti a fare il servizio militare e appena possono scappano. Chi riesce a raggiungere il Sudan e successivamente la Libia, si dirige verso le coste italiane. Disperati, ma decisi a fuggire da un paese che non vuole ancora parlare di pace. La frontiera con l’Etiopia non è definita e la guerra incombe. Dovevano esserci libere elezioni, dieci anni fa. Il presidente è sempre lui, combattente eroe di guerra, che ora si può definire un dittatore.
Taulud è l’isola degli edifici eleganti, dove gli italiani avevano le ville più belle. Quella dei Melotti, proprietari della famosa fabbrica di birra, è stata rasa al suolo solo l’anno scorso. Un dispetto? Direi un gran peccato, era opera di un bravo architetto, in stile africano, sul mare, con molo privato e parco. Accanto c’è la villetta dove il presidente trascorre i fine settimana e le vacanze, ma non mi posso avvicinare, la polizia mi ferma.
Il palazzo del sultano ha squarci nelle cupole e lo scalone va in rovina. Il degrado pare irrimediabile, ma qualcuno ha autorizzato un’impresa coreana a costruire non lontano due orribili edifici a sei piani, in cemento armato grigio.
Una piacevole sorpresa è stato il pronto soccorso dell’ospedale, dove ho trovato assistenza gratuita in un ambiente moderno e pulito per un piccolo incidente avuto sulle isole. Sono stati costruiti ospedali nuovi di stato anche all’Asmara, Ghinda e Keren. Bisogna riconoscere che per la sanità, come per i trasporti pubblici, c’è stato un grande sforzo da parte del governo. Le spese militari sono comunque molto pesanti e condizionano l’economia del paese.
L’ISOLA VERDE
«Il mio paese ha sempre fatto una politica imperialistica, di aggressione: dalle Filippine al Sud America, poi il Vietnam e ora l’Iraq». Michel viene da Berkley, Califoia, e ha le idee chiare in fatto di politica. Esperto in energia alternativa, lavora per il governo eritreo nell’installazione di pannelli e collettori solari per portare l’elettricità nei villaggi più remoti.
Ci siamo incontrati sull’Isola Verde, un lembo di sabbia che affiora nel mare di fronte a Massawa. Un luogo magico, dove numerose colonie di uccelli marini vivono e nidificano indisturbate.
Il rudere di un’antica moschea è circondato da dense mangrovie e si specchia sul mare che racchiude le meraviglie della barriera corallina. Siamo sbarcati qui dopo aver attraversato in pochi minuti il canale che ci separa dalla città, ancora ingombro di relitti della guerra. Michel e i suoi colleghi sono felici di essere in Eritrea, un paese così diverso dagli altri paesi africani, affascinante per i ritmi sereni di vita e per l’atmosfera ancora italiana delle città.
ISOLE DAHALK
È un arcipelago al largo di Massawa, con una lunga storia: contese a lungo tra abissini e arabi, le isole furono nei secoli un importante scalo per le navi dirette in India, luogo di confino per gli avversari dei califfi e successivamente centro di studi coranici.
Il tempo è molto brutto, tira vento, il mare è mosso, tanto che anche il cuoco, un anziano sottile dal viso rugoso, soffre il mal di mare. Arriva da Assab e ha sempre lavorato su grandi bastimenti.
La nostra è una piccola barca a motore. Portiamo con noi tende e rifoimenti per poter trascorrere quattro giorni sulle isole, che emergono di pochi metri dalla superficie del mare, banchi di sabbia corallina, circondate da barriere ricchissime di vita. Il plancton è molto abbondante e i pesci colorati hanno dimensioni enormi. Trigoni, squali e tartarughe sono frequenti da osservare, ma bisogna sapere bene dove immergersi.
Ci fermiamo a Dissei, l’unica delle isole Dahlak di origine vulcanica. Un minuscolo villaggio di poche capanne è abitato dagli afar, gente proveniente dalla Dankalia.
Ho portato con me la foto scattata qui dieci anni fa. Barbarossa, il capovillaggio, era seduto davanti alla capanna e mi offriva polipo fritto in una ciotola. Ora non c’è più, è morto due anni fa; ma sua figlia mi vuole vedere e mi invita nella sua casa, fatta di pali di acacia contorti. La cucina è separata dalla camera, dove ci sono due letti alti, in legno e stuoia, con le leggere coperte bianche ricamate a punto croce; letti identici a quelli visti nelle case di Zebid e Hays, nello Yemen. La regione yemenita della Tihama e l’Eritrea si affacciano sullo stesso mare e da sempre hanno avuto rapporti culturali e commerciali.
Gli uomini parlano italiano: da piccoli erano stati mandati a studiare a Massawa, nelle scuole elementari delle suore di Sant’Anna.
Dall’altra parte dell’isola si intravede un villaggio turistico in costruzione, fatto da capanni in cemento. Forse il turismo potrebbe aprire la società eritrea, ma la gente del luogo è sospettosa: si dice che tale progetto appartenga a un eritreo, arricchitosi in Italia con la gestione di una larga rete di venditori ambulanti, e sia appoggiato dal fratello di un politico italiano, amico del presidente eritreo. n
Claudia Caramanti