Peggio di così…
La più povera repubblica socialista dell’Urss, il Tagikistan è rimasto tale
con l’indipendenza (1991), tanto da rimpiangere il tempo che fu.
Il paese offre panorami mozzafiato, ma non ha strutture turistiche;
la gente è generosa, ma deve sopravvivere… con l’emigrazione.
Al turista frettoloso non consiglierei mai il Tagikistan: le strade sono in condizioni tali che qualsiasi spostamento, fuori dalla fascia di alcuni chilometri intorno alla capitale Dushanbe, è impresa assai ardua. Esse non vengono riparate da più di 10 anni, da quando il Tagikistan ha ottenuto l’indipendenza. È facile immaginare cosa ciò voglia dire in un paese in cui quasi metà territorio si trova oltre i 4 mila metri e meno di un quinto sotto i mille. Chiazze del vecchio asfalto sono rimaste qua e là; ma sono così sforacchiate che gli autisti preferiscono evitarle e passare sulla parte sterrata.
Ma per chi non ha fretta questa circostanza ha i suoi vantaggi.
La carretta su cui stavo viaggiando arrancava a fatica verso il passo di Anzob, a 3.700 metri. Per fare raffreddare il motore, ogni quarto d’ora l’autista si fermava accanto al solito ragazzino, pronto lungo il ciglio con la lunga canna dell’acqua. Intanto, avevo tutto il tempo di ammirare il paesaggio e abituare l’occhio alle sue bellezze sempre nuove. Scendevo dalla macchina, assaggiavo l’aria, sempre più frizzante, e tiravo fuori la macchina fotografica.
L’Asia Centrale riserva agli amanti della montagna mille sorprese ed emozioni. Non avrei mai pensato che in natura potessero esistere tali e tante varietà di forme, colori, vegetazione nello spazio di pochi chilometri. Da una parte del crinale le valli sono aperte, i declivi morbidi ed erbosi, la roccia bianca; dall’altra tutto è brullo: rocce nere, verdi, azzurrognole si levano perpendicolari. Passa qualche chilometro e la montagna si colora di rosso.
Il veicolo su cui stavo viaggiando era un’auto privata. I trasporti pubblici interurbani sono quasi inesistenti. In due settimane ho incrociato solamente un vecchio autobus, che faceva servizio (irregolare) tra alcuni paesi vicini. Chi ha vera necessità di muoversi deve armarsi di pazienza e aspettare un taxi collettivo o un privato che vada nella direzione voluta. Fino a che non sono riempiti tutti i posti, non si parte. Può capitare di metterci mezza giornata, uno, due giorni per compiere anche brevi percorsi. La va a fortuna.
RICORDI DI TERRORE
Ho aspettato più di tre ore, prima che si riempisse il taxi, diretto a Garm, cittadina a circa 200 chilometri da Dushanbe. Per ingannare l’attesa proposi al taxista Giamshid di andare a bere qualcosa.
Il nome del paese mette ancora paura. A Garm e nella regione omonima ha imperversato con particolare ferocia la guerra civile, che, tra il 1992 e il 1997, ha visto fronteggiarsi le bande paramilitari dei post-comunisti filogovernativi e quelle della cosiddetta Opposizione unita, un’insolita alleanza tra i partiti: democratico, nazionalista e islamico.
«Se sono ancora vivo lo devo a una donna», mi diceva il taxista Giamshid, ex insegnante di scuola, che aveva lavorato diversi anni a Mosca.
Non c’era niente di romantico nella sua storia. Giamshid era stato catturato da una banda di filogovernativi e stava già per essere ucciso, quando una donna, che faceva parte del commando, convinse i compagni a lasciarlo andare. Quell’improvviso gesto di pietà, che Giamshid non si sapeva ancora spiegare, gli aveva salvato la vita, ma per molti altri era andata peggio.
Nel suo villaggio, in un solo giorno, avevano ammazzato 11 persone. La regione di Garm era considerata dai post-comunisti una roccaforte dell’opposizione e ogni abitante maschio era un nemico da eliminare.
Per sottrarsi alle incursioni delle truppe, gli uomini scappavano sulle montagne, si rifugiavano nelle repubbliche vicine, arrivavano fino in Russia. Donne e bambini rimanevano, campando come potevano. Coltivare i campi era pericoloso: per sfamarsi vendevano o uccidevano il bestiame.
Sebbene la guerra sia durata diversi anni, le violenze maggiori sono avvenute nell’arco di sei mesi, tra l’estate del 1992 e i primi mesi del 1993. Si calcola che in questo periodo le vittime del conflitto siano state circa 50 mila, i profughi 800 mila.
Adesso, percorrendo la valle solcata dal fiume Sorkhâb (in tagiko «acqua rossa», per il colore del terriccio discioltovi), che parecchi chilometri più a sud, dopo la confluenza col Pianj, diventerà il famoso Amu Daria, non pare vero che quei luoghi siano stati il teatro di tante violenze; ma, se il discorso cade sulla guerra, negli occhi della gente riaffiora la paura e l’orrore di quei giorni, quando gli elicotteri volavano sulle teste e le truppe entravano nei villaggi in cerca degli uomini e nessuno poteva sentirsi sicuro.
INDIPENDENZA AMARA
All’indomani dell’indipendenza c’era chi in Tagikistan aveva immaginato un futuro finalmente libero e prospero, svincolato da Mosca e dal suo regime autoritario. Erano nati diversi movimenti e partiti politici, ispirati a ideali di rinascita nazionale, sia in senso laico che religioso, ma la mancanza di una tradizione democratica aveva velocemente portato al deterioramento della vita politica e la lotta per il potere era presto sfociata in guerra aperta.
Le forze in campo si dividevano, più che per appartenenza politica, per appartenenza a clan, radicati in un determinato territorio: il clan di Khogiand, al nord, da cui tradizionalmente provenivano i dirigenti del partito comunista, si era alleato con quello di Kuliab, una città del sud.
L’opposizione, invece, era concentrata nella provincia di Korgan Tube, sempre a sud, in quella di Garm, al centro, e nel Goo-Badakhshan, la regione del Pamir, a maggioranza ismailita. Sebbene la guerra sia ufficialmente finita nel 1997, con l’entrata nel governo dei partiti d’opposizione, per alcuni anni la situazione ha continuato a essere di estrema incertezza, perché l’esercito regolare non riusciva a controllare tutto il paese e non tutti i signori della guerra avevano deposto le armi.
La guerra ha dato il colpo di grazia a un’economia già molto fragile, messa in crisi dai rivolgimenti che hanno accompagnato il crollo dell’Urss e dall’esodo dei russi che, con l’indipendenza, furono emarginati e spinti a lasciare il paese. Il Tagikistan si ritrovò non solo a dover ridisegnare il proprio sistema economico in una coice politica completamente diversa, ma anche privo dei quadri tecnici e direttivi, quasi sempre russi, che avevano fino allora fatto muovere l’industria. Quasi tutte le fabbriche furono chiuse. Lungo le strade si vedono campeggiare le loro moli abbandonate. Alla fine del 1996 il Pil era appena il 40% di quello del ’91, il salario medio inferiore ai 10 dollari.
GUARDANDO… LE STELLE
Pur rimanendo assai critica, la situazione negli ultimi anni è andata lentamente migliorando, soprattutto grazie al sostegno delle organizzazioni inteazionali. Qui c’è tantissimo da fare, perché il governo, che manca di una strategia a lungo termine, è di fatto latitante e lascia che la gente provveda da sé (chissà poi come) alle proprie necessità.
A risentirne non sono solo le strade. La struttura sanitaria non funziona: le cure, o un’eventuale operazione, sono a carico del malato. Chi non può permetterselo si arrangia.
Stipendi statali e pensioni non consentono neanche di sopravvivere; le acque non vengono depurate e nei villaggi la mortalità infantile è alta, a causa della dissenteria; l’elettricità è razionata, perché, nonostante la grandissima abbondanza d’acqua – una delle maggiori risorse del paese – le centrali funzionanti sono poche e insufficienti al fabbisogno. L’illuminazione pubblica è così scarsa, che perfino nella capitale di notte si possono vedere le stelle. Ma la loro luce non è sufficiente per salire le scale di un condominio, per chi non ha l’occhio abituato. Difatti, mancano le lampadine, che, da quando si sono rotte o portate via, nessuno le ha più sostituite, perché sparirebbero subito.
Quando ho percorso la valle di Garm si era nel periodo della trebbiatura. Il fondo stradale era a tratti cosparso di spighe, distribuite in modo tale che i rari veicoli di passaggio fossero costretti a passarci sopra: è così che i contadini trebbiano il grano. Prima delle macchine agricole, i nostri padri utilizzavano i buoi; ma, con la guerra, ai tagiki non sono rimasti nemmeno quelli.
RIMPIANTI E NOSTALGIE
Sangin lavora alla stazione turistica di Iskanderkul da circa 20 anni. Il villaggio di spartani cottages, in tipico stile sovietico, si trova sulle rive di un lago (kul), dove la leggenda vuole che abbia sostato Alessandro il Macedone (Iskander) mentre era diretto in India. Il suo fedele cavallo Bucefalo aveva bevuto l’acqua fredda del lago e si era ammalato, così non era potuto ripartire insieme al padrone. Si dice che, il giorno in cui Alessandro morì, il cavallo abbia cominciato a nitrire disperato e si sia lanciato nelle acque del lago, scomparendovi. Ancora oggi nelle notti di luna piena lo si vede uscire dal lago, pascolare e giocare sulle rive, o saltare da una parte all’altra della valle, da una cima all’altra, per rituffarsi nell’acqua sul far del mattino.
Il lago è meritatamente famoso, incastonato com’è tra le aspre cime di due diverse formazioni montane. Un tempo la bellezza dei luoghi richiamava turisti da tutta l’Unione Sovietica e dall’estero. Nel villaggio c’era sempre una grande animazione e la sera il ristorante era pieno di gente, c’era la musica, si ballava fino a tardi. Ma dal ’93 i turisti hanno cominciato a disertare il posto. Ora il villaggio è in palese decadenza, come tante altre cose nel paese, i cottages fatiscenti e semivuoti.
Non ho incontrato nessuno, giovane o vecchio, che non rimpianga i tempi sovietici. Una signora, madre di sei figli, nella sperduta Girgatel, quasi al confine con la Kirghizia, non la finiva più di cantarmi l’apologia della vita sotto il passato regime, quando c’era la possibilità di andare a studiare in Russia, magari a Mosca, e di restarci, se si trovava qualcuno da sposare. «Ma perché mai non l’ho fatto anch’io?», si chiedeva.
Anche Sangin ricorda con nostalgia i vecchi tempi. Dopo la scuola era andato a studiare a Kiev. Poi era venuta l’ora del servizio di leva, per un disguido non era stato inserito nel contingente inviato in Afghanistan; era finito, invece, prima in Kazakistan, poi sull’Enisej, da ultimo oltre il circolo polare artico. Aveva, così, spaziato da un capo all’altro dell’Unione, aveva incontrato coetanei provenienti da tutte le repubbliche e insieme avevano formato, a suo dire, una compagnia multietnica e affiatata. Insomma, era tornato a casa con un prezioso bagaglio di esperienze.
NON RESTA CHE EMIGRARE
In Russia circola una barzelletta su simili sentimenti nostalgici. «Che cosa rimpiange del passato sovietico, dell’epoca di Breznev, per esempio?», chiede un giornalista a un anziano signore, seduto ai piedi del monumento a Marx. «Per lo meno due cose: la vodka costava meno; e poi le donne erano più giovani» spiega il signore.
La nostra memoria è selettiva: ritiene i ricordi piacevoli e tende a disfarsi di quelli brutti. Eppure, si deve ammettere che, a confronto del presente sfacelo, la vita di allora non può non apparire desiderabile.
Sebbene anche ai tempi dell’Unione il Tagikistan fosse la più povera delle repubbliche, la meno industrializzata, con il più basso livello d’istruzione e il peggiore servizio sanitario, la grande retorica dei popoli fratelli aveva avuto in queste lande un risvolto concreto e nei villaggi era arrivata l’acqua potabile, periodicamente passava il medico, la farina si acquistava a prezzi modici, i giovani di talento potevano andare a studiare nelle altre repubbliche.
Adesso queste possibilità sono sfumate. Spostarsi, non dico fuori dei confini nazionali, ma all’interno dello stesso Tagikistan, è diventato un lusso che non tutti si possono permettere: fare poche centinaia di chilometri costa quanto uno stipendio.
Per molte famiglie la salvezza è avere un marito, o un fratello, che lavora all’estero. Circa un milione di tagiki lavorano stagionalmente fuori del paese, principalmente in Russia e in Kazakistan. Si calcola che la valuta straniera che portano a casa ecceda il bilancio dello stato.
In Russia i tagiki sono considerati il gruppo etnico più derelitto tra quelli dell’ex-Urss. Sono disposti a fare qualsiasi lavoro a qualsiasi prezzo; sono lavoratori illegali, quindi soggetti a soprusi, ricatti e ogni genere di umiliazioni. Eppure, tutto è preferibile alla miseria di casa.
TANTA… OSPITALITÀ
La guida del Tagikistan elenca un numero esiguo di alberghi: qualcuno a Dushanbe, uno qua, uno là nei centri principali, e poi basta. Eppure il turismo potrebbe essere una grande risorsa per il paese; invece è quasi inesistente, né pare si stia facendo alcunché per incoraggiarlo.
A parte la mancanza di infrastrutture, la necessità di ottenere un permesso speciale per il Pamir (più della metà del territorio nazionale) e la difficoltà per avere un visto fanno il resto. Per i funzionari, da cui le formalità dipendono, il turista è un’occasione per arrotondare lo stipendio. Il console a Mosca mi ha rilasciato il visto come se mi facesse un favore personale; alla fine me lo ha fatto pagare una cifra esorbitante, senza rilasciarmi alcuna ricevuta.
Per fortuna, quando, superati tutti gli ostacoli, finalmente si arriva a destinazione, si è ricompensati dalla benevolenza della gente e dal sentimento di genuina meraviglia che la tua apparizione suscita. In città, come nei villaggi, è facile trovare ospitalità.
Khadisa, incontrata durante il lungo viaggio in treno da Astrakan a Dushanbe, è una grande conoscitrice di piante ed erbe medicinali. Le raccoglie nelle montagne vicino a casa e ne fa dei preparati per i suoi pazienti. Saputa della mia passione per la montagna, mi ha invitato ad andare con lei durante una delle sue spedizioni. Con mia meraviglia, non abbiamo portato con noi né cibo, né sacco a pelo.
La sera, dopo aver camminato tutto il giorno, entravamo in una casa, venivamo fatte sedere per terra, intorno all’unico, grande piatto di patate e verdura cotta, dal quale tutti attingevano, aiutandosi con fette di pane; poi ci preparavano il giaciglio in una stanza, o sull’aia, al riparo di una tettornia. Al mattino, prima di ripartire, ci offrivano latte, miele e tè. Si può forse desiderare di più?
Bianca Maria Balestra